Divina Commedia. Paradiso

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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto XI
Cielo del Sole: anime di sapienti. Soluzione del primo dubbio enunciato nel canto precedente.
Elogio diretto di S. Francesco e indiretto di S. Domenico. Corruzione dell’ordine domenicano.
“O insensata cura de’ mortali,/ quanto son difettivi silogismi/ quei che ti fanno in basso batter l’ali!” è
l’incipit amaro di questo canto che costituisce un tutt’uno con il seguente; se il riferimento ai "difettivi
silogismi” rimanda al modo di pensare, le due terzine seguenti confermano lo stretto rapporto fra modo
di pensare e di operare “Chi dietro a iura, e chi ad amforismi/ sen giva, e chi seguendo sacerdozio,/ e
chi regnar per forza o per sofismi,/ e chi rubare, e chi a civil negozio,/ chi nel diletto de la carne
involto/ s’affaticava e chi si dava all’ozio”. Le due terzine, da una parte, fanno riferimento alla
corruzione della Curia romana, denunciata da Folco da Marsiglia (canto IX), dall’altra, preannunciano la
decadenza dalla primitiva integrità degli ordini mendicanti, domenicani e francescani, successivamente
denunciata, con pesante ricaduta sull’intera società.
Come a distogliere lo sguardo da questo fosco quadro, ecco invece, lassù, aprirsi lo spettacolo di
tutt’altra realtà, “quando, da tutte queste cose sciolto/ con Bëatrice m’era suso in cielo/ cotanto
glorïosamente accolto”, con ciò procedendo nella trama narrativa; torniamo infatti al momento in cui,
nel canto precedente, le anime, nella loro danza, avevano come sospeso il piede in attesa di un’altra
musica, la parentesi della presentazione della ghirlanda cui appartiene Tommaso: così sospese,
apparivano “come a candellier candelo”. Di nuovo Tommaso, lumera, che nel parlare si fa “più mera”,
prende la parola: tutto è luce, ancora oggetto dei sensi, ma che non occupa spazio. Dante è lì con il suo
corpo, e il beato: “così com’io del suo raggio resplendo,/ sì, riguardando ne la luce etterna,/ li tuoi
pensieri onde cagioni apprendo”, e cioè io, circondato dalla luce divina, vedo in essa l’origine dei tuoi
pensieri, i dubbi che pervadono la tua mente e il desiderio di chiarimenti; vedo bene come ti intrighi la
mia espressione “U’ ben s’impingua”, e l’altra “Non surse il secondo”.
Lo stesso Tommaso, Bonaventura e Salomone concorreranno alla risposta, lunga ed esauriente.
“La provvedenza, che governa il mondo/ con quel consiglio nel quale ogni aspetto/ creato è vinto pria
che vada al fondo... due principi ordinò”, ossia la provvidenza divina, insondabile ad ogni umana
visione, aspetto, fece sorgere, ordinò, due guide sicure, perché la Chiesa, “la sposa di colui ch’ad alte
grida,/ disposò lei col sangue benedetto”, andasse verso il suo sposo, Gesù, con certezza di dottrina, “in
sé sicura”, con Domenico, e con rettitudine di condotta, “a lui più fida”, con Francesco, sì che entrambi,
“quinci e quindi le fosser per guida”, con i loro diversi carismi, “l’un fu tutto serafico in ardore;/ l’altro
per sapïenza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore”. Merita giusto un cenno il fatto che, fra le
nove gerarchie angeliche, i Serafini e i Cherubini, in ordine, sono i più vicini a Dio, “in ardore” i primi,
“per sapïenza”, gli altri.
Tommaso dirà di Francesco, ma, avverte, “d’amendue/ si dice l’un pregiando, quale uom prende”,
senza differenza alcuna, “perch’ad un fine fuor l’opere sue”, e del fine ha già detto.
Tommaso, con le solite perifrasi, introduce Francesco, ne farà il nome dopo ben quindici terzine. “Intra
Tupino e l’acqua che discende...”, fra i fiumi Tupino e Chiascio, che scende dal colle prescelto dal
beato Ubaldo, sopra Gubbio, digrada un fianco fertile dal monte Subasio, la cui parete riverbera su
Perugia, dalla parte di porta Sole, freddo d’inverno e caldo d’estate; mentre, dall’altra parte del monte,
Nocera e Gualdo ne sentono grandemente l’ingombro; da questa parte, invece, dove l’altezza spiana, lì
“nacque al mondo un sole”, un po’ come il nostro sole nasce dal Gange nell’equinozio di primavera. E
sole è parola scelta a ragion veduta; ma, invece di Assisi, si potrebbe propriamente dire Oriente, “se
proprio dir vuole”, e oriente è parola che evoca simbologie plurime.
Detto di Assisi, ecco Francesco, “non era ancor molto lontan da l’orto”, erano passati pochi anni dalla
sua nascita che già faceva sentire il suo benefico influsso sui suoi concittadini, per quel suo spogliarsi
dei beni, “ché per tal donna, giovinetto, in guerra/ del padre corse”; e di quale donna si tratti, si
comprende dall’episodio adombrato della rinuncia in pubblico perfino dei vestiti, che fece restituire al
padre, lasciandosi ricoprire la nudità con i paramenti del vescovo, coram patre, lì presente con tanti
testimoni, “dinanzi a la sua spirital corte/ et coram patre le si fece unito”. Inizia così la positiva
influenza con la scelta di vivere in estrema povertà, da altri odiata, “a cui, come a la morte,/ la porta del
piacer nessun diserra”: egli, invece, “poscia di dì in dì l’amò più forte”.
