il libro LETTO DA…

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il libro LETTO DA…
Diario di scuola
SEGNALIAMO
Daniel Pennac, scrittore e insegnante, è uno di casa tra gli insegnanti (tra i tanti insegnanti che ancora leggono molto) principalmente
per “Come un romanzo”, un saggio
“che si legge come un romanzo” e
che ha detto tante cose sul piacere
di leggere. Adesso, Diario di scuola,
plurirecensito in Italia e nel mondo.
Noi qui lo riprendiamo come se fosse uno dei tanti servizi su “Il mestiere dell’insegnante”. Gli spunti sono
sterminati per leggere/si e ri-leggere/si come uomini di scuola, come
insegnanti, come studenti attuali
e/o “ex”, come genitori. Ma spunti
non mancano neppure per “l’apparato”, per la scuola “organizzazione”
coi suoi riti, i suoi tic, le sue manie
giornaliere; ma anche per il suo sadismo sui “somari” così come per le
sue ancore di salvataggio per i più
deboli. Il mestiere dell’insegnante
ne esce “massacrato”, ma anche stupendamente esaltato come “salvatore” di ragazzi diversamente persi. Avremmo potuto fare tante cose,
scegliere tante soluzioni per parlare
di questo libro sulla rivista, ma abbiamo scelto la strada più semplice,
dopo aver letto l’editoriale di Enrico
Franco sul Corriere del Trentino di
domenica 30 marzo 2008: abbiamo
consegnanto una copia da leggere a un’insegnante dell’elementare,
uno delle medie, una della formazione professionale, uno delle superiori e a un dirigente scolastico. Poi,
abbiamo chiesto ad Enrico Franco
di pubblicare anche il suo editoriale. Queste nove pagine sono il risultato. Ma a tutti, proprio tutti (insegnanti, genitori, dirigenti, studenti,
amministratori ecc. ecc.,) ci permettiamo di consigliarne la lettura.
mario caroli
il libro
“Ho sempre pensato che la scuola fosse
fatta prima di tutto dagli insegnanti.
In fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?”
Daniel Pennac, Diario di scuola, I Narratori - Feltrinelli Milano
2008 pp. 243, € 16,00
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LETTO DA…
…il direttore del Corriere del Trentino
Editoriale di domenica 30 marzo 2008:
“i problemi della scuola:
SOMARAGGINE I VERI ANTIDOTI”
Se, in un ipotetico programma televisivo di quiz,
dovessi rispondere a una serie di domande sul nostro ordinamento scolastico, confesso che sarei in
serio imbarazzo. Ci sono o no gli esami di riparazione? Alla fine delle medie, quante prove scritte
devono affrontare gli studenti? Gli esami di maturità (ammesso che si chiamino ancora così) come
si svolgono?
Avendo pochi secondi per dire la cosa giusta, probabilmente starei zitto o prenderei delle cantonate. Il fatto è che – a Trento come a Roma – si cerca di ovviare con una raffica di
riforme e riformette al regredire del sistema formativo (peraltro ancora di buon livello, nonostante tutto). Per carità, magari alcune decisioni sono anche utili e doverose, ma francamente non mi sembrano risolutive.
La mia impressione è che si insista in un antico vizio, ossia di fare i conti senza
l’oste. Visto che non parliamo di bettole, mi riferisco agli insegnanti. A chiunque
abbia a cuore le sorti del nostro futuro, dunque a quelle della scuola dove si formano le classi dirigenti del domani, consiglio di leggere lo splendido libro di Daniel Pennac appena pubblico (“Diario di scuola”). In queste pagine intense si conferma che la vera salvezza contro la “somaraggine” (come la definisce lo scrittore
francese che ne è stato afflitto durante l’adolescenza) è incontrare un bravo insegnante: lo si può trovare anche in una classe della banlieue parigina, mentre nel
migliore degli istituti privati puoi incappare nel docente che ti rovinerà la vita.
Pennac rivela di avere una sola certezza: “La presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all’intera classe e a ogni individuo in
particolare, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale per i cinquantacinque
minuti in cui durerà la mia lezione”. E ancora: “È immediatamente percepibile la
presenza del professore calato appieno nella propria classe. Gli studenti la sentono
dal primo minuto dell’anno”.
Se questo è vero, ed è vero, cosa fa il nostro Paese per avere un corpo docente all’altezza dei tempi? Praticamente niente. Anzi, sembra far di tutto per demotivare gli
insegnanti (ed è un miracolo che ve siano ancora molti di elevato valore). I vari
governi, con la complicità dei sindacati che non hanno il coraggio di spingere riforme realmente coraggiose (e in quanto tali non indolori), nulla hanno messo in
campo per migliorare la selezione degli insegnanti, per aumentare gli stipendi, per
rivalutare il ruolo della professione, per assicurare una formazione e un aggiornamento realmente efficaci. Dal canto loro, le famiglie hanno nel complesso contribuito non poco ad abbattere l’antica autorevolezza del “maestro”, in un’ottica di
difesa a oltranza del “sacro figlio di mamma”.
