La torre di Babele della sinistra

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La torre di Babele della sinistra
Giovanni Mazzetti
Il dibattito a sinistra su reddito minimo e di cittadinanza. Una risposta critica alle argomentazioni
di Marco Bascetta e Piero Bevilacqua, pubblicate sul manifesto
Da più di trent’anni il bisogno di cambiamento sociale subisce continue frustrazioni. Per quale
ragione ciò accade? Credo che la risposta sia relativamente semplice: da più di trent’anni
ognuno dei brandelli di quella forza che una volta costituiva la cosiddetta sinistra – che a suo
tempo si indentificava con il cambiamento necessario – pretende di
riuscire ad autoconfermarsi come unica vera forza alternativa
, contribuendo a
una moderna ripetizione della Torre di Babele. Elenchiamo i soggetti in campo. C’è chi, in
continuità col vecchio Pci degli anni ’70, sostiene che
solo la crescita potrebbe salvarci; chi, in vaga continuità con i movimenti dissidenti dell’epoca,
afferma che a salvarci potrebbe essere non la crescita, ma
il suo opposto, cioè la
decrescita, magari perseguita in modo “felice”; c’è, inoltre, chi sostiene che l’unico modo di
metabolizzare coerentemente i molti cambiamenti intervenuti sarebbe quello della corresponsione
di un reddito di cittadinanza; altri, a loro volta, si oppongono a questa prospettiva, affermando che
il reddito di cittadinanza instaurerebbe un parassitismo di massa, cosicché occorrerebbe
procedere a espandere il lavoro
nell’unico modo possibile, cioè con
lavori concreti messi in moto dalla spesa pubblica. C’è, infine, chi avanza l’ipotesi che l’unica
via d’uscita dalla crisi sia quella della redistribuzione del lavoro fra tutti a parità di salario. Ma
essa, nonostante fosse stata chiaramente indicata come
via maestra, prima da Marx e poi da Keynes, ha sin qui avuto un ruolo talmente marginale da non
riuscire a incidere sul dibattito complessivo.
Perché questo apparente iperattivismo non sfocia in niente di produttivo? Credo che ciò accada
perché ognuno parte dalla convinzione che i mattoni e la calce, che porta al tentativo di
costruzione dell’alternativa sociale, siano
i soli elementi in grado di sostenere il progetto. L’idea che
debbano legarsi con il progetto, l’attività, i mattoni e la calce degli altri non fa la sua comparsa,
cosicché non appena un muro maestro sembra costruito, l’intervento degli altri lo fa cadere.
Visto che i muri cadono in continuazione, che fare? Certo i contrasti non possono essere superati
con un afflato volontaristico alla Napolitano, e cioè con la pura e semplice rimozione delle
fantasie di potere che ogni movimento attribuisce alla prospettiva della quale è sostenitore.
Occorre, invece, che la critica reciproca diventi un valore positivo, perché questo è l’unico
approccio coerente con la consapevolezza del disastro che stiamo producendo.
Non mi si fraintenda. Se di tanto in tanto non ci fosse la manifestazione di una volontà, da parte
di ciascun movimento, di
contribuire a costruire non già una nicchia, ma un “altro mondo”, ciò che sostengo sarebbe
inutile, perché quei movimenti sarebbero solo delle
sette, paghe di trovare una conferma nella ripetizione dei riti che le accomunano e
nell’incomprensione altrui che spesso le accompagna. Nella realtà tutti gli orientamenti culturali
che abbiamo richiamato sopra procedono, invece, come espressione di una prospettiva
universalistica, cioè di comportamenti e valori che
l’intera società dovrebbe assumere su di sé.
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Affinché questa pretesa di universalità riesca a farsi valere è però necessario che le mediazioni
del discorso reggano alle critiche, non perché vengono ribadite con forza, né perché si sgomita
per conquistare la prima fila, ma in quanto riescono a sciogliersi coerentemente nel confronto con
i loro stessi limiti
che vengono fatti emergere dal dissenso altrui. Soffermiamoci su qualche esempio concreto del
dibattito in corso.
