Ospitati nella preghiera di Gesù

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Ospitati nella preghiera di Gesù
Comunità pastorale Santa Maria Beltrade e San Gabriele ‐ Milano Ospitati nella preghiera di Gesù Magari a qualcuno suonerà strano, ma vi assicuro che è vero: più vado avanti nel cammino di preghiera e meno sono capace di pregare. Ricordo quasi con nostalgia le notti passate a vegliare da giovane o quelle in ginocchio in seminario; momenti di preghiera vissuti con trasporto e commozione. Come è povera a confronto – oggi – la mia preghiera. Sembra fatta di una fedeltà ostinata e insieme scoraggiante, di una disperata incapacità a raccogliermi davvero nel caos di una vita che corre sempre e non si sa perchè; cerco ancora di pregare, ma ogni volta mi perdo, non riesco a concentrarmi, e neppure riesco a raccogliere davanti a Dio la vita di tutte le persone per le quali vorrei e dovrei pregare. Da un po’ di tempo mi aiuta un esercizio che mi ha suggerito la lettura di un romanzo. È quello di “collocarsi in una pagina di Vangelo”. In quel romanzo il protagonista scopre che la “sua” pagina è quella di stare presso Gesù nella sua Santa Agonia: si sente al suo posto lì, a fianco dei discepoli che dormono mentre Gesù prega. Così da un po’ di tempo, quando prego, mi preoccupo molto meno della qualità della mia orazione, e provo semplicemente a lasciarmi ospitare nello spazio della preghiera di Gesù. Lui solo sa veramente pregare. In questa notte della istituzione della Eucaristia, in fondo anche noi non facciamo che questo: ci lasciamo raccogliere nella preghiera di Gesù che attorno ad una mensa e nel silenzio di un giardino prega il Padre e offre a lui la propria volontà e la propria vita. Già, perché anche Gesù ha sentito il bisogno urgente di pregare; e di farlo sia nel segreto di un giardino che insieme ai suoi amici attorno a una tavola. Egli prega per raccogliere le forze, prima della passione; prega per accordare con il Padre il cuore e l’anima. Anche la vita di Gesù sembra assediata da forze che la disperdono a la lacerano, e la preghiera è per lui potersi raccogliere, condizione per decidersi veramente. Ma in questo spazio intimo e travagliato della sua preghiera Gesù non raccoglie solo la sua umanità, le sue forze e la sua libertà; raccoglie anche i suoi amici, le persone che gli sono affidate, e alla fine raccoglie tutti gli uomini. Il male che incombe, la morte che lo aspetta, tutto sembra strappare dalle sue mani coloro che egli ama. E allora li raccoglie attorno a una mensa e li porta con sé – alcuni – nel segreto della sua preghiera nell’orto. Mi sembra sia una porta aperta anche per me. Questa sera voglio entrare nella preghiera così, e forse ogni volta è questo il luogo giusto per pregare: mi lascio ospitare da Gesù che prega lui per me e con me. Io semplicemente prendo posto in questo spazio che lui dispone per me. Ci entro come sono, distratto e confuso, discepolo e peccatore, spettatore che non sempre capisce quello che sente e vede. Ci porto anche la mia fragilità, le trascuratezze che mi fanno perdere occasioni e grazie. Ci porto le paure e tutto quello che non capisco. E in questo spazio misterioso mi ritrovo con altri discepoli, fragili come me, peccatori come me. Ci trovo una icona della Chiesa, spesso divisa e confusa, fatta di contrasti e di affetti, di scandali e di fede autentica. Una compagine di uomini – questa Chiesa che prega con Gesù – che sembra in preda alle divisioni e coltiva sogni di potere, troppo sicura e preoccupata di sé da non accorgersi – oggi come in quella notte – di quanto il Signore la ami, malgrado tutto. E il Signore mi ospita. Il Signore ci ospita tutti stasera senza chiederci di essere perfetti. Quando celebro l’eucaristia so che prego perché mi colloco nella preghiera di Gesù che si offre al Padre. Gli presto la voce, ripeto le sue parole: a volte con tremore e commozione, altre con distrazione colpevole. Ma so che non sono io che prego, è il Signore che prega in me e per me. E mi indica, con le sue parole, l’unica via per non disperdere questa nostra fragile vita, per non sciupare questa breve esistenza, la poca cosa che è la nostra vita ma