Mentre scrivo, il telegiornale trasmette la sintesi del dibattito politico che anima
la campagna elettorale. Ascolto battute e battutacce, slogan e promesse già sentite.
Un devastante senso di sconforto mi assale.
Enrico Franco
Direttore “Corriere del Trentino”
n.5 maggio 2008
Le parole per dirlo
METAFORA
Le rondini da rianimare
Riportiamo integralmente le ultime due pagine (pagine 240 – 241) dal
libro: Daniel Pennac, Diario di scuola, ne “I narratori/Feltrinelli” Feltrinelli Milano 2008, pp 243 € 16,00
Dal capitolo:
“Cosa significa amare”
“È vero, da noi è sconveniente parlare d’amore nell’ambito dell’insegnamento. Provateci un po’. È come parlare di
corda in casa dell’impiccato.
Meglio ricorrere alla metafora per
descrivere il tipo di amore che anima la
professoressa G., Nicole H., gli insegnanti di cui ho parlato in tutte queste pagine, la maggior parte di quelli che mi
invitano nelle loro classi e tutti gli infaticabili che non conosco.
Metafora, quindi.
Una metafora alata, per l’occasione.
Vercors, una volta di più.
Una mattina dello scorso settembre.
Primissimi giorni di settembre.
Mi sono addormentato tardi su una
qualche pagina di questo libro. Mi sveglio ansioso di proseguire. Sto per saltar
n.5 maggio 2008
giù dal letto ma un sottile chiasso mi ferma. È tutto un garrire intorno alla casa.
Garriti diffusi, intensi e tenui insieme.
Ah! sì, la partenza delle rondini! Ogni
anno, intorno alla stessa data, si danno
appuntamento sui fili della luce. Campi
e bordi delle strade si coprono di spartiti
come in un’immmagine da quattro soldi.
Si apprestano a migrare. È lo schiamazzo del ricongiungimento. Quelle che ancora volteggiano nel cielo chiedono l’autorizzazione per l’allineamento a quelle
che sono già posate sul filo, tutte frementi del desiderio di orizzonte. Spicciatevi
che si va! Arriviamo, arriviamo! Volano
velocissime. Vengono da nord in schiere
hitchcockiane, dirette a sud. Ed è esattamente l’orientazione della nostra camera
da letto: nord, sud. Un abbaino a nord,
una doppia finestra a sud. E ogni anno lo
stesso dramma: ingannate dalla trasparenza di quele finestre allineate, un bel
po’ di rondini vanno a schiantarsi contro
l’abbaino. Niente scrittura, quindi, stamattina. Apro l’abbaino a nord e la doppia finestra a sud, mi rituffo nel letto, ed
eccoci occupati per la mattina a guardare
squadriglie di rondini attraversare la nostra stanza, improvvisamente silenziose,
forse intimidite dalle due figure coricate
che le passano in rassegna. Il fatto è che,
ai due lati della dopia finestra, due sottili vetri fissi rimangono chiusi. Lo spazio tra i due vetri laterali è ampio, di che
lasciare passare tutti gli uccelli del cielo.
Eppure, immancabilmente, tre o quattro di quelle scemotte vanno a sbattere
contro i vetri fissi! È la nostra percentuale di somari. Le nostre devianti. Quelle
che non stanno in riga. Che non seguono la retta via. E gozzovigliano ai margini. Risultato: vetro fisso. Toc! Tramortita sul tappeto. Allora uno di noi due si
alza, prende la rondine stordita nel palmo della mano – non pesa quasi niente,
ossa piene di vento -, aspetta che si risvegli, e la manda a raggiungere le sue amiche. La resuscitata vola via, ancora un
po’ intontita, zigzagando nello spazio ritrovato, dopodichè punta dritto a sud e
sparisce nel suo avvenire.
Ecco, la mia metafora vale quel che
vale, ma è questo l’amore in materia di
insegnamento, quando gli studenti volano come uccelli impazziti. A questo la
professoressa G. o Nicole H. hanno dedicato tutta la loro esistenza: salvare dal
coma scolastico una sfilza di rondini
sfracellate. Non sempre si riesce, a volte
non si trova una strada, alcune non si ridestano, rimangono al tappeto oppure si
rompono il collo contro il vetro successivo;
costoro rimangono nella nostra coscienza
come le voragini di rimorso in cui riposano le rondini morte in fondo al nostro
giardino, ma ogni volta ci proviamo, ci
abbiamo provato. Sono i nostri studenti.
Le questioni di simpatia o di antipatia
per l’uno o per l’altro (questioni quanto
mai reali, ci mancherebbe!) non c’entrano. Nessuno di noi saprebbe dire il grado
dei nostri sentimenti verso di loro. Non
di questo amore si tratta. Una rondine
tramortita è una rondine da rianimare,
punto e basta.”
