il libro LETTO DA…
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il libro LETTO DA…
Diario di scuola SEGNALIAMO Daniel Pennac, scrittore e insegnante, è uno di casa tra gli insegnanti (tra i tanti insegnanti che ancora leggono molto) principalmente per “Come un romanzo”, un saggio “che si legge come un romanzo” e che ha detto tante cose sul piacere di leggere. Adesso, Diario di scuola, plurirecensito in Italia e nel mondo. Noi qui lo riprendiamo come se fosse uno dei tanti servizi su “Il mestiere dell’insegnante”. Gli spunti sono sterminati per leggere/si e ri-leggere/si come uomini di scuola, come insegnanti, come studenti attuali e/o “ex”, come genitori. Ma spunti non mancano neppure per “l’apparato”, per la scuola “organizzazione” coi suoi riti, i suoi tic, le sue manie giornaliere; ma anche per il suo sadismo sui “somari” così come per le sue ancore di salvataggio per i più deboli. Il mestiere dell’insegnante ne esce “massacrato”, ma anche stupendamente esaltato come “salvatore” di ragazzi diversamente persi. Avremmo potuto fare tante cose, scegliere tante soluzioni per parlare di questo libro sulla rivista, ma abbiamo scelto la strada più semplice, dopo aver letto l’editoriale di Enrico Franco sul Corriere del Trentino di domenica 30 marzo 2008: abbiamo consegnanto una copia da leggere a un’insegnante dell’elementare, uno delle medie, una della formazione professionale, uno delle superiori e a un dirigente scolastico. Poi, abbiamo chiesto ad Enrico Franco di pubblicare anche il suo editoriale. Queste nove pagine sono il risultato. Ma a tutti, proprio tutti (insegnanti, genitori, dirigenti, studenti, amministratori ecc. ecc.,) ci permettiamo di consigliarne la lettura. mario caroli il libro “Ho sempre pensato che la scuola fosse fatta prima di tutto dagli insegnanti. In fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?” Daniel Pennac, Diario di scuola, I Narratori - Feltrinelli Milano 2008 pp. 243, € 16,00 6 LETTO DA… …il direttore del Corriere del Trentino Editoriale di domenica 30 marzo 2008: “i problemi della scuola: SOMARAGGINE I VERI ANTIDOTI” Se, in un ipotetico programma televisivo di quiz, dovessi rispondere a una serie di domande sul nostro ordinamento scolastico, confesso che sarei in serio imbarazzo. Ci sono o no gli esami di riparazione? Alla fine delle medie, quante prove scritte devono affrontare gli studenti? Gli esami di maturità (ammesso che si chiamino ancora così) come si svolgono? Avendo pochi secondi per dire la cosa giusta, probabilmente starei zitto o prenderei delle cantonate. Il fatto è che – a Trento come a Roma – si cerca di ovviare con una raffica di riforme e riformette al regredire del sistema formativo (peraltro ancora di buon livello, nonostante tutto). Per carità, magari alcune decisioni sono anche utili e doverose, ma francamente non mi sembrano risolutive. La mia impressione è che si insista in un antico vizio, ossia di fare i conti senza l’oste. Visto che non parliamo di bettole, mi riferisco agli insegnanti. A chiunque abbia a cuore le sorti del nostro futuro, dunque a quelle della scuola dove si formano le classi dirigenti del domani, consiglio di leggere lo splendido libro di Daniel Pennac appena pubblico (“Diario di scuola”). In queste pagine intense si conferma che la vera salvezza contro la “somaraggine” (come la definisce lo scrittore francese che ne è stato afflitto durante l’adolescenza) è incontrare un bravo insegnante: lo si può trovare anche in una classe della banlieue parigina, mentre nel migliore degli istituti privati puoi incappare nel docente che ti rovinerà la vita. Pennac rivela di avere una sola certezza: “La presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all’intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mia lezione”. E ancora: “È immediatamente percepibile la presenza del professore calato appieno nella propria classe. Gli studenti la sentono dal primo minuto dell’anno”. Se questo è vero, ed è vero, cosa fa il nostro Paese per avere un corpo docente all’altezza dei tempi? Praticamente niente. Anzi, sembra far di tutto per demotivare gli insegnanti (ed è un miracolo che ve siano ancora molti di elevato valore). I vari governi, con la complicità dei sindacati che non hanno il coraggio di spingere riforme realmente coraggiose (e in quanto tali non indolori), nulla hanno messo in campo per migliorare la selezione degli insegnanti, per aumentare gli stipendi, per rivalutare il ruolo della professione, per assicurare una formazione e un aggiornamento realmente efficaci. Dal canto loro, le famiglie hanno nel complesso contribuito non poco ad abbattere l’antica