anche l’unica che abbiamo. Il solo modo di non perdere la vita è consegnarla, spenderla, offrirla interamente, per amore. Per farlo – io che so bene di non essere capace di tenere insieme i miei giorni – devo semplicemente restare qui, nello spazio della preghiera di Gesù, tenacemente e senza alcuna presunzione. Lasciarmi ospitare ogni giorno, in ogni eucaristia che celebro; entrarci ogni volta come sono, felice o stanco, nell’affanno o nella pace, di giorno o di notte, da solo e insieme a tutti, perché tutto diventi – in Cristo, per Cristo e con Cristo – una offerta a Dio gradita, una preghiera dimentica di sé, finalmente sincera. I dadi dei soldati Ho conosciuto un uomo che collezionava reliquie. Ne teneva in casa un’infinità, custodite dietro vetrine pulitissime e ben ordinate. Chissà dove andava a scovarle ‐ mi sono sempre domandato ‐ e chissà se tutte erano autentiche. Mi parlava coi lucciconi agli occhi di questo o quel santo, del tal martire o della tal vergine di cui conservava una ciocca di capelli, un fazzoletto, un crocifisso da tavolo, una corona del rosario. Il suo sogno ‐ mi diceva ‐ era quello di essere trasportato con un macchina del tempo a Gerusalemme nel giorno della morte di Cristo, per raccogliere sulla collina del Golgota la ruggine di un chiodo della croce, qualche goccia di sangue da conservare in un’ampolla, tre spine della corona, una scheggia di legno staccata dal palo della condanna. Io inseguivo i suoi pensieri e i suoi sogni, e intanto mi domandavo: “cosa porterei via dalla scena della Calvario? Quale reliquia vorrei conservare nella mia casa per non perdere mai, nemmeno un minuto soltanto, la memoria della passione?”. Ci ho pensato sopra, ed ho trovato la risposta. L’evangelista Matteo ‐ citando l’Antico Testamento ‐ scrive così: “Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte”. Non oso chiedere di conservare per me il lembo del mantello, o uno scampolo della tunica di Cristo. Preferisco guardare per terra, e raccogliere i dadi dei soldati. Mi colpisce questo particolare terribile gettato quasi per caso nel racconto della passione: nelle dense tenebre che sovrastano la terra e nei lunghissimi istanti della sofferenza e della morte del Figlio di Dio c’è chi gioca a dadi, chi tira a sorte, chi butta nel fango un paio di minuscoli cubi per portarsi a casa un brandello di vestito, una tunica usata da indossare l’indomani. Gesù dalla croce guarda i soldati che tirano i dadi. E magari è tentato di pensare che hanno ragione quelli che dicono che Dio non esiste, o che se esiste non può di certo salvare nessuno. Non è forse vero che proprio Lui, il Figlio, sta morendo come un delinquente appeso a un palo ed il Padre tace, non interviene, non fa nulla, lo abbandona al proprio destino? L’ha buttato nel mondo come si getta un tiro di dadi; l’ha consegnato alla confusione e alla cattiveria dell’uomo. Poi ha ritratto la mano, e l’ha nascosta per sempre. È proprio vero che Dio vede l’affanno e il dolore, che tutto porta e tiene nelle sue mani? E i soldati, al contrario, non si curano di quell’uomo che sta morendo in croce: è più importante per loro vedere come finisce il gioco, chi lancerà il colpo vincente, piuttosto che assistere ad un’agonia non molto diversa da tante altre. Alla fine ‐ pensano ‐ morirà anche lui come tutti, poco importa se con un grido o una preghiera. Il male e il dolore non li toccano più, non sono questioni che li riguardano. Sostano senza nessuna pietà accanto alle lacrime, al sangue, allo strazio di un morente, concentrati su un gioco che strapperà loro un grido di vittoria o una bestemmia di disappunto. Tutto il resto non conta più nulla. I dadi dei soldati sono la reliquia dell’indifferenza dell’uomo e della disperazione di chi soffre. Ma è da questa reliquia che riparto e ritrovo speranza. Perché l’azzardo di questo gioco crudele mi rivela che posso accettare il rischio di scommettere su un Dio che muore così. Punto tutto su di Lui, su quel Crocifisso che mi rivela un amore inaudito, che posso solo guardare senza capire. Attraverso ‐ come tutti ‐ un’esistenza segnata dall’eccesso del male e da troppo dolore. Mi muoiono tra le mani le speranze, i