ombre di cicatrici

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ombre di cicatrici
FANFICTION su CAPITAN TSUBASA
OMBRE DI CICATRICI
20 capitoli (conclusa)
Note: NC-18 – Dark - Lemon
Autrice: Akuma (indirizzo mail: [email protected] )
ATTENZIONE: questa fanfiction tratta argomenti riservati ad un pubblico adulto. Se continui a
leggere, ti prendi la responsabilità di dichiararti con più di 18 anni.
- I personaggi di questa fanfiction sono tutti maggiorenni, e in ogni modo si tratta di un’opera di
finzione che non trova alcun riscontro nella realtà. -
Ombre di cicatrici
Ci sono tempi, ci sono giorni in cui ci sembra di non poter sopportare la realtà ed allora non si desidera
altro che fuggire via... in un sogno eterno.
Ci sono pensieri, ci sono momenti in cui la vita ci pare una maledizione più che un dono, ed allora si
aspira unicamente a nascondere la coscienza in quel sogno eterno, dove le cose sono libere di muoversi
unicamente secondo follia.
CAPITOLO 1 – Qualcosa sta cambiando
Una goccia. Tante gocce.
La pioggia scendeva di traverso, la finestra si stava completamente bagnando.
Un'altra giornata grigia.
Sospirò ancora, distendendosi sul letto, poi chiuse gli occhi. Ancora una volta aveva litigato con suo padre.
Di nuovo un sospiro.
Accese la radio che stava sul comodino e cominciò a battere il ritmo di una canzone con le dita dietro la nuca. Eppure
pensava di averlo convinto che il calcio era la cosa più importante del mondo. Del suo mondo.
Già, il calcio. Malgrado tutti i battibecchi, i contrasti e gli accordi raggiunti senza in realtà arrivare ad un punto fermo,
sembrava che a suo padre non fosse mai andata giù questa decisione, così approfittavano di ogni minima sciocchezza
per scontrarsi. Da sempre.
La canzone terminò senza una vera e propria nota finale, lasciando che sulla sua scia ne cominciasse subito un'altra.
Odiosa. Davvero odiosa per i suoi gusti.
Allungò un braccio verso il comodino e consentì che la sua mano colpisse bruscamente la radiosveglia, che cadde quasi
per terra, pur rimanendo attaccata al muro e penzolando dalla presa di corrente.
- Maledizione!- fece con rabbia.
Si alzò di scatto e con violenza diede un calcio all'oggetto, rompendolo definitivamente in un tripudio di plastica e
scintille.
Ma non gli bastava, voleva seguitare a colpire qualcosa, desiderava sfogarsi, distruggere e basta, non pensare a quella
serpeggiante sensazione di frustrazione che gli aveva tutt’un tratto artigliato le viscere.
- Ken, scendi! C'è il pranzo!- la voce della madre, dal piano di sotto.
Al pensiero di mettere qualcosa sotto i denti, mi viene la nausea. E poi non ho la minima intenzione di rivedere papà.
Afferrò la giacca leggera e scese veloce le scale.
- Ken... dove... dove vai?- gli chiese la madre stupita, incontrandolo al pianterreno.
- Fuori.- rispose lui con noncuranza, afferrando un ombrello dall’affusolata anfora all’ingresso, infilandosi le scarpe e
uscendo sbattendo la porta - Ci vediamo.- aggiunse in extremis, senza tuttavia abbandonare la sua aria accigliata.
Una volta fuori aprì l'ombrello e si strinse nella giacca, muovendo i primi passi per la strada grigia e piatta.
Diciassette anni. Ken era già stanco di tutto.
L'estate lo annoiava, soprattutto quando pioveva.
Non poteva allenarsi con il Toho, riusciva a giocare raramente a calcio - dal momento che suo padre si preoccupava di
lanciargli occhiate piuttosto maldisposte ogni volta che prendeva in mano un pallone - e poi perché la sua squadra era
in vacanza.
Kojiro lavorava duramente anche d'estate, per la sua famiglia. Takeshi se ne stava in villeggiatura chissà dove, mentre
lui aveva scelto di non partire quell'anno.
Sempre il solito motivo: mancanza d’iniziativa. Forse avrebbe trascorso qualche giorno al mare con gli altri, ma ancora
non lo sapeva e decisamente il pensiero di organizzare qualcosa era arenato ben lungi dalla sua mente.
In quel momento stava camminando solitario e crucciato, gli bastava questo.
Arrivò a guardare distrattamente le vetrine, rigate dalle gocce di pioggia.
Considerò il fatto che, dal momento che aveva appena fatto a pezzi la radiosveglia, probabilmente gli conveniva
acquistarne una nuova.
Così entrò nel negozio più vicino.
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- Accidenti!!- esclamò.
- Avanti, vedrai che presto smetterà di piovere! D'estate è sempre così.- l'amica cercò di tranquillizzarla.
- Speriamo.- sospirò la ragazza bionda, appoggiandosi stancamente al muro.
Le due rimasero a fissare la pioggia scendere dietro la vetrina del negozio, così monotona da sembrare addirittura
silenziosa, e chiacchierarono un po', finché non una delle due non adocchiò una figura conosciuta.
- Ehi, guarda un po'! Quel tipo frequenta la nostra scuola.- sussurrò, scostandosi i capelli ricci ed indicando con gli
occhi un ragazzo poco distante, stando ben attenta a non svelare un interesse palese.
- Dici?- l'altra lo guardò distrattamente; che strano, l'aveva sicuramente già visto... ma dove? Aveva uno sguardo così
vuoto, quasi quella fosse una delle classiche giornate no che capitano irrimediabilmente quando si è già preda del
malumore.
- Ehi, ma quello è Wakashimazu!- affermò poi l'amica, riconoscendolo.
L’altra distolse lo sguardo da lui e i suoi occhi si posarono sull'espressione sognante della compagna.
- Wakashimazu?- ripeté.
- Esatto! Il portiere del Toho!- fu la risposta giuliva che le arrivò, accompagnata da un moto di emozione trattenuta a
fatica.
Il ragazzo, dal canto suo, si voltava in continuazione alla ricerca di un acquisto che il suo portafogli non avrebbe
disdegnato, ma non sembrava vedere nulla di interessante, finché non incontrò gli occhi di quella ragazza con i capelli
ricci che lo fissava sognante.
Fu un attimo. Alzò lo sguardo, spazientito, appena in tempo per trovarsi dinnanzi un volto decisamente estatico.
La bionda si occupò di tirare una poco gentile gomitata alla compagna, non appena si accorse che anche lui le stava
guardando.
- Eh... mi... mi sta fissando...- mormorò l'amica, arrossendo, ma non accennando minimamente a voler distogliere lo
sguardo.
L'altra scosse la testa con aria annoiata, mentre il portiere non pareva essere ancora arrivato a capire per quale
motivo quella ragazza si fosse fossilizzata su di lui in modo tanto esplicito e così seguitava a rivolgere loro
un’espressione interrogativa.
- Guarda un po'! Ha smesso di piovere! Io vado a prendermi un bel gelato!- esclamò ad un tratto la bionda, uscendo a
grandi passi dal negozio.
Una volta fuori respirò a pieni polmoni l'aria pulita e assaporò il lieve profumo della pioggia appena caduta. Le strade
erano tornate a brulicare di passanti, mentre il sole faceva capolino da dietro i nembi passeggeri.
- Accidenti! Avevo davanti un bel panorama! Perché sei uscita?!- la raggiunse l'altra.
- E tu perché non sei rimasta dentro, se proprio tenevi a quel panorama?- replicò scherzosa.
- Beh... non...- Ecco, lo sapevo. Non puoi muovere un passo senza di me, dì la verità, eh Mizuki?- continuò a prenderla in giro.
La diretta interessata si esibì in una smorfia contrariata, mentre l'amica cominciava a camminare lungo la strada con le
mani dietro la nuca e la borsetta che penzolava lungo la schiena.
- Ehi!! Non è vero!- E allora perché mi segui?- Smettila Eve!La bionda scoppiò in una risata divertita, mentre la voce seccata della compagna la pregava di smettere di
punzecchiarla.
Ken invece era rimasto nel negozio e, dalla vetrina, le seguì allontanarsi con lo sguardo.
Strano incontro, decisamente.
- D'accordo, allora ci sentiamo.- Contaci! Ciao ciao!La ragazza mantenne lo sguardo sull'amica finché questa non fu sparita dietro l’angolo, poi si diresse verso il campo.
Passò attraverso al cancello ed appoggiò la leggera giacca in jeans e la borsetta sulla panchina che di solito occupava
l'allenatore. Si stiracchiò, sospirando ancora una volta, poi sedette con le gambe aperte, chinandosi e tenendo gli
avambracci appoggiati poco sopra le ginocchia.
Si guardò intorno. L'erba del prato luccicava al sole, la pioggia andava e veniva in quel periodo, ma lei odiava gli
ombrelli, per questo per quanto forte potesse piovere non ne aveva mai uno con sé, soprattutto forte del fatto che
sembrava avere la sfortuna di romperli, perderli o vederli scoperchiare dal vento.
Così, nell’evenienza, andava a ripararsi sotto qualche tettoia spiovente, in qualche bar o, al massimo, indossava delle
giacche con un ampio cappuccio.
Quel giorno lei e la sua amica avevano deciso di uscire, ma erano state sorprese dalla pioggia ed erano state costrette
ad entrare in quel negozio, dove Mizuki aveva irrimediabilmente perso la ragione, incontrando quel tizio:
Wakashimazu.
Wakashimazu? Per Eve fu come un lampo, ecco dove l'aveva già sentito! Ken Wakashimazu era il portiere della
squadra in cui giocava Hyuga! Wakashimazu e Hyuga erano considerati i giocatori più promettenti del quartiere, la loro
equipe era quella dell’istituto superiore Toho.
Ecco perché quel nome non le suonava nuovo! Ed ecco perché Mizuki si era agitata a tal punto. Il Toho era la squadra
di calcio della scuola che avrebbe dovuto cominciare a frequentare dopo l'estate.
E così ho visto in faccia un gran campione... beh, dall'espressione addormentata non mi pareva proprio un fuoriclasse.
Chissà se avrò l'occasione di vedere anche Hyuga prima che inizi la scuola? E magari scoprire che la sua faccia è molto
più assonnata di quella di quell’altro tipo.
I pensieri della ragazza furono interrotti dalla vista di un pallone che rotolava sospinto dal vento sul selciato ancora
bagnato, a bordo campo.
Eve si alzò, lo recuperò coi piedi e lo ricondusse sull'erba. Si passò una mano sui pantaloni bianchi e si sistemò le
spalline della canottiera corta. Palleggiando giunse fino alla porta, per poi voltarsi indietro e scattare in avanti,
caricando il destro e calciando una cannonata. Il pallone transitò oltre lo scheletro della porta senza rete e si fermò
solo quando raggiunse la ringhiera degli spalti bassi, conficcandosi tra due sbarre di metallo.
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Le labbra della ragazza curvarono per disegnare un sorriso dai tratti soddisfatti, dopodiché alzò il capo e scorse una
figura indefinita che avanzava al di là del cancello, così si affrettò a correre alla panchina per riprendere le sue cose.
Gli passò accanto velocemente, come se stesse fuggendo da qualcosa.
Ken fu strappato ai suoi pensieri da quella saetta che gli sfrecciò di lato, sussultando si voltò e stranito la chiamò:
- Ehi!! Fermati un momento!La ragazza sentì richiamare la propria attenzione dalla voce del tizio che aveva appena superato. Probabilmente non ci
aveva fatto caso e aveva rovesciato qualcosa che gli apparteneva. Si infilò in fretta la giacca, una volta ferma si voltò
verso Ken con sguardo interrogativo, notando con stupore che non c’era nulla che non andasse e di cui scusarsi, ma
semplicemente quello era di nuovo il fantomatico Wakashimazu.
- Tu sei la ragazza di prima, vero?- Scusala.- si limitò a dire Eve, infilandosi le mani nelle tasche.
- Scusarla? Chi?- le domandò lui, mutando espressione.
- La mia amica. La ragazza con cui stavo quando ci hai viste nel negozio. Credo si sia presa una gran cotta per te.aggiunse con sguardo malizioso.
Il ragazzo ci mise un po’ per metabolizzare l’affermazione dell’interlocutrice, poi credette di arrossire e farfugliò.
- Una cotta per me...?- Ehi, non hai visto con che sguardo ti fissava? Credo l'abbia notato anche un cieco!- l’altra alzò un sopracciglio, di
nuovo stranita.
- Ma veramente io non...- Penso che tu sia uno di quei classici tipi che non si accorgono minimamente delle migliaia di ragazze che vi muoiono
dietro. Oppure fai finta di niente?- continuò a sorridere, con l’aria di chi la sa lunga.
- Non credo che queste ragazze contino un numero così stratosferico.- Ken alzò gli occhi, pensoso.
- Hai poca stima in te stesso, portiere!- replicò lei, portandosi le mani ai fianchi - Beh, ora devo proprio andare, mi sa
che ricomincia a piovere! Ti saluto!Eve mosse in fretta le gambe e corse via; proprio quando le prime gocce cominciarono a cadere, lei non c'era già più,
sparita oltre il caseggiato grigiastro. Non gli aveva lasciato nemmeno il tempo di salutarla, tantomeno di dare un senso
a quella fugace conversazione.
Ken era rimasto in piedi accanto al cancello, ma si affrettò ad entrare nel campo ed a sedersi sulle gradinate coperte.
Anche se aveva l'ombrello, non avvertiva alcun desiderio di far ritorno a casa. Davvero nessuna.
Si prese il viso tra le mani e sospirò. Una giornata fatta di sospiri.
Quel campo... quanti allenamenti aveva sostenuto lì con i suoi compagni. Quante volte si era messo alla prova
duramente per migliorare. E quanta fatica aveva fatto per diventare quello che era.
Il suo sguardo fisso verso l’indefinito mise d’un tratto a fuoco un pallone. Un pallone fissato tra due sbarre di ferro del
parapetto. Si alzò e lo afferrò con entrambe le mani.
Mentre tirava la sfera verso di sé, ebbe modo di constatare con meraviglia che questa era incastrata. Fece molta fatica
per riuscire a toglierla di lì. La forzò un’ultima volta e come per magia, finalmente, se la ritrovò tra le mani.
Giochetti stupidi di qualche ragazzino.
Wakashimazu si risedette stancamente sulle gradinate e lasciò cadere le braccia sullo schienale della panca,
discostando le ginocchia e piegando la testa all’indietro.
Ne aveva decisamente abbastanza di annoiarsi a morte, di cadere irrimediabilmente nell’apatia più totale, finché non il
sonno non lo sopraffaceva.
Decise su due piedi che quella sera sarebbe uscito. Sarebbe uscito e basta, senza programmare una meta ed una
compagnia precisa: gli bastava trascorrere fuori da quella casa il maggior tempo possibile.
Non aveva alcuna voglia di chiamare od incontrarsi con qualche amico. Sentiva il pressante desiderio di rimanere solo.
Era assolutamente un periodo nero. Pensava fosse uno di quei momenti d’insofferenza che passano gli adolescenti. Ma
Ken sopportava da troppo quella situazione, da quando aveva dodici anni.
Respirò l’odore d’erba bagnata e chiuse gli occhi.
Forse non avrebbe dovuto trattare in quel modo sua madre. Lei non aveva colpa di niente. Non si era mai opposta ai
suoi progetti, ai suoi sogni e l’aveva sempre aiutato.
Accidenti. Non riusciva a combinare nulla di buono. Non era nemmeno riuscito a trovare una dannata radiosveglia
nuova! E poi ci si erano messe quelle due curiose tipe a confermargli che il mondo era ben strano, la ragazza bionda e
l’altra con i capelli ricci.
Un momento: la ragazza che aveva appena incontrato l’aveva chiamato “portiere”, ma come faceva a saperlo, visto
che non la conosceva per niente?
Oh, già... di sicuro o ne aveva già cognizione o gliel’aveva detto l’altra. C’erano momenti in cui non sopportava
d’essere un personaggio semi famoso nel suo quartiere. Era tutt’altro che una star di Hollywood, eppure sapeva bene
che il suo volto era conosciuto.
Tra le altre cose, la biondina l’aveva manovrato per bene con quelle poche, semplici battute. Per quale motivo, poi,
l’aveva fermata? Gli era passata vicino così velocemente da mettere in allerta i suoi sensi.
“Di ragazze che vi corrono dietro ce ne sono tante!” , “Lo sai o fai finta di niente?” , “Hai poca fiducia in te stesso,
portiere!”
Aveva ragione. Aveva maledettamente ragione! E la cosa l’infastidiva parecchio.
Attese pochi istanti ancora, poi si alzò e percorse le ultime grandinate di corsa, scendendo sul campo con il pallone tra
le mani. Si fermò di scatto e lasciò cadere la sfera, colpendola con violenza. La palla attraversò il campo e si fermò
solo quando sbatté contro il muro dietro agli spalti opposti, rimbalzando e poi rotolando in discesa per frenarsi con un
sonoro splash sull’erba bagnata.
Ken respirò a fondo. Una folata di vento caldo mosse i suoi lunghi capelli scuri ed in quel momento parvero nere onde
di fluida ossidiana.
Poi prese l’ombrello, lo riaprì e si diresse verso casa.
