La soluzione alla crisi? Una banca dell`innovazione L

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La soluzione alla crisi? Una banca dell`innovazione L
"La soluzione alla crisi? Una banca dell'innovazione
L’argomento che voglio trattare è l’innovazione, come sapete.
Un’innovazione è sempre l’adozione, estesa o comunque significativa, di una nuova pratica all’interno della
società o di una comunità.
Non è mai l’invenzione di qualcosa che poi non viene adottato.
Un altro punto: è fare a pezzi questo argomento fin dalla sua nascita, ipotizzando che ogni innovazione tragga la
propria origine da una scoperta di uno scienziato o di un navigatore, cioè di persone al di fuori del settore del
commercio; e tutti i progetti innovativi hanno successo perché i finanziatori hanno la sorprendente abilità di
identificare i progetti che avranno successo e di rifiutare quelli che invece si riveleranno un fallimento. Anzi, gli
studiosi hanno scoperto che la mole del cambiamento economico è il risultato di innovazioni, piccole o grandi che
siano, che nascono all’interno dell’economia.
La medicina ne è un incredibile esempio. E, come ben sanno le persone che si occupano di affari oppure i liberi
professionisti, la maggior parte delle nuove idee non viene affatto sviluppata, e molti dei prodotti appena
sviluppati non costituiscono un’innovazione degna di nota all’interno dell’industria.
È paradossale che il mondo sia affascinato dall’innovazione quando i tentativi di innovare finiscono quasi tutti per
fallire, anche se pare che continuiamo a percepire la spinta innovativa come importante e degna di ottenere
sostegno aggiunto.
L’innovazione è importante anche dalla prospettiva di una teoria estremamente convenzionale su quale sia la
struttura economica e su come funzioni. La produzione di beni capitali è il vero datore di lavoro, stando a ciò che
affermavano i sostenitori austriaci e svedesi della teoria del capitale; in contrasto, la produzione di beni da parte
del consumatore fa un uso grandissimo del capitale e pochissimo del lavoro.
Guardando le ondate in innovazione percepite fino a ora, come ad esempio quella della seconda metà degli anni
Novanta, notiamo grandi avanzamenti nel modo in cui il capitale viene utilizzato per produrre beni di largo
consumo. Questo fa abbassare tantissimo il prezzo dei beni di largo consumo: in altre parole, alza i prezzi effettivi
che i produttori di beni di largo consumo possono ottenere. In questo modo si ha un incremento dell’attività di
investimento, oltre che della quota del lavoro.
Immagino che direte: “ Va bene, ma con tutte le buone cause a cui dare sostegno, perché il governo italiano
dovrebbe dare così tanto valore a una ‘buona economia’ se vuole sostenere l’innovazione?” La mia risposta è che
senza questa ‘buona economia’, chi vi partecipa non può avere la prospettiva di una buona vita, e invece per poter
aspirare a ciò, le persone hanno bisogno di essere stimolate da nuovi sviluppi, di essere coinvolte in nuove
problematiche, di partecipare a nuove sfide, di trovare una crescita personale in questo processo e di avere la
possibilità (che è esattamente ciò che tutti vogliamo) di fare la differenza, di ottenere qualcosa. (Proprio in questi
giorni stiamo assistendo a forti proteste nei Paesi arabi proprio alla luce di questi bisogni). Come continuo a dire
dal 2006, un paese ricco non rende giustizia alla potenzialità della sua popolazione per il senso di
autorealizzazione, di scoperta di sè e di integrazione, se non attua un profondo esame delle sue istituzioni, del suo
atteggiamento e delle sue convinzioni in modo da trovare dei modi per sostenerne il dinamismo.