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LETTO DA…
Insegnante scuola primaria Rovereto
Professione difficile quella dell’insegnante in questo nostro mondo contemporaneo: difficile perché non molto riconosciuta e nello stesso tempo al centro di richieste provenienti dal mondo economico, sociale e civile. Le famiglie chiedono buone relazioni e professionalità; il territorio
chiede progettualità, confronto, integrazione; infine il mondo dell’economia chiede capacità certificative, di valutazione autentica ed efficace
e, nello stesso tempo, di risposta alle specifiche necessità professionalizzanti e strumentali.
Docente al crocevia
della complessità
Inoltre la visione della scuola come
risposta ai bisogni di formazione
delle future generazioni è ostacolata dalla mancanza di investimenti
e di progettualità effettive.
In mezzo, al crocevia di questa
complessità, sta il docente con le
sue buone intenzioni, con le sue
emozioni, con la voglia di fare e di
esserci, con la “mission” che sente implicita, sottesa, ma che non
riesce a chiarire innanzitutto a se
stesso. Accanto a lui ci sono al-
tri docenti: quelli che faticano nel
trovare un senso a ciò che fanno;
quelli che non capiscono il senso dell’autonomia data alle scuole, quelli a rischio di burnout, che
si destreggiano galleggiando e cercando di tenersi fuori ( tra collegi,
consigli di classe, incontri tra colleghi, incontri con le famiglie, programmazioni delle lezioni - quando ci sono - valutazioni difficoltose
e relazioni difficili con i propri
alunni).
Quando dunque si asserisce che
la situazione non solo è complessa
ma anche difficile, non si estremiz-
za: questa è la realtà.
Ma da che parte iniziare la lettura
di questa complessità, da che parte
affrontarla, non per semplificarla
ma quanto meno per contestualizzarla e in parte contenerla? Come
atteggiarsi ad essa in modo creativo così da ricavarne un senso, una
lettura personalizzata ?
Il senso
del singolo insegnante
Ecco: il senso. Si potrebbe partire da qui. Il senso del singolo docente circa il proprio lavoro, il suo
modo di essere ed agire, il suo lasciarsi contaminare da ciò che il lavoro richiede.
È a partire di qui che si può poi
risalire ed allargare gli orizzonti.
I cerchi concentrici che partono
dal sasso buttato in acqua (metafora dell’alunno che apprende con
quel certo docente, in quel certo
contesto), si allargano includendo la relazione con i colleghi, con
i dirigenti, con l’autonomia, con
le famiglie e le aspettative sociali
ed economiche del territorio. E al
centro ci sono i processi di apprendimento/insegnamento che il docente cura e coltiva. Di qui si deve
partire, dal senso che il docente dà
alla propria professione come risposta ai suoi bisogni profondi e
come sviluppo della propria persona nella sua specificità. In altre parole solo se la motivazione è interna, solo se la spinta proviene dal
bisogno di realizzazione personale
(Maslow), solo allora il docente ha
qualcosa da dare, si mette in gioco, cura il proprio lavoro e lo mette al servizio dei bisogni di cura, di
crescita, di relazione e di apprendimento dei propri alunni.
Un docente “salvatore”…
Solo allora riuscirà ad essere come
Pennac ha magistralmente raccon-
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n.5 maggio 2008
tato nel suo autobiografico “Diario di scuola” , un “salvatore”, un
docente che riesce a cogliere il creativo dentro ai propri alunni, che
riesce a farli sentire vivi e che li
porta a scrivere: “Sconfinato senso
di gratitudine per il mio benefattore…!” tale fu per Pennac il docente che colse in lui, alunno in difficoltà, il futuro scrittore, l’urgenza
interiore che lo animava; urgenza unica, speciale, da individuare e far nascere (educare, e-ducere, condurre fuori). Docente che
lo incanalò, anche con fermezza,
con forza e con richiesta di sacrifici, verso il proprio destino.
Dunque, come dice Cesare Scurati “La qualità che si da agli altri è
la qualità che si ha in sé” ed ancora
“ le persone di scuola sono più costruite da fuori che da dentro”.
Ecco il cambio di tendenza, la radice del mutamento, un inizio di
possibilità solutiva. Se il lavoro di
docente parte da un bisogno del
docente stesso, bisogno non solo
di un lavoro (per altro plausibile),
ma di quel lavoro ed attraverso esso
di realizzazione di se stesso come
persona , tutto ne consegue: le relazioni di cura con gli alunni, l’aggiornamento continuo, la riflessività circa le proprie prestazioni, la
voglia di crescere professionalmente, di creare comunità nella scuola
di aprirla rispondendo, almeno in
parte alle richieste della società. Il
vivere dunque la propria professione come servizio, come modalità
di risposta alle richieste degli alunni innanzi tutto e del mutamento
sociale poi.
