La partenza Enrico si avviò, col suo grosso zaino in

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La partenza Enrico si avviò, col suo grosso zaino in
La partenza
Enrico si avviò, col suo grosso zaino in spalla, verso la
stazione dei pullman.
In circa tre ore sarebbe arrivato a Gamignano, paese dell’Appennino tra il Lazio e l’Abruzzo da dove avrebbe proseguito a piedi verso il suo “eremo”, un piccolo casolare in
pietra utilizzato, fino a un paio di anni prima, da un vecchio
pastore che non volle mollare il suo gregge fino a esalare il
suo ultimo respiro lì in mezzo agli arnesi per fare il cacio e
la ricotta. Il vecchio Adolfo, era questo il nome, restò fino
alla fine con il gregge in mezzo alle sue montagne nonostante nessuno dei figli volle continuare la tradizione di famiglia
e dedicarsi alla pastorizia. Erano ormai cittadini, con uno
stipendio sicuro, perfettamente inseriti nella società moderna o come diceva Enrico: Nella “immorale società” dove la
persona ha perso il primato sulla cosa.
Enrico viaggiava seduto vicino al finestrino e, guardando fuori, aveva la sensazione di essere all’esterno, di guardare una cosa dal di fuori, aveva la consapevolezza di aver
varcato una soglia; di essere uscito e di non sapere quando
e se ne sarebbe mai più rientrato. O meglio essere nel proprio dentro e tutto il resto al di fuori, essere un osservatore
di cose di un altro mondo.
Arrivato, in tarda mattinata a San Gaspare, una piccola
frazione di Gamignano, si fermò al forno solo il tempo per
l’acquisto di un paio di pagnotte calde. Nelle settimane precedenti la partenza aveva provveduto a rifornire il casolare
di provviste varie, per avere un minimo di autonomia. Tutti
prodotti secchi: legumi, pasta, riso, salumi, forme di cacio,
pomodori, patate e spezie varie, oltre, logicamente, fiaschi
di buon vino e una buona grappa.
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Ora gli toccava affrontare a piedi i sei chilometri che lo
separavano dal casolare: tre di strada asfaltata e tre di sterrato, che salivano dagli 800 metri di altezza del paese ai
1.200 metri del casolare. Sapeva che quel percorso, da lì in
avanti, sarebbe diventato il suo unico collegamento con la
società.
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Il casolare
Dopo un’ora di cammino ecco il casolare in pietra spuntare su un cucuzzolo verde a una cinquantina di metri dallo
sterrato principale e da un bellissimo fontanile, sempre in
pietra, con una bocca d’acqua incredibilmente limpida e leggera. Un piccolo sentiero dallo sterrato principale, vicino al
fontanile, saliva zigzagando fino alla porta del casolare chiusa da un catenaccio bloccato da un grosso lucchetto.
La costruzione era su due livelli: al piano terra un unico
stanzone, su una parete un grande camino con tutta l’attrezzatura per fare la ricotta e il cacio. Sulla parete opposta un
ampio lavandino in pietra il cui rubinetto era collegato a una
grossa cisterna esterna che raccoglie le acque piovane. Affiancata al lavandino una vecchia cucina economica alimentata a legna. Sulla parete tra il camino e il lavandino si trovava un vecchio divano letto o quel che restava di un divano e sulla parete subito di fianco all’entrata una grande credenza di legno piena zeppa di vecchie scodelle, tegami, padelle, mestoli, bicchieri e cocci vari. Di fianco alla credenza
c’era la dispensa con le scorte alimentari. Su alcune mensole di legno erano disposte le forme di cacio e appesi alle travi
del soffitto i salumi.
Di fronte all’entrata c’era una rampa di scale in legno
che portava al piano superiore. Una stanza mansardata con
due vecchie brande e relativi vecchi materassi di lana con in
mezzo un vecchio comodino di legno laccato e relativo ripiano di marmo scuro con sopra un lume a olio. Nella parete di fronte alle brande c’era una vecchia stufa a legna.
Le finestre nel casolare erano solo tre: due nella stanza
mansardata e una, più grande, al piano terra dove si trovava
il divano. Al centro della stanza davanti al camino c’era un
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tavolo di marmo con tre sedie di legno impagliate. Un’altra
sedia si trovava vicino a un vecchio settimino davanti alle
brande nella stanza mansardata dove c’era anche una vecchia cassapanca. Elemento che accomunava tutto nel casolare era appunto l’aggettivo “vecchio”. Le cose che si potevano definire vecchie erano le più nuove.