autorevolezza del “maestro”, in un’ottica di difesa a oltranza del “sacro figlio di mamma”. Mentre scrivo, il telegiornale trasmette la sintesi del dibattito politico che anima la campagna elettorale. Ascolto battute e battutacce, slogan e promesse già sentite. Un devastante senso di sconforto mi assale. Enrico Franco Direttore “Corriere del Trentino” n.5 maggio 2008 Le parole per dirlo METAFORA Le rondini da rianimare Riportiamo integralmente le ultime due pagine (pagine 240 – 241) dal libro: Daniel Pennac, Diario di scuola, ne “I narratori/Feltrinelli” Feltrinelli Milano 2008, pp 243 € 16,00 Dal capitolo: “Cosa significa amare” “È vero, da noi è sconveniente parlare d’amore nell’ambito dell’insegnamento. Provateci un po’. È come parlare di corda in casa dell’impiccato. Meglio ricorrere alla metafora per descrivere il tipo di amore che anima la professoressa G., Nicole H., gli insegnanti di cui ho parlato in tutte queste pagine, la maggior parte di quelli che mi invitano nelle loro classi e tutti gli infaticabili che non conosco. Metafora, quindi. Una metafora alata, per l’occasione. Vercors, una volta di più. Una mattina dello scorso settembre. Primissimi giorni di settembre. Mi sono addormentato tardi su una qualche pagina di questo libro. Mi sveglio ansioso di proseguire. Sto per saltar n.5 maggio 2008 giù dal letto ma un sottile chiasso mi ferma. È tutto un garrire intorno alla casa. Garriti diffusi, intensi e tenui insieme. Ah! sì, la partenza delle rondini! Ogni anno, intorno alla stessa data, si danno appuntamento sui fili della luce. Campi e bordi delle strade si coprono di spartiti come in un’immmagine da quattro soldi. Si apprestano a migrare. È lo schiamazzo del ricongiungimento. Quelle che ancora volteggiano nel cielo chiedono l’autorizzazione per l’allineamento a quelle che sono già posate sul filo, tutte frementi del desiderio di orizzonte. Spicciatevi che si va! Arriviamo, arriviamo! Volano velocissime. Vengono da nord in schiere hitchcockiane, dirette a sud. Ed è esattamente l’orientazione della nostra camera da letto: nord, sud. Un abbaino a nord, una doppia finestra a sud. E ogni anno lo stesso dramma: ingannate dalla trasparenza di quele finestre allineate, un bel po’ di rondini vanno a schiantarsi contro l’abbaino. Niente scrittura, quindi, stamattina. Apro l’abbaino a nord e la doppia finestra a sud, mi rituffo nel letto, ed eccoci occupati per la mattina a guardare squadriglie di rondini attraversare la nostra stanza, improvvisamente silenziose, forse intimidite dalle due figure coricate che le passano in rassegna. Il fatto è che, ai due lati della dopia finestra, due sottili vetri fissi rimangono chiusi. Lo spazio tra i due vetri laterali è ampio, di che lasciare passare tutti gli uccelli del cielo. Eppure, immancabilmente, tre o quattro di quelle scemotte vanno a sbattere contro i vetri fissi! È la nostra percentuale di somari. Le nostre devianti. Quelle che non stanno in riga. Che non seguono la retta via. E gozzovigliano ai margini. Risultato: vetro fisso. Toc! Tramortita sul tappeto. Allora uno di noi due si alza, prende la rondine stordita nel palmo della mano – non pesa quasi niente, ossa piene di vento -, aspetta che si risvegli, e la manda a raggiungere le sue amiche. La resuscitata vola via, ancora un po’ intontita, zigzagando nello spazio ritrovato, dopodichè punta dritto a sud e sparisce nel suo avvenire. Ecco, la mia metafora vale quel che vale, ma è questo l’amore in materia di insegnamento, quando gli studenti volano come uccelli impazziti. A questo la professoressa G. o Nicole H. hanno dedicato tutta la loro esistenza: salvare dal coma scolastico una sfilza di rondini sfracellate. Non sempre si riesce, a volte non si trova una strada, alcune non si ridestano, rimangono al tappeto oppure si rompono il collo contro il vetro successivo; costoro rimangono nella nostra coscienza come le voragini di rimorso in cui riposano le rondini morte in fondo al nostro giardino, ma ogni volta ci proviamo, ci abbiamo provato. Sono i nostri studenti. Le questioni di simpatia o di antipatia per l’uno o per l’altro (questioni quanto mai reali, ci mancherebbe!) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado dei nostri sentimenti verso di loro. Non di questo amore si tratta. Una rondine tramortita è una rondine da rianimare, punto e basta.” 