Certo, per rimanere in questo contesto di senso e di significato altre dovranno/dovrebbero essere
le modalità di reclutamento degli
attuali docenti, ma questa è tutta
un’altra storia…!
Alessandra Sighele
Insegnante scuola primaria Rovereto
n.5 maggio 2008
LETTO DA…
Insegnante scuola media Lavis
Diario di scuola è un romanzo intenso, che invita il lettore a comprendere la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce,
perso in un mondo in cui gli altri capiscono…
È interessante, anche per chi insegna nel mondo della scuola, comprendere il malessere psicologico di quegli alunni con vissuti di disagio che si portano dietro nel loro percorso scolastico e, spesso, sin dalla
scuola dell’infanzia. Sono alunni abituati ad essere l’“ultimo della classe”, “la pecora nera”, abituati a sentirselo ripetere da genitori e insegnanti. Il “presagio” che si traduce in realtà: riduce ogni spinta motivazionale all’apprendimento e al mettersi in gioco, “perché tanto io non
son capace”. Pennac, è stato proprio uno di questi alunni, salvato, fortunatamente, da quell’ incubo quotidiano di studente in situazione di
fallimento scolastico dall’incontro di tre o quattro insegnanti. “Sono insegnanti”, scrive Pennac, “che non si sono preoccupati delle origini della sua infermità scolastica. Non hanno perso tempo a cercarne le cause
e tantomeno a fargli la predica. Sono stati adulti di fronte ad un adolescente in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente.
Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno
dopo giorno, ancora e ancora, …” e alla fine lo hanno salvato.
Ricco di spunti per insegnare meglio
La sua esperienza diventa così un libro pedagogico, ricco di spunti per
insegnare meglio. Tra le righe si comprende, fin da subito, che il rapporto umano deve rivestire un ruolo centrale nella nostra professione di insegnanti. È proprio nella relazione insegnante-allievo, infatti,
che il rapporto educativo può mutare in rapporto formativo. Ecco allora che il docente, in classe, dovrà prima di tutto attivare un atteggiamento empatico, entrare in relazione con i ragazzi, cercare punti
d’incontro, mettersi in gioco con energia, per promuovere, poi, apprendimenti significativi.
La classe diventa come un’orchestra in cui ogni studente suona il suo
strumento. E l’insegnante, in questa immagine efficace riportata nel
libro, dovrà conoscere bene i suoi musicisti e trovare l’armonia. Se
uno studente, ci insegna l’autore, ha ereditato il piccolo triangolo che
sa fare solo tin tin, la cosa importante è che lo faccia al momento giusto, il meglio possibile, in modo che diventi un ottimo triangolo, fiero della qualità che il suo contributo conferisce all’insieme. E alla fine,
scrive Pennac, “siccome il piacere dell’armonia fa progredire tutti, anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera
brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica”.
L’alunno diventa così, prima di tutto, persona, riconosciuta non solo
per la dimostrazione delle proprie capacità ma, soprattutto, per il proprio sentire. E deve sentire di esistere negli occhi dell’insegnante.
Claudio Gambaretto
Insegnante scuola media I. C. Lavis
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LETTO DA…
Insegnante scuola superiore Cavalese
“Statisticamente tutto si spiega; personalmente tutto si complica”
Non saprei attribuire un giudizio sul valore letterario dell’ultima opera
di Pennac, ma raccolgo volentieri l’invito a esprimere qualche impressione soggettiva sulle vicende scolastiche dello studente Pennacchioni. Rinuncio in partenza ad affrontare i molteplici aspetti esistenziali,
sociologici o didattici suggeriti dal “Diario di scuola”, soffermandomi
solo su tre aspetti: la scuola come luogo di emozioni, la passione per
l’insegnamento, le difficoltà di apprendimento.
“La sofferenza condivisa
del somaro, dei genitori
e degli insegnanti”
Qualcuno vi ha mai descritto la
scuola come un luogo di sofferenza? Pennac propone di considerare la scuola attuale come un luogo
generatore di sottili inquietudini,
non solo per lo studente, ma anche per i genitori e persino per gli
insegnanti.
Lo studente può vivere con sofferenza l’apprendimento, avvertendolo come una pericolosa minaccia alla propria identità: timore
(inevitabile, peraltro) di non essere all’altezza delle richieste di apprendimento, accompagnato dalla
sensazione di essere continuamente “valutato” in una competizione in cui vi sono vincitori e vinti.