sogni e i progetti si disfano, i desideri si dissolvono e si perdono in soffio. Cosa mi resta, alla fine, se non questa scommessa da giocare, questo tiro di dadi che è come un atto di fede? Scommetto su di te, Signore; quello che mi rimane lo gioco per te, anche se non ti capisco, anche se è buio, anche se non ha senso puntare tutto su un Messia sconfitto, su un Cristo sbeffeggiato e deriso, crocifisso tra i malfattori. È un tiro disperato, un azzardo senza speranza. Ma so che in questa partita della vita di cui nulla conosco e nulla comprendo Tu tieni tra le mani il tiro vincente. È difficile credere il venerdì santo. È duro fidarsi di Dio quando il dolore apre la porta della nostra casa e il Padre dei cieli è troppo distante, indifferente alla sorte del Figlio, dei figli. Ma proprio questa vita che a volte somiglia ad una partita a dadi dall’esito incerto, ad una scommessa che pare perduta per sempre, ritorna a commuovermi per l’azzardo di Dio, per lo spreco infinito di chi non getta nel mondo una manciata di cubi colorati, ma se stesso, fino a morire. Vorrei imparare a vivere così, senza calcolare troppo, libero dalla paura di perdere e di perdermi, in un gioco di cui Dio solo custodisce il segreto. Oggi, Signore, raccolgo i dadi dei soldati. Li tengo con me, come una reliquia preziosa, come la memoria della tua scommessa d’amore. Tre racconti di Pasqua Quest’anno la Pasqua è arrivata prima. Non è una questione di calendario: delle volte capita perfino a marzo, quando non si è ancora smaltito il panettone di Natale e i più pigri devono ancora disfare l’albero. La data non conta. È che mi sono capitati tre incontri che mi hanno regalato in anticipo la gioia della Resurrezione. Sono eventi da poco, segni quasi invisibili in mezzo al trambusto e alla frenesia della nostra città. Adesso ve li racconto. Ho fatto Pasqua con l’uomo coi baffi. Arriva una sera in fondo alla chiesa e aspetta. Non è un tipo che ha fretta. Ci sono le volte in cui lo sorprendo a pregare da solo, con calma, nella sua lingua misteriosa e lontana, come se il tempo non contasse nulla. Stasera è lì che mi attende, mi scruta mentre mi attardo a chiacchierare con la gente e a sistemare le pagine del lezionario. Quattro passi e sono da lui, ci salutiamo, ci scambiamo due battute, ci sediamo su una panca. Tira fuori dalla tasca una busta. Non c’è mittente, non c’è indirizzo. Ho capito che è per me. “Ho pensato che potevano servire a qualcuno”, mi dice. “Finalmente ho trovato un lavoro, e ho cominciato a guadagnare qualcosa. Nel quartiere ci sono tante persone che hanno bisogno. Questi sono per loro”. Non faccio nemmeno in tempo a riavermi dalla sorpresa che lui è già sparito; lo vedo genuflettersi e uscire di chiesa con passo tranquillo, un’ombra scura che si perde nella sera. Apro la busta. Ci sono dei soldi. Tanti soldi. Troppi per uno che fatica a campare, tra l’affitto da pagare e le spese per mantenersi. Sono “per chi ha bisogno”, mi ha detto, e mi verrebbe voglia di corrergli dietro e di darli a lui. È lui il povero, il bisognoso, quello che è costretto a vivere di poco o di nulla, a fare acrobazie per tirare la fine del mese. Faccio per alzarmi dalla panca ed inseguirlo, poi lascio perdere, perché ho capito. L’uomo coi baffi è dalla razza di chi non fa calcoli, come Maria di Betania quando versa il profumo sui piedi di Cristo, come Gesù stesso che sulla croce regala la propria vita per amore, senza aspettarsi nulla in cambio. L’uomo coi baffi mi ha regalato l’anticipo della Pasqua, una festa pensata per chi non è abituato a trattenere ma impara ogni giorno a perdersi con fiducia, per amore. Ho fatto Pasqua con la donna col bastone. La incontro mentre aspetta il semaforo verde all’incrocio tra viale Monza, via Varanini e via Crespi. Con la scusa di attraversare la strada insieme la prendo sotto braccio, e la ascolto. “Guardi che non mi sono dimenticata della chiesa” mi dice con il tono di voce eccessivo di chi sta diventando sordo. “È che da quando mi tocca usare questo ‐ e agita pericolosamente il bastone da passeggio ‐ esco sempre meno di casa, e devo stare attenta a non cadere ad ogni passo che faccio. E se fa freddo o piove