7 LETTO DA… Insegnante scuola primaria Rovereto Professione difficile quella dell’insegnante in questo nostro mondo contemporaneo: difficile perché non molto riconosciuta e nello stesso tempo al centro di richieste provenienti dal mondo economico, sociale e civile. Le famiglie chiedono buone relazioni e professionalità; il territorio chiede progettualità, confronto, integrazione; infine il mondo dell’economia chiede capacità certificative, di valutazione autentica ed efficace e, nello stesso tempo, di risposta alle specifiche necessità professionalizzanti e strumentali. Docente al crocevia della complessità Inoltre la visione della scuola come risposta ai bisogni di formazione delle future generazioni è ostacolata dalla mancanza di investimenti e di progettualità effettive. In mezzo, al crocevia di questa complessità, sta il docente con le sue buone intenzioni, con le sue emozioni, con la voglia di fare e di esserci, con la “mission” che sente implicita, sottesa, ma che non riesce a chiarire innanzitutto a se stesso. Accanto a lui ci sono al- tri docenti: quelli che faticano nel trovare un senso a ciò che fanno; quelli che non capiscono il senso dell’autonomia data alle scuole, quelli a rischio di burnout, che si destreggiano galleggiando e cercando di tenersi fuori ( tra collegi, consigli di classe, incontri tra colleghi, incontri con le famiglie, programmazioni delle lezioni - quando ci sono - valutazioni difficoltose e relazioni difficili con i propri alunni). Quando dunque si asserisce che la situazione non solo è complessa ma anche difficile, non si estremiz- za: questa è la realtà. Ma da che parte iniziare la lettura di questa complessità, da che parte affrontarla, non per semplificarla ma quanto meno per contestualizzarla e in parte contenerla? Come atteggiarsi ad essa in modo creativo così da ricavarne un senso, una lettura personalizzata ? Il senso del singolo insegnante Ecco: il senso. Si potrebbe partire da qui. Il senso del singolo docente circa il proprio lavoro, il suo modo di essere ed agire, il suo lasciarsi contaminare da ciò che il lavoro richiede. È a partire di qui che si può poi risalire ed allargare gli orizzonti. I cerchi concentrici che partono dal sasso buttato in acqua (metafora dell’alunno che apprende con quel certo docente, in quel certo contesto), si allargano includendo la relazione con i colleghi, con i dirigenti, con l’autonomia, con le famiglie e le aspettative sociali ed economiche del territorio. E al centro ci sono i processi di apprendimento/insegnamento che il docente cura e coltiva. Di qui si deve partire, dal senso che il docente dà alla propria professione come risposta ai suoi bisogni profondi e come sviluppo della propria persona nella sua specificità. In altre parole solo se la motivazione è interna, solo se la spinta proviene dal bisogno di realizzazione personale (Maslow), solo allora il docente ha qualcosa da dare, si mette in gioco, cura il proprio lavoro e lo mette al servizio dei bisogni di cura, di crescita, di relazione e di apprendimento dei propri alunni. Un docente “salvatore”… Solo allora riuscirà ad essere come Pennac ha magistralmente raccon- 8 n.5 maggio 2008 tato nel suo autobiografico “Diario di scuola” , un “salvatore”, un docente che riesce a cogliere il creativo dentro ai propri alunni, che riesce a farli sentire vivi e che li porta a scrivere: “Sconfinato senso di gratitudine per il mio benefattore…!” tale fu per Pennac il docente che colse in lui, alunno in difficoltà, il futuro scrittore, l’urgenza interiore che lo animava; urgenza unica, speciale, da individuare e far nascere (educare, e-ducere, condurre fuori). Docente che lo incanalò, anche con fermezza, con forza e con richiesta di sacrifici, verso il proprio destino. Dunque, come dice Cesare Scurati “La qualità che si da agli altri è la qualità che si ha in sé” ed ancora “ le persone di scuola sono più costruite da fuori che da dentro”. Ecco il cambio di tendenza, la radice del mutamento, un inizio di possibilità solutiva. Se il lavoro di docente parte da un bisogno del docente stesso, bisogno non solo di un lavoro (per altro plausibile), ma di quel lavoro ed attraverso esso di realizzazione di se stesso come persona , tutto ne consegue: le relazioni di cura con gli alunni, l’aggiornamento continuo, la riflessività circa le proprie prestazioni, la voglia di crescere professionalmente, di creare comunità nella scuola di aprirla rispondendo, almeno in parte alle richieste della società. Il vivere dunque la propria professione come servizio, come modalità di risposta alle richieste degli alunni innanzi tutto e del mutamento sociale poi. Certo, per rimanere in questo contesto di senso e di significato altre dovranno/dovrebbero essere le modalità di reclutamento degli attuali docenti, ma questa è tutta un’altra storia…! Alessandra Sighele Insegnante scuola primaria Rovereto n.5 maggio 2008 LETTO DA… Insegnante scuola media