Il mondo dei piedi freddi

Transcript

Il mondo dei piedi freddi
Il mondo dei piedi freddi un racconto di Max Mauro
da LA MIA CASA E’ DOVE SONO FELICE storie di emigrati e immigranti
Kappa Vu 2005
«Ogni tanto ho nostalgia di quella casa. Un giorno sono salito in macchina e sono
andato a vederla: fuori è rimasta la stessa di quando sono arrivato io, ma dentro
l'hanno un po' sistemata».
La casa di cui parla Naiaga è un vecchio casolare fuori Manzano. È immerso in un
boschetto di alti pioppi circondato da campi e in lontananza si scorgono le colline
coperte di vigneti. Stranamente, le sagome delle fabbriche di sedie che segnano il
paesaggio di questo paese di settemila abitanti a quindici chilometri da Udine, si
intravedono appena.
Detto così sembra un posto da cartolina, perfetto per un agriturismo esclusivo, in
realtà è un luogo disabitato da almeno quarant'anni. Quando Naiaga e alcuni suoi
connazionali senegalesi vi entrarono, nella primavera del 1990, non c'era acqua
corrente né elettricità. Mancavano anche le finestre. I cinque ragazzi giunti
dall'Africa avevano trovato lavoro in alcune fabbriche della zona ma una casa in
affitto per loro non c'era. Così, col permesso del proprietario, vennero "lasciati"
alloggiare nel casolare abbandonato. Almeno avevano un tetto. Ma poco o nulla più
di quello.
Oggi Naiaga abita con la moglie e i tre figli in un condominio di ex case popolari: ha
comprato con un mutuo ventennale un appartamento all'ultimo piano. Quel casolare
in cui ha vissuto per quattro anni gli è rimasto tuttavia nel cuore. Gli ricorda le
difficoltà a cui è andato incontro per farsi una vita in una delle zone più ricche e
produttive del Nord-Est italiano.
Nel momento in cui si paventò la possibilita di abitare nel casolare, da alcuni mesi lui
e altri quattro connazionali facevano i pendolari tra Trieste, dove dormivano in un
albergo vicino alla stazione, e Manzano. Le loro giornate erano molto lunghe:
iniziavano alle quattro del mattino, quando si alzavano e si avviavano a prendere il
treno. Alle sette erano a Manzano e a piedi raggiungevano la fabbrica. Alla sera,
dopo nove o dieci ore di lavoro, spesso perdevano l'ultimo treno utile, così dovevano
prendere quello successivo che arrivava a Trieste verso le undici. Prima di poter
andare a letto c'era tuttavia da espletare la necessità della cena.
«L'albergatore è stato gentile con noi», racconta Naiaga, «dopo qualche settimana ci
ha permesso di cucinare qualcosa in stanza, perché non potevamo andare avanti a
mangiare sempre cose pronte. Comunque quella vita era costosa. Dopo due mesi
avevo finito i soldi, tra albergo, treno e mangiare non mi rimaneva niente in tasca».
Decisero tutti assieme che dovevano trovare una casa a Manzano. Ma se per trovare
un lavoro ci avevamo messo due giorni, per una casa in affitto la ricerca sembrava
molto più difficile. Dopo le prime risposte negative chiesero "al padrone" se potevano
dormire in fabbrica, sul pavimento, "spostando le pedane", ma questi rispose che non
era possibile, era fuori legge. Andarono con lui in Comune, senza trovare una
soluzione, e pure dal parroco, che non aveva posto. La gente o non aveva case o era
diffidente verso gli stranieri, i primi immigrati africani che si vedevano da queste
parti.
La situazione viene confermata dal sindaco di allora, Giorgio Pozzetto: «Era un
momento particolare: da una parte c'erano gli imprenditori che chiedevano un aiuto
per alloggiare gli immigrati assunti nelle loro ditte, dall'altra c'era la gente che si
dimostrava ostile. Quando, un paio d'anni dopo, aprimmo il centro di accoglienza
utilizzando dei fondi regionali, ci furono forti proteste da parte di chi non voleva gli
immigrati».