Non aveva nemmeno mangiato.
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- Pronto?... Sì. Ken?... mi dispiace, stasera è uscito... oh, sì di’ pure a me... due giorni?... Ma certo, glielo dirò. Ciao...
ah, e auguri!La donna riappese la cornetta sospirando. Era preoccupata. No, non tanto per il fatto che Ken anche quella sera fosse
uscito senza nemmeno avvertire, più che altro perché aveva cominciato a comportarsi senza riguardo nei suoi
confronti e nei confronti del padre. Ed a dire il vero le due cose erano strettamente collegate.
Sperava con tutto il cuore che si trattasse solo di una fase della crescita, i problemi dei ragazzi sono più o meno
comuni a tutti, eppure l’apprensione di una madre è sempre unica ed esclusiva.
Si portò una mano al petto, gli occhi fissi ad un indefinito punto sul parquet nocciola.
Spero ti passi presto, figlio mio.
Il soffitto era buio come il cielo d’inverno, quella notte non c’era la luna.
Dovevano essere su per giù le tre, ma come poteva saperlo, visto che la sveglia era in frantumi?
Ken si alzò e raggiunse la finestra.
Appoggiato con i gomiti sul davanzale sgomberò la mente da ogni pensiero. Era ben deciso a non pensare a nulla,
tuttavia le immagini riaffioravano vive davanti ai suoi occhi: aveva riso e fatto baldoria con persone che probabilmente
non avrebbe più rivisto nemmeno lontanamente. Ma si era divertito, dopotutto. Era piacevole passare il tempo facendo
confusione, ridendo, sentendosi leggero, un signor nessuno. In questo modo dimenticava i brutti pensieri.
In ogni caso, però, quella notte era di nuovo solo. Era tornato solitario come quando era partito e tutto quello che
aveva fatto in quell’intermezzo gli pareva mille volte sempre più pesantemente effimero. Stava sbiadendo, lontano.
Perché suo padre non aveva mai accettato l’idea che per lui essere un calciatore fosse più importante che diventare un
karateka? Eppure gli era parso contento di vederlo giocare e vincere fino a qualche tempo prima... per quale ragione si
comportava in quel modo?! La vita non era la sua.
Ken voleva essere lasciato libero di poter scegliere, non era una di quelle crisi di ribellione contro i genitori, sapeva
benissimo che di momenti del genere avrebbero potuto esisterne milioni... ma non a lui. Lui viveva un’esistenza
continuamente in lotta con sé stesso, a causa dell’ostinato volere del padre.
Ecco. Di nuovo quella voglia incontrollabile di prendere a calci qualcosa.
Ma stavolta non si trattenne, decise su due piedi che sfogarsi non poteva fargli altro che bene.
Velocemente si rivestì e scese le scale, poi uscì di casa ed attraversò il giardino, giungendo all’entrata della palestra.
Fece scorrere l’ingresso ed entrò richiudendo la porta dietro di sé, con rapidità accese le deboli luci che si rifletterono
sul suo volto ora determinato.
Il giovane sospirò, chiuse gli occhi e rimase immobile al centro della sala. Era pronto: tutt’un tratto li riaprì con
decisione e sferrò una serie di pugni veloci all’aria, poi mosse rapidamente le gambe e prese a colpire con foga un
nemico invisibile.
Le dieci.
Il sole filtrava caldo tra le pareti semiaperte della palestra.
Ken aprì lentamente gli occhi e si guardò intorno, portandosi una mano agli occhi.
Si chiese come fosse stato possibile addormentarsi come un sacco di patate sul pavimento, poi ricordò... si era
talmente affaticato che non ce l’aveva fatta nemmeno a reggersi in piedi, così si era adagiato contro al muro e si era
lasciato andare trasportato dalla stanchezza.
Ma... quella coperta? Qualcuno era entrato in palestra e gli aveva gettato sulle spalle una trapunta leggera.
Sicuramente sua madre. Ken sorrise, alzandosi in piedi e stiracchiandosi. Fu come se il peso della sera prima fosse
lentamente scivolato via col sonno.
Quella mattina stava veramente meglio, avrebbe anche potuto sorridere a suo padre da quanto stava bene! La
raccolse e attraversò di nuovo il giardino, tornando in casa e incrociando la madre che parlava al telefono.
- ...no... oh! Un attimo! Eccolo qui. Te lo passo subito.La donna fece cenno a Ken di fermarsi e gli passò la cornetta. Questo la accolse con una mano, posando il palmo
dell’altra sul ricevitore per evitare che chi chiamava sentisse ciò che stava per dire alla madre.
- Buongiorno mamma! E... scusami.- sorrise lievemente - Grazie per la coperta.Poi rispose al telefono.
- Sì?... Kojiro!... certo che sto bene, e tu?!...La donna lo guardava esterrefatta, beh... pareva tornato il ragazzo di sempre e ciò non poteva che scaldarle in cuore.
Sapeva che quella notte il figlio si era allenato fino al mattino, ma non era andata a portagli nulla. Credeva che un po’
di solitudine gli avrebbe fatto bene. Infatti, era stato così. Si sciolse in un sorriso consapevole, realizzando che solo
una persona avrebbe potuto portargli quel lenzuolo in cotone...
La donna scomparve su per le scale, lasciando che Ken continuasse a discutere con l’interlocutore.
- Certo che ci sarò, quel ragazzino non vive senza di noi!- Perfetto e... ehi! Molla la cornetta! Sawada!!Ci fu una breve pausa poi Ken poté udire la voce squillante del giovane amico.
- Pronto? Ken??- Takeshi! Ridammi la cornetta!!- gridò Kojiro.
- Avanti, capitano!!- protestò l’altro.
- Sto parlando io!!- fece ancora il compagno.
Il portiere allontanò il ricevitore dall’orecchio per evitare che il suo timpano si smembrasse. Guardò il soffitto e sospirò.
Quei due erano una cosa impossibile... però quanto avrebbe dato per vedere Kojiro perdere la pazienza per una
sciocchezza del genere, con Takeshi, poi! Sul suo viso si disegnò un sorrisetto divertito.
- Ubbidisci al tuo capitano!- Ma la festa l’ho organizzata io!!- Vuoi mollare quest’affare?!- Neanche per sogno!!Ken sospirò di nuovo, spazientito.
- Vuoi finirla, Sawada?!- gridò - A questo punto faremmo prima a parlare di persona!Silenzio. Kojiro strattonò la cornetta e Takeshi fu costretto a mollare la presa.
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- Pronto? Scusalo Ken... allora, tornando al discorso di prima... ci sarai, vero?- Sì, ci sarò, non vi preoccupate.- E già che ci sei, porta anche qualche amica carina!- la voce di Takeshi suonò lontana ma chiara.
- Aspetta...- Kojiro appoggiò da qualche parte il ricevitore per poi rivolgersi a Takeshi - Ma la vuoi piantare?? È solo un
compleanno, non la fine del mondo! E ringrazia il cielo che oggi mi sono svegliato di buonumore o ti avrei già fatto fare
il giro delle consegne al posto mio!!- Wakashimazu, sei ancora lì?- riprese poi, sospirando.
- Avevo pensato di andarmi a fare un giro.- Io me ne andrei volentieri se non dovessi lavorare, comunque è deciso, mi fa piacere ci sia anche tu. Non so cosa gli
sia preso, sarà l’euforia dei miei diciotto anni, ma temo che nemmeno un esercito riuscirebbe a farlo star buono!- Lo sai com’è, ti stima moltissimo ed è felice per te.- Non sono abituato a festeggiare, devo dire la verità, però sembra che gli faccia così piacere...Ken sorrise. Il suo capitano era sempre stato severo e a tratti intransigente; gli procurava un certo senso di piacere
misto a calore famigliare sapere che alla fine aveva ceduto ad un’iniziativa del genere.
- Fa piacere anche a te, capitano, ammettilo.- Sì, beh, non posso negarlo. Ad ogni modo Sawada non sembra ancora completamente sedato, ti saluto, vado ad
occuparmene. A presto.I due si congedarono, mentre Ken seguitò a pensare che gli sembrava strano che Kojiro si fosse lasciato convincere da
Takeshi nell’organizzare una festa per il suo diciottesimo compleanno. Di solito era disinteressato a questo genere di
cose, ma fortunatamente doveva essere realmente di buon umore o semplicemente era diventato uomo, attento al
resto del mondo.
Aveva sempre posseduto un animo gentile sotto la corazza e, crescendo, questo aveva avuto modo di far parlare di sé,
lasciando che si distinguesse come senso del dovere, benevolenza e maturità.
Ad ogni modo la festa si sarebbe tenuta due giorni dopo a casa dell’amico più giovane, appena tornato dalle vacanze, il
quale si era offerto di organizzare ogni cosa. Stando a quanto aveva detto Kojiro, ci sarebbe stata tutta la squadra e
pure qualche ragazza.
Ken tornò in camera propria per prendere degli abiti nuovi. Spiegò tutto alla madre, che gli rispose che anche qualche
sera prima, quando lui era fuori, Takeshi aveva telefonato.
- Bene. Allora mi faccio una doccia e...- ...e dove credi di andare? Tu ci stai sempre ore sotto la doccia e ormai tra poco è mezzogiorno!- Mi hai letto nel pensiero! Vorrà dire che la radiosveglia nuova la comprerò questo pomeriggio!La madre finì di ripiegare la leggera coperta e poi scese in cucina, mentre Ken si dirigeva verso il bagno.
Si tolse la maglietta, scoprendo i pettorali tonificati e si massaggiò il collo. Decisamente si sentiva meglio... forse il
karate serviva a questo, a lasciare che la rabbia si scaricasse totalmente. Al contrario del calcio, che praticava per
amore totale per la disciplina, le arti marziali erano per lui una sorta di valvola di sfogo, oltre che d’occasione per
migliorarsi e migliorare le proprie abilità.
Entrò velocemente nella cabina trasparente della doccia e chiuse gli occhi, avvertendo il getto d’acqua tiepida battergli
sulla pelle.
Rilassante, davvero rilassante.
Se la prese comoda. Indossò una maglietta a maniche corte blu e un paio di pantaloni grigi, poi si mise un
asciugamano piccolo sulla testa e cominciò a muovere morbidamente la mano sui capelli.
Dopo pranzo tornò in camera propria a dare un’occhiata al portafogli, realizzando che aveva abbastanza soldi da
potersi permettere una sveglia nuova.
Lanciò un occhio all’orologio, considerando anche che avrebbe potuto recarsi in poco tempo in quel negozio di qualche
settimana prima. Col buonumore sarebbe riuscito sicuramente a farsi andar bene qualcosa, così uscì.
Sedette scompostamente sulla panchina e si accese una sigaretta. La fasciatura le dava fastidio, ma non se la sarebbe
di certo tolta.
Era una bella giornata. Bella davvero.
Quel giorno era uscita per disperazione, a casa non c’era nessuno e starsene da sola non era piacevole, almeno era
uscita a prendere una boccata d’aria. Guardò la sigaretta e tirò... già, una boccata d’aria.
Liberò il fumo dal naso, poi schiuse le labbra ed il resto passò di lì. Sarebbe potuta andare dall’altra parte della città,
dove stavano i suoi vecchi conoscenti, ma non aveva la minima voglia di prendere il treno, né di trascinarsi in stazione
o su e giù per qualche autobus semivuoto. Così stava limitandosi a ciondolare per quei quartieri senza meta.
Ci volle un attimo perché volgesse lo sguardo da sinistra a destra e notasse una figura conosciuta dirigersi giusto verso
di lei.
Toh, guarda chi c’è.
Rimasero ad osservarsi per qualche secondo con l’aria accorta di chi tenta di fare mente locale, poi lui si avvicinò quel
tanto che bastò per riconoscere il suo volto annoiato.
- Mi pareva che fossi tu.- Ci si rivede, portiere!La ragazza lo guardò negli occhi, che a sua volta la fissavano senza ostacoli a frapporsi. Aveva degli occhi nerissimi,
profondi come abisso... e decisamente diversi dal giorno del loro primo incontro.
- Sembri di buonumore.- commentò lei, facendo un altro tiro.
- Mh.- Ken alzò le spalle, sorridendo - Può darsi.In silenzio, soltanto qualche auto raminga attraversava lo stradone alle spalle della bionda, rompendo il canto delle
cicale con il rombo dei motori. I due erano passati alla fase del riconoscersi a vista ormai, anche se la ragazza pareva
piuttosto indifferente, a tratti ironica.
- Non frequenti il Toho, vero?- chiese infine lui, rompendo il ghiaccio.
- Tra un mese non sarà più così. Mi sono trasferita all’inizio dell’estate, prima vivevo dall’altra parte della città.- fu la
replica.
- Beh, spero che ti trovi bene qui.5
Ma che stai dicendo, stupido! Cos’è, un villaggio turistico?
Lei gli tolse tutti i dubbi con un sorriso.
- Sì, non è male.- Ehi, stiamo parlando da un po’ e non mi hai ancora detto il tuo nome. Io sono...- Wakashimazu.- lo interruppe, annuendo - So chi sei, abbastanza famoso da queste parti. Avevo già letto il tuo nome
e visto la tua faccia su qualche giornale. Ti chiami Ken, non è così.- Esatto. E tu...- Eve.- Eve.- lo ripeté più volte, nel tentativo di farsi avvezzo a quel suono esotico -...mh, è un bel nome.- Grazie.- distogliendo lo sguardo, l’altra si trovò a rispondergli senza aggiungere altro.
- Ce l’hai un cognome o devo chiamarti soltanto Eve?- fu la nuova domanda di Ken, di nuovo accompagnata da un
sorriso tra il cortese e il divertito.
- Springer.- Beh, piacere di conoscerti, Eve Springer.- le tese una mano, mantenendo l’altra nella tasca posteriore dei jeans. La
ragazza liberò le dita dalla sigaretta, portandola tra indice e medio opposti. Non era decisamente abituata alle strette
di conoscenza.
- Piacere mio, Ken Wakashimazu.- alzò le spalle, tentando di immedesimarsi in una situazione nuova e in cui non era
per niente abile.
Il portiere si scostò un ciuffo di capelli dagli occhi ed Eve si alzò, lasciando cadere il mozzicone per terra in un breve
scintillio di brace, prima di tacerlo con un piede.
- Dove andavi di bello, eh?- esordì nuovamente, schiarendosi la voce.
- Dovevo comprarmi una radiosveglia nuova, diciamo che ho praticamente disintegrato quella vecchia... e tu che fai?riprese lui, sperando e rischiando di non risultare ridicolo dopo quell’affermazione.
- Nulla. Semplicemente giro senza meta.- fu la semplice risposta che gli giunse, accompagnata da una nuova alzata di
spalle.
- Ti... ti andrebbe di venire con me?- le propose infine, portandosi una mano dietro alla testa.
Sto veramente invitando una ragazza a comprare una sveglia...?
- Okay.- fece lei, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. Non sembrava minimamente stranita dalla singolarità
della proposta, né dell’evento scatenante l’acquisto, tanto che Ken si chiese se avesse compreso davvero quello che le
aveva appena detto, oppure davvero per lei non faceva né caldo, né freddo.
Cominciarono a camminare parallelamente sul largo marciapiede di mattoni, superando le insegne di una pasticceria e
di una boutique, la quale esibiva sulla serranda un talloncino colorato che fungeva da ragguaglio per la clientela
riguardo il periodo di chiusura per ferie.
- E così ti piace frantumare le radiosveglie?- sorrise ad un tratto la ragazza, dissipando tutti i suoi dubbi.
- Allora, soddisfatto, portiere?- Mi accontento.Eve gustava tranquillamente un cono gelato all’arancia, mentre Ken si era portato la borsa di plastica bianca su una
spalla; avevano ricominciato a camminare.
- Che hai fatto al braccio?- si decise a chiedere lui. La fasciatura che la ragazza portava aveva attirato la sua
attenzione dal primo incontro e, dopo tutto il tempo che era passato dal giorno in cui si erano incontrati per la prima
volta, ancora seguitava ad essere stretta intorno al suo muscolo bicipite, tanto che il portiere si chiese se non si
trattasse di qualcosa di grave, se non avesse per caso dei punti sotto la benda.
L’altra si fermò di scatto, intontita come se fosse stata appena colpita in pieno da un fulmine. Ken, qualche passo
avanti, si voltò.
- Qualcosa non va?- le domandò, facendosi apprensivo.
- No, no. Tutto okay.- replicò infine Eve - Un piccolo incidente. Una cosa da niente... dì un po’ ma tu non sarai il figlio
del signor Wakashimazu, il proprietario della palestra di karate?Concitata, era riuscita a cambiare discorso.
- Già.- Ken sospirò piuttosto profondamente, tanto che lei non volle andare oltre, avendo notato perfettamente l’ombra
che d’un tratto era calata sul suo volto squadrato.
Si sedettero in un parco, poco più in là della gelateria dove la ragazza aveva comprato il coloratissimo cono alla frutta.
- Adoro l’arancia!- fece appagata, infilandosi in bocca l’ultimo pezzo di cialda.
Il portiere si appoggiò con la schiena alla panchina, mentre lei si accendeva un’altra sigaretta.
- Da quanto tempo giochi nel Toho?- gli chiese inaspettatamente, per il desiderio di fare conversazione.