Lavis Diario di scuola è un romanzo intenso, che invita il lettore a comprendere la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce, perso in un mondo in cui gli altri capiscono… È interessante, anche per chi insegna nel mondo della scuola, comprendere il malessere psicologico di quegli alunni con vissuti di disagio che si portano dietro nel loro percorso scolastico e, spesso, sin dalla scuola dell’infanzia. Sono alunni abituati ad essere l’“ultimo della classe”, “la pecora nera”, abituati a sentirselo ripetere da genitori e insegnanti. Il “presagio” che si traduce in realtà: riduce ogni spinta motivazionale all’apprendimento e al mettersi in gioco, “perché tanto io non son capace”. Pennac, è stato proprio uno di questi alunni, salvato, fortunatamente, da quell’ incubo quotidiano di studente in situazione di fallimento scolastico dall’incontro di tre o quattro insegnanti. “Sono insegnanti”, scrive Pennac, “che non si sono preoccupati delle origini della sua infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercarne le cause e tantomeno a fargli la predica. Sono stati adulti di fronte ad un adolescente in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora, …” e alla fine lo hanno salvato. Ricco di spunti per insegnare meglio La sua esperienza diventa così un libro pedagogico, ricco di spunti per insegnare meglio. Tra le righe si comprende, fin da subito, che il rapporto umano deve rivestire un ruolo centrale nella nostra professione di insegnanti. È proprio nella relazione insegnante-allievo, infatti, che il rapporto educativo può mutare in rapporto formativo. Ecco allora che il docente, in classe, dovrà prima di tutto attivare un atteggiamento empatico, entrare in relazione con i ragazzi, cercare punti d’incontro, mettersi in gioco con energia, per promuovere, poi, apprendimenti significativi. La classe diventa come un’orchestra in cui ogni studente suona il suo strumento. E l’insegnante, in questa immagine efficace riportata nel libro, dovrà conoscere bene i suoi musicisti e trovare l’armonia. Se uno studente, ci insegna l’autore, ha ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, la cosa importante è che lo faccia al momento giusto, il meglio possibile, in modo che diventi un ottimo triangolo, fiero della qualità che il suo contributo conferisce all’insieme. E alla fine, scrive Pennac, “siccome il piacere dell’armonia fa progredire tutti, anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica”. L’alunno diventa così, prima di tutto, persona, riconosciuta non solo per la dimostrazione delle proprie capacità ma, soprattutto, per il proprio sentire. E deve sentire di esistere negli occhi dell’insegnante. Claudio Gambaretto Insegnante scuola media I. C. Lavis 9 LETTO DA… Insegnante scuola superiore Cavalese “Statisticamente tutto si spiega; personalmente tutto si complica” Non saprei attribuire un giudizio sul valore letterario dell’ultima opera di Pennac, ma raccolgo volentieri l’invito a esprimere qualche impressione soggettiva sulle vicende scolastiche dello studente Pennacchioni. Rinuncio in partenza ad affrontare i molteplici aspetti esistenziali, sociologici o didattici suggeriti dal “Diario di scuola”, soffermandomi solo su tre aspetti: la scuola come luogo di emozioni, la passione per l’insegnamento, le difficoltà di apprendimento. “La sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti” Qualcuno vi ha mai descritto la scuola come un luogo di sofferenza? Pennac propone di considerare la scuola attuale come un luogo generatore di sottili inquietudini, non solo per lo studente, ma anche per i genitori e persino per gli insegnanti. Lo studente può vivere con sofferenza l’apprendimento, avvertendolo come una pericolosa minaccia alla propria identità: timore (inevitabile, peraltro) di non essere all’altezza delle richieste di apprendimento, accompagnato dalla sensazione di essere continuamente “valutato” in una competizione in cui vi sono vincitori e vinti. Uno studente in difficoltà, suggerisce Pennac, può sentirsi come trascinato dalla corrente verso le cascate e aggrapparsi a tutto ciò che capita. È sommerso da una sequela di richieste talmente numerose da divenire disorientanti. Cerca quindi di sottrarsi a un gioco che gli appare troppo rischioso. L’alibi più frequente è rappresentato dalla dichiarazione di incapacità ad impegnarsi, e si tratta di una giustificazione involontariamente incoraggiata dagli stessi insegnanti. Sono proprio loro, infatti, che frequentemente ricorrono a questa risposta “di default” per spiega10 re qualunque difficoltà scolastica. Al termine di questo percorso di fuga si trova la