Lunghini, nel suo intervento del 10 giugno (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Reddito-si-mada-lavoro-18863
) ha criticato il reddito di cittadinanza partendo da un presupposto lineare: poiché
il prodotto è il risultato del lavoro, ogni pretesa di percepire una partecipazione al prodotto
(reddito) a prescindere dallo svolgimento di un lavoro, cioè dal contribuire alla sua produzione, si
trasforma in un accomodamento parassitario. Invece di Smith e della Costituzione Lunghini
avrebbe potuto citare il Marx dell’
Ideologia che scrive “questa attività (il commercio e l’industria) è
la base dell’intero mondo sensibile”. Il concetto sarebbe sembrato più ampio, ma il senso della
proposizione non sarebbe cambiato.
A Lunghini hanno risposto in sequenza, confutandolo, Bascetta (
il manifesto 19 giugno www.ilmanifesto.it/areaabbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130619/manip2pg/01/manip2pz/341930/manip2r1/bascet
) e Bevilacqua (
ta/
il manifesto 21 giugno www.ilmanifesto.it/areaabbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130621/manip2pg/15/manip2pz/342091/manip2r1/bevilac
qua/).
Il secondo ha negato che nel reddito di cittadinanza possa annidarsi un
parassitaria nei seguenti termini: “non si comprende per quale ragione, allorché si sofferma sul
finanziamento del reddito di cittadinanza, questo appare (a Lunghini) destinato ad essere
sostenuto dal reddito dei lavoratori occupati. [Ma a dire il vero Lunghini sostiene che sarebbe
sostenuto
dal lavoro degli occupati,
non dal loro reddito.] … Francamente non si comprende perché non si possa ricorrere alle risorse
finanziarie della rendita per finanziare il reddito di cittadinanza”. Ora, notoriamente la rendita è la
percezione di un reddito
senza che ad esso si accompagni un contributo produttivo. La rendita – che va radicalmente
distinta dalle pensioni per ragioni che qui non posso approfondire (vedi il mio
Dare di più ai padri per far avere di più ai figli, in uscita con Asterios)
– è cioè una partecipazione alla ricchezza nazionale
di natura parassitaria. La pura e semplice
traslazione di quel reddito dagli attuali percettori a nuovi percettori
non sposta di una virgola la natura dell’appropriazione. Bevilacqua incespica, a mio avviso, in
altri due passaggi essenziali. C’è un momento del suo ragionamento nel quale scivola
involontariamente dalla categoria analitica alla quale sta facendo riferimento ad un’altra.
Secondo lui si dovrebbe “attingere le risorse per fornire
almeno ai senza lavoro un reddito che li sottragga al ricatto della vita a cui oggi soggiacciono”.
Nonostante nel nostro paese l’indennità di disoccupazione si presenti in forme miserevoli, è
evidente che nessuna persona ragionevole avrebbe da obiettare a questa prospettiva, e va ad
infamia della sinistra storica italiana il non averla posta e imposta come passaggio ineludibile
dell’attuazione della Costituzione.
Ma essa non ha nulla a vedere col reddito di cittadinanza, e nei casi in cui si è provveduto a
promuovere sul campo con questo nome altisonante l’erogazione
di qualche sussidio regionale, si è caduti nella mistificazione tipica delle peggiori forme di
pubblicità ingannevole. Per sostenere logicamente l’indennità di disoccupazione bastano le
ampie argomentazioni di Keynes sul nesso tra domanda aggregata e produzione. Per sostenerla
eticamente bastano i vecchi principi di carità e di solidarietà sviluppatisi nella storia umana. Ma in
nessun caso quello è un reddito di cittadinanza.
