Canne al vento: un vecchio servo dalla trepidazione materna

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Canne al vento: un vecchio servo dalla trepidazione materna
INTRODUZIONE
Canne al vento: un vecchio servo dalla trepidazione
materna
Cosa c’è di più pacifico e sereno di un orto coltivato con
amore da un vecchio servo affezionato alla famiglia che
l’ha preso in cura come un fratello? «Ecco un campicello che sembra di narcisi ed è di patate, ecco le cipolline
tremule alla brezza come asfodeli, ecco i cavoli solcati
dai bruchi verdi, luminosi. Nugoli di farfalle bianche e
giallognole volavano di qua e di là, posandosi, confondendosi coi fiori dei piselli.» Un mondo pacificato, immagina il lettore, seguendo i movimenti lenti e precisi
del vecchio Efix dai pensieri semplici e affettuosi.
Ma basta approfondire la lettura per accorgersi che
non c’è niente di pacificato in questa terra dalle grandi armonie. Nonostante la delicatezza delle luci e del
vento – «Fra una canna e l’altra sopra la collina le nuvole di maggio passavano bianche e tenere come veli di
donna» –, nonostante l’elegante e grandiosa fissità delle
cose, la terra raccontata da Grazia Deledda è in perenne
tumulto e i personaggi non possono che conoscere sempre meglio l’inesorabilità del dolore e della pena.
Efix non è il narratore ma il corpo indomito che la
narratrice sceglie per raccontare una storia di tradimenti
e delitti impuniti, di prepotenze e umiltà, di vendette e
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miserie umane. Efix serve in casa Pintor da quando era
bambino. Conosce talmente bene le tre, anzi le quattro
sorelle da immedesimarsi con i loro desideri e le loro
paure.
Ha sperimentato il regime feroce e geloso del vecchio
padre che ha tirato su le figlie a furia di proibizioni e
divieti, ha assistito alla ribellione della figlia «ingrata»
e alla sua fuga verso il continente. Ha vissuto da vicino
la resa e la rinuncia delle altre figlie a ogni forma di
vita sentimentale, per stare vicino al genitore tirannico
e possessivo.
Efix ama le sorelle Pintor, si propone di tutelarle
quando muore il vecchio patriarca. La sua vita si divide
fra l’antica casa colonica e l’orto circondato dalle canne
che coltiva con amore, dividendo con Casa Pintor tutti
i frutti e gli erbaggi che esso produce.
Ma un giorno la calma di quella vita pacifica viene
turbata dall’arrivo di un telegramma temuto e atteso: il
figlio della sorella ribelle, morta recentemente, ha deciso di venire in Sardegna a visitare le zie. Il giovane e
bellissimo Giacinto arriverà infatti da lì a poco a rallegrare la casa delle zitelle Pintor. Così pensano tutti. Ma
la realtà è un’altra: la giovane bellezza del ragazzo, la sua
indolenza, la sua avidità, la sua incantevole debolezza
porteranno scompiglio e dolore, rovina e disgrazia.
Efix, come la Felicité di Flaubert, come la Maria di
Lalla Romano, è «un cuore semplice», una persona che
crede in Dio senza riserve intellettualistiche. Un uomo
portato a seguire le regole quando gli sembrano giuste,
a fare il bene del prossimo per una istintiva generosità
d’animo, senza mai un calcolo o una strategia.
Grazia Deledda, che crede, come Flaubert, come Lalla Romano, come Pascoli, come Pasolini, nella purezza
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degli umili, segue passo passo il suo personaggio, con
un’attenzione affettuosa ma priva di sentimentalismo e
di indulgenza, mettendo a nudo il cuore apprensivo e
generoso di un padre, anzi direi di una madre, perché
tutto in Efix rammenta la trepida dedizione materna.
Un uomo che, pur di non turbare il matrimonio della
sua diletta Noemi, è capace, proprio come racconta Plutarco di Democrito che ritardò la sua morte annusando
il pane fresco, di prolungare per due giorni la sua silenziosa agonia.
Canne al vento è un libro che si legge d’un fiato. E con
un gusto che non appassisce nel tempo. Eppure Grazia
Deledda non ha avuto comprensione e incoraggiamento dai critici del suo tempo. Benedetto Croce scrive:
«Grazia Deledda, con tutte le virtù che è giusto riconoscerle, non ha mai sofferto quello che può chiamarsi
il dramma del poeta e dell’artista, che consiste in un
certo modo energico e originale di sentire il mondo (per
questo si parla del loro mondo) e nel travagliarsi a dargli
una forma di bellezza». Insomma: bocciata! E che dire
di Emilio Cecchi che così la interpreta: «Nonostante
ella sia capace a cogliere e definire d’un tratto leggerissimo e a volte miracoloso movimenti estremamente
labili dell’emozione ed aspetti del mondo fisico che al
suo occhio son trasfigurati da non so che barbarica e
corrusca raffinatezza, il fondo della Deledda è istintivo,
presso che incolto. Le sue predilezioni della Bibbia, di
Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni, e del Verga,
stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto
che come un fatto letterario». Un’altra bocciatura.
Solo i sardi l’hanno veramente compresa e amata come
merita. Solo i sardi hanno capito la grandezza della sua
scrittura corposa e sensuale, lirica e sapiente, molto più
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vicina a un Thomas Hardy di Tess dei D’Ubervilles e di
Nel bosco (Woodlanders) che non al Gabriele D’Annunzio (idolo letterario di quegli anni) delle Novelle della
Pescaia o della Fiaccola sotto il moggio.
Proprio come in Thomas Hardy, le rocce, i torrenti, i pantani, la luna di questa corrusca Sardegna sembrano animarsi e rivolgersi ai vivi: l’acqua canticchia, i
boschi respirano, le rocce ballano, le nubi cavalcano, il
fiume «salmodia». I tralci carnosi corrono «avviluppandosi qua e là come serpi sotto le foglie», la luna nuova
«rasenta il muro del cortile» e pare voglia intrufolarsi
all’interno della casa, i quadri guardano anziché essere
guardati, le rondini passano sulle loro teste «come una
ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere». Una
campagna accesa, a volte talmente dinamica e mossa da
suscitare speranze e appagamento, a volte decisamente
ostile anche se luminosa e bellissima. Una natura eternamente gravida, pronta a partorire personaggi, oltre
che fantasmi, lucciole, spiriti maligni e panas, le laboriose donne morte per parto della leggenda barbaricina
condannate a lavare eternamente nel fiume i panni dei
loro bimbi mai nati.
I personaggi sono subito riconoscibili come figli di
quella terra, capaci di grandi rancori e grandi risentimenti, ma nello stesso tempo pronti a buttarsi nella mischia per difendere la propria maltrattata dignità.
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