paradossale identificazione dello studente nell’unica immagine che la scuola gli consente di adottare: quella dell’eterno incapace. “L’orco scolastico” deve in qualche modo essere ammansito; questa è la principale preoccupazione identitaria dello studente. E proprio per questo il primo impegno deontologico assunto da Pennac nei confronti dei propri studenti è l’eliminazione della paura dalla classe, cioè l’impegno a presentare la scuola come un luogo in cui si può anche sbagliare e si può es- sere accolti per migliorare. Non si tratta di una indicazione pedagogica, ma di una precisazione che coglie il senso profondo della comunicazione a scuola, che viaggia prima di tutto sul canale delle emozioni – ansia o paura, noia o interesse, serenità o allegria - prima ancora di coinvolgere la ragione. Se questo disagio potesse essere messo pienamente in luce, rivelerebbe il significato di molte idiosincrasie tipiche della quotidiana vita scolastica, mostrerebbe le ragioni di sotterranee tensioni, di invalicabili resistenze e piccoli incidenti che costellano le relazioni tra insegnanti, studenti e genitori. L’affannosa indagine sulle tecniche didattiche o sui curricoli innovativi assume un significato solo entro una comprensione profonda del vissuto degli studenti e delle ansie delle famiglie; ma anche delle preoccupazioni degli insegnanti: perché è complicato assumersi il peso dell’insuccesso dei “propri” studenti … anche questa è una “sofferenza”, a volte presente e spesso ignorata. n.5 maggio 2008 “In fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?” La qualità dell’insegnante “fa” la qualità della scuola; ma in cosa consiste e come la si raggiunge? Per alcuni la qualità è un insieme di qualità personali dell’insegnante, che lo rendono amichevole, comunicativo, accogliente. L’opinione complementare (molto diffusa ancora oggi, tra gli insegnanti) è che la competenza culturale sia di per sé garanzia di competenza didattica. Il punto di vista suggerito da Pennac mi pare un altro. Alla base della scelta professionale dell’insegnamento sta la convinzione di potere aiutare i ragazzi a migliorare la propria cultura e la propria intelligenza, e di potere fornire loro strumenti utili per inserirsi positivamente nel contesto sociale e di vita. In fondo si tratta di una scommessa, in cui si mettono in gioco la propria disponibilità - verso lo studente - e il valore formativo delle discipline insegnate. È come se si dichiarasse: “Vale davvero la pena che tu impari la matematica (o l’italiano ecc.) per diventare più capace e preparato alla vita; ed io posso aiutarti ad imparare”. Quando uno studente (in difficoltà o meno) percepisce questo messaggio, può sentirsi valorizzato o, addirittura, “salvato” dalla scuola. Purtroppo il sistema scolastico prima ancora di spegnere gli interessi dei ragazzi, tende a spegnere le motivazioni degli insegnanti, per varie ragioni. Anzitutto la mancanza di uno sviluppo professionale di qualche tipo e di adeguati stimoli culturali - la scuola tende a divenire un luogo in cui non si promuove cultura, ma la si trasmette passivamente. Vi è poi la sensazion.5 maggio 2008 ne di ripetitività e di marginalità in cui l’azione (individuale) dell’insegnante è spesso confinata. La frammentazione professionale costringe troppo spesso gli insegnanti ad affrontare i nodi critici della propria attività in maniera solitaria, accrescendo la fatica del “mestiere di insegnare”. In terzo luogo, va considerata la crescente sensazione di complessità del proprio ruolo, a fronte della incertezza dei riferimenti organizzativi e curricolari, continuamente rimessi in discussione. Gli insegnanti sono continuamente sollecitati a intervenire, ma spesso costretti a constatare la difficoltà dei propri tentativi. Sarebbe interessante utilizzare questa chiave interpretativa – la frustrazione dell’insegnante – per discutere di questioni apparentemente lontane, come il recente problema dei corsi di recupero, nella scuola secondaria superiore. Ciò che più manca nella scuola è il recupero di un’immagine efficace del proprio ruolo, da parte degli insegnanti stessi. Gli insegnanti efficaci e di qualità sono anzitutto insegnanti soddisfatti e convinti del valore delle proprie proposte culturali, convinti della sostenibilità delle proprie metodologie e capaci di reagire all’insuccesso (inevitabile, in certe circostanze) cogliendolo come occasione per migliorare. “Riprendere tutto da zero, in terza media” È interessante osservare quanto ampia sia la portata del fatalismo, tra gli studenti a quindici anni (specie se in difficoltà o in una situazione di disagio). Capita abba- stanza