- Circa cinque anni, ormai.Dopo la replica, Eve restò muta, lasciando che la brezza estiva le solleticasse la cortissima frangia.
Ken rilevò che questa giungeva appena al principio della fronte, in un taglio dopotutto molto femminile in cui le ciocche
ribelli avevano ben modo di farsi notare. I suoi occhi, invece, erano di un azzurro intenso, cerchiati al limitare dell’iride
da una spessa linea più scura e marcata, ed ora fissavano il vuoto indefinito. Di sicuro non era di origine giapponese.
Non desiderava sospendere quell’incontro verbale, dopotutto lo dilettava la sua compagnia: quel pomeriggio era stato
quasi piacevole.
- Gioco a calcio da quando avevo undici anni.- riprese quindi - Inizialmente giocavo nella Meiwa per migliorare la
tecnica del karate, però poi... beh diciamo che mi sono appassionato troppo.- E’ bello avere una passione?- fu la domanda leggera che sfiorò le sue orecchie. Una questione da nulla, forse anche
di circostanza, ma carica di una gravità che si confuse volutamente ed immediatamente con l’espressione distratta di
lei.
- Meraviglioso.- gli occhi di Wakashimazu s’illuminarono - Ci metto tutto me stesso in questo sport!Quando si voltò a guardarla, fu lieto di notare che al posto di quell’aria distaccata di pochi secondi addietro, ora sulle
labbra di Eve era disteso un sorriso pacato, quasi fosse un riflesso del proprio.
- Tu non hai una passione?- glielo chiese quasi incalzandola, con sollecitazione.
- Nh.- lei si strinse nelle spalle, limitandosi a sbattere le palpebre in cerca di qualcosa che corrispondesse al termine
ricercato dall’interlocutore.
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- Sì, un interesse, una mania, qualcosa di cui ti importa veramente.- con rinnovato entusiasmo, Ken aggiunse
particolari alla richiesta.
Dal canto suo, Eve assunse un’aria pensosa. Che cosa poteva interessarla davvero? A che cosa non avrebbe mai
rinunciato?
- Il disegno.- fece alla fine, semplice ed essenziale.
Questa volta quel Wakashimazu la stupì, spiazzandola.
- Parlamene.- limpido, il suo sorriso appassionato la investì.
Era la prima volta che qualcuno le chiedeva di parlare di qualcosa di personale che la riguardasse direttamente, solo
lei, nessun altro, senza nessuna sfumatura, nessun secondo fine.
Spense la sigaretta, anzi, la gettò lontano, lasciando che si estinguesse da sé.
- Io... io disegno da quando ero piccola. Quando ho in mano una matita, una penna... o qualunque cosa che scriva, mi
sento libera di poter tracciare linee che compongono un viso... un corpo... un oggetto. E i miei sentimenti... beh... li
esprimo così, credo.- gli rivolse il proprio sguardo azzurro, che in quel momento pareva essersi fatto quasi innocente.
Si alzò di nuovo per prima, tanto che Ken fu come destato da un sogno.
Inavvertitamente la propria attenzione fu rapita dall’orologio che portava al polso.
- Accidenti!- alzandosi di scatto, non trattenne un’esclamazione animata.
- Che cosa? Che c’è?!- la ragazza ne fu a tratti spaventata, così mosse un repentino passo indietro.
- Emh... - tra il divertito e il preoccupato, il portiere scosse il capo - di solito quanto ci si mette per comprare una
sveglia?- Non lo so... una mezz’ora, penso.- rispose lei, tentando di cogliere il motivo di quella strana domanda.
- Ecco. Credo che quattro ore siano un po’ troppe.- Quattro ore?- Eve sgranò gli occhi, afferrandogli il braccio e leggendovi l’esatto responso. La sua presa era decisa,
ferrea, le sue dita tiepide e levigate.
- Appunto.- lui si strinse nelle spalle.
- Accipicchia come vola il tempo!- l’altra si espresse ad alta voce con un’aria seriamente coinvolta.
- Beh, ora è meglio che vada, prima che mettano in giro delle mie foto segnaletiche!Ken fece per allontanarsi, ma all’ultimo momento rimase a fissarla giusto il tempo necessario perché gli balenasse in
testa un’idea.
- Hai da fare domenica?- lo soffiò d’un fiato, risoluto.
- Credo... credo di no, perché?- stranita, Eve alzò un sopracciglio.
- Ecco, volevo chiederti... un mio caro amico compie diciotto anni. Che ne diresti di venire con me alla festa? Ci sarà il
Toho al completo e le ragazze di qualcuno di loro. Gente simpatica.- aggiunse, sperando di essere convincente e di non
risultare fin troppo invadente con una persona che conosceva solo da poche ore.
- D’accordo.Questa volta fu lei a spiazzarlo, accompagnando la pronta replica con un immediato e spontaneo sorriso.
- Che?- Ken non seppe se esserne stupito o lusingato - Cioè, volevo dire... bene!Eve si limitò a sorridergli di nuovo, come divertita.
- Sai dov’è la palestra, giusto? Ti aspetto lì alle otto.- stabilì poi, convenendo che forse era il caso di tornare padrone di
sé stesso.
- Ci sarò.- confermò lei, strizzandogli un occhio.
Accidenti, ma cosa gli era saltato in mente?
Tutta colpa di Takeshi! Era stato lui a chiedergli di portare delle amiche, delle... ragazze.
Quella Eve non era sua amica, la conosceva da appena qualche ora, eppure le aveva proposto di uscire, come se,
arrivato il momento di salutarsi, avesse avvertito il bisogno di rivederla ed avere un nuovo contatto.
Okay, calma Ken. Dopotutto lo fai per Takeshi, no?
Dopotutto era lui ad essere come impazzito al solo sentir parlare di ragazze.
La parola ragazze lo ricondusse inevitabilmente a pensare a quegli occhi tanto strani e rari in Giappone. Azzurri, con
una vena di distaccata malinconia che non era riuscito a comprendere. Li avrebbe ritrovati di lì a pochi giorni.
Si passò una mano tra i capelli, affacciandosi alla finestra tenne le dita sul collo, fermando i fili sottilissimi e bruni che
gli scivolavano sulle spalle. Fissò i propri occhi scuri e penetranti al cielo e, per l’ennesima volta, si persero nelle
tenebre della sera appena nata.
Con un rapido movimento spostò la mano dal collo al davanzale, avvertendo il vento caldo della notte incombente
sfiorargli la fronte.
Un’altra giornata era giunta al termine e stranamente quel giorno era stato bene, non aveva avuto diverbi con suo
padre, anche perché praticamente l’aveva visto solamente a pranzo e a cena. E poi niente più problemi interiori... era
semplicemente tutto okay, come si suol dire.
Poteva addirittura sentirsi pronto a promettere a sé stesso che tutto sarebbe stato diverso e piacevole d’allora in poi.
Sarebbe andato alla festa per Kojiro col sorriso sulle labbra e... un attimo, a conti fatti tra pochi giorni sarebbe
sopraggiunto anche il proprio compleanno.
Già, possibile? Se lo stava addirittura dimenticando.
CAPITOLO 2 – Una festa per il capitano
- Wakashimazu?Il ragazzo si voltò di scatto e furono di nuovo occhi negli occhi.
- Ah, ciao! Cominciavo a preoccuparmi.- rispose, sollevato. Cominciava a pensare che Eve non sarebbe più venuta, che
avesse accettato l’invito con la ferma intenzione di non presentarsi, come si accetta di buon grado uno scherzo, una
futilità. E, beh, vederla dinnanzi a sé gli fece salire un gran senso di colpa per aver pensato male delle intenzioni di
una persona che dopotutto non conosceva neppure.
- Scusa il ritardo... è uno dei miei difetti peggiori!- disse lei, riprendendo fiato.
- Tranquilla, sono solo le otto e un quarto.- sorrise lui di rimando, dando un occhio all’orologio.
La ragazza gli lanciò uno sguardo indagatore. Sembrava sereno, un tipo solare.
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Gli occhi scuri sorridevano ed i capelli a ciocche corvine gli accarezzavano le larghe spalle. Aveva indossato una maglia
bianca e sopra un gilet di jeans senza maniche che teneva slacciato, lasciando intravedere i muscoli del petto, oltre a
quelli ben visibili sulle braccia nude.
Fisico da atleta, senza dubbio.
Si portò una mano nella tasca dei pantaloni neri e le sorrise di nuovo.
- Allora, andiamo. Non è lontano.La ragazza lasciò che Ken facesse strada, seguendolo lungo la via silenziosa. Era una bella giornata, la fine dell’estate
era quasi malinconica: poche persone per la via, vento caldo, quasi pesante, e tanta monotonia.
Nonostante questo, a lei piaceva un mondo. Era come se per poco tempo la città si trasformasse in un luogo
tremendamente lontano e diverso, solitario e silenzioso, del tutto trasformato.
- Di’ un po’, come hai detto che si chiama il festeggiato?- fece ad un tratto, le mani dietro la nuca.
- Hyuga.- rispose Ken, considerando che non le aveva detto il suo nome e forse avrebbe dovuto farlo prima.
- Hyuga, Kojiro Hyuga?- gli domandò stupita, slacciando la presa delle dita da dietro la testa bionda.
- Esatto.- annuì l’altro - Lo conosci?- gli venne spontaneo di chiedere. Eve alzò le spalle.
- No, cioè... di fama. Ne ho sentito parlare quasi quanto di te.- Non credevo di essere così famoso!- rise - Kojiro è un ragazzo molto serio, ma vedrai che lo troverai simpatico.Le labbra di Eve si curvarono in un’espressione pensosa. Pareva che avesse già perso l’interesse di parlare del
capitano, dopo aver risvegliato di nuovo in Ken quella strana sensazione di sentirsi celebre quando in realtà non si
considerasse affatto tale.
- E tu quando compi gli anni?- fece poi, lanciandogli un’occhiata.
- Tra due settimane, giorno più giorno meno.- fu la risposta che le arrivò.
La bionda alzò di nuovo le spalle, noncurante.
- Siete tutti più giovani di me, allora.Ken sbatté più volte le palpebre all’udire quelle parole, cercando di indovinare l’età della ragazza che stava
camminando al proprio fianco.
Media statura, capelli cortissimi in un taglio dopotutto molto femminile, le labbra piegate in uno strano sorriso.
Indossava una camicetta bianca a maniche corte legata in vita, sotto la quale portava un top rosso, pantaloni
altrettanto corti ed un paio si scarpe da ginnastica. Aveva ancora quella fasciatura stretta al braccio sinistro e... no,
stava decisamente andando oltre... occorreva analizzare anche il modo di vestire per capirne l’età?
- Giovani? E sentiamo, quanti anni avresti?- asserì alla fine, arrendendosi.
Eve sorrise ancora.
- Unh. Su per giù venticinque.- ribatté, alzando il mento al cielo.
- Stai scherzando, non è vero?- le chiese lui, allibito. Decisamente un numero piuttosto astronomico.
La ragazza chiuse gli occhi per un attimo, poi lo fissò.
- Ti sembra che io possa avere più di vent’anni?- scoppiò in una risata muta, non sguaiata, non rumorosa, quasi
classica, riservata - Ne ho diciotto, proprio come te tra qualche giorno.- riprese poi, ammettendo lo scherzo.
Ken trasse un sospiro di sollievo. Non sapeva come, né per quale motivo, ma il fatto che Eve potesse essere tanto più
adulta di lui lo metteva in soggezione.
- Okay, okay. Ci sono cascato.- sorrise con un cenno del capo, poi continuò - Allora quando la scuola riprenderà, sarai
nel corso superiore, immagino.- Corso superiore?- si domandò la ragazza, portandosi un dito sulle labbra - Non credo che avere quattro mesi più di te
sia un motivo valido per farmi frequentare un corso superiore, anche se lo ammetto, non pochi mi definiscono un
genio.- scherzando di nuovo, ricondusse le mani dietro alla nuca, questa volta appoggiandole al collo.
Quattro mesi?
Erano nati lo stesso anno.
- Non ridere, genio. Tanto tra due settimane ti raggiungo.- la provocò.
I due si guardarono con aria seria.
- Vuoi una sfida, eh portiere?- esordì lei, gli occhi si erano fatti decisi.
- Perché no?- replicò lui, guardandosi intorno - Lo vedi quell’edificio di mattoni in fondo alla strada? È lì che abita
Takeshi. E... ci arriverò prima io!- Credi che proporre una gara di corsa ad una ragazza sia un metodo sicuro per vincere?- sogghignò Eve - Ed invece
ho deciso di darti qualche metro di vantaggio. Comincia a correre!- Che? Qualche metro di vantaggio?!- esclamò lui, contrariato - Ti ricordo che io sono un calciatore esperto e sono ben
allenato nella corsa.- Come vuoi, ma poi non dirmi che non ti avevo avvertito.- di nuovo un’alzata di spalle - Andiamo allora!Eve mosse i primi passi decisi sul marciapiede scuro, cominciando a correre, seguita a ruota da Ken, che sembrava
non fare decisamente sul serio.
Okay, te la sei voluta. Guarda cosa so fare!
La ragazza contrasse i quadricipiti e scattò in avanti, lasciando l’avversario a dir poco allibito. Era sfrecciata via come
una saetta, in modo così intensamente silenzioso, oltretutto, che lì per lì non se n’era nemmeno accorto.
Per quanto potesse sforzarsi, Ken non riuscì a raggiungerla; perfino quando lei si fermò davanti alla porta di casa
Sawada, suonando come se niente fosse al campanello, lui era ancora là che correva.
Le aprì un ragazzino bruno che la squadrò attentamente, sforzandosi di identificarla.
- Ciao! Sei Takeshi, vero?- gli chiese, un’espressione spensierata sul volto.
- S... sì. - rispose lui, del tutto intento nella sua opera di riconoscimento - Scusa ma...Le stava per chiedere chi fosse, quando scorse Ken raggiungere la ragazza sulla soglia.
- Accidenti!- ansimò, cercando di prendere fiato - Ma come... sei un androide, per caso?!- Sono un’atleta, caro il mio portiere!- la voce di Eve gli giunse fiera e con una punta d’orgoglio, ovviamente si
addiceva perfettamente al suo volto soddisfatto.
Ken sgranò gli occhi, ancora piegato sulle gambe, non riusciva a capacitarsi.
In quel momento un ragazzo dai capelli neri raggiunse Takeshi alla porta.
- Takeshi, ma dove... Wakashimazu!- s’interruppe, notando il compagno - Ci stavamo giusto chiedendo dove fossi.Poi passò lo sguardo dall’amico alla figura femminile, ferma sulla soglia proprio al suo fianco.
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- Ah, certo. Ora capisco.- sorrise, assumendo un’aria maliziosa.
Kojiro era davvero di buonumore. Sembrava che avesse capito che compiere diciotto anni capita una sola volta nella
vita e le cose dovevano andargli anche particolarmente bene in quel periodo.
Aveva abbandonato la sua aria quasi lugubre, almeno per un giorno dell’anno e di questo i suoi compagni non
potevano che essere sollevati, un po’ meravigliati, ma senza dubbio contenti.
- Non ci presenti la tua ragazza?- gli chiese il più giovane.
- Lei è un’amica. Si chiama Eve.- precisò Ken, dopo aver ristabilito aria nei polmoni.
Amica? Ci conosciamo da così poco. E’ un tipo strano, l’avevo detto, io.
Un’insolita sensazione.
- Certo, certo... beh, io sono Takeshi Sawada e lui è Kojiro Hyuga, il nostro nuovo diciottenne. Entrate, su!- la
presentazione del più giovane non faceva una piega, oltretutto pareva essere diventato un perfetto organizzatore. Si
era calato perfettamente nella parte e, senza dubbio, gli riusciva anche piuttosto bene.
Dopo aver stretto la mano ad entrambi, Eve li seguì all’interno e prese a guardarsi intorno, tentando d’ambientarsi.
La stanza si presentava accogliente e spaziosa, era stata addobbata con semplici ma efficienti decorazioni, davvero ad
effetto, come del resto la musica, alta al punto giusto.
Si udivano anche le chiacchiere allegre dei presenti e le loro espressioni divertite contribuivano a rendere l’ambiente
piacevolmente caloroso; insomma, la serata si prospettava per tutti molto gradevole.
C’era da dire che Kojiro non amava le feste in grande stile, piuttosto preferiva starsene per conto suo, ma vista
l’insistenza degli amici e la situazione, questa volta aveva accettato di buon grado il fatto che Takeshi avesse
organizzato una festa per lui e - anche se non l’avrebbe mai ammesso - si era sentito anche piuttosto lusingato.
- Vieni, ti presento gli altri!- il portiere prese Eve per un braccio e la portò a conoscere il resto della squadra, il tono
tradiva l’impazienza dell’iniziativa.
- Come va?- le chiese, facendosi vicino e distraendola dal ripetere le parole della canzone che passava giusto in
quell’istante.
- Tutto okay!- rispose Eve, con un semplice sorriso - Non occorre che tu mi stia dietro. Va’ un po’ con i tuoi amici, mi
farò un giro.- aggiunse poi, portandosi una mano al fianco.
- Per me non è un problema se...- fece per iniziare lui.