Immagino anche che ci si chieda se c’è davvero un collegamento tra la capacità di innovazione dell’economia – il
suo dinamismo – e la soddisfazione e il senso di appagamento dell’uomo. Ho passato molto tempo cercando di
capire le differenze che ci sono tra un Paese e un altro in termini di senso di dovere nei confronti del lavoro e di
soddisfazione lavorativa nei Paesi ricchi. Per farla breve: secondo i dati raccolti negli anni Novanta, tra le nazioni
del G7, il posto più alto era occupato dal Canada, seguito da USA, UK e Giappone. La Francia occupava l’ultimo
posto, mentre la Germania era appena sopra. L’Italia, invece, si trovava nel mezzo. I dati relativi al 2000, che però
non includevano il senso di dovere, la soddisfazione nei confronti del lavoro svolto era massima nel Regno Unito,
poi venivano gli USA, la Germania e la Francia, mentre l’Italia era scesa all’ultimo posto. Questi risultati sono
coerenti con la mia tesi per cui se riscontriamo noia o mancanza di senso del dovere o di soddisfazione sul posto
di lavoro, è perché manca l’innovazione. L’Italia sembrerebbe il candidato ideale alla spinta
all'innovazione. Lo stesso vale per gli Stati Uniti, dove la soddisfazione per il lavoro calò a picco nel 2004 a causa
della fortissima competizione estera e di un declino dell’innovazione, che portò molte aziende a impiegare i propri
dipendenti in lavori che guardassero al futuro: sviluppo del prodotto, pianificazione strategica e così via.
Nella presente discussione, due sono i punti di importanza critica. Molti ci dicono che, anche se i navigatori
dell’epoca delle grandi scoperte e gli importanti scienziati dell’Illuminismo non esistono più, il governo centrale
di ciascuna nazione può (e dovrebbe) ricreare l’epoca della regina Isabella e quella più recente dell’agenzia
spaziale, la NASA, istituendo progetti di ricerca finanziati dal governo nel campo delle tecnologie verdi, dei
carburanti alternativi e della ricerca farmaceutica. Un inconveniente di questo approccio è che in un’azienda che
ha un contratto di ricerca finanziato dal governo, le idee nuove e radicali, idee che sono estremamente alternative,
difficilmente verranno sostenute e portate avanti. E le direzioni dettate da queste organizzazioni sovvenzionate
potrebbero tagliare fuori le visioni concorrenti. Forse la vera genialità delle economie moderne che emersero nel
19° secolo è che ottennero l’ innovazione di massa sostenendogli imprenditori nel proporre nuove idee,
richiedendo che queste nuove idee fossero vincenti grazie al pubblico, non al governo, e permettendo che queste
idee concorressero al sostegno di quegli imprenditori che avessero opinioni molteplici, in modo che quelle idee
ritenute sospette, a causa della loro carica innovativa, avessero la possibilità di sopravvivere.
Devo anche aggiungere che mi sono stupito ascoltando il discorso della settimana scorsa del Presidente Obama al
Congresso degli Stati Uniti, quando ha affermato che il “momento dello Sputnik” del 1961, che causò un enorme
investimento nella ricerca da parte degli USA, portò nel tempo a un innalzamento dell’innovazione nel settore
imprenditoriale.
Il secondo punto è che gli economisti di Washington non hanno quasi mai ragione quando affermano che sempre
meno imprenditori sono disposti a investire nello sviluppo nel momento in cui il prospetto della prosperità futura
si è offuscato a causa della crisi e, cosa ancora più importante, a causa dei problemi strutturali che hanno
paralizzato le economie di molti Paesi occidentali. Per cui per me ha senso che, in Italia così come negli Stati
Uniti, il governo richieda sostegno per l’innovazione e si sforzi di dare una spinta all’innovazione in campo
economico. L’importanza simbolica di un tale movimento potrebbe aiutare a spronare gli spiriti imprenditoriali.
Ormai da due anni continuo a suggerire che lo stato dia una spinta all’innovazione introducendo nel settore
finanziario delle nuove “banche” o altre istituzioni dedite a finanziare progetti aziendali nel settore economico,
inclusa la formazione di start-up per lo sviluppo di un carattere innovativo.