frequentemente di incontrare studenti che hanno bisogno di “ripartire da zero” o quasi, per ritrovare una loro strada. Non è facile per l’insegnante assumere compiti di manutenzione straordinaria delle competenze cognitive, specie ai livelli scolastici superiori. Sarebbe troppo facile attribuire questa inadeguatezza alla semplice mancanza di professionalità del singolo insegnante. Vi è un dato di sistema che occorre sottolineare: la scuola non è organizzata efficacemente per prevedere e affrontare questo tipo di interventi. Le modalità di insegnamento sono ancora troppo uniformi per potere affrontare adeguatamente la varietà dei casi di difficoltà; mancano anche una divisione del lavoro all’interno delle scuole e una formazione specifica per gli insegnanti, troppo spesso costretti a inventare soluzioni caso per caso. Gli insegnanti suppliscono con la loro creatività e con la infinita pazienza del ricominciare “tutto da zero”, lavorando sulle reali competenze degli studenti, piuttosto che su quelle attese. Ma fino a quando potrà sopravvivere questo artigianato di alta qualità? E fino a quando si riuscirà a far leva sulla disponibilità degli insegnanti a mettersi in gioco? Forse la motivazione degli insegnanti potrà essere sostenuta da una formazione che potenzi progressivamente le capacità professionali degli insegnanti e miri davvero a risultati ben definiti e verificabili. Roberto Trolli Docente Istituto istruzione superiore Cavalese/Predazzo 11 LETTO DA… Una docente della formazione professionale Il vissuto di un “somaro” è sempre un vissuto doloroso non solo per l’alunno, ma anche per la sua famiglia. Nelle scuole professionali arrivano molti studenti con un’esperienza di questo tipo e il lavoro più difficile per noi insegnanti è proprio quello di far ricredere questi alunni rispetto alle loro capacità e alle loro possibilità di riuscita. La scuola professionale e “la magia dei somari” Insegnanti, “ancore di salvezza” Ritengo che, da questo punto di vista, la scuola professionale sia bene attrezzata. Consideriamo, ad esempio, l’alta percentuale di alunni con DSA presente nelle scuole professionali. Nei casi in cui il disturbo sia stato scoperto avanti negli anni l’alunno presenta spesso un atteggiamento di forte demotivazione nei confronti della scuola. Questo atteggiamento costituisce il principale ostacolo all’apprendimento, molto più che il disturbo stesso (Pennac parla di “magia” a tale proposito). Scardinare la demotivazione è il primo obiettivo che ci proponiamo come insegnanti e, in considerazione dell’elevata percentuale di alunni di questo tipo, la scuola professionale è abituata a mettere in campo strategie adeguate. Ed ecco il secondo aspetto interessante affrontato da Pennac: il ruolo di “ancore di salvezza” che assumono certi insegnanti per i loro studenti. Esistono veramente docenti di questo tipo, anche se vorrei precisare che l’insegnante significativo per qualcuno non è necessariamente significativo per tutti e molti insegnanti riescono a far “dischiudere” la corazza di qualche alunno difficile, senza nemmeno sfiorarne tanti altri. Indubbiamente il ruolo degli insegnanti, del loro modo di porsi, di dedicarsi e di “esserci” in classe, rappresenta un aspetto fondamentale, soprattutto in contesti scolastici difficili, come possono essere le scuole professionali. La molla dall’insuccesso al successo Diversa è la considerazione da fare per gli alunni che non hanno particolari deficit o disturbi di apprendimento, ma che non riescono negli studi. Per questi ultimi quella sorta di “scatto interiore” che consente il passaggio dall’insuccesso al successo scolastico ha un che di misterioso. Tale passaggio è legato solitamente ad un incontro con una persona speciale o con una speciale esperienza. Nel caso di Pennac è l’incontro con un professore di francese in prima superiore che, per la prima volta, dà un senso alla sua esistenza come scolaro, togliendolo dalla percezione di assoluta nullità (scolastica) in cui egli era vissuto fino a quel momento. 