Il secondo passaggio non convincente accomuna le argomentazioni di Bevilacqua a quelle di
Bascetta. Vediamolo prima nella formula di Bevilacqua: “separare, sia pure parzialmente, il
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reddito dal lavoro significa incominciare a pensare la ricchezza nazionale prodotta
come un bene comune da ripartire. Sottrarre una grande massa di cittadini all’obbligo di un
lavoro qualunque per sopravvivere è una scelta di umana liberazione, che può agevolare
l’impiego di masse crescenti verso lavori volontari, esterni al ciclo di riproduzione delle merci.”
L’argomentazione è palesemente contraddittoria. Per consentire ad una parte della popolazione
di produrre
al di fuori del circuito delle merci, trattiamo la produzione delle merci, che poggia su una base
privata, come un bene comune. Ma se si crede veramente che il lavoro salariato sia un lavoro nel
quale gli individui
procedono in una forma materialmente costrittiva, e se il lavoro salariato continua a
fornire la base materiale della vita sociale, perché mai la libertà da quella condizione dovrebbe
essere garantita solo ad una parte della popolazione contro l’altra?
Su questo aspetto del problema Bascetta svolge un approfondimento. “Il reddito di
cittadinanza”, scrive, “dovrebbe essere considerato non come un ammortizzatore sociale,
bensì come la retribuzione … per una vasta cooperazione sociale che ha luogo nella società, ma
alla quale non corrisponde direttamente alcun reddito”. C’è cioè una processo di produzione di
ricchezza “che attraverso il reddito di cittadinanza potrebbe sfociare in un insieme di interazioni e
di scelte produttive
a prescindere dalla forma o direzione che prenderanno o dal genere di bisogni e di desideri che
intendono soddisfare”. La riflessione si conclude con “il reddito di cittadinanza non è che la
possibilità di agire, avendo garantite dignitose condizioni di vita, fuori dal mercato senza per
questo dover sottostare all’esame di uno ‘stato etico’, alla sua idea di ‘concretezza’ e
‘utilità’. … Un investimento
(?!) sulle soggettività e sulla potenza della loro interazione. Bisogna fidarsi di questi ‘spiriti
animali’ senza scopo di lucro? Forse. Dello stato è abbastanza assodato che no. Tra le tante
definizioni che del reddito di base sono state date se ne potrebbe allora aggiungere un’altra:
reddito di libertà”.
Ma la rivendicazione di un reddito di cittadinanza ha senso solo se si riconosce (magari per
negazione) che ci sono un insieme di bisogni la cui soddisfazione rappresenta
la condizioni imprescindibile dell’esistenza, cioè la base stessa della vita umana, e se quella
soddisfazione manca viene a mancare
qualsiasi libertà. Se così non fosse, se la vita potesse veramente fluire sbarazzandosi
completamente dell’
eteronomia, come pretende Bascetta – che considera eteronomia e autonomia non come
determinazioni
che debbono imparare a coesistere senza contraddirsi, ma come opposti che si escludono a
vicenda – non avrebbe senso attingere da questa base materiale. Basterebbe trovare forme di
circolazione di quella ricchezza che scaturisce da attività che non badano “alla forma o direzione
che prenderanno o del genere di bisogni o di desideri che intendono soddisfare”. Insomma
il gioco potrebbe sostituire la produzione senza che quei vincoli dell’esistenza evocati proprio dal
reddito di cittadinanza non costringano prima o poi a riprendere la vecchia strada.
Poiché non credo che la “cooperazione sociale alternativa” evocata da Bascetta abbia già
raggiunto un livello sociale superiore rispetto a quello garantito dalla divisione del lavoro che si è
sviluppata negli ultimi due secoli attraverso la proprietà privata, insisto da decenni affinché si
lavori a sviluppare quella libertà
adulta, che, da un lato, sa fare i conti con la necessità – garantendo a tutti un lavoro attraverso la
sua redistribuzione a parità di salario – e, dall’altro lato, consenta di esplorare
collettivamente quel difficile regno della libertà nel quale
non può dominare l’autonomia, ma il procedere socialmente condiviso.
Sì
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