- Ehi, portiere!- la voce della ragazza assunse un tono intimidatorio ed insieme scherzoso - Sono maggiorenne e
vaccinata, me la cavo bene anche da sola. Non voglio che poi i tuoi amici mi prendano come bersaglio per le freccette,
per averti tenuto lontano da loro tutta la sera.Ken scosse il capo con un sorriso e, scherzando, finì per dichiarare:
- Come vuoi, attenta però, perché ti tengo d’occhio!Dopodiché si allontanò con espressione risoluta.
Eve gli fece il saluto militare, poi si voltò ed il suo sguardo cadde inavvertitamente attratto da una ragazza seduta
stancamente su una sedia imbottita, non proprio in un angolo - anche se ci mancava poco - della sala. Incuriosita, le si
avvicinò.
- Ehi! Ci si annoia?- esordì, chinandosi lievemente su di lei e richiamando la sua attenzione.
Quella si scosse ed alzò il volto, incontrando gli occhi azzurri di Eve.
- Un po’... mi sento un pochino a disagio...- confessò, un tentennante.
L’altra si guardò intorno sino a notare una solitaria sedia libera poco lontano, così la trascinò fino a lei, sedendosi
accanto.
- Di sicuro conosci tutti meglio di me!- esclamò, una volta inforcata a cavalcioni.
La ragazza dai lunghi capelli castani le sorrise.
- Dovrei...- staccò lo sguardo dal pavimento e le tese la mano - Io mi chiamo Aya. Ayame Akimoto.- Eve Springer.- fece l’altra, stringendola - Accidenti, ho detto il mio nome a talmente tante persone oggi che mi
sembra la milionesima volta che lo ripeto!Il tentativo di farla sorridere sinceramente pareva aver funzionato.
- Non sei giapponese.- era un’affermazione più che una domanda, quella di Aya, ancora sorridente.
- Ah, si nota così tanto?- fu la risposta di Eve, mentre si passava una mano tra i capelli biondi. L’altra poggiò
elegantemente un gomito su un ginocchio ed il capo sulla mano. C’era qualcosa di soavemente signorile nel suo modo
di fare, naturale e decisamente affatto ricercato, a tratti principesca, muoveva le piccole mani ed il composto capo con
armoniosa grazia.
- Sei... la ragazza di qualcuno di loro?- chiese poi, facendo distrattamente cenno con gli occhi alle persone nella sala.
- No. In verità è stato quel tipo strano a portarmi qui.- indicò Ken con lo sguardo, con espressione bambinesca - E tu?
Non sembri divertirti molto.- Io...- Ayame arrossì - Dovrei essere la ragazza di Kazuki. Però il signor Sorimachi non sembra volermi fare molta
compagnia.- Beh, un punto in più alla teoria che gli uomini vivono in un mondo tutto loro!- rise Eve, appoggiandosi con gli
avambracci allo schienale della sedia.
- Già...- rispose Aya - il fatto è che io e lui ci conosciamo da una vita. Dovrebbe aver capito come sono fatta...- Oh, non farti di questi problemi! Pensa che io conosco Ken da molto meno... - Eve alzò le spalle - E già dice che sono
sua amica!- di nuovo quell’espressione sorniona sul viso - Immagino che tu debba pensare solo a goderti la fine
dell’estate, tutto qua, per ora. E’ quello che fanno tutti.Le due andarono avanti a chiacchierare ancora per un po’, poi un ragazzo dai capelli castani sulla fronte quasi
corrugata le raggiunse.
- Scusate ragazze. Aya, posso parlarti?- era Kazuki.
Ayame gli sorrise. Eve le fece l’occhiolino e poi si alzò anche lei, dirigendosi nella direzione opposta. Prese un bicchiere
di aperitivo dal tavolo imbandito e si diede un’ennesima occhiata in giro, alla ricerca di qualcuno con cui perdere
tempo: Ken si stava intrattenendo con un paio di suoi amici e Kojiro era stato appena lasciato da un altro tizio. Beh, il
festeggiato sarebbe stato un ottimo modo d’intrattenersi.
- Benvenuto nel mondo dei diciottenni, allora.- sorrise, avvicinandosi.
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- Grazie.- rispose quello, scrutando nei suoi occhi azzurri, poi una domanda gli sorse spontanea - Scusa ma... Ken non
mi ha mai parlato di te.- Ha poco di cui parlare a dire il vero. Ci conosciamo da pochi giorni.- fu la replica, del tutto naturalmente.
- Beh, bene...- fece Kojiro, non sapendo effettivamente che altro ribattere. Gli era parso strano che Ken non gli avesse
descritto il loro incontro ed ora si spiegava tutto. Un po’ insolito, però, anche per Wakashimazu.
- C’è di buono che comincerò a frequentare il Toho quest’anno. E se non altro grazie a lui un po’ di persone le conosco
già.- riprese Eve, notando il suo interlocutore in difficoltà.
- Anche tu all’istituto Toho. Anche se non mi sembri una che fatica a comunicare con gli altri.- ribatté lui, le mani ai
fianchi - Scommetto che diventerai una delle più grandi tifose della nostra squadra!- scherzò, stavolta con espressione
giustamente compiaciuta.
- Mh... e chi può dirlo?- sul volto di Eve balenò di nuovo quell’aria sibillina e un po’ maliziosa che Ken aveva già molte
volte avuto modo di ritenere particolare.
La raggiunse fuori dalla cancellata. Eve tirò dalla sigaretta.
Una scia di fumo grigio si alzò verso il cielo, disperdendosi nel nero della tarda serata. Si era fatta notte un'altra volta.
Il portiere si sedette sul muro senza dire nulla. Lei avvertì tiepida la sua presenza e alzò la testa, riuscendo a guardarlo
negli occhi anche nel buio della sera.
Mezzanotte e mezza. Quasi tutti se ne erano andati, Eve era uscita da qualche minuto e Ken non aveva tardato a
raggiungerla.
- Ti sei divertita?- le chiese dopo un po’.
La ragazza annuì, inspirando tabacco.
- Non credevo di potermi divertire così. Grazie.- sussurrò, temendo di destare il fastidio di qualcuno.
- Grazie? E di che? Sai, avevo paura che avessi difficoltà ad ambientarti, invece è stato tutto perfetto, dico bene?sorrise lui.
- Ora ci sarà il tuo di compleanno.- affermò lei, apparentemente non badando all’affermazione del ragazzo.
- Già. Avevo pensato ad una cosa in grande, magari sulla spiaggia... è bello essere nati in estate. Che ne pensi
dell’idea?- Perché lo chiedi a me?...- gli domandò Eve, stringendosi nelle spalle.
- Mi interessa il tuo parere.- replicò fermo Ken, il volto deciso rivolto alla notte.
L’altra fissò dritto davanti a sé, senza concedere al tempo di riprendere a scorrere con un battito di palpebre.
- Non male. Pensi davvero di farlo?- rispose infine, sospirando.
- Certo, perché no? Se partiamo tutti di mattina, faremo una bella festa sulla spiaggia e magari anche il bagno di
mezzanotte!La ragazza rise, trasportata dalla sua euforia. Le piaceva, dopotutto, quel programmare ed il lasciar correre a briglie
sciolte la mente ad episodi che ancora non erano avvenuti e forse non sarebbero avvenuti mai.
- Poi ti farò sapere, in qualche modo. Ora che sai dove abito potresti farti viva e...- azzardò lui.
- Vuoi veramente che io venga, portiere?- lo interruppe Eve, stavolta fissandolo direttamente.
- Mi farebbe piacere. Sì.- rispose lui, non perdendo il suo sorriso entusiasta.
- Perché?- la domanda suonò fredda.
Ed in quel momento Ken si fece serio.
- Credo che non ci sia niente di male nell’invitare ad una festa una persona cui trovo piacevole la compagnia.Eve sorrise di nuovo, ma le sue labbra non riuscirono a tenere un sorriso spontaneo... si fece cupa. Il suo viso bianco
divenne malinconico, tanto da farla voltare di nuovo verso la notte.
Nel buio Ken non fu sicuro di essere riuscito a distinguere bene i tratti, ma gli sembrò singolare com’era mutata
l’espressione sul volto di lei. Sotto la debole luce dei lampioni in lontananza vedeva solo i suoi corti capelli e una parte
del suo profilo silenzioso.
Scese dal muretto senza sforzo, infilandosi le mani nelle tasche posteriori dei jeans.
- Il mondo è strano.- cominciò - Pensi di conoscere una persona a fondo, da lungo tempo e poi questo assume degli
atteggiamenti o dice delle cose che mai ti saresti aspettato. E poi esistono le persone conosciute da poco, che però
pare di intendere da sempre... e si sente di potersi fidare...- Non dire assurdità. Non fidarti mai della gente. La gente è stupida, stupida e cattiva.- disse Eve, fredda e risoluta,
semplicemente.
Ken socchiuse gli occhi. Parole già sentite, parole di persone ferite.
- Ma se non si ha nessuno su cui contare, si rimane soli... e vuoti.- Si vive ugualmente.- la ragazza alzò le sopracciglia, in un’espressione consapevole, quasi altezzosa.
Wakashimazu non amava essere negativo, o perlomeno non sulle questioni capitali.
- Però si potrebbe dire che senza nessuno al fianco, l’esistenza perde di significato. L’interagire con il mondo fa in
modo che tu possa dare senso a quello che fai.- Ah, sì? Allora dimmi: qual è il significato della tua vita?- la voce di Eve era di nuovo tornata vuota, un una vena
capillare di disincantata sfida.
I due continuavano a parlarsi fissando dinnanzi a sé e quasi mormorando, ma le parole giungevano chiare alle orecchie
di entrambi. Ken chiuse gli occhi e ripensò al suo sogno. Si sentì riempire di energia.
- Voglio diventare il migliore portiere del mondo.- asserì poi, con il vigore della convinzione.
- E Wakabayashi?- fece lei espirando l’ultimo tiro, a bruciapelo.
Gli occhi di lui si spalancarono, irrimediabilmente, al solo udire quel nome, all’avvertire quella presenza, quell’ombra,
quella spina nel cuore, quello scoglio che mai era riuscito a superare.
Fu come una pugnalata in pieno stomaco. Quasi si sentì male, era come se la lama affilata di un coltello stesse
penetrando dritta fin dentro al suo cuore, lacerandogli la carne e le speranze.
Il suo sguardo era sempre fisso verso un punto scuro ed indeterminato della notte e non voleva voltarsi a guardarla.
Sapeva che avrebbe incontrato il suo sguardo e che i suoi occhi azzurri gli sarebbero penetrati nel cervello come una
scarica elettrica, segno della verità che nascondeva l’insinuazione, una dolorosa verità: Wakabayashi.
Aggrottò le sopracciglia.
- Si è fatto tardi, andiamo a salutare gli altri. Ti riaccompagno.10
Aveva visto i suoi occhi spalancarsi.
Aveva visto la sua espressione a metà tra il deluso e l’irritato.
E si era sentita in colpa.
Perché, maledizione!? Perché si sentiva in colpa per ciò che aveva detto?
Non l’aveva sempre pensata così, forse? E allora per quale ragione vedere quel ragazzo smettere di sorridere era stato
tanto traumatico?
Aveva sentito parlare di Wakabayashi come del miglior portiere in circolazione, nelle regionali, persino nelle nazionali.
Aveva anche letto su una rivista sportiva che deteneva il posto da titolare della lega juniores e questo
automaticamente escludeva Wakashimazu dalla carica.
Forse doveva scusarsi.
Ma che stava pensando?! Non si era mai scusata per inezie del genere e mai l’avrebbe fatto. Con nessuno.
Figurarsi con uno conosciuto il giorno prima!
Si rigirò nel letto, ma non prese sonno fino alla mattina.
- No, Takeshi. Non ti preoccupare.- Sicuro?- Certo che sì! Ti passerà la mania dell’organizzatore!- scherzò.
- Beh, allora ti auguro un buon compleanno da parte di tutti!- Grazie. Ci vediamo.- Ciao, Ken!Il ragazzino si allontanò a passi lenti, girandosi qualche altra volta a singhiozzo per salutarlo di nuovo.
Wakashimazu aveva deciso di rimanere per conto suo. La sua euforia pareva essersi spenta dall’ultimo colloquio con
Eve.
Sarebbe andato al mare come aveva ipotizzato qualche giorno prima, certo... ma per un pomeriggio soltanto, e da
solo.
Aveva voglia di pensare, di rimanere con sé stesso e magari allenarsi anche un po’. Era questo che aveva detto a
Takeshi, pochi minuti prima.
Poteva benissimo festeggiare un altro giorno insieme alla squadra, quando si sarebbe sentito meglio, infondo era
solamente un giorno. Anche se gli non sembrava giusto non festeggiare come gli altri e deludere la mania
organizzativa di Sawada, che ci poteva fare? Non se la sentiva per niente e di tenere il muso alla sua festa, non aveva
nessunissima voglia.
Si era sforzato di sorridere anche con i genitori, la madre appena lo aveva subito accolto festosamente non appena si
era svegliato. Il padre si era limitato ad abbozzare un gesto con la mano e concedergli un mezzo sorriso. Ma a lui era
bastato, si era sentito contento.
Non voleva impensierire sua madre, per questo le aveva riferito che ci sarebbe andato con gli amici. Takeshi era
andato a fargli visita nel primo pomeriggio, sperando di convincerlo a combinare qualcosa almeno all’ultimo momento,
dopo aver insistito sin dall’inizio della settimana, ma non c’era stato verso.
Ed ora l’avrebbe aspettato il suo pomeriggio al mare. Avrebbe rimuginato a lungo.
Afferrò il portafogli e se lo infilò in tasca. Non avrebbe portato altro con sé.
- Io vado! A stasera!- annunciò a gran voce, scendendo le scale.
- Sicuro di non voler prendere qualcos’altro?- Sicuro!- D’accordo, allora a stasera!- la madre lo salutò dalla finestra, prima di richiuderla dolcemente e tornare in casa.
Ken mosse il primo passo verso la via.
- Tua madre è una donna molto dolce.- disse una voce alle sue spalle.
Il ragazzo non si voltò. Riconobbe bene il tono, lo ricondusse immediatamente ad un volto.
Lei fissò le sue spalle coperte dalla maglia verde, facendo scorrere lo sguardo sull’intero giovane e atletico corpo.
Wakashimazu mosse leggermente la testa.
- Che ci fai qui?- Mi avevi detto di farmi viva, ma forse è tardi.Eve incrociò le braccia al petto e attese una risposta.
- Forse. Sì è tardi.Le parole gli scivolarono fuori dalle labbra, mentre la nuova venuta mosse due passi verso di lui e gli piantò gli occhi
dritti nei suoi.
- Ti va una partita, portiere?- sorrise, come non avesse minimamente udito cosa Ken aveva appena detto.
Wakashimazu si voltò verso di lei: aveva stoppato un pallone con il piede destro e lo stava ancora fissando, ma lui
rimase in piedi a rivolgerle uno sguardo vuoto.
- Ehi, ti lascerò in pace se mi dirai di no!- Eve non smetteva di sorridere come nulla fosse, ingenuamente, e Ken
scrutava nei suoi occhi, cercando una risposta... una risposta alla domanda che si era posto qualche sera prima: ma
chi diavolo era quella ragazza? Era stata in grado di disturbare profondamente le sue emozioni in modo tale da farlo
passare da un solare buon umore ad una profonda irritazione.
Mentre la fissava in quello strano silenzio, riempito solo dal infantile suo sorriso, le si avvicinò.
- Cosa scommettiamo?- fu l’inattesa risposta, il volto squadrato non più teso, quasi sciolto in un’amichevole resa.
Eve alzò le spalle, per nulla meravigliata dall’apparentemente repentino cambiamento d’avviso.
- Ci penseremo.- Come vuoi.- ora anche Ken stava sorridendo.
Possibile che il mio umore dipenda dal suo atteggiamento? Perché mi comporto così? Ci conosciamo da due settimane!
- Stavolta è dentro!!Ken fu distratto dai suoi pensieri e scattò a destra, stoppando un bolide che sfrecciava a tutta velocità verso la rete,
prima di finire tra le sue mani.
11
- Accipicchia! Sei veramente un gatto!- sbuffò Eve, portandosi stizzita e divertita le mani ai fianchi. Ken si massaggiò
una mano, dopo averle rilanciato il pallone.
- Puoi fare quanti tiri vuoi, ma non riuscirai a fare rete!- la prese in giro lui, ridendo.
- Sta a vedere!- ribatté l’improvvisata avversaria, con aria determinata. Poi prese la rincorsa e calciò la sfera con tutta
la forza che possedeva. La palla prese il volo, dritto verso lo specchio della porta.
Ken rimase immobile, il pallone era diretto al centro della rete, l’aveva intuito bene dal primo movimento della gamba
di Eve.
Veloce. Velocissimo.
Il tiro lo colpì in pieno stomaco, nonostante avesse portato le mani a scudo per accoglierla, ma la palla era caricata con
una forza straordinaria.
Fu un attimo.
Una scheggia, una saetta.
- Dentro! Rete!! Yahoooo!!Mentre lei esultava, Ken si rialzò con la palla tra le braccia.
La guardò, sgranò gli occhi, non gli pareva reale: era divenuta quasi ovale. Vuol dire che... quella volta in cui l’aveva
incontrata fuori dal campo, era stata lei a conficcare la sfera tra i pali della ringhiera degli spalti bassi. E chi se no?