la chiesa mi sembra più distante del Perù”. Magari non sa nemmeno dov’è il Perù ‐ mi scappa di pensare ‐ ma intuisco tutta la sua fatica e la sofferenza di non essere più lì, nelle prime panche a cantare e dire il rosario, a mettersi in fila per fare la Comunione. “Ma comunque si ricordi di una cosa” insiste la vecchia. “Io di notte non dormo perché ho troppi dolori, e al mattino mi alzo sempre presto. E siccome non so cosa fare, prego. Sappia che prima ancora che lei si svegli, io l’ho già affidata al Signore”. La vecchia col bastone è come le donne del mattino di Pasqua. Come loro anticipa le albe più tristi e difficili senza perdere la speranza. E se di sicuro non ha le forze e le energie per correre al sepolcro, la sua preghiera vola e la porta lontano. Da quando l’ho incontrata so che ogni mattino c’è chi mi pensa, mi sostiene, mi accompagna con la forza di un ricordo pieno di affetto e di fede. Anche questo è un anticipo della Pasqua: ogni giorno può essere giorno di Resurrezione se qualcuno non ha smesso di volerti bene e di deporre la tua vita nelle mani di Dio. Ho fatto Pasqua con degli amici sconosciuti, di cui non conosco il nome. È un sabato pomeriggio di quaresima, e mi reco in una parrocchia vicina per accompagnare un momento di ritiro spirituale riservato ad un gruppo di adulti. Mi presento in largo anticipo, come al solito, ed entro in chiesa. Un prete di colore sta terminando di presiedere un rito funebre, e l’assemblea è composta soltanto da uomini e donne dalla pelle nera, più scura delle notti senza luna. Siamo alla benedizione finale; il sacerdote ricorda brevemente la figura della defunta: una donna arrivata in Italia da poco, morta ancora giovane, forse pensando alla sua Africa, ai parenti, agli amici che aveva lasciato. Ecco, ora la messa è finita, e tutti i presenti si portano dietro la bara per uscire di chiesa. Due ragazzi suonano i tamburi, e tutti si mettono e cantare a e ballare una danza lieve e triste, una nenia di rimpianto e di saluto. Ormai siamo sul piazzale della chiesa. Piove, ma nessuno ci fa caso; tutti continuano a danzare e a cantare, ad agitare i fazzoletti per salutare l’amica che parte. La gente che passa per strada si ferma; qualcuno ride, molti rimangono incantati. È un addio pieno di dolcezza e di speranza, un arrivederci in cielo che conosce la sofferenza del distacco ma confida in un mondo futuro, dove di nuovo sarà possibile ritrovarsi e fare festa. Gli amici sconosciuti venuti da un paese lontano non si accorgono neppure di me e della mia commozione. E io so che mi hanno regalato ‐ anche loro ‐ l’anticipo della Pasqua. È possibile dirsi addio senza perdere la speranza; è possibile farlo piangendo e danzando insieme, con le lacrime agli occhi ma nel cuore una luce che non si spegne. Lo so: questi racconti sono cosa da poco. Eppure la Pasqua di Gesù la incontro così: nel gesto generoso di chi non fa calcoli, nella preghiera silenziosa dei piccoli e dei poveri, nel saluto denso di emozione e di fede a un fratello che parte, e che rivedrò soltanto in cielo. Sono i segni della Resurrezione, sono gli anticipi della vita futura che il Signore mi ha regalato e che stasera vi consegno con affetto, con riconoscenza, perché ciascuno di voi ‐ almeno un poco ‐ ne possa essere consolato. Dio, quanto mi manchi! Immagino cosa possa aver voluto dire per le donne e per i discepoli, per gli amici di Gesù, alzarsi quella mattina e cominciare un giorno senza di lui. Pensare che la vita continui anche in sua assenza, che il sole sorga ancora e lui non ci sia più! Dio, quanto avranno sentito la sua mancanza! Come si fa a vivere senza la presenza di chi ha voluto così bene, che tanto calore e colore ha dato alla vita! Questa “mancanza di Gesù” per ogni discepolo, e anche per noi, è ancora più dolorosa perché segnata da un profondo senso di colpa. Adesso lui non c’è più, e quando c’era io l’ho lasciato solo, l’ho abbandonato e tradito! Avranno pensato a questo quella mattina mentre andavano al sepolcro. È un pensiero che non ci è estraneo, che come una spina nel fianco rimane anche in me, per tutte quelle persone care che mi sono state date un giorno in dono e che ora mi