Uno studente in difficoltà, suggerisce Pennac, può sentirsi come trascinato dalla corrente verso le cascate e aggrapparsi a tutto ciò che
capita. È sommerso da una sequela di richieste talmente numerose da divenire disorientanti. Cerca
quindi di sottrarsi a un gioco che
gli appare troppo rischioso. L’alibi
più frequente è rappresentato dalla dichiarazione di incapacità ad
impegnarsi, e si tratta di una giustificazione involontariamente incoraggiata dagli stessi insegnanti. Sono proprio loro, infatti, che
frequentemente ricorrono a questa risposta “di default” per spiega10
re qualunque difficoltà scolastica.
Al termine di questo percorso di
fuga si trova la paradossale identificazione dello studente nell’unica
immagine che la scuola gli consente di adottare: quella dell’eterno
incapace.
“L’orco scolastico” deve in qualche modo essere ammansito; questa è la principale preoccupazione
identitaria dello studente. E proprio per questo il primo impegno
deontologico assunto da Pennac
nei confronti dei propri studenti
è l’eliminazione della paura dalla
classe, cioè l’impegno a presentare la scuola come un luogo in cui
si può anche sbagliare e si può es-
sere accolti per migliorare.
Non si tratta di una indicazione pedagogica, ma di una precisazione che coglie il senso profondo della comunicazione a scuola,
che viaggia prima di tutto sul canale delle emozioni – ansia o paura, noia o interesse, serenità o allegria - prima ancora di coinvolgere
la ragione.
Se questo disagio potesse essere
messo pienamente in luce, rivelerebbe il significato di molte idiosincrasie tipiche della quotidiana
vita scolastica, mostrerebbe le ragioni di sotterranee tensioni, di invalicabili resistenze e piccoli incidenti che costellano le relazioni tra
insegnanti, studenti e genitori.
L’affannosa indagine sulle tecniche
didattiche o sui curricoli innovativi assume un significato solo entro
una comprensione profonda del
vissuto degli studenti e delle ansie
delle famiglie; ma anche delle preoccupazioni degli insegnanti: perché è complicato assumersi il peso
dell’insuccesso dei “propri” studenti … anche questa è una “sofferenza”, a volte presente e spesso
ignorata.
n.5 maggio 2008
“In fondo, chi mi ha
salvato dalla scuola se
non tre o quattro
insegnanti?”
La qualità dell’insegnante “fa” la
qualità della scuola; ma in cosa
consiste e come la si raggiunge?
Per alcuni la qualità è un insieme
di qualità personali dell’insegnante, che lo rendono amichevole, comunicativo, accogliente. L’opinione complementare (molto diffusa
ancora oggi, tra gli insegnanti) è
che la competenza culturale sia di
per sé garanzia di competenza didattica.
Il punto di vista suggerito da Pennac mi pare un altro. Alla base
della scelta professionale dell’insegnamento sta la convinzione di
potere aiutare i ragazzi a migliorare la propria cultura e la propria intelligenza, e di potere fornire loro strumenti utili per inserirsi
positivamente nel contesto sociale
e di vita. In fondo si tratta di una
scommessa, in cui si mettono in
gioco la propria disponibilità - verso lo studente - e il valore formativo delle discipline insegnate. È
come se si dichiarasse: “Vale davvero la pena che tu impari la matematica (o l’italiano ecc.) per diventare più capace e preparato alla
vita; ed io posso aiutarti ad imparare”. Quando uno studente (in
difficoltà o meno) percepisce questo messaggio, può sentirsi valorizzato o, addirittura, “salvato” dalla
scuola.
Purtroppo il sistema scolastico prima ancora di spegnere gli interessi
dei ragazzi, tende a spegnere le motivazioni degli insegnanti, per varie ragioni. Anzitutto la mancanza di uno sviluppo professionale di
qualche tipo e di adeguati stimoli culturali - la scuola tende a divenire un luogo in cui non si promuove cultura, ma la si trasmette
passivamente. Vi è poi la sensazion.5 maggio 2008
ne di ripetitività e di marginalità in
cui l’azione (individuale) dell’insegnante è spesso confinata. La frammentazione professionale costringe troppo spesso gli insegnanti ad
affrontare i nodi critici della propria attività in maniera solitaria,
accrescendo la fatica del “mestiere di insegnare”. In terzo luogo, va
considerata la crescente sensazione
di complessità del proprio ruolo,
a fronte della incertezza dei riferimenti organizzativi e curricolari,
continuamente rimessi in discussione. Gli insegnanti sono continuamente sollecitati a intervenire,
ma spesso costretti a constatare la
difficoltà dei propri tentativi. Sarebbe interessante utilizzare questa
chiave interpretativa – la frustrazione dell’insegnante – per discutere di questioni apparentemente
lontane, come il recente problema
dei corsi di recupero, nella scuola
secondaria superiore.
Ciò che più manca nella scuola è
il recupero di un’immagine efficace del proprio ruolo, da parte degli
insegnanti stessi. Gli insegnanti efficaci e di qualità sono anzitutto insegnanti soddisfatti e convinti del
valore delle proprie proposte culturali, convinti della sostenibilità
delle proprie metodologie e capaci
di reagire all’insuccesso (inevitabile, in certe circostanze) cogliendolo come occasione per migliorare.