C’era solo Eve in quel momento e lui non andava al campo dalla sera prima.
Incredibile.
- Allora che ne dici, ridi ancora, gattino?- gli si avvicinò ridacchiando con aria appagata.
- Ma dove la prendi quella forza?- le chiese Ken, piuttosto stupito. Furono le prime parole che gli balenarono in mente,
nate spontanee nel momento in cui la sfera l’aveva urtato violentemente.
La ragazza si appoggiò con la schiena alla rete e si lasciò cadere, sorretta dall’intreccio di corda.
- Da qui!- sorrise battendo le mani sulle gambe. Ovvia risposta.
- Beh, complimenti. Con un po’ di allenamento potresti sfidare Kojiro!- Ken ricambiò il sorriso, sostenendosi con un
braccio al palo.
Una ventata calda soffiò sulle guance di Eve, che chiuse gli occhi, lasciandosi andare sedendosi sull’erba. Quando li
riaprì incontrò il biancore della rete intorno e dietro di sé, il campo dinnanzi e la figura statuaria di Ken, poco più
avanti.
- Questa è un po’ come la tua casa...- sembrava una bambina da come si guardava intorno, dal candore della rete al
verde intenso dell’erba del prato. Wakashimazu si voltò per guardarla, scostandosi dal palo per raggiungerla e sedersi
accanto a lei.
- Già. Si sta bene, vero?- annuì.
- Bene.- confermò Eve. Si passò una mano sul collo e sospirò in un sorriso - Si sta davvero bene.Il sole brillava come splende d’estate, il vento leggero poi era un toccasana per sentirsi come si deve! Era da tempo
che non stava così bene con sé stessa e con ciò che la circondava.
Da quanto?
Chi se lo ricordava, ormai. Non aveva nemmeno voglia di richiamare alla mente alcun momento passato.
- Dimmi qualcosa di te.- Ken la riportò alla realtà.
- Qualcosa... di me?- ripeté Eve.
- Sì, ormai tu conosci alcuni dei miei amici, sai dove abito, insomma sai molto di me... io invece so solo che ti chiami
Eve Springer, che adori disegnare e che hai una potenza incredibile nelle gambe! - il portiere le rivolse un ennesimo,
dolce sorriso.
La ragazza non rispose, cercò soltanto di riordinare i pensieri e poi parlò.
- Io... io... non sono giapponese. Mia madre lo è. Almeno per metà.- disse dopo un po’ - Mio padre invece viene
dall’Europa. E... per una serie di motivi i miei non stanno più insieme. Io sono rimasta qui con mia madre, mentre mio
padre e mio fratello dovrebbero essere in Italia... o in Francia, forse.Perché? Perché gli stai parlando di questo? Maledizione, Eve, cosa ti prende?!
- Com’è avere un fratello?- lui la riportò alla realtà, sciogliendo il nodo che le si era fatto in gola.
Ken aveva sempre visto Kojiro e i suoi fratellini ridere, scherzare, prendersi cura l’uno dell’altro. Si era sempre chiesto
come poteva essere, ben conscio che dal pensare all’avere c’è una bella differenza.
- Non lo so.- disse lei in un soffio - Io e Dex non ci sentiamo più.- Scusa.- rapido, serio, deciso.
La bionda lo guardò stranita.
Scusa? E perché?
- Non parlarne più se non vuoi.- comprensivo, suadente, mite.
Eve tornò a rivolgere le proprie attenzioni all’erba, giocando con i fili verdi accanto alle sue gambe.
E fu di nuovo silenzio.
- Non volevo obbligarti a trascorrere il compleanno in questo modo. Mi dispiace averti detto quelle cose, l’altra sera.sussurrò dopo qualche lungo istante, nascondendo il viso con una ciocca di corti capelli.
Ken serrò lievemente le palpebre ed alzò il mento al cielo, per poi riaprirle con un nuovo, diverso sorriso rivolto verso
di lei.
- Sai che faccio quando sono triste? Vengo qui a pensare. Come hai detto poco fa, mi sento un po’ come a casa. Ormai
conosco ogni metro quadrato di questo campo come le mie tasche.- si portò le braccia dietro la nuca - Pensa che oggi
avevo programmato di andarmene al mare da solo a riflettere, che poi è la versione verde di deprimermi!- rise tra sé,
poi si fece quasi grave, pur mantenendo un alone di serenità sul volto - Grazie di stare qui con me. Non voglio andare
da nessun’altra parte.Per Eve fu come ricevere un colpo alla testa.
Alzò di scatto lo sguardo meravigliato sul suo viso d’uomo dai tratti marcati.
La stava ringraziando perché era lì con lui...? Ken...
CAPITOLO 3 – Ricomincia la scuola
Si sistemò velocemente il colletto della divisa e uscì in fretta di casa.
12
- Eve, la colazione!- la voce di sua madre, dalla cucina.
Una giovane donna dai lunghi e setosi capelli corvini fece capolino dalla porta, fermando la figlia con uno stop da
rugby.
- Mamma! Sono in un ritardo mostruoso e se non mi sbrigo arriverò più tardi di quanto non lo è già! - esclamò la
ragazza, muovendo nervosamente le gambe nel tentativo di svicolare dalla presa ferrea.
La donna si ravviò la lunga treccia dietro la schiena e sospirò, fissando Eve con due occhi nerissimi e sorridenti.
- Non perderai mai questo vizio. Ad ogni modo eccoti il pranzo, vedi di non saltare almeno quello!- sospirò
nuovamente, porgendole il sacchetto contenente la pietanza.
- Sicuro!- rispose lei, afferrandolo piuttosto grossolanamente - Ci vediamo stasera!- Ciao Eve! Mi raccomando, cerca di fare buona impressione e non combinare i tuoi soliti pasticci!- si raccomandò
l’altra, portandosi una mano alla bocca di modo che la voce canalizzasse chiara verso la figlia.
Questa emise un sospiro rassegnato, mentre prendeva a correre rapidamente per la strada ed infilava il pranzo nella
cartella marrone.
Non cambierà mai, sempre a pensare alle buone impressioni! Non mi sembra di aver fatto nulla di male... perlomeno
non ancora! Ma che faccio, mi porto sfortuna...?
Mentre pensava, Eve scattava più veloce che poteva lungo la strada che portava a scuola. Quella notte aveva dormito
profondamente ed aveva finito per svegliarsi solamente un quarto d’ora prima di essere placcata dalla madre.
Guardò l’orologio: le otto e trentacinque.
- Maledizione!- imprecò, aumentando l’andatura.
Si era preparata in tutta fretta, ma odiava le cose fatte male - inoltre non voleva dare una cattiva impressione proprio
il primo giorno, per questo aveva impiegato buona parte del tempo nel pettinarsi e nel lavarsi. E come se non bastasse
sua madre le aveva fatto perdere una nutrita manciata di preziosissimi secondi con la storia del pranzo!
Finalmente giunse davanti all’entrata della scuola, dove una ragazza dai lunghi capelli ricci e neri la stava
evidentemente aspettando.
- Eve!- gridò quest’ultima, non appena i suoi occhi incontrarono la sua figura - Sei così in ritardo che cominciavo a
credere che non saresti più venuta!- Sì, sì... calmati...- replicò la bionda, riprendendo fiato - Sono in ritardo solo di cinque minuti...Piegò il braccio, lanciando uno sguardo all’orologio.
- Accidenti, dieci minuti!- esclamò, afferrando l’amica per il braccio e trascinandola di corsa oltre l’ingresso dell’istituto
Toho.
Una volta oltrepassati cancello e portone, prese a guardarsi intorno alla ricerca di qualche evidente segno che il suo
ritardo potesse essere ancora in tempo per essere rimediato. Ed infatti, per fortuna, c’era ancora parecchia gente che
pareva alla ricerca della propria aula, distribuita tra i corridoi.
Sospirò. Beh, infondo allora non era poi così in ritardo.
Una corsa degna di record del tutto sprecata!
- Vediamo in che classe siamo!- fece Mizuki, spostandosi verso dei tabelloni dinnanzi ai quali una marea di ragazzi e
ragazze si sporgevano e si sbracciavano. Eve si fece largo tra la folla con qualche colpo poco gentile, di modo da poter
visionare gli elenchi con i propri occhi.
- Corso E... F... G...- l’amica scorreva le lettere corrispondenti alle aule ed in breve trovò il suo nome.
- Corso G. Proprio come lo scorso anno.- sbuffò infine.
- Che c’è, non sei contenta?- le chiese Eve, senza distogliere lo sguardo dai tabulati. L’altra alzò le spalle.
- Mh... speravo di essere in classe con te.- fece senza enfasi, riprendendo ad esaminare le tabelle.
- Beh, sei fortunata, non sei in classe con colui che possiede l’arcano potere d’inebetirti? - Colui... che cosa? - Mizuki le rivolse uno sguardo piuttosto stralunato, poi tornò ad esaminare bene i nomi dei
compagni in cerca di un indizio che presto si concretizzò - Wakashimazu!! Oh, che meraviglia! Sono in classe con Ken
Wakashimazu!!- dichiarò infine con quello che Eve giudicò essere un estasiato trasporto. L’altra aveva preso a saltare
e ad emettere gridolini di gioia, finché un ragazzo dai capelli scuri non si fece largo tra la massa di persone ancora
concentrate davanti alla bacheca e le raggiunse. Mizuki smise all’istante di ridere e prese a guardarlo con occhi
sognanti.
- Trovata la classe?- domandò alla sua amica. Eve si voltò distrattamente ed incrociò due occhi scuri che la
guardavano sorridendo, concilianti.
- Non ancora.- rispose lei con lo stesso sorriso, che altro non voleva essere se non un silenzioso segno di saluto. Lui si
tolse le mani dalle tasche della divisa con una decisione tale da lasciar trasparire la risolutezza del proprio carattere e
fece scorrere il dito sugli elenchi.
- Mhm... Hyuga. Ecco qui, corso D.- disse lui soddisfatto, ma non smettendo di osservare i nomi dei compagni - E
Springer. Idem.- concluse poi, trovando l’altro oggetto della propria ricerca.
Prima che potessero rischiare di finire schiacciati dalla folla pressante, i tre si allontanarono dai tabulati.
Mizuki era un sospirare unico, con gli occhi sempre fissi su Kojiro, il quale, sentendosi osservato, finì per accorgersene.
La logica conseguenza fu quella di distogliere lo sguardo per evitare che le due lo vedessero arrossire; non gli piaceva
essere guardato così, si sentiva fin troppo al centro dell’attenzione in un ruolo che non sentiva proprio suo, perlomeno
non in fatto di relazioni con l’altro sesso.
- Chissà dove si sono cacciati gli altri...- buttò lì, con noncuranza.
- Aspetti la squadra?- gli domandò Eve, appoggiandosi con la schiena ad una colonna bianca del muro del corridoio.
Kojiro annuì.
- Alcuni di loro sono già qui...- fece - Ma non vedo Takeshi.- E Wakashimazu?!- Mizuki si lasciò scappare il nome del portiere, faticando evidentemente a trattenersi.
- Ken dovrebbe essere sul campo con gli altri.- fu la risposta stranita del capitano, che poi riprese a rivolgersi alla
bionda - Avevo detto a Takeshi che l’avrei aspettato, ma se non si fa vedere entro due minuti, affari suoi. Non mi va di
arrivare in ritardo a consegnare i nominativi.- Eve...- sussurrò la ragazza cominciando a passarsi nervosamente tra le dita una ciocca di capelli.
L’altra alzò gli occhi al cielo.
- Kojiro?- disse poi. Il cannoniere la stava fissando, in attesa - Questa è Mizuki Awashida. Mizuki, lui è Kojiro Hyuga.13
La ragazza gli tese timidamente una mano, volendo prolungare quel momento più a lungo possibile. Fu come scossa
dalla forte presa del capitano del Toho, che gliela strinse con risoluzione.
Mizuki fece per aggiungere qualcos’altro, quando, ad un tratto, due ragazzine urlanti sbucarono da chissà dove,
prendendo a scuoterla, tutte eccitate.
- Ehi! Come stai?! Tutta un’estate che non ci si vede! Le vacanze? E con i ragazzi?? Dicci tutto, Mizuki!!- la
tempestarono di parole, quasi stordendola, ma questa non sembrava infastidita, perché non appena le riconobbe,
cominciò ad ocheggiare esattamente come loro.
Eve mosse d’istinto un passo indietro alla vista di quell’assalto, mentre Kojiro ritrasse di scatto la mano.
- Chi sono queste due?- chiese lei, allibita.
- Se non lo sai tu...- replicò lui, con lo stesso sguardo tra il confuso e l’agitato. Poi si scambiarono un’eloquente
occhiata.
- Pensi quello che penso io?- le chiese Kojiro. Lei alzò un sopracciglio.
- Se l’idea è quella di svicolare da queste pazze, sì.Si voltarono lentamente all’istante, poi presero a correre per l’ampio corridoio, scansando le facce stupite dei compagni
di scuola.
Finalmente fuori!
Eve sospirò e poi scoppiò a ridere.
- Penso che Mizuki mi odierà a vita per questo!!Kojiro le rivolse uno sguardo interrogativo, ma dopotutto sereno. Pareva che Eve si stesse davvero divertendo, la sua
era una risata spontanea e vivace... tanto che ne fu contagiato.
- Non male come primi minuti d’esordio, eh?Le risa del ragazzo furono sovrastate dal suono ritmico della campanella, mentre fuori nel cortile antistante si
provvedeva a chiudere il cancello, nonostante in extremis un ragazzino riuscì ad infilarsi di corsa tra le due inferriate,
decisamente appena in tempo.
- Hyugaaa! Capitano!Il diretto interessato alzò lo sguardo.
- Ecco, questo è Takeshi!- esclamò, come se fosse palese e lampante, quasi un’abitudine, che il compagno giungesse
proprio all’ultimo momento.
L’amico lo raggiunse in fretta e furia, stringendo la cartella tra le braccia. Pareva addirittura che non avesse avuto il
tempo materiale di infilarsela sulle spalle.
- Ehi, ciao Eve!- espirò profondamente, notando la ragazza - Kojiro! Mi dispiace... ho cercato di fare più in fretta che
ho potuto...- farfugliò poi rivolto all’altro, ansimando.
- Sì, certo. - sbuffò lui, Sawada ce la metteva tutta, ma la puntualità pareva non essere proprio il suo forte - Avanti,
muoviamoci.Hyuga si portò velocemente verso il campo, seguendo il breve sentiero che portava fuori dal cortile retrostante
l’edificio scolastico, seguito da un Takeshi alquanto distrutto.
- Eve, puoi aspettarci giù se vuoi. Ci metteremo pochi minuti.- fece il ragazzino, sforzandosi di sorridere.
La ragazza annuì e lo seguì sul campo, dove finalmente li vide: il Toho al completo.
Uno per uno stavano consegnando dei fogli ad una donna dai capelli rossi in tuta da ginnastica - probabilmente la
coordinatrice - poi firmavano su un registro. Eve scese sugli scalini, laddove aveva giusto notato una figura conosciuta.
- Ayame!- la chiamò. L’altra si voltò curiosa e sorrise.
- Eve, ciao! Hai visto? Siamo in classe insieme!- Emh... in verità ho faticato a trovare il mio, di nome!- rispose, portandosi un braccio dietro la nuca - Comprendimi,
sono sveglia soltanto da una mezz’ora!- Oh, non importa.- rise Ayame - Ora lo sai!Eve si stiracchiò e sbadigliò.
- Uffa... ho fatto tutto di corsa stamattina.- sospirò, lanciando una vaga occhiata ai giocatori.
Ken stava ridendo di gusto insieme a Takeshi e a Kojiro, quest’ultimo pareva un po’ spazientito e guardava l’amico più
piccolo in maniera poco rassicurante: molto probabilmente Takeshi gli stava raccontando la sua mattinata d’inferno.
Fu un attimo perché il portiere alzasse distrattamente lo sguardo ed incrociasse i suoi occhi, tanto che Eve si sentì
colta di sorpresa mentre lo fissava. Lui teneva le mani ai fianchi e un sorriso senza pretese dipinto sul bel viso. Poi alzò
una mano e la agitò in segno di saluto.
La bionda non si attardò a replicare alla stessa maniera e sarebbero rimasti lì fermi a salutarsi, se Kojiro non avesse
passato velocemente una mano davanti agli occhi dell’amico e poi gli avesse gentilmente conferito una gomitata per
avvertirlo che toccava a lui firmare. Allora lei abbassò la mano, mantenendo un sorrisetto brillante sul volto.
- Sei qui per lui?- le domandò Aya, lisciandosi timidamente i capelli castani.
- Lui...? Lui chi? Emh... Ken?- Eve tornò alla realtà - No, siccome siamo in classe anche con Kojiro e io non ho la
minima idea di dove sia l’aula D, Takeshi mi ha chiesto di aspettarli, tutto qui.L’altra sorrise.
- Io invece aspetto Kazuki. Purtroppo non siamo in classe insieme come lo scorso anno.- Ayame si fece seria e sospirò,
ma venne colta alla sprovvista, sentendosi battere la mano dell’altra sulla schiena e la sua voce squillante dichiarare a
gran voce:
- Su con la vita! La scuola è appena cominciata, non vorrai deprimerti proprio ora?Eve si apprestò a salutare il resto del gruppo.