12 Docente/studente: condividere interesse e passione La conoscenza approfondita e quasi “intima” della materia insegnata e una buona dose di creatività consentono di ottenere un rapporto più empatico con la classe non solo dal punto di vista personale, ma anche da quello strettamente formativo. Per Pennac l’insegnamento non dovrebbe essere una semplice trasmissione ma un atto di condivisione dell’interesse e della passione suscitata nel docente dalla materia che questi insegna. Ciò accade raramente nella scuola: la maggior parte degli insegnanti conosce bene la propria materia, ma non ne è “innamorato”. Sembra difficile che un elemento esterno (al docente) possa cambiare il modo di vivere il rapporto con la materia insegnata e, conseguentemente, con il proprio ruolo di insegnante. Tale vissuto appare un fattore molto personale sul quale non sempre i docenti hanno il desiderio di riflettere. Daniela Baraldi Docente Centro di Formazione Professionale – U. P. T., Trento Le parole per dirlo “A tutti coloro che oggi imputano la formazione di bande al solo fenomeno delle banlieues, io dico: certo, avete ragione, la disoccupazione, certo, l’emarginazione, certo i raggruppamenti etnici, la dittatura delle marche, certo, la famiglia monoparentale, certo, lo sviluppo di un’economia parallela e di traffici di ogni genere, certo, certo… Ma guardiamoci bene dal sottovalutare l’unica cosa sulla quale possiamo agire personalmente e che risale alla notte dei tempi pedagogici: la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce, perso in un mondo in cui gli altri capiscono. Solo noi possiamo tirarlo fuori da quella prigione, formati o meno per farlo. Gli insegnanti che mi hanno salvato – e che hanno fatto di me un insegnante – non erano formati per questo. Non si sono preocupati delle origini della mia infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercarne le cause e tanto meno a farmi la predica. Erano adulti di fronte ad adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora…Alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita.” n.5 maggio 2008 LETTO DA… Un dirigente scolastico Mescolando riflessioni pedagogiche e ricordi autobiografici, Pennac riesce a dimostrare come ha potuto capitalizzare i propri fallimenti trasformandoli nella capacità di comprendere la sofferenza dell’alunno in difficoltà, mettendone in luce la fondamentale paura che blocca, che dà risposte assurde e in cui si gioca la propria identità, restituendogli un dolore fino ad allora inesplorato. Vi si scopre la scuola con la prospettiva dello studente che la vive con difficoltà, ma anche la scuola dal punto di vista del docente egli stesso in affanno, alle prese con dilemmi e situazioni per le quali sembra non trovare chiavi di accesso, e stimola la riflessione sulle difficoltà odierne della scuola e dei suoi operatori. L’occhio del professore ex studente “somaro” L’angolazione insolita del professore ex studente “somaro” mette in luce il senso di impotenza e di inadeguatezza che vivono spesso i docenti alle prese con ragazzi difficili, con i conflitti generazionali, l’integrazione, le modalità a volte violente di contestazione, della messa in discussione del principio di autorità da parte dei giovani, le inefficienze del sistema scolastico, l’immagine sociale del ruolo docente che ha perso via via prestigio, con ovvie ripercussione anche motivazionali. Pennac fa riemergere il problema dell’insegnamento che si trova a combattere con le armi spuntate del sapere, del bisogno di sapere nelle sue varie forme, della necessità di risvegliare nel bambino il bisogno di aprire la mente, la concorrenza della società consumistica che fa passare come fondamentale il solo bisogno di comprare e di apparire conformandosi, omologandosi. Quasi ovvio constatare il disagio dell’insegnante che rilette la realtà della stessa scuola e della società, tanto che recenti indagini hanno stigmatizzato come una minorann.5 maggio 2008 za anche non trascurabile di docenti soffra di vera e propria depressione. Se una minoranza soffre di burn out non si può certo generalizzare all’intera categoria un logoramento da stress professionale, ma è indubbiamente legittimo affermare che un certo disagio è comune a gran parte dei docenti. Insegnanti e disagio Anche il dirigente, che insegnante non è più, ma che immerso nell’educazionale a stretto contatto con gli insegnanti della sua scuola, riscontra nell’azione quotidiana atteggiamenti, commenti di sconforto, una ricerca continua delle strategie per uscire da situazioni difficili nelle classi, per individuare fili conduttori motivazionali in grado di stimolare gli alunni che manifestano disagio e sofferenze relazionali e tutti gli altri che hanno comunque bisogno di stimoli, di modelli autorevoli e di orizzonti educativi certi e di supporti per contrastare una diffusa incapacità di sopportare normali frustrazioni, la mancanza di impegno, di tenuta nello studio e nell’attenzione. Per questo i docenti più attenti sono chiamati a svolgere un ruolo educativo che deve porre rimedio alle carenze di autorevolezza di molte famiglie, farsi carico di problematiche psicologiche e sociali che sentono ulteriori rispetto a quelle tradizionalmente professionali