La situazione si risolse quando qualcuno fece il nome di un imprenditore che
possedeva delle vecchie case e, forse, le poteva affittare.
«Siamo andati da lui e ci ha detto che aveva solo una casa vuota, dove non abitava
nessuno da quarant'anni. A noi non importava, bastava avere un tetto, ma lui insisteva
che non si poteva abitare lì. In quel periodo, alla sera ero così stanco e stufo che ogni
angolo che vedevo lungo la strada mi sembrava buono per dormire. Vista la nostra
insistenza alla fine ci ha lasciato entrare nella casa e noi abbiamo promesso di
sistemarla un po'».
I ragazzi si organizzarono per rendere abitabile la loro "nuova casa". Tapparono le
finestre con del nylon e del nastro adesivo, per terra misero dei tappeti. L'acqua per
lavarsi e cucinare qualcosa andavano a prenderla in un pollaio distante cinquecento
metri. Il problema più grande rimaneva, d'inverno, quello del freddo.
«Dormivo con dieci coperte e mi alzavo tutto sudato ma con i piedi freddi. Per tanto
tempo ho pensato che in Europa tutti dormivano con i piedi freddi».
Rimasero nel casolare per due anni e il proprietario non chiese mai un affitto. In
paese tutti sapevano della loro situazione, ma una soluzione diversa in tutto quel
periodo non venne fuori.
Naiaga è arrivato in Italia dal Senegal nel 1989. Nel Triangolo della Sedia, zona
produttiva compresa tra i comuni di Manzano, San Giovanni al Natisone e Corno di
Rosazzo, è giunto un po' più tardi, dopo aver trascorso circa un anno a Cagliari. Il suo
cammino di emigrante è per un tratto simile e quello di tanti altri per poi divaricarsi e
assumere delle caratteristiche originali. Ha un primato che nessuno gli ha ancora
riconosciuto e che lui, d'altra parte, non ci tiene a segnalare: è il primo imprenditore
africano nell'industria delle sedie. Guida, in società con un friulano, un'azienda con
cinque dipendenti che segue le fasi iniziali della filiera produttiva del Triangolo.
Quando lo conobbi, nel 2000, aveva da poco cominciato quest'avventura e mi colpì
per la determinazione con la quale perseguiva il suo obiettivo di "mettersi in proprio".
Nella zona del Triangolo della sedia risultano attualmente attive circa 900 aziende
che danno lavoro a 9mila addetti. Prima della grave crisi che ha colpito il settore
negli ultimi due anni, le imprese erano molte di più, circa 1200, e gli addetti si
aggiravano sui 14 mila. Viste le caratteristiche del comparto, costituito da 5 grandi
gruppi e da un'infinità di aziende piccole e piccolissime, non è facile avere dati
precisi. Le microaziende nascono e muoiono rapidamente, soprattutto di questi tempi.
Ciononostante, secondo il sindacato Fillea-Cgil, gli stranieri sono stabilmente più di
un quarto degli addetti. Rappresentano una realtà ormai radicata, ma poco integrata.
Un'indagine commissionata un paio di anni fa dall'amministrazione comunale di
Manzano per scandagliare la qualità della vita sul suo territorio, si concluse con una
definizione perentoria. I curatori definirono questo un territorio «letteralmente
dominato da una religione del lavoro». Per religione del lavoro si potrebbe intendere
un atteggiamento culturale dove l'attaccamento al lavoro, alla produttività, è sentito
come misura dell'accettazione sociale. In soldoni: più lavori, più sei. Non lavori, non
sei. Nei fatti le cose non sono tuttavia così semplici e la storia di Naiaga e dei suoi
problemi a trovare casa, stanno a dimostrarlo.
Ma come nasce in un ragazzo africano il desiderio di immergersi dalla parte
dell'imprenditore nella realtà produttiva di una piccola regione italiana, dopo aver
vissuto in un casolare abbandonato, ai margini della società? Per rispondere a questa
domanda è meglio ripercorrere assieme a lui il tragitto esistenziale che è culminato
nell'emigrazione.
(estratto)