- Ci conviene muoverci ad andare in classe ora, se arriviamo in ritardo il primo giorno non faremo certo una bella
figura!- scherzò Takeshi, mentre Ayame guardava preoccupata l’orologio della scuola.
Un po’ strano sentire Sawada lamentarsi del tempo.
- Emh, ragazzi... siamo già in ritardo.- aggiunse Ken con una certa foga, seguendo lo sguardo della ragazza sulle
lancette nere.
Kojiro a quelle parole aggrottò un sopracciglio, Eve, che stava ancora sbadigliando, si bloccò considerando di scegliere
tra l’essere preoccupata o il rassegnata; Takeshi invece scattò per primo su per il campo, fino a rientrare all’interno
dell’istituto, seguito a ruota da tutti gli altri.
14
Arrivati al centro del corridoio principale, il più giovane si allontanò per raggiungere la classe di corso inferiore al primo
piano, salutando gli altri con un cenno frettoloso.
- Ci vediamo più tardi!- fece il portiere senza fermarsi, seguito da Kazuki.
- Conviene che ci muoviamo anche noi.- affermò Eve, rivolta a Kojiro, il quale guidò lei ed Ayame verso l’aula D.
A nessuno dei tre andava di parlare.
Kojiro sembrava piuttosto irritato, Aya non aveva espressione sul volto bianco, mentre Eve abbozzava qualche
sorrisetto involontario.
- Si può sapere che hai da ridere?- le chiese tutt’un tratto il capitano, con aria piuttosto spazientita. La ragazza si voltò
verso di lui senza rispondergli, ma mantenendo quell’espressione sorniona che dava l’impressione che in realtà non le
importasse granché del fatto che fossero stati sbattuti fuori dalla classe per ritardo ancora prima di averci messo
piede.
- Che situazione assurda!- commentò, infine, alzando le spalle. Kojiro si limitò a sbuffare. Tutta colpa di Sawada.
- Su ragazzi, capita...- mormorò Ayame, a bassa voce.
- Già, capita!- il capitano alzò gli occhi al cielo, palesemente contrariato.
- Avanti non mi dire che tu sei lo studente modello!- sorrise Eve - Non mi dispiace saltare qualche ora!- concluse,
facendogli una linguaccia.
Kojiro rimase a fissarla con il dubbio che davvero non le pesasse per nulla che andava piano piano a concretizzarsi.
Certo che Eve era ben strana! L’aveva pensato dalla prima conversazione che avevano avuto e pareva davvero che lei
avesse altri pensieri per la testa, mille volte più rilevanti di una lezione fuori dalla porta a cui dedicare la propria
attenzione.
Il suo sguardo si posò inevitabilmente sugli occhi neri di Ayame, alla destra della bionda, che parevano supplicarlo di
non arrabbiarsi. Avevano un taglio tipicamente orientale, contornato da un’infinità di affusolate ciglia nere, curvate al
punto giusto da conferirle uno sguardo intenso e profondo, ma che a causa della timidezza, finiva sempre per essere
rivolto altrove e non all’interlocutore.
Incrociare le sue quiete iridi nere, però - cosa che raramente accadeva - gli permise di calmarsi e sospirare in un
sorriso.
- Comunque... non è una brutta prospettiva.- riuscì a razionalizzare, infine.
Stava scarabocchiando un chibi Kojiro, un chibi Takeshi e un chibi Ken che si facevano le boccacce.
Sorrise, rimirando l’angolo del foglio per gli appunti, soddisfatta di aver raggiunto l’ilarità sperata. Il professore
seguitava a spiegare inglese con un accento fortemente fastidioso e se in quel mentre non fosse intervenuta la
campanella, Eve avrebbe seriamente cominciato a pianificare di schiacciare un pisolino.
Finalmente ebbe modo di uscire dalla classe. Non le sarebbe dispiaciuto rimanere fuori anche per quella noiosissima
ora, pensava che forse avrebbe potuto trovare il modo per svicolare, quando Aya le si fece vicino.
- Dove vai di solito, all’intervallo?- le chiese, approfittando subito della sua presenza, le mani ai fianchi.
L’altra indicò il cortile posteriore e sorrise.
- L’anno scorso lo passavo in giardino con Sorimachi. Di solito veniva a chiamarmi lui e... beh... uscivamo in cortile.Ayame si guardò intorno e lo cercò con lo sguardo, poi si rivolse di nuovo a Eve.
- Si vede che le abitudini cambiano...Eve le lanciò uno sguardo sereno, poi si mosse verso le scale.
- Si può andare sul tetto?- le domandò. La ragazza dai capelli castani si arrotolò una ciocca su un dito e la guardò con
aria dubbiosa.
- Veramente non so se è permesso.Ma la bionda stava già salendo le scale ed aprendo la porta che dava sul tetto, quando l’altra la raggiunse.
- Hai davvero intenzione di...- Nella mia ex-scuola era permesso.- Eve si guardò intorno - Avanti, vieni.Il sole libero di riflettersi sui loro volti, indorò i loro capelli ed il vento leggero prese a giocare con le gonne delle loro
divise, finché le due non si accomodarono accanto al muretto controvento ed Ayame sospirò.
- Non l’avevo mai fatto.- disse.
- Mh?- chiese Eve, mentre si accendeva una sigaretta. Il pacchetto appena estratto dal taschino della camicetta.
- Salire quassù, intendo. In tutti questi anni non ci ho mai pensato...- C’è sempre una prima volta per tutto!- sorrise l’altra mentre espirava. Quella tasca era davvero troppo piccola.
- Già...- Ayame abbassò lo sguardo.
Rimasero in silenzio per qualche lungo istante, poi la bruna alzò gli occhi verso la sua compagna ed incontrò il bel
profilo di Eve. Aveva dei lineamenti dolci, la carnagione chiara, gli zigomi tondi, il naso perfetto, né piccolo né grande,
gli occhi di un blu intenso fissi verso una nuvola passeggera nel cielo, le labbra rosee che ogni tanto stringevano la
sigaretta e cortissimi capelli biondo scuro che le incorniciavano il viso.
Aya aveva quasi timore a rivolgerle la parola... forse solo il fatto che tenesse una sigaretta in mano le pareva che
potesse rovinare un così bel viso.
- Ti fa male.- si lasciò sfuggire.
Eve comprese facilmente a cosa si stesse riferendo l’altra, ma sorrise dolcemente, come per rassegnazione e le rispose
con due semplici parole.
- Lo so.La bruna non aggiunse nulla, finché l’amica non si alzò e si avvicinò alla ringhiera.
- Guardali là.- disse, fissando un punto preciso sotto di sé. L’altra la raggiunse di nuovo e sorrise.
- Stanno sempre con un pallone ai piedi! Non so come facciano a pensare sempre al calcio!- scherzò, spolverandosi la
parte posteriore della gonna.
Kojiro si preparò a lanciare il suo tiro migliore.
- Ken mi ha spiegato che è una passione, è come tormento, non puoi smettere di pensarci.- Eve mutò espressione Non credo sia poi così drammatico, è una cosa che quei ragazzi adorano e non credo smetterebbero nemmeno per
tutto l’oro del mondo.- poi fece una smorfia infantile - Beh, forse qualcuno di loro sì, ma, eheh, non puntualizziamo!15
Ayame si sporse accanto a lei, giusto in tempo per vedere il suo ragazzo passare il pallone al capitano. Un ottimo
assist.
Kojiro tirò una cannonata che si spense tra le mani di Ken. Takeshi, superato lo stupore, cominciò a saltare come se
stesse festeggiando qualcosa e Kazuki si portò le mani ai fianchi, impressionato.
Il portiere scoppiò a ridere di gioia ed urlò così forte che le parole giunsero chiare anche alle orecchie delle due
ragazze.
- L’ho parato! Yahoooo!! Giornata memorabile! Ho parato il Tiger Shot di Hyuga!!Anche Eve rise, i suoi occhi rivolti a quel ragazzo più felice che mai per aver appena dato prova di essere in grado di
battere il suo capitano. Non si capacitava del motivo, ma sentiva qualcosa di strano dentro, mentre lo guardava ridere
ed udiva la sua possente voce d’uomo esultare vittoriosa.
- Che ti dicevo?- aggiunse, verso Ayame. Sulle labbra di quest’ultima era chiaramente dipinto un sorriso forzato.
- Dici che non rinuncerebbero al calcio per nulla al mondo?- sussurrò poi, a bruciapelo.
Eve spense il mozzicone sulla ringhiera poco più in là e vi si appoggiò con i gomiti. Ci mise poco ad intuire.
- Parli di Sorimachi, vero? Non voglio sapere tutta la storia, spetta soltanto a te decidere se raccontarmelo o meno,
l’unica cosa che ti posso dire ora è di non mollare, perché se tieni veramente a lui dovresti capire cosa prova verso il
calcio.Ayame si trovò a fissare l’azzurro intenso del cielo, il capo chinato indietro per non lasciarsi offuscare gli occhi dalle
lacrime. Si limitò a sospirare.
Già, che stupida sono. Non ci ho mai pensato. Sono stupida ed egoista. Kazuki ama il calcio più di ogni altra cosa...
anche più di me. Rinuncerebbe al calcio per me? No. Assolutamente, lo conosco bene, ormai. E a me per il calcio?
Accidenti, forse ne sarebbe capace.
Per quanto possa valere, io so di amarlo... ma forse questa sicurezza deriva dal fatto che non ho mai avuto grandi
passioni, che non posso comprenderlo.
O forse perché il mio cuore... no, Aya! Non ci devi neppure pensare!
- Ehi! Ci sei ancora?- Eve le agitò una mano davanti agli occhi.
- Cosa...? Oh, sì... sì ci sono!- le rispose, tentando di ricomporsi e di sorridere - Ora è meglio scendere o ci cacceranno
fuori una seconda volta!Sì, si era davvero divertita! Finalmente le cose stavano andando per il verso giusto.
Aveva trovato dei nuovi compagni ed in quei giorni si sentiva veramente bene.
Si asciugò il viso e prese il tubetto di gel che stava accanto alla spazzola. Se ne spalmò un po’ sulle dita, che poi passò
sui capelli corti.
Perfetto. Così sarebbero stati a posto ancora una volta. Con il pettine si aiutò ad acconciarli in modo da darle un’aria
vivace e naturale, come sempre. Poi si lavò di nuovo le mani.
Il suo sguardo, mentre afferrava la salvietta, cadde sui propri occhi, riflessi nello specchio. E per una rara volta le si
presentarono come occhi sorridenti, come quelli di una qualsiasi altra ragazza che desiderava affrontare una nuova
giornata con tanta voglia di vivere.
Quando scese in cucina, sua madre lo salutò.
- Ciao, Ken.- Mamma.- fece un cenno con la mano, poi si fermò di scatto e si voltò - Ah! Oggi iniziano gli allenamenti, ci vediamo
questa sera!La donna annuì, rimanendo a sbrigare le ultime faccende in cucina in vestaglia, mentre il figlio chiudeva la porta e
correva verso la scuola con un toast in mano.
- Non gli farà bene mangiare mentre corre.- sospirò, prima di ripiegare lo strofinaccio.
Nel frattempo, il portiere cercava di inghiottire quello che restava della sua colazione ed allo stesso tempo seguire la
strada con passo cadenzato e spedito.
Eve s’imponeva mentalmente di non rallentare l’andatura, mentre girava l’angolo con una mano che impugnava la
cartella e l’altra lungo il fianco; entrambe si muovevano avanti e indietro accanto alla sua vita snella.
- Eve!- la chiamò Ken. La ragazza si voltò, ma senza smettere di correre lo aspettò, poi cominciarono ad avanzare
rapidamente l’uno di fianco all’altra.
- Anche tu in ritardo stamattina?- sorrise lei.
- Già... ehi, aspettami!- Ken riprese il passo veloce di Eve - Potresti iscriverti al club di atletica, sai?- Mh, ci avevo già pensato. Anche nella mia ex scuola facevo parte di una squadra di atletica.- rispose la ragazza,
fissando la strada che si snodava libera dinnanzi a sé.
- Di sicuro faresti un figurone! A proposito... ti ho detto che qualche giorno fa ho parato il Tiger Shot di Kojiro?- Almeno un milione di volte, portiere!- Eve sorrise alzando gli occhi al cielo - Ti ho detto che ho anche assistito al
miracolo dal tetto della scuola?- Sì, ora che ci penso... ehi! Ma non è stato un miracolo! Sono stato io ad essermi allenato duramente!- replicò Ken,
con il tono di un bambino.
- Già, come no!- Eve aumentò la velocità - Vediamo se riesci a starmi dietro, se davvero ti sei tanto allenato!Scattò in avanti con una dinamicità impressionante, Ken riuscì a tenere il passo per un po’, poi si distaccò e, pur non
rinunciando alla corsa, finì per raggiungerla solamente davanti all’entrata della scuola, dove Eve lo aspettava col
fiatone. Non appena anche lui si fu appressato, mosse un passo avanti oltrepassando il cancello.
- Direi che ho vinto ancora!- rise.
- Oh, ma che simpatica! Aspettavi l’ultimo momento per umiliarmi, eh?- Ken scherzò, facendo il finto serio e
appoggiandosi al muretto per riprendere fiato. Eve cambiò improvvisamente espressione.
- No. Umiliarti mai. Stavo solamente scherzando.Wakashimazu alzò lo sguardo, stranito, ed incrociò quegli occhi profondi e così gravi che parevano parlare; si sentì in
colpa... in colpa per qualcosa che nemmeno lui riusciva a spiegarsi, così cambiò discorso distogliendo lo sguardo e
dando un’occhiata distratta all’orologio della scuola.
- Ehi! Siamo arrivati prima di quanto potessimo immaginare, che ne dici se ti accompagno ad iscriverti alla squadra di
atletica? Dovrebbero essere aperti da oggi, gli sportelli.16
- Okay.La ragazza lo seguì in silenzio.
La campanella suonò inaspettata ed Ayame si stiracchiò elegantemente. Incredibile come qualsiasi cosa facesse, anche
quella più involontaria, riuscisse a risultare pacata e signorile.
Kojiro, invece, uscì di corsa dalla classe.
La ragazza ripose di nuovo i libri nella cartella e si sistemò la gonna della divisa, poi diede un occhio alla sua
compagna. Che strano, le pareva che ci fosse qualcosa che non andasse quel giorno in lei.
- Eve...- cominciò. L’altra non disse nulla, si limitò a fare un cenno con il capo a segno che la stava ascoltando.
- Che ne diresti di venire con me a guardare gli allenamenti dei ragazzi?- Preferisco tornare a casa. E poi devo anche ritirare la divisa di atletica.- rispose la bionda a voce bassa.
- Se è questo il problema, facciamo così: tu vai a ritirare la divisa e io ti aspetterò sul campo, mh?- Aya la guardava
con quegli occhioni neri a calamita che parevano supplicarla - È la prima e l’ultima volta che te lo chiedo, ti
preeeeego...- si attaccò alla manica della divisa dell’amica.
- Okay, okay, basta che la smetti di tirare!- Eve alzò gli occhi al cielo e si portò la cartella su una spalla senza badare
troppo al risultare poco fine, uscendo infine dalla classe.
Anche per quel giorno le lezioni erano terminate; avevano salutato gli altri ed ora si stavano dirigendo verso l’esterno
ed il secondo cortile, dove si trovava l’ampio campo di calcio.
- Aspettami qui. Prendo la divisa e arrivo.- fece Eve, mentre Ayame scendeva sugli spalti per prendere posto. L’altra si
allontanava e scendeva le scalinate fino all’antistante campo di atletica.
Ad un tratto si fermò sulle scale e lentamente vi si sedette, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sorreggendosi la
testa tra le mani. Si lasciò andare e sospirò chiudendo gli occhi.
Ken stava certamente scherzando, questa mattina, quando mi ha detto che lo stavo umiliando, ma... perché ho reagito
in questo modo assurdo? Basta... basta, io non voglio più avvilire nessuno, non voglio che tutto torni come tre anni fa.
Sento che così, a questo punto, in questo istituto... sento di stare veramente bene... e non voglio tornare indietro. Non
voglio guardare dietro di me...
Improvvisamente avvertì una mano posarsi dolcemente più volte sulla sua spalla destra.
- Eve... Eve?La ragazza aprì stancamente gli occhi e si trovò fissa in quelli castani della sua amica.
- Mizuki...- sussurrò, schiarendosi la voce.
- Che ci fai qui, tutta abbandonata?- sorrise l’altra, sedendosi accanto a lei.
- Una pausa.- sbadigliò.
Mizuki si sciolse i lunghi capelli neri, che aveva l’abitudine di acconciare con le più profumate creme e balsami perché
si mantenessero ricci e perfettamente in piega. Una fanatica dell’estetica, si poteva dire.
- Non è stato carino andare via in quel modo, l’altro giorno!Sulle labbra di Eve si delineò un sorrisetto divertito, mentre alla sua mente riaffiorarono le sensazioni di buon umore,
provocate dalle risate con Kojiro.
- Sì, lo so.- rispose, ancora sorridendo. Anche Mizuki prese a ridere, eterna allegra, non era capace di tenere il muso.