dell’insegnare. Da qui quel certo malessere manifestato dai docenti, che reagiscono con la forza di chi crede nella propria professione, nel valore e nell’importanza del proprio ruolo, rimotivandosi continuamente di fronte alle difficoltà del quotidiano e alla complessità del mestiere, rafforzando le proprie competenze non solo di ambito strettamente disciplinare ma anche relazionale, comunicativo, organizzativo per fronteggiare i problemi dell’apprendimento, della carenza di motivazione nei ragazzi, dell’educazione degli studenti, rispondendo ai continui e profondi mutamenti della società. Grandi e recenti cambiamenti sociali e strutturali dell’istituzione scolastica hanno ridefinito di fatto la professionalità del docente ed hanno contemporaneamente generato fattori di incertezza di ruolo e di pratica professionale. L’immagine sociale della scuola stessa si è modificata in senso progressivamente negativo per cui la scuola fa notizia spesso per episodi scandalistici mentre rimangono sottotono analisi qualitative e problemi ben più significativi. Come non pensare a ripercussioni negative anche sull’immagine dei suoi operatori e nella percezione negli stessi del proprio ruolo? Le cause del malessere Nel contesto pedagogico istituzionale e sociale più allargato si possono individuare alcune cause di tale malessere da ricondurre essenzialmente alle trasformazioni sociali, ad una generale perdita di credibilità ed incisività della scuola 13 e dei suoi valori educativi tradizionali, con un’interlocuzione talora difficile con le figure genitoriali, per cui i docenti vedono vanificare i propri sforzi e sperimentano un senso di impotenza o di inadeguatezza di fronte agli insuccessi dei propri alunni. Altri fattori di disaffezione sono da ricondurre alla situazione lavorativa del docente che non prevede sviluppi di carriera e presenta un prestigio sociale venuto meno negli anni, una scarsa considerazione sociale cui si aggiunge una tendenza all’egualitarismo già presente nella categoria e che non premia il maggior impegno se non in termini accessori, quindi non motiva in modo profondo e non determina quelle diversificazioni qualitative che arricchiscono e stimolano lo sviluppo delle proprie e altrui competenze professionali. Vanno contrastate inoltre le chiusure individualistiche nella classe che impediscono il confronto professionale che fa crescere le buone pratiche e la ricerca educativa e didattica condivisa e diffusa che nel lavoro di team trova forma e riconoscimento. Non ultimo emerge il disagio legato al continuo altalenarsi di dispo14 sizioni e cambiamenti normativi anche contraddittori o inversioni di tendenza conseguenti a mutamenti di indirizzo politico che intendono incidere su dati strutturali, riforme e controriforme che azzerano ogni precedente innovazione o viceversa l’annullamento di qualsivoglia cambiamento che porta ad immobilismo e a sensazioni di incertezza e di attesa. Nonostante tutto… Ciò non significa rifiuto delle riforme e delle innovazioni ma esigenza e richiesta di introduzione delle stesse seguendo criteri di efficacia in ordine ad adeguatezza dei tempi e coerenze attuative, accompagnate dalla formazione degli operatori che devono esserne protagonisti perché chiamati ad attuarle. Nonostante il quadro poco stimolante gli insegnanti proseguono trovando motivazioni intrinseche al loro lavoro, cercando di svolgere al meglio il proprio impegnativo compito nella consapevolezza dell’importanza del ruolo che rivestono per l’apprendimento e per la formazione degli allievi per il significato profondo che l’inse- gnamento e la relazione che si instaura condizionano fortemente il vissuto dei ragazzi e il loro sviluppo futuro. In questo Pennac ha colto nel segno sottolineando la grande importanza del lavoro dei docenti che devono infondere il desiderio di imparare, di risvegliare nel bambino il bisogno di aprire la mente, di aiutare lo sviluppo e l’apprendimento dei ragazzi anche quando l’impresa sembra destinata a fallire, anche dove sembrano mancare risorse e competenze non acquisite nel proprio percorso professionale. Suggerisce di evitare di ricercare colpevoli riconducendo a chi ha preceduto o più genericamente a cause esterne incolmabili le colpe di mancati apprendimenti, in sostanza aprendo le finestre per far volare le rondini sulle loro rotte e rianimandole quando alcune ugualmente cozzano sulle trasparenze ingannatrici dei vetri , come nella metafora che chiude il suo scritto, e con la costanza della passione che anima il proprio lavoro. Matilde Crollo Dirigente scolastica Istituto istruzione superiore “A. Rosmini” Trento n.5 maggio 2008