“Riprendere tutto da zero,
in terza media”
È interessante osservare quanto
ampia sia la portata del fatalismo,
tra gli studenti a quindici anni
(specie se in difficoltà o in una situazione di disagio). Capita abba-
stanza frequentemente di incontrare studenti che hanno bisogno di
“ripartire da zero” o quasi, per ritrovare una loro strada. Non è facile per l’insegnante assumere compiti di manutenzione straordinaria
delle competenze cognitive, specie
ai livelli scolastici superiori. Sarebbe troppo facile attribuire questa
inadeguatezza alla semplice mancanza di professionalità del singolo
insegnante. Vi è un dato di sistema
che occorre sottolineare: la scuola non è organizzata efficacemente per prevedere e affrontare questo tipo di interventi. Le modalità
di insegnamento sono ancora troppo uniformi per potere affrontare
adeguatamente la varietà dei casi di
difficoltà; mancano anche una divisione del lavoro all’interno delle scuole e una formazione specifica per gli insegnanti, troppo spesso
costretti a inventare soluzioni caso
per caso. Gli insegnanti suppliscono con la loro creatività e con la
infinita pazienza del ricominciare
“tutto da zero”, lavorando sulle reali competenze degli studenti, piuttosto che su quelle attese. Ma fino
a quando potrà sopravvivere questo artigianato di alta qualità? E
fino a quando si riuscirà a far leva
sulla disponibilità degli insegnanti
a mettersi in gioco?
Forse la motivazione degli insegnanti potrà essere sostenuta da
una formazione che potenzi progressivamente le capacità professionali degli insegnanti e miri
davvero a risultati ben definiti e
verificabili.
Roberto Trolli
Docente Istituto istruzione superiore
Cavalese/Predazzo
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LETTO DA…
Una docente della formazione professionale
Il vissuto di un “somaro” è sempre un vissuto doloroso non solo per
l’alunno, ma anche per la sua famiglia. Nelle scuole professionali arrivano molti studenti con un’esperienza di questo tipo e il lavoro più difficile per noi insegnanti è proprio quello di far ricredere questi alunni
rispetto alle loro capacità e alle loro possibilità di riuscita.
La scuola professionale
e “la magia dei somari”
Insegnanti,
“ancore di salvezza”
Ritengo che, da questo punto di vista, la scuola professionale sia bene
attrezzata. Consideriamo, ad esempio, l’alta percentuale di alunni con
DSA presente nelle scuole professionali. Nei casi in cui il disturbo
sia stato scoperto avanti negli anni
l’alunno presenta spesso un atteggiamento di forte demotivazione nei
confronti della scuola. Questo atteggiamento costituisce il principale ostacolo all’apprendimento, molto più che il disturbo stesso (Pennac
parla di “magia” a tale proposito).
Scardinare la demotivazione è il primo obiettivo che ci proponiamo
come insegnanti e, in considerazione dell’elevata percentuale di alunni
di questo tipo, la scuola professionale è abituata a mettere in campo
strategie adeguate.
Ed ecco il secondo aspetto interessante affrontato da Pennac: il ruolo
di “ancore di salvezza” che assumono certi insegnanti per i loro studenti. Esistono veramente docenti
di questo tipo, anche se vorrei precisare che l’insegnante significativo per qualcuno non è necessariamente significativo per tutti e molti
insegnanti riescono a far “dischiudere” la corazza di qualche alunno
difficile, senza nemmeno sfiorarne
tanti altri. Indubbiamente il ruolo
degli insegnanti, del loro modo di
porsi, di dedicarsi e di “esserci” in
classe, rappresenta un aspetto fondamentale, soprattutto in contesti
scolastici difficili, come possono essere le scuole professionali.
La molla dall’insuccesso
al successo
Diversa è la considerazione da fare
per gli alunni che non hanno particolari deficit o disturbi di apprendimento, ma che non riescono negli studi. Per questi ultimi quella
sorta di “scatto interiore” che consente il passaggio dall’insuccesso al
successo scolastico ha un che di misterioso. Tale passaggio è legato solitamente ad un incontro con una
persona speciale o con una speciale esperienza. Nel caso di Pennac
è l’incontro con un professore di
francese in prima superiore che, per
la prima volta, dà un senso alla sua
esistenza come scolaro, togliendolo dalla percezione di assoluta nullità (scolastica) in cui egli era vissuto
fino a quel momento.
