giovane nero gay

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giovane nero gay
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Lei si alzò a prendere la chitarra. Dai bassi jeans debordava un filino di slip nero su cui
s’appoggiava il rosato della sua schiena nuda. Stuzzicante Arletta. Tornò a sederglisi
accanto, sfiorando le corde con le dita. «Fai piano – disse lui a mezzavoce –
potrebbero dormire». «Dormire? – risatina, continuando a stuzzicar le corde – fra un
po’, forse. Troppo presto, ora. A meno che il tuo amico non faccia come la maggior
parte degli arabi. Che si prendono rapidamente il proprio piacere senza badare a quello
della donna, fumano una sigaretta e s’addormentano». «Non credo che Nabìl sia così.
Ha una mentalità e un’educazione troppo simile alla nostra occidentale per non pensare
anche al piacere della donna. Ma… tu, come lo sai? – sussurrò sorridendo – hai detto
che non ti prostituisci». Lieve increspatura della fronte. «Infatti. Non mi prostituisco.
Ma sento dire da colleghe – che hanno o hanno avuto relazioni sentimentali con qualche
arabo – di trovarsi spesso in quella situazione, quando invece vorrebbero partecipare
al piacere. Non come altre che invece lo fanno solo per tornaconto senza
partecipazione emotiva e sentimentale per cui – regola valida per tutte le prostitute in
servizio – non cercano il proprio piacere. Tu dovresti saperlo meglio di me che la
professionista dell’amore separa nettamente il suo aspetto mercenario da quello
affettivo, guardandosi bene dal lasciarsi andare nel primo caso, pur simulando
passione, partecipazione e piacere. Spesso al solo scopo di eccitare di più l’uomo e
farlo finire prima». Lui rise. Irina-Arletta ricominciava a stupirlo. «E perché dovrei
saperlo meglio di te?». «Beh, sarai stato con prostitute. E ti sarai accorto delle loro
finzioni. Oppure ci credevi?». «Ti stupirà, ma non sono mai stato con prostitute».
Tacque per qualche secondo, guardandolo davvero stupita. «Ma non ti credo – ribattè
ora seria – mi dicevi che hai lavorato nei night, da giovane, quando suonavi. So per
esperienza che i musicisti sono sempre molto puntati dalle professioniste, e anche non,
in quegli ambienti». «Verissimo. Te lo posso confermare. Ma, allora, pur girandomi
attorno e proponendosi, non ho mai assecondato i loro pur frequenti approcci».
Sguardo serio indagatore: «Sei… sei gay?». Il Prof sbottò in una bella risata: «Oh, my
God, no; non sono per niente gay. Solo che ho sempre avuto delle preclusioni
psicologiche nei confronti di certe pratiche con le cosiddette ‘donne di vita’.
Intrinseche inibizioni forse determinate dall’educazione famigliare. Seria, pur se non
severa, che ha inculcato nel mio inconscio alcuni cosiddetti sani principi. E che – ora,
alla mia veneranda età – non mi dispiace aver osservato, pur non sentendomi per niente
un moralista». Lo considerava meditabonda. Lui continuò: «Lo stesso mi è accaduto con
le droghe. Sia quando suonavo quanto nei miei primi viaggi in Oriente, spesso ne vedevo
girare intorno a me. Ed essere assunte da amici e conoscenti. Droghe leggere. Il
batterista del mio primo complesso – quello più significativo nella mia breve vita di
musicista di professione – fumava spesso l’hashìsh, sostenendo che gli rischiarava la
mente e gli procurava ebbrezza senza produrgli gli effetti negativi dell’alcol. L’aveva
provato durante i lunghi viaggi come marconista su navi mercantili». «Anch’io mi sono
sempre tenuta lontana da qualsiasi droga, leggera o pesante che fosse. E non è
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semplice nel mio ambiente. Molte mie colleghe ci sono cadute. Anche fra quelle che tu
vedi qui al nostro night. L’unica piccola droga che mi ha preso è il fumo di sigaretta di
cui non posso fare a meno». Arletta sembrò ricordarsene. Frugò nello zainetto finché
ne uscì con una sigaretta un po’ stropicciata. L’accese aspirandone una robusta
boccata. Riprese nel fumo: «Mi piace anche bere. E per la nostra attività è
indispensabile bere per far bere. E se i clienti bevono poco, dobbiamo essere noi a
finir la bottiglia per dar modo ai camerieri di portarne un’altra. Anche ieri sera con
voi, che quasi non bevevate». «Venivamo da una robusta cena araba». «Però… so che
posso farne a meno, thanks to God». «Grazie a Dio? Sei credente? ». «Certo che
credo nell’esistenza di Dio. I miei genitori non sentivano la religione. Ma è stata mia
nonna Olga, con cui ho passato l’infanzia e l’adolescenza – come ti dicevo – che mi ha
insegnato a pregare come lei pregava. Mi leggeva brani della Bibbia e del Vangelo con
una tale passione che prendeva il mio animo infantile. Sentimento che – grazie a Dio –
ho mantenuto fino ad ora. Sì. Come lei, credo in un dio benevolo che mi accompagnerà
in questa mia vita e mi accoglierà poi in Paradiso». Ora Irina lo stupiva davvero. “Altro
che educazione materialista sovietica, come avevo pensato stanotte. La nonna, pur in
ambiente sfavorevole, aveva fatto di più e meglio di certi nostri preti, suore e beghine
che insegnavano la ‘dottrina’ a noi bambini e ragazzini in chiesa la domenica mattina,
dopo la messa”, considerava.