mancano. Quando erano vicine, quando i giorni ci vedevano insieme, io non ho sempre compreso il dono della loro presenza, non sono stato all’altezza del compito che l’amore mi chiedeva. Ed ora che non sono più con me, ora soltanto sento e capisco davvero quanto bene ho ricevuto, quale grazia mi era data in dono… È così anche con Gesù, anche per me. Se penso a tutto il bene che mi ha voluto, alle grazie che non ha fatto mancare alla mia vita, alla chiamata con cui mi ha voluto vicino, ai giorni nei quali mi sembrava di essere così benedetto dalla sua presenza … sento un debito che non so saldare, mi sento ingrato, come chi non saputo vivere fino in fondo l’occasione più bella della sua vita! Gesù, quanto mi manchi! E forse tu mi dirai: “dov’eri tu, quando io c’ero, quando soffrivo per te, quando camminavo al tuo fianco, quando per te morivo?” Lo so Signore non ti ho amato abbastanza, e per questo la tua mancanza è ancora più profonda, ha il sapore di una occasione perduta e di una grazia sprecata. Questi pensieri, nel cuore delle donne come nel mio, avranno reso più pesante il loro passo verso il sepolcro. Ma cosa pensavano al ritorno dalla tomba? Dopo aver trovato il sepolcro vuoto, dopo le parole dell’angelo, dopo le apparizioni del Signore risorto, dopo la sua partenza e una nuova separazione, verso il Padre… dopo, quando riprendono il cammino ancora da sole, senza Gesù, come avranno fatto a vivere in assenza del Maestro? Perché il vuoto della sua assenza, la percezione di una mancanza non è sparita, non è del tutto scomparsa, ma si è trasfigurata. Il Risorto, infatti, non è una presenza che riempie il vuoto della separazione. Egli piuttosto lo rende un orizzonte di vita nuova verso cui camminare, nel tempo della sua mancanza. Inizia così un’avventura e una pagina nuova nella vita dei discepoli, delle donne e di noi dopo di loro. Ancora il Signore ci mancherà, ogni giorno di più. Ma sarà come il segreto di un mistero che ciascuno scopre vivo dentro di sé, sarà come uno Spirito che accompagna i giorni che ancora ci separano, come una forza che ci spinge a vivere in sua memoria, come una presenza – viva ma inafferrabile – che ci precede; sarà una presenza che qualche volta ci sorprende così vicina da lasciarsi toccare, ma che non si può trattenere, che ci anticipa verso un futuro dove ci attende. Gesù in questo modo rimane il grande assente, e si sottrae ai nostri occhi, come ai discepoli di Emmaus, ogni volta che lo sentiamo così intimamente vicino da scaldarci ancora il cuore. Penso, allora, a quelle donne, ai discepoli di Gesù, che ogni giorno, dopo la Risurrezione, si saranno alzati al mattino e avranno cominciato un nuovo giorno con la stessa ferita di una mancanza: “se Gesù fosse con noi, se vedesse con i nostri occhi le fatiche e le gioie della sua chiesa che cammina nella storia, se potesse essere con noi nelle prove e nelle sorprese che affrontiamo ogni giorno”. Dio, Gesù, come mi manchi! Cammino con te per le strade del mondo, nel tuo nome e per il tuo Vangelo, e ti porto dentro come la memoria viva di chi mi ha tanto amato, e ti aspetto ogni giorno come un dono inaspettato che mi attende dietro l’angolo di ogni strada, come la sorpresa che non posso prevedere ma che già mi prepari nei momenti più impensati. E ti cerco come l’amico che mi aspetta in fondo alla strada, per l’ultimo incontro, quello definitivo e pieno di vita. Mi manchi ancora, certo, come manca il maestro al discepolo quando deve cimentarsi nell’opera che ha imparato a compiere; mi manchi come l’amato all’amata che aspetta il suo ritorno; mi manchi come l’amico a cui raccontare le gioie e i dolori della vita per risentirli e riviverli ancora insieme. Mi manchi come la sorgente che alimenta la sete di vita che sento ancora viva in me. Ma la tua mancanza è diventata un desiderio struggente; la vivo come attesa trepida e non mi spaventa più. Mi manchi e ti cerco ogni giorno. Mi manchi, e cammino spinto dalla tua memoria e sostenuto dal tuo pane di vita. Mi manchi, ma sento che il tuo Spirito soffia forte nella mia vita e mi sospinge verso il futuro dove mi attendi, nei giorni nuovi che mi separano dall’incontro definitivo con te.