Anzi, sono andato oltre, suggerendo di fondare una nuova tipologia di banca. Non è insolito vedere istituzioni
finanziarie dedicate all’edilizia, all’agricoltura o alle esportazioni; è curioso, ma anche preoccupante, perché da
esse non deriva alcun dinamismo economico. Non c’è proprio consapevolezza da parte dell’opinione pubblica o
della legislatura che la maggior parte del dinamismo economico inerente alla struttura dell’economia stessa di un
Paese derivi dalla spinta innovativa della gente comune che fa carriera nel settore lavorativo! Per riequilibrare la
situazione suggerisco che il governo di ogni Paese crei un gruppo di banche dedicato a investire in progetti
imprenditoriali. Spesso ricordo al mio pubblico che la Germania, con la sua famosa Deutsche Bank, fece proprio
questo durante il periodo di enorme sviluppo economico del ventennio 1880-1900, quando le banche sostennero le
nascenti industrie di ingegneria elettrica.
Io continuo a sostenere questa proposta. Non sarà una panacea, credo invece che sarà un passo nella giusta
direzione che porterà a benefici concreti.
Una versione concreta di questa idea emerse durante una discussione con Leo Tilman. In questo progetto, lo Stato
dovrebbe dare un contributo iniziale alle aziende finanziate dal governo (GSE, government sponsored enterprise) ,
mentre queste ultime dovrebbero creare un sistema di nuove “banche” o altri enti.
Un’altra domanda è se per il governo questo non sia il tempo di risparmiare, piuttosto che spendere di più.
Io credo che la maggior parte delle spese annuali per questa iniziativa finanziaria sia un investimento che darà un
ritorno economico. Inoltre, tagliare le spese di governo non è un buon modo per aumentare l’occupazione.
Io sono convinto che molte iniziative dello stato dell’assistenza sociale siano controproduttive: indeboliscono gli
incentivi per lavorare e per correre rischi.
Una preoccupazione comune a molti economisti è se le spese da parte del governo per finanziare alcuni progetti
escludano ulteriori spese per il finanziamento di altri progetti in modo che il benefit, sempre che ce ne sia uno, sia
compensato dalla perdita di benefit di altri investimenti governativi. Io sono convinto che le azioni volte ad
accrescere l’attrattiva e a finanziare progetti innovativi non sminuiscano il valore di altri progetti di investimento
né si aggiungano al costo necessario per portarli avanti. Pensate al boom di investimenti degli anni Novanta (il
boom di internet): sì, potrebbe aver diminuito l’investimento nel settore immobiliare, ma di certo non è arrivato a
smorzare la crescita dell’occupazione.
Molte persone che lavorano nel campo della finanza si chiedono se sia una buona idea iniettare nel settore
finanziario un fondo di investimento per l’innovazione che magari svolgerà un lavoro pessimo, se confrontato con
quello delle iniziative imprenditoriali capitaliste o degli azionisti privati.
Prima di tutto non è chiaro se effettivamente questi svolgano un buon lavoro: richiedono tassi di interesse sempre
più alti, per cui i progetti meno concreti non hanno alcuna possibilità di essere finanziati.
Inoltre l’industria venture capital è soltanto una minima parte del settore finanziario, per cui è assurdo pensare che
il venture capitalism dovrebbe dipendere dal sostegno dell’innovazione di una nazione. Non dobbiamo puntare
agli standard più alti di finanziamento di progetti innovativi quando l’obiettivo più importante è di ottenere un
volume sempre maggiore di progetti di investimento incrementando la disponibilità delle loro finanze e forse del
loro costo del capitale. Infine dovremmo accogliere un nuovo investitore nel settore finanziario che, a seconda
della sua grandezza, voglia correre rischi, anche grossi, alla luce di un ritorno economico non indifferente.
Questo è un momento di crisi economica tanto per l’Italia quanto per molti altri paesi. In molti di essi, il ripristino
dello spirito di impresa e delle istituzioni economiche è la chiave per il ritorno alla prosperità e alla realizzazione
personale della gente. L’Italia è fortunata ad avere una cultura economica necessaria per la realizzazione di un
vero e proprio Rinascimento della creatività e dell’azzardo in campo economico. Quello che ora deve trovare
ordine sono le istituzioni che permetteranno all’Italia di riconquistare il proprio potenziale.