«Cosa pensi che pensi il dio di tua nonna della tua attuale attività?». «Penso che veda
con occhio di benevolenza quello che faccio. In fondo, non faccio altro che dare un po’
di relax a uomini che – in qualche modo, giovani o no – hanno spesso dei problemi con le
donne, con le loro donne. O addirittura non hanno donne e ne sentono la mancanza. Può
essere considerato un servizio di pubblica utilità, quasi una forma di beneficenza,
seppur a pagamento, come tanti altri servizi pubblici». «Non la vedi una forma soft di
prostituzione, senza la naturale conclusione che ogni uomo con cui stai ogni sera
desidererebbe, senza eccezioni. O quasi. Ogni tanto ti può capitare per caso uno come
me che – giunto casualmente in quel contesto a lui non congeniale – non è nello spirito
di eccitarsi. Anzi. Ma credo siano casi più unici che rari». Irina s’accigliò: «No! C’è una
bella differenza tra quanto faccio io e la prostituzione. Gli uomini che incontro la sera
nel locale sanno bene a priori quali sono i limiti a cui possono arrivare e che accettano
dal momento in cui entrano. Limiti che a me stanno bene, che non turbano la mia
coscienza, e oltre ai quali non mi sentirei di andare. Molte mie colleghe accettano, poi,
fuori l’ambito di lavoro, di rivedere quegli uomini e di ‘concludere’, come tu dici. Ma
quelli sono affari loro che io non giudico. Anzi, lo giustifico come una forma di
arrotondamento della nostra esigua paga cui io – proprio per la mia coscienza – non
voglio arrivare, ma che non vedo perché dovrei criticare nelle mie compagne di lavoro.
Io non accetto – se non in casi molto particolari – di rivedere fuori i clienti del night. E
in quei casi, per me, il sesso mercenario non c’entra. Ma non sono ipocrita al punto di
dire che il sesso non deve entrarci in assoluto. Sono giovane, sana, e anche i miei sensi
si fanno sentire, in certi momenti e – soprattutto – con certe persone, scelte. Voglie
che – se l’occasione e la situazione, specie psicologica e affettiva, lo permette – cerco
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di soddisfare. Faccio male?». S’era inquietata e lo guardava dritto negli occhi dopo
questa sua tirata d’impulso e quasi senza prender respiro, fino alla domanda finale,
accompagnata da una grattata alle corde della chitarra che aveva tenuto sulle
ginocchia. Sorrise accomodante: «No. Per me no. Rientra negli aspetti normali di una
vita vissuta sanamente senza ipocrisie o frenata da inibizioni psicologiche dovute a
certe forme spinte di educazione o ai freni di una religione. Anch’io ho sempre dato al
sesso il suo giusto peso, senza eccessi ma anche senza inutili remore, con naturalezza,
quand’era il caso». Sembrò quietarsi. Abbassò lo sguardo sulla chitarra, in silenzio,
continuando a sfiorarne le corde.
Dopo quella piega seria presa dal loro dialogo, era tornata a prevalere Irina. E la sua
pur leggera agitazione dei sensi di poco prima s’era attenuata. Irina, le cui sincere
argomentazioni gli avevano fatto provare un senso di stima per la ragazza fin dalla
notte, in quell’ambiente poco propenso a suggerir buone opinioni per le giovani attorno.
Nonostante la sua scelta di vita, discutibile per il benpensante, l’animo di Irina
appariva esserle rimasto sano, con qualche manifestazione di stupefacente ingenuità.
Il pur leggero suono delle corde della chitarra, sfiorate dalla ragazza, gli fece venir
ancora lo scrupolo che forse avrebbe potuto disturbare Nabìl. «Irina, non ho un bagno
con Jacuzzi da farti vedere. Ripiegherò – se vuoi – nel farti vedere la mia camera,
dove non c’è proprio niente d’interessante da vedere. Ma posso provare a cantarti una
canzone, se ti va bene. A meno che tu non ti fidi di me temendo per la tua virtù»
concluse sorridendo con bonaria ironia. Si sciolse in un bel sorriso che la fece bella,
naso compreso. Si alzò: «Dai. La mia virtù, con te, non dovrebbe aver problemi. Per tua
indole ed età, come mi hai sottolineato ieri. Ma anche perché – diciamo così – le mie
esperienze amorose le ho avute, tutte desiderate e – accentuando il sorriso – tutte
virtuose», s’arrestò un attimo, arrisorrise, e con aria vispa: «quasi tutte». Sorrise
anche lui. Quelle ‘quasi’ non le avevano lasciato traccia evidente. Continuò: «Ora non
credo mi metterebbe a disagio averne una con un uomo della tua indole e della tua età,
ma…». Stirò le labbra e sbatté gli occhi sorridendo sorniona, come una bambina
conscia di averla detta grossa. Poi, ridendo: «Non ti montar la testa. Ho detto: con un
uomo della tua indole e della tua età, in generale, non ho detto con te. Tu ti sei già
escluso per tua scelta, “per indole e per età”», ribadì. S’alzò e, dondolando la chitarra,
si diresse verso la porta aperta della stanza voltandosi a fissarlo con aria biricchina.
Riappariva Arletta, ma ormai in versione Irina.
(continua alla prossima)
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