- Di’ un po’... come fai a conoscerlo?- aggiunse, estraendo dalla tasca un minuscolo cofanetto rosa, di cui si apprestò a
svitare il tappo.
- Conoscerlo? Intendi Kojiro?- domandò Eve.
- Esatto!- l’altra si fece attenta, mentre prelevava un po’ di lucidalabbra al lampone con un dito e se lo portava alla
bocca.
- Non è che lo conosca così bene, a dire il vero...- la bionda alzò le spalle - Ricordi quella volta in cui abbiamo
incontrato Wakashimazu in quel negozio?Mizuki se lo ricordava benissimo. Annuì, pendendo dalle labbra dell’amica, che proseguì.
- L’ho incrociato più tardi qui al campo ed anche qualche giorno dopo, per caso. Così mi ha chiesto se avevo voglia di
andare alla festa di un suo amico: Kojiro. Ho accettato e così ora mi trovo a conoscere tutti i ragazzi della squadra.spiegò, ripercorrendo gli eventi e rendendosi conto che il caso poteva davvero creare diversi legami.
- Ma che fortuna! Wow!- sbottò la compagna, sistemandosi gli ultimi ritocchi di cosmetico - Vuoi dire che sei stata ad
una festa con Wakashimazu?! E perché non mi hai mai detto niente?! Capisco che sei una che non parla spesso dei
fatti propri, ma questa è una notizia da tabloid!- Perché non me l’hai mai chiesto. E poi è così importante per te, Ken?- replicò Eve, con la sua tipica alzata di spalle.
L’altra si rimise a sorridere, compiaciuta.
- Beh, in verità mi piace quasi quanto Kojiro! O forse il bel portiere un pochino di più...- fece, pensosa - Pensa che oggi
quando stava entrando in classe e io l’ho salutato, lui mi ha detto “Ciao!”... oh, sono tutti e due così belli! Che tu
sappia, hanno una qualche ragazza?Eve sorrise e scosse la testa, Mizuki non sarebbe mai cambiata.
- Che io sappia no...- rispose, alzando le sopracciglia - Ma non te lo posso giurare.- Umh... devo indagare!- replicò l’amica, riponendo la piccola scatola ovale e distendendo le labbra l’una sull’altra per
far aderire bene il lucidalabbra alla bocca.
- Sì, certo! Poi fammi sapere!- la prese in giro la bionda.
- Ehi, niente scherzi! Io lo faccio seriamente!- rispose Mizuki, un po’ indispettita, mentre si puliva il dito ancora
colorato di nitido rosa in un fazzolettino di carta.
- Ora è meglio che vada a prendere quella benedetta divisa.- sospirò Eve, alzandosi e scendendo il primo scalino.
- Idea!- gridò ad un tratto l’altra, tanto da fare voltare la compagna di scatto e guadagnarsi un suo sguardo tra lo
stralunato ed il preoccupato.
- Che vuoi fare, genio?- sospirò, portandosi le mani ai fianchi. Mizuki cominciò a sogghignare maliziosamente.
- Domani comunicheranno le date della gita d’inverno...- Oh, no.- Eve aveva già inteso cos’aveva in mente l’altra.
- Oh, sì! Pensa se riesco a convincere il signor Nishimura a portare con la nostra classe anche la vostra! Così non solo
ci porteremo in gita quei due, ma assisterai anche al mio trionfo!!17
La risata a tratti diabolica della ragazza dai capelli ricci era carica di un entusiasmo sospetto. Si ravviò una ciocca dalla
fronte, lasciando che si liberasse nell’aria il piacevole ed intenso odore del balsamo alla frutta.
- Scommettiamo che non riuscirai a combinare un accidente?- ridacchiò Eve.
- Scommessa accettata! Vedrai di cosa sono capace! - Mizuki la raggiunse e le strinse la mano, in segno di promessa Se vinco io, tu farai qualcosa per me, se invece la remota possibilità di vittoria da parte tua, ovvero lo zero virgola zero
uno percento si realizzerà, sarò io a doverti un favore!Sul volto dell’altra seguitava a persistere un’espressione di compatimento mista ad ilarità, per nulla convinta delle
parole che aveva appena udito, inoltre stava seriamente cominciando a preoccuparsi per la salute mentale dell’amica.
- Certo! Già m’immagino Ken con uno sguardo che impietosisce il re dei serial killer e Kojiro praticamente distrutto nel
suo orgoglio, ridotto alla stregua di uno zerbino!- riuscì a terminare, prima di scoppiare in una risata divertita.
- Allora domani hai le selezioni?- Già. Se voglio entrare in squadra, devo battere i tempi che faranno le altre. Piazzarmi bene, insomma.- Eve si fissò
sul sole quasi al tramonto.
La luce rossa inondava gli spalti e si rifletteva sul suo viso sorridente. L’incontro con Mizuki l’aveva tirata su di morale.
Quella matta aveva intenzione di sedurre sia Ken che Kojiro, e l’assurdità della trovata l’aveva spinta a proporre la
scommessa. Certo, quella ragazza non avrebbe faticato a convincere il signor Nishimura a portare entrambe le classi in
gita, quell’uomo era piuttosto insicuro e volubile, caratteristiche che non si addicevano per niente ad un professore,
eppure insegnava al Toho da anni - perlomeno stando a quanto le avevano riferito.
Il resto sarebbe venuto da sé, diceva Mizu. Chissà quale piano avrebbe escogitato per attirare nella sua rete Kojiro e
Ken. Le sfuggì un sorriso divertito.
Figuriamoci, Mizuki che adesca quei due! S’immaginava davvero Wakashimazu con uno sguardo che avrebbe
commosso anche un assassino prezzolato e Hyuga sul serio annientato nel suo senso di dignità, tanto da somigliare ad
un puliscipiedi!
Eve scosse il capo con un sorrisetto rassegnato. Forse stava andando troppo oltre, ma c’era qualcosa che la
preoccupava... ed anche se non voleva ammetterlo, sapeva bene che cosa la infastidiva.
- Kojiro è veramente un fenomeno!- esclamò Ayame, alla sua destra.
- Ehi! Kojiro è mio!- ribatté Mizuki, alla sua sinistra, lanciando un’occhiata in tralice alla ragazza dai lunghi capelli
castani.
- Ho solo fatto un apprezzamento, non ho detto nulla di speciale...- ribatté questa, specchiandosi nel volto abbronzato
dell’altra.
- Allora perché non tifi un po’ per il tuo attaccante, Sorimachi!- replicò Mizu, a denti stretti.
Non conosceva quella Akimoto, né si erano mai scambiate una parola prima d’allora. Aveva solo avuto modo di vederla
durante le partite o in compagnia di Kazuki per i corridoi della scuola, il che aveva suscitato in lei un senso
serpeggiante di invidia: Aya poteva seguire il Toho da vicino, essendo la ragazza di uno dei titolari, mentre lei avrebbe
dato qualsiasi cosa per essere al suo posto! Certo, personalmente avrebbe mirato direttamente al capitano o a quel
portento di portiere, e soprattutto se fosse stata in lei avrebbe prenotato immediatamente una seduta dal
parrucchiere, una dalla manicure ed un’altra dall’estetista per una bella lampada! - non le piaceva l’aspetto troppo
diafano, una bella ragazza doveva curarsi molto per fare colpo!
Ayame si fece seria ed aggrottò le sopracciglia, distogliendo lo sguardo da lei.
- Beh? Che c’è?- ribatté l’altra - Hai perso la ling...Eve la interruppe bruscamente:
- Piantala, Mizuki! Occorre litigare per queste stupidaggini? Vi conoscete da dieci minuti!Mizuki si strinse nelle spalle e provvide anch’ella ad abbassare lo sguardo. Eve aveva sempre avuto uno strano effetto
su di lei; sin da quando si erano conosciute tre anni prima, aveva notato ed ammirato il suo carattere forte ed
autorevole. Ed anche se non voleva darlo a vedere, aveva finito per esserne un po’ gelosa... voleva possedere quella
sua particolare essenza che non sarebbe mai riuscita a raggiungere con nessun tipo di cosmetico, crema o tonico.
- Tutto bene, Aya?- le chiese, una volta fuori dalla scuola.
- Tutto bene.- rispose lei, sospirando. Si notava molto chiaramente sul suo volto, ogni volta che si parlava di affari di
cuore, che le cose tra lei e Kazuki non andavano per niente come si deve.
Ogni volta che lo nominavano, Ayame diventava seria e perdeva il suo timido e riservato sorriso. Eve non volle
aggiungere nient’altro, oramai era ben certa che la causa della sua tristezza era Sorimachi.
Ecco. Parli del diavolo...
La ragazza arrestò la sua andatura, udendo una voce famigliare che le chiedeva di fermarsi.
- Ciao ragazze!- Kazuki sorrideva - Posso accompagnarvi?- Veramen...- Ayame stava per replicare, quando la voce di Eve sovrastò la sua.
- Ma certo. Oh, un momento, tu sai dove si è cacciato Ken?- si inventò qualcosa su due piedi.
- È ancora in spogliatoio, perché?- rispose il ragazzo, con aria amichevole.
- Devo... emh... devo... chiedergli un paio di cose sull’equipe di atletica. Vi spiace andare senza di me? No, vero? Ci
vediamo!- Eve non concesse ai due nemmeno il tempo di rispondere, che diede ad entrambi una leggera spinta per
sollecitarli ad andare via insieme.
Kazuki rispose al saluto e si voltò, mentre Aya la fissò per un istante con occhi supplichevoli, ma l’altra le strizzò un
occhio ed alzò la mano in segno di arrivederci. Poi, quando anche Ayame si fu voltata, decise di aspettare almeno che
voltassero l’angolo per raggiungere casa anche lei.
Finalmente stava per lasciare la scuola, quando le si fece vicino un ragazzo dalla carnagione scura, accompagnato da
un ragazzo dai lunghi capelli neri. Eve sorrise guardando davanti a sé.
- Ragazziii!- Takeshi arrivò, correndo. Pareva un suo hobby, quello dell’indugio.
- Eccolo, ci risiamo. - scherzò Ken, senza voltarsi.
L’amico li raggiunse e prese a camminare con loro.
- Ah! - sospirò felice - Mi mancavano i nostri allenamenti!-
18
- A chi lo dici! Ho passato tutta l’estate in pena per poter ricominciare ad allenarmi con la squadra!- esclamò Ken
portandosi le mani dietro al collo. Eve mosse leggermente la mano che aveva sulla spalla, avvertendo dietro di sé la
cartella muoversi di poco durante la marcia.
- Non credevo che foste veramente così forti. Allora la vostra fama è meritata.- disse.
Era rimasta realmente affascinata dagli allenamenti che aveva avuto modo di seguire: i bolidi di Kojiro, i rapidi
passaggi di Takeshi e le spettacolari parate di Ken l’avevano lasciata a bocca aperta.
- Grazie! Lo vedi Kojiro, anche le ragazze dicono che siamo bravi!- sorrise il più piccolo del gruppo.
- Ma non dobbiamo sottovalutarci e continuare ad allenarci!- lo rimproverò il capitano, tentando di chetare gli ormoni
del compagno.
- E dai, non essere così severo, capitano! Se ci fanno dei complimenti è buona educazione accettarli!- replicò Takeshi.
- Stai dicendo che sono un cafone?!- lo fulminò Kojiro. Sawada tacque all’istante, ma intervenne Ken.
- Beh, un po’ presuntuoso lo sei.- ammise, sornione.
- Che?!- il cannoniere si fermò di scatto sulla via. L’altro non trattenne una risata compiaciuta.
- Provo un certo gusto a giocare con la tua alterigia, lo ammetto.- sostenne, tra le risa.
- Wakashimazu!- gridò Kojiro.
- Presente!- continuò l’altro.
- Ken! Se ti prendo...!!- ed iniziarono ad inseguirsi per la strada, uno furibondo e l’altro che tentava seriamente di non
morire dalle risate.
Beh, Ken aveva ragione: era divertente provocare Kojiro! Eve scoppiò in una risata fragorosa, seguita da Takeshi, che
si piegò in due.
- Sawada! Springer! Volete prenderle anche voi?!I quattro avevano ripreso a camminare tranquillamente lungo le vie asfaltate di fresco, ormai il rosso del sole si stava
accentuando all’orizzonte e le strade erano pressoché deserte, qualche auto transitava ogni tanto ed i ragazzi
parevano essersi calmati, dopo la divertente sfuriata del capitano.
- Kojiro, Kojiro!- una bambina dai capelli nerissimi uscì correndo da un cortile alla loro sinistra, per saltare
direttamente in braccio al cannoniere.
- Ciao, piccolina!- la salutò lui, reggendo il suo live peso con un braccio e strapazzandole i capelli con l’altro. Gli altri
erano rimasti a guardarlo, mentre festeggiava la bimba come un padre accoglie la figlia una volta tornato dal lavoro.
L’espressione di Eve era rilassata ed allegra ma, doveva ammetterlo, si era inizialmente stupita nel vedere quel
ragazzo così scontroso e schivo giocare con quella bimba che rideva felice tra le sue braccia.
- Quella è la sua sorellina.- le disse Takeshi. Kojiro si voltò verso di loro e si rivolse alla ragazza.
- Credo che tu sia l’unica a non conoscere Naoko.Eve si rivolse alla piccola, che le strinse la mano, un po’ intimidita.
- Ciao, Naoko. Io sono Eve.- disse la giovane.
La sorellina di Hyuga sorrise dolcemente e pronunciò il proprio nome con una vocina mielata, pareva aver perso tutta
la sua timidezza ed aver assunto l’aria furbetta che caratterizza ogni bambino dall’animo vivace.
Ken e Takeshi la salutarono, mentre entrava in casa e richiudeva la porta dietro di sé.
Eve si tolse le scarpe e si annunciò:
- Mamma! Sono tornata!Sì batté immediatamente una mano sulla testa, lievemente, ricordandosi che non c’era nessuno in casa. La madre
copriva dei turni piuttosto pesanti ed a volte era costretta anche a rimanere fuori casa la notte.
Salì di corsa le scale ed entrò in camera sua. Non vedeva l’ora di provare la divisa di atletica!
I pantaloncini corti blu le fasciavano i fianchi e la maglietta non troppo attillata, bianca con il simbolo della scuola su
una manica la faceva sembrare veramente un’atleta. Ed alla vista della propria immagine allo specchio, le sovvenne il
ricordo della sua ex divisa dalla maglia era rossa e i pantaloni bianchi.
Aveva sostenuto tante gare con la sua ex squadra. Era considerata una delle migliori del gruppo, ma l’allenatore le
rimproverava più volte il fatto che fumasse, dopo averlo scoperto, l’aveva anche minacciata di cacciarla dalla squadra
se non avesse smesso. Ma un evento tale non aveva avuto modo di verificarsi mai, perché fu lei a lasciare la squadra e
la scuola, dopo l’incidente.
Già, l’incidente. Era da tempo che non ci pensava più, tre anni prima continuava a tormentarsi... tre anni prima aveva
15 anni... maledizione, solo 15 anni! Poco più che una bambina.
Si sforzò di rilassarsi. Aveva superato tutto ma a volte, quando ripercorreva il tempo lasciatosi alle spalle con la
memoria, la invadeva un senso di sconforto misto a collera.
Dopo quello che era successo, i suoi genitori non riuscivano più ad instaurare un vero dialogo ed ogni volta che si
rivolgevano la parola, si accusavano a vicenda di ciò che era accaduto.
Così finirono irrimediabilmente come finiscono le coppie del genere. Si separarono.
Suo padre partì per l’Europa, l’Olanda, dove era nato e cresciuto, portandosi con sé il suo fratellino Dexter, di due anni
più giovane di lei. Da quel giorno non li rivide più.
All’inizio lei e Dex rimasero in contatto tramite alcune lettere, ma con l’andare del tempo divenne sempre più raro che
la sua cassetta delle posta ricevesse un messaggio del fratello. Lui le raccontava che viaggiava molto in Francia e in
Italia, che aveva modo di scoprire posti diversi e nuovi, tutti molto interessanti, con culture e tradizioni, gusti e sapori
differenti. Poi, più nulla.
Sospirò pesantemente. Del canto suo, lei era rimasta sola con la madre ad Okinawa. Subito dopo la partenza del
padre, quest’ultima vendette la casa ed entrambe si trasferirono a Tokio.
Per motivi attinenti al lavoro di sua madre, chirurgo in un nuovo ospedale, si erano trasferite un’altra volta nella parte
occidentale della città, proprio all’inizio della primavera. Eve aveva continuato gli studi dove li aveva cominciati tre
anni prima, poi all’inizio dell’anno nuovo, aveva chiesto il trasferimento ed aveva cominciato a frequentare l’istituto
Toho.
Si sentiva rinascere nella nuova casa, le pareti dipinte di fresco, i nuovi mobili, la nuova camera, tutto concorreva a
lasciare sepolto quello che si era lasciata alle spalle, compresa l’angoscia che l’aveva accompagnata nel periodo in cui
praticava i corsi nella sua ex scuola.
19
Aveva sempre avuto una passione per la corsa, ma doveva ammettere che si era accentuata in quei momenti infelici.