È giusto il caso di notare come il soggetto spesso si alterni, Tommaso, Assisi, Francesco più volte, e la
Povertà, “questa, privata del primo marito,/ millecent’anni e più dispetta e scura/ fino a costui si stette
sanza invito”; il riferimento è alla morte sulla croce di Gesù, il primo e vero marito; dopo di Lui,
nessuno più è andato a nozze con lei; neppure l’esempio lasciato in dote dalla classicità, nella persona
del pescatore Amiclate sorpreso da Cesare a vivere in estrema povertà, aveva indotto qualcuno a
seguirne le orme; eppure l’esempio della nudità/povertà di Cristo sulla croce doveva ben invogliare i
cristiani; invece no, occorreva questo figlio di Assisi: “Francesco e Povertà per questi amanti/ prendi
oramai”, rivela finalmente Tommaso, “la lor concordia e i lor lieti sembianti,/ amore e maraviglia e
dolce sguardo/ facieno esser cagione di pensier santi”, espressione del più casto e del più intenso degli
amori che la Storia ricordi. Poi tanti a seguirlo, il “venerabile Bernardo/ si scalzò prima, e dietro a tanta
pace/ corse e, correndo, li parve esser tardo”. Indi, l’ardito paradosso “Oh ignota ricchezza! oh ben
ferace!”, spiega la moltitudine dei discepoli: “scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro/ dietro a lo sposo, sì la
sposa piace”.
La poesia scorre lineare e piana: lui, lo sposo, il padre e il maestro “con la sua donna e con quella
famiglia”, legata da “l’umile capestro”: triplice riferimento alla nudità, si scalzò, scalzasi, scalzasi.
Figlia primogenita della Povertà è l’umiltà “né li gravò viltà di cuor le ciglia/ per esser fi’ di Pietro
Bernardone,/ né per parer dispetto a maraviglia”, né per vergogna abbassava certo lo sguardo per via,
neppure di fronte alla corte papale per il fatto che non possedesse alcuna nobiltà di natali, né per un
siffatto abbigliamento. Se dunque “parer dispetto a maraviglia” significava apparire spregevole allo
sguardo, diversi erano l’interiore convincimento e il carattere, “ma regalmente sua dura intenzione/ ad
Innocenzo aperse”, comportamento da meritargli rispetto, e con quell’umile presenza, “da lui ebbe/
primo sigillo a sua religïone”, da Innocenzo III, il nobile Lotario da Segni, al cospetto di una corte, nei
confronti della quale la “sua dura intenzione” appariva uno schiaffo!
Dopo questa prima e orale approvazione, Innocenzo III era morto nel 1216, “di seconda corona
redimita/ fu per Onorio da l’Etterno Spiro/ la santa voglia d’esto archimandrita”, la riconferma scritta
mediante bolla, rappresenta una seconda vittoria, come lascia intendere il testo; la determinazione di
Francesco fu cinta così di una doppia corona, orale e scritta: il nostro riferimento corre al Lateranense
IV che proibiva l’approvazione di nuove Regole, divieto esteso anche ai Domenicani che adattarono a sé
la regola agostiniana. E “l’Etterno Spiro”: che sancisce la Regola, per mezzo di Onorio, dice della sua
conformità al Vangelo: e così Francesco è fatto archimandrita, guida di un nuovo gregge, e “gente
poverella crebbe dietro a costui, la cui mirabil vita/ meglio in gloria del ciel si canterebbe”. Tommaso
riferisce ancora della missione fra i musulmani “la sete del martiro” trova però la “presenza del Soldan
superba”, la missione infruttuosa¸ e “a conversion acerba/ troppo la gente”; torna allora in Italia “al
frutto de l’italica erba”; ma non più alla guida dell’ordine, ormai sul punto di sfuggire alle sue severe
direttive, ma per ritirarsi “nel crudo sasso” della Verna, dove “da Cristo prese l’ultimo sigillo,/ che le
sue membra due anni portarno”: le stigmate, sigillo delle nozze con Madonna Povertà, dopo Gesù, vero
alter Christus.
E quando, così conformato a Cristo, a Dio piacque di chiamarlo a sé e ricompensarlo con quella
“mercede/ ch’el meritò nel suo farsi pusillo”, quale testamento, ai suoi “raccomandò la donna sua più
cara,/ e comandò che l’amassero a fede”: e il riferimento va ancora alle nozze, a “la donna sua”,
raccomanda loro che le fossero fedeli, “che l’amassero a fede”, così come egli le fu fedele fino
all’ultimo, “al suo corpo non volle altra bara”, che la nuda terra.
Se tale fu Francesco, di pari valore fu Domenico “degno/ collega”, “il nostro patrïarca”; e così
Tommaso sposta il discorso sui seguaci dell’ordine domenicano; ma solo per evidenziarne il tradimento:
“ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda/ è fatto ghiotto”, avido di novità, non già di vera scienza; i frati ora
sono allo sbando, “le sue pecore remote e vagabunde”. Pochi sono rimasti fedeli alla Regola, “le cappe
fornisce poco panno”, poca stoffa basta a fornirne gli abiti; ora ti sarà chiara la mia precisazione “U’ ben
s’impingua, se non si vaneggia”, rinviando così all’incipit del canto!