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Docente/studente:
condividere interesse
e passione
La conoscenza approfondita e quasi “intima” della materia insegnata
e una buona dose di creatività consentono di ottenere un rapporto
più empatico con la classe non solo
dal punto di vista personale, ma anche da quello strettamente formativo. Per Pennac l’insegnamento non
dovrebbe essere una semplice trasmissione ma un atto di condivisione dell’interesse e della passione
suscitata nel docente dalla materia
che questi insegna. Ciò accade raramente nella scuola: la maggior parte degli insegnanti conosce bene la
propria materia, ma non ne è “innamorato”. Sembra difficile che un
elemento esterno (al docente) possa cambiare il modo di vivere il rapporto con la materia insegnata e,
conseguentemente, con il proprio
ruolo di insegnante. Tale vissuto
appare un fattore molto personale
sul quale non sempre i docenti hanno il desiderio di riflettere.
Daniela Baraldi
Docente Centro di Formazione
Professionale – U. P. T., Trento
Le parole per dirlo
“A tutti coloro che oggi imputano la formazione di bande al
solo fenomeno delle banlieues, io
dico: certo, avete ragione, la disoccupazione, certo, l’emarginazione, certo i raggruppamenti
etnici, la dittatura delle marche,
certo, la famiglia monoparentale, certo, lo sviluppo di un’economia parallela e di traffici di ogni
genere, certo, certo… Ma guardiamoci bene dal sottovalutare
l’unica cosa sulla quale possiamo
agire personalmente e che risale
alla notte dei tempi pedagogici:
la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce,
perso in un mondo in cui gli altri capiscono.
Solo noi possiamo tirarlo fuori da quella prigione, formati o
meno per farlo.
Gli insegnanti che mi hanno salvato – e che hanno fatto di me
un insegnante – non erano formati per questo. Non si sono preocupati delle origini della mia
infermità scolastica. Non hanno
perso tempo a cercarne le cause e
tanto meno a farmi la predica.
Erano adulti di fronte ad adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non
ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora…Alla fine
mi hanno tirato fuori. E molti
altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro
la vita.”
n.5 maggio 2008
LETTO DA…
Un dirigente scolastico
Mescolando riflessioni pedagogiche e ricordi autobiografici, Pennac riesce a dimostrare come ha potuto capitalizzare i propri fallimenti trasformandoli nella capacità di comprendere la sofferenza dell’alunno in
difficoltà, mettendone in luce la fondamentale paura che blocca, che dà
risposte assurde e in cui si gioca la propria identità, restituendogli un
dolore fino ad allora inesplorato.
Vi si scopre la scuola con la prospettiva dello studente che la vive con
difficoltà, ma anche la scuola dal punto di vista del docente egli stesso
in affanno, alle prese con dilemmi e situazioni per le quali sembra non
trovare chiavi di accesso, e stimola la riflessione sulle difficoltà odierne
della scuola e dei suoi operatori.
L’occhio del professore
ex studente “somaro”
L’angolazione insolita del professore ex studente “somaro” mette
in luce il senso di impotenza e di
inadeguatezza che vivono spesso i
docenti alle prese con ragazzi difficili, con i conflitti generazionali, l’integrazione, le modalità a volte violente di contestazione, della
messa in discussione del principio
di autorità da parte dei giovani, le
inefficienze del sistema scolastico,
l’immagine sociale del ruolo docente che ha perso via via prestigio, con ovvie ripercussione anche
motivazionali.
Pennac fa riemergere il problema dell’insegnamento che si trova
a combattere con le armi spuntate del sapere, del bisogno di sapere nelle sue varie forme, della necessità di risvegliare nel bambino il
bisogno di aprire la mente, la concorrenza della società consumistica che fa passare come fondamentale il solo bisogno di comprare e
di apparire conformandosi, omologandosi.
Quasi ovvio constatare il disagio
dell’insegnante che rilette la realtà
della stessa scuola e della società,
tanto che recenti indagini hanno
stigmatizzato come una minorann.5 maggio 2008
za anche non trascurabile di docenti soffra di vera e propria depressione. Se una minoranza soffre
di burn out non si può certo generalizzare all’intera categoria un logoramento da stress professionale,
ma è indubbiamente legittimo affermare che un certo disagio è comune a gran parte dei docenti.
Insegnanti e disagio
Anche il dirigente, che insegnante non è più, ma che immerso
nell’educazionale a stretto contatto
con gli insegnanti della sua scuola, riscontra nell’azione quotidiana
atteggiamenti, commenti di sconforto, una ricerca continua delle strategie per uscire da situazioni
difficili nelle classi, per individuare fili conduttori motivazionali in
grado di stimolare gli alunni che
manifestano disagio e sofferenze
relazionali e tutti gli altri che hanno comunque bisogno di stimoli,
di modelli autorevoli e di orizzonti educativi certi e di supporti per
contrastare una diffusa incapacità
di sopportare normali frustrazioni,
la mancanza di impegno, di tenuta
nello studio e nell’attenzione. Per
questo i docenti più attenti sono
chiamati a svolgere un ruolo educativo che deve porre rimedio alle
carenze di autorevolezza di molte famiglie, farsi carico di problematiche psicologiche e sociali che
sentono ulteriori rispetto a quelle tradizionalmente professionali
dell’insegnare.