In questo ambiente il nuovo stonava, tutte le cose che arrivavano erano già vissute e anche loro rinascevano a nuova
vita. Enrico infatti pensava che il valore dato a ogni singolo
oggetto fosse basato sulla sua utilità: una cosa apparentemente non più utile perché rotta o troppo usurata per svolgere il
compito per la quale era stata fatta, il più delle volte tornava utile per qualcos’altro. Nel casolare le cose erano quasi
immortali, specialmente gli oggetti costruiti in metallo; quelli in legno invece quando non riuscivano a trovare un nuovo
utilizzo venivano destinati al sacro fuoco del camino e le
loro ceneri sparse al vento.
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L’arrivo e la prima notte
Enrico varcò l’uscio, mise lo zaino sul divano estraendo,
da una delle tasche, tabacco, cartine e fiammiferi e li appoggiò sul tavolo di marmo assieme a un bicchiere prelevato
dalla credenza e a un fiasco di vino rosso preso dalla dispensa. Aprì il cassetto del tavolo per prendere il cavatappi. Stappò il fiasco, riempì il bicchiere a metà e lo bevve in un sol
sorso. Versò di nuovo il vino nel bicchiere, questa volta riempiendolo quasi completamente, e si sedette sulla soglia di
marmo a guardare il panorama. Con calma si rollò una sigaretta e l’accese. In quel momento Enrico si sentì come sperava rinato, si sentì libero come mai prima di allora. Ora doveva imparare di nuovo a respirare, pensare, camminare,
guardare, annusare, assaporare ogni cosa come se fosse la
prima volta; anzi, era la prima volta!
Il mondo che stava osservando ora non poteva essere lo
stesso di qualche ora prima. Aveva sempre pensato che per
il mondo non ci fosse più speranza. Ora sembrava diverso,
invece, sapeva bene che si trattava solo di un pezzo di mondo
ancora non attaccato dalle metastasi dell’uomo, per questo
doveva dimettersi dall’umanità, almeno da questa umanità,
morire e rinascere altrimenti sarebbe stato lui stesso metastasi.
Calava il sole e doveva cominciare a organizzarsi per la
notte. Il camino era acceso, anche perché la temperatura, al
calar del sole, nel mese di marzo su quei monti, è praticamente invernale. Caricò di olio le lampade e decise che
avrebbe passato quella prima notte sul divano vicino al camino.
Svuotò lo zaino cercando di disporre ogni cosa nel posto
adeguato. Maglie, maglioni, mutande, calzini e indumenti
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vari nel settimino situato al piano superiore; tutto l’occorrente per la toletta vicino al lavandino. Si rese conto di aver
infilato nello zaino cose che in quella situazione molto difficilmente sarebbero potute tornare utili: la gelatina per capelli o l’acqua di colonia che in città usava ogni mattina prima
di uscire da casa.
Cenò con un piatto di pasta al pomodoro, un pezzo di
formaggio e un caffè corretto con abbondante grappa e si sedette di nuovo sulla soglia rollando un’altra sigaretta. Fumava e ascoltava il rumore del silenzio, che sarebbe diventato, da lì in poi, la colonna sonora della sua vita, della sua
nuova vita.
In solitudine non si parla, si pensa! Quando si parla
tanto si riesce a pensare poco e male e poi, alla fine, si resta
soli pur stando in mezzo alla confusione e a tanta gente. La
solitudine senza pensieri è una delle peggiori condanne e
porta inevitabilmente alla depressione! Stare in solitudine
per poter pensare è un premio per chi ha il coraggio e la
forza di farlo. Pensare è parlare con se stessi. Farlo in solitudine, in mezzo alla natura, lontano da condizionamenti,
rende tutto più semplice.
Enrico quella prima sera pensava alla solitudine come
premio, e non condanna, e al silenzio. Guardò il cielo carico di stelle, fino a quando, ormai a notte fonda, si trascinò
stancamente sul divano coprendosi con il sacco a pelo mentre le ultime braci ardevano nel camino.
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