Da qui quel certo malessere manifestato dai docenti, che reagiscono con la forza di chi crede nella
propria professione, nel valore e
nell’importanza del proprio ruolo,
rimotivandosi continuamente di
fronte alle difficoltà del quotidiano e alla complessità del mestiere,
rafforzando le proprie competenze non solo di ambito strettamente
disciplinare ma anche relazionale,
comunicativo, organizzativo per
fronteggiare i problemi dell’apprendimento, della carenza di motivazione nei ragazzi, dell’educazione degli studenti, rispondendo
ai continui e profondi mutamenti
della società.
Grandi e recenti cambiamenti sociali e strutturali dell’istituzione
scolastica hanno ridefinito di fatto la professionalità del docente ed
hanno contemporaneamente generato fattori di incertezza di ruolo e di pratica professionale. L’immagine sociale della scuola stessa si
è modificata in senso progressivamente negativo per cui la scuola fa
notizia spesso per episodi scandalistici mentre rimangono sottotono
analisi qualitative e problemi ben
più significativi. Come non pensare a ripercussioni negative anche
sull’immagine dei suoi operatori
e nella percezione negli stessi del
proprio ruolo?
Le cause del malessere
Nel contesto pedagogico istituzionale e sociale più allargato si possono individuare alcune cause di
tale malessere da ricondurre essenzialmente alle trasformazioni sociali, ad una generale perdita di
credibilità ed incisività della scuola
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e dei suoi valori educativi tradizionali, con un’interlocuzione talora difficile con le figure genitoriali,
per cui i docenti vedono vanificare
i propri sforzi e sperimentano un
senso di impotenza o di inadeguatezza di fronte agli insuccessi dei
propri alunni.
Altri fattori di disaffezione sono
da ricondurre alla situazione lavorativa del docente che non prevede sviluppi di carriera e presenta
un prestigio sociale venuto meno
negli anni, una scarsa considerazione sociale cui si aggiunge una
tendenza all’egualitarismo già presente nella categoria e che non premia il maggior impegno se non in
termini accessori, quindi non motiva in modo profondo e non determina quelle diversificazioni
qualitative che arricchiscono e stimolano lo sviluppo delle proprie
e altrui competenze professionali.
Vanno contrastate inoltre le chiusure individualistiche nella classe
che impediscono il confronto professionale che fa crescere le buone
pratiche e la ricerca educativa e didattica condivisa e diffusa che nel
lavoro di team trova forma e riconoscimento.
Non ultimo emerge il disagio legato al continuo altalenarsi di dispo14
sizioni e cambiamenti normativi
anche contraddittori o inversioni
di tendenza conseguenti a mutamenti di indirizzo politico che intendono incidere su dati strutturali, riforme e controriforme che
azzerano ogni precedente innovazione o viceversa l’annullamento
di qualsivoglia cambiamento che
porta ad immobilismo e a sensazioni di incertezza e di attesa.
Nonostante tutto…
Ciò non significa rifiuto delle riforme e delle innovazioni ma esigenza e richiesta di introduzione delle stesse seguendo criteri di
efficacia in ordine ad adeguatezza
dei tempi e coerenze attuative, accompagnate dalla formazione degli operatori che devono esserne
protagonisti perché chiamati ad
attuarle.
Nonostante il quadro poco stimolante gli insegnanti proseguono
trovando motivazioni intrinseche
al loro lavoro, cercando di svolgere al meglio il proprio impegnativo compito nella consapevolezza dell’importanza del ruolo che
rivestono per l’apprendimento e
per la formazione degli allievi per
il significato profondo che l’inse-
gnamento e la relazione che si instaura condizionano fortemente il
vissuto dei ragazzi e il loro sviluppo futuro.
In questo Pennac ha colto nel segno sottolineando la grande importanza del lavoro dei docenti
che devono infondere il desiderio
di imparare, di risvegliare nel bambino il bisogno di aprire la mente,
di aiutare lo sviluppo e l’apprendimento dei ragazzi anche quando
l’impresa sembra destinata a fallire, anche dove sembrano mancare
risorse e competenze non acquisite nel proprio percorso professionale. Suggerisce di evitare di ricercare colpevoli riconducendo a chi
ha preceduto o più genericamente a cause esterne incolmabili le
colpe di mancati apprendimenti,
in sostanza aprendo le finestre per
far volare le rondini sulle loro rotte e rianimandole quando alcune
ugualmente cozzano sulle trasparenze ingannatrici dei vetri , come
nella metafora che chiude il suo
scritto, e con la costanza della passione che anima il proprio lavoro.
Matilde Crollo
Dirigente scolastica Istituto
istruzione superiore
“A. Rosmini” Trento
n.5 maggio 2008