Era un modo per sentirsi libera e poter scappare da quel mondo criminale. Aveva perso fiducia nelle persone, viveva
come se gli avvenimenti che capitavano fuori dalla sua mente non esistessero. Certo, non aveva cancellato totalmente
le proprie emozioni, ma le aveva ridotte al minimo, di modo che nulla potesse scuoterla e nulla potesse farle
sanguinare il cuore.
Ma in quel momento, specchiandosi dinnanzi alla nuova sé stessa, non desiderava pensarci più. Si era fatta una
promessa, quando si era trasferita l’ultima volta: avrebbe tentato di rinascere.
E ci stava riuscendo. Non avrebbe certo rovinato tutto voltandosi a guardarsi alle spalle, né tantomeno dentro.
Ken e Takeshi parlavano ancora tra loro, lungo la strada del ritorno.
- È carina.- cominciò il più piccolo.
- Mh?- domandò il portiere, scosso dai suoi pensieri. Era stata una giornata stancante, ma piacevole. Adorava quando
si impegnava con tutto sé stesso in qualcosa al punto tale da sfinirsi. Si sentiva pieno, realizzato.
- Eve, intendo. Ed è anche simpatica!- annuì, spiegandosi meglio - A me piace... come persona, intendo, non credo di
poter arrivare ad essere il suo ragazzo, accompagnatore o chi vuoi tu...- Sawada, ma che discorsi fai? Non ti avevo mai sentito dire una frase seria! Accompagnatore?- rise Ken. L’altro
aggrottò le sopracciglia.
- E dai, non prendermi in giro! –
Ken rimase zitto con un sorrisetto sulle labbra.
Ma sentitelo, di nuovo Takeshi che parla di ragazze!
Il centrocampista fece un sospiro e si portò le mani dietro la nuca, lasciando che la cartella gli si appoggiasse sulla
schiena.
- Tu che ne pensi?- chiese poi.
- Di che cosa?- fece l’altro.
- Ma come di che cosa! Di lei, no? Mi stavi ascoltando?- esclamò Takeshi. Ken si fece pensieroso.
Già, che pensava di Eve? Oramai aveva già avuto modo di rifletterci su parecchie volte.
- Beh,- cominciò - senza dubbio è molto carina... e allegra. Mi piace stare in sua compagnia.Takeshi accennò un sorrisetto soddisfatto, quasi le parole appena pronunciate da Wakashimazu fossero quelle che
desiderava udire. Poi gli rivolse uno sguardo ambiguo dal basso. Ken parve non accorgersene, osservava il cielo
scarlatto davanti a sé con un’aria assorta.
- In poche parole sei cotto di lei!- sogghignò. Il portiere sbuffò, mantenendo la sua aria compita.
- Ecco. Sapevo che con te un dialogo serio è impossibile da costruire!- Ehi! Non cambiare discorso!- protestò infantilmente Sawada - E poi non è vero, dico solo la verità!- Già, come no!- l’altro scoppiò in una nuova risata.
- Piantala Ken!- anche se infastidito, l’amico non trattenne un sorriso.
- Vuoi fare un salto in palestra o preferisci che ti sistemi in mezzo alla strada?- il portiere continuò a ridere. Il povero
Takeshi tacque, sapeva bene che Ken stava scherzando, non l’avrebbe mai picchiato se non per gioco... ed anche se
così non fosse stato, gli conveniva proprio non mettersi contro una cintura nera di karate. Decisamente no.
- Perché ve la prendere sempre con me... ? – sospirò, imitando un bambino - Solo perché sono il più piccolo... non lo
trovo affatto giusto!- Avanti Takeshi! Lo sai che io e Kojiro scherziamo... E poi non è vero che ce la prendiamo sempre con te.- fu la
tranquilla risposta del compagno, sempre in un sorriso e camminando verso casa nella luce rossastra del tramonto.
CAPITOLO 4 – Una notizia inattesa
La signorina Rama si lisciò i capelli rossi e si portò una mano sul fianco, sistemandosi la sciarpa.
- Avanti!! Uno! Due! Tre! Quattro! Mantenete il ritmo! Springer va’ piano! Piano!- gridò.
Eve rallentò il passo, le mani alla bocca, nelle quali soffiò nel tentativo di riscaldarsi un po’. Il fiato caldo attraversò la
pesante lana dei guanti neri e la ragazza si fece schioccare le dita attraverso essi.
- Certo che è un supplizio!- mormorò una delle sue compagne di squadra - Perché con questo freddo ci devono far
allenare ugualmente? Sto congelando!- Dairou! 300 metri in più!- vociò l’allenatrice, attenta come una sentinella. Ren, la diretta interessata, sbuffò e si
distanziò dal gruppo, assumendo di nuovo un ritmo stabile.
- Avanti! Ancora venti giri e abbiamo finito!- la signorina Rama si portò il fischiettò alla mano, autoritaria.
- Abbiamo!?- mormorò una sua compagna accanto a lei. Eve le sorrise lievemente e l’altra ricambiò con un’espressione
eloquente da compagna di sventura.
Le temperature erano calate vertiginosamente in quei giorni e, sebbene non avesse né piovuto né nevicato, la rugiada
congelata sulle foglie, sull’erba e dovunque si rivolgesse lo sguardo, era il segno palese che il gelo oramai regnava
sovrano sul mese di dicembre. Ci voleva proprio una bella gita alle terme! Ovviamente Mizuki sosteneva fieramente
che il suo piano di convincimento aveva funzionato a meraviglia, nonostante Eve ben sapesse che i professori
responsabili avevano già deciso di portare in gita quasi tutte le classi del corso superiore, ovvero la D, la E, la F e la G.
Naturalmente Mizu era strafelice e non vedeva l’ora di mettere in atto il suo piano.
Sarebbero partiti la settimana successiva, di venerdì, ed avrebbero trascorso quattro giorni alle sorgenti termali di
Onsensawa, una ridente località del nord che, con il suo ricco quartiere medievale, sarebbe stata oggetto di diverse
visite a musei e siti archeologici.
Eve non aveva ancora espresso alcun parere al riguardo; pareva tutta presa dall’attività del club di atletica, anche se
sembrava essere ben propensa ad una pausa di un pur breve periodo negli allenamenti.
Si sistemò il cappellino da baseball, calando bene la visiera davanti al volto per non ricevere le sferzate d’aria glaciale
direttamente sugli zigomi, seguitando a correre con un ritmo impeccabile.
- Allora, che ne dici?- le chiese Ayame.
- D’accordo. Ci si vede!- salutò Eve.
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- Ciao!- l’altra ricambiò il saluto e si allontanò dal campo con aria serena. Le aveva appena proposto di trascorrere la
serata a casa di Takeshi, tutti assieme. Ed Eve aveva accettato, doveva solo tornare a casa, farsi una bella doccia e
indossare qualcosa di adatto.
Sawada ultimamente pareva molto attivo, si dilettava a riunire gli amici anche al di fuori della scuola; sembrava ci
tenesse particolarmente a creare un gruppo ben unito ed affiatato.
La ragazza fece per aprire la porta, quando la sua attenzione venne attirata da alcune buste che facevano capolino
dalla cassetta delle lettere, stracolma. Sua madre si dimenticava spesso di prendere la posta - era una donna piuttosto
distratta dal punto di vista amministrativo della casa, ma non al punto da farsi ritenere da Eve una cattiva madre.
Quest’ultima le voleva molto bene, anche se, a causa del suo lavoro e dei propri impegni, la poteva vedere sì e no
qualche mattina e alcune sere nell’arco della settimana. Era ancora molto giovane e non era un segreto che avesse
partorito la prima volta a diciotto anni. Ora ne aveva trentasei e per una donna di quell’età avere già una figlia
maggiorenne era raro.
Eve afferrò il sottile plico di posta e, una volta varcata la soglia, si occupò di posare il tutto sul tavolo della cucina. Non
si curò di depositare lo zaino e la sacca che portava sulle spalle, né si slacciò la giacca, decise di dare una scorsa
veloce alle buste e poi volare al piano di sopra per la doccia.
Bollette, alcune riviste indirizzate a sua madre, volantini pubblicitari.
Nulla d’interessante, solo una lettera silenziosa e dai mille timbri diversi giaceva placida tra la routine.
Una piccola, anonima busta.
Eve notò che il recapito era stato barrato, il vecchio indirizzo sostituito molto probabilmente da un segretario delle
poste, che si era premunito di scrivere quello nuovo a fianco. Poi voltò di nuovo la lettera per constatare che non c’èra
il nome di alcun mittente, ma doveva sicuramente provenire da molto lontano perché i francobolli non erano quelli
giapponesi ed inoltre era stata timbrata più volte.
Finalmente si decise ad aprirla.
Non appena gli occhi incontrarono le prime righe, la sua espressione mutò da incuriosita a turbata. Aggrottò le
sopracciglia, la data era di diversi mesi addietro.
Un tuffo al cuore.
“Cara Eve,
sono sicuro che mamma non leggerà mai queste righe, per questo mi rivolgo solo a te.
È trascorso da poco il mio sedicesimo compleanno, forse ti ricordi che sono nato il 10 di giugno e volevo augurare a te
un buon diciottesimo compleanno. Così anche la mia sorellina è diventata maggiorenne! Come ci si sente?
Credo di dover smettere con questa commedia e passare a svelarti subito il motivo per il quale ti sto scrivendo queste
poche righe.
Papà sta molto male. Gli è stato diagnosticato un cancro al fegato.
Non riesco ad usare parole che possano alleviare la notizia, o fare in modo che questa giunga a te in modo meno
diretto, non ci riesco.
I medici dicono che si potrebbe guarire con un trapianto, ma lui è fermamente convinto di non voler subire alcuna
operazione.
Sta peggiorando, morirà tra qualche tempo. Continua a ripetere nel sonno il nome di Nicholas e dice non preoccuparmi
per lui, ma io lo sento, lo vedo, lo avverto vecchio, cambiato, deteriorato.
Eve, ho paura. Tu sei l’unica a cui possa rivolgermi.
Per cui ti prego, non buttare via questo foglio di carta e appena puoi chiamami, ho riportato in calce tutti i numeri e gli
indirizzi a cui puoi fare riferimento.
Ti voglio bene,
Dex.”
La lettera le sfuggì dalle mani e toccò terra con un tonfo impalpabile e senza alcun suono.
Gli occhi fissi sulla busta.
La mente sgombera, quasi immersa in un limbo bianco e silenzioso.
Ci vollero diversi istanti prima che Eve si chinasse per raccogliere il foglio di carta e riporlo con flemma nella busta.
Si scostò dal tavolo e lasciò la cucina per raggiungere la propria camera da letto, aleggiante come uno spettro.
Infilò la lettera in un cassetto, avendo cura di richiuderlo con entrambe le mani.
Mentre si muoveva, i suoi occhi vuoti, spenti, erano fissi e vacui.
Una volta arrivata nella sala da bagno, si premunì di aprire l’acqua calda, lasciando che il vapore cominciasse a
formarsi. Lasciò cadere ogni indumento l’uno sull’altro, senza badarvi; la sua pelle bianca pareva silenziosa e delicata
quanto il suo stesso animo in quell’istante surreale.
Soltanto mentre si immergeva nella vasca stracolma d’acqua fumante, cominciò a riprendere contatto con la realtà. Le
sue movenze ed i gesti vuoti scomparvero dal suo immediato ricordo, fu come se fino ad allora si fosse trovata in uno
stretto passaggio onirico dalle forme e dai colori distorti.
Papà.
A stento ricordava la sua faccia.
Eppure non erano passati dei secoli, aveva semplicemente voluto dimenticarlo.
Ed ora... non era possibile che stesse per morire anche lui.
Le parole che aveva appena letto le sorsero alla mente come se in quell’istante stessero fluttuando nel vapore, sopra
di lei.
Morire. Cancro. Rifiutare l’operazione.
Perché?
Ripetere il nome di Nicholas.
Eve ebbe un fremito di rabbia e frustrazione.
Nicholas era soltanto suo.
Un nodo duro e tagliente le attraversò la gola, per fermarsi giusto sotto il palato. Non doveva piangere, non di nuovo.
Aveva fatto una promessa a sé stessa.
21
Già... quante promesse si era fatta da quel giorno. E nonostante non ne avesse infranta nemmeno una, sentiva che ciò
che aveva costruito con fatica, ciò che si era sforzata di dimenticare, ciò che con lacrime e sangue era riuscita a
rimettere in piedi... che tutto questo era sul punto di essere abbattuto di nuovo, come un castello di carte.
E poi c’era Dexter.
Pena? Compassione? Angoscia? Che avrebbe fatto se papà fosse morto?
Nonostante fossero anni che non riceveva sue notizie, lo ricordava come un ragazzo sensibile che si sforzava di
mostrarsi forte per non cadere.
Non avrebbe mai retto se l’avesse lasciato: suo padre era l’unica persona che aveva vicino, contava su di lui, era un
esempio, gli voleva un gran bene.
Il mondo intorno a lei stava crollando. Per un’ennesima volta le pareti della sua vita stavano lasciando andare la loro
aria solida e si liquefacevano come burro. Inconsistente.
Che doveva fare? Che diavolo doveva fare?! Chiamare il fratello? O fare finta di non aver mai ricevuto quella lettera?...
L’unico concetto che riuscì a porre su un piano razionale fu il desiderio di non rimanere chiusa tra le quattro mura di
casa, ma di rimanere sola, nel vento. Di camminare tra anonime facce bianche, mescolarsi tra la folla e tentare di
annullare la sua identità, la sua individualità che tante, troppe volte, le aveva ridotto in pezzi il cuore.
Si sentiva la testa pesare come se il suo collo dovesse sostenere un macigno.
Ma dove diavolo si trovava?
Chi se ne importa.
Continuava a camminare, senza badare a nient’altro.
Si fermò conto quello che le parve un muro e sospirò.
Il suo girovagare disperato l’aveva condotta in tre differenti locali di cui ignorava addirittura l’esistenza ed ora si
trascinava lungo un’ampia strada deserta.
Strano per essere un sabato sera, di solito ogni via brulicava di giovani e coppie il cui scopo era quello di lasciarsi alle
spalle le fatiche di un’intera settimana, divertirsi e staccare la spina.
Chissà dove si trovava? Scosse forte la testa per levarsi di dosso quella sensazione di confusione e stordimento, ma
non fece altro che peggiorare le cose: il mondo vorticava vertiginosamente intorno a lei e solo quando chiuse forte gli
occhi accennò a fermarsi. Affondò le mani nelle tasche, per poi estrarne poco dopo il pacchetto di sigarette. Ne portò
una alle labbra e sospirò di nuovo, mentre l’accendeva con mano tremante.
Si rimise l’accendino in tasca ed inspirò profondamente il tabacco.
Guardò fisso davanti a sé, poi attraversò la strada a passi lenti e strascicati, appoggiandosi poi al parapetto della
strada. Fissò giù, in basso: un dirupo piuttosto scosceso... e poi le luci della città. Tirò di nuovo e si sedette dando le
spalle al centro abitato.
Si sentiva ebbra, malinconica e stordita allo stesso tempo, la sua mente non riusciva a canalizzare più alcun’idea
lineare e coerente; non sapeva nemmeno ciò che stava facendo.
- A casa non risponde.- annunciò inquieta Ayame, riappendendo la cornetta.
- Non ti preoccupare, vedrai che ha avuto qualcosa da fare o si è semplicemente dimenticata.- Kazuki le mise una
mano sulla spalla, Aya sospirò.
Ken invece non era per niente tranquillo.
- Io direi che possiamo tornarcene a casa. È quasi la una.- fece Kojiro, lanciando un’occhiata al padrone di casa.
Takeshi annuì, seppur mantenendo la sua aria poco serena. Accompagnò gli amici fuori, rammaricato. Chissà perché
Eve non aveva neppure avvertito che non sarebbe venuta...
- D’accordo.- fece poi, rassegnato.
Il volto pallido di Ayame fece capolino dall’auto di Kazuki, rivolta al portiere, che era rimasto pensoso sulla soglia del
basso cancello bianco.
- Che fai, non vieni?- gli chiese, dal sedile anteriore. Ken scosse il capo.
- No, vado a piedi. Tanto abito qui dietro e due passi non possono farmi certo male.- fu la sua risposta vaga.
- Come vuoi, ci vediamo!- lo salutò il ragazzo, in posizione di guida. Prima di allontanarsi, Wakashimazu fece in tempo
a cogliere un nuovo sguardo di Kojiro, eloquente, come se si stesse raccomandando di fare attenzione.
Ken alzò una mano in cenno di saluto e si allontanò dalla casa dell’amico più giovane, dopo aver rivolto anche a lui un
silenzioso ‘a presto’.
Niente. Le luci erano spente e al campanello non rispondeva nessuno. Era di sicuro fuori.
Il portiere si spostò lungo il marciapiede, forse era meglio tornare.
Così si allontanò anche dall’abitazione di Eve e si diresse verso casa propria, passando davanti al campo che era stato
teatro del loro secondo, rapido incontro.
Fu allora che notò una figura trascinarsi sulla strada, in direzione opposta. Un’ombra quasi conosciuta, al di là della
terza rete, che lo spinse ad avvicinarsi.
- Eve! Ma dove... - esclamò, una volta riconosciutola, afferrandola per le spalle.
- Non urlare!- gridò lei, seppur non avendo cognizione dell’identità dell’interlocutore - Mi fa male la testa...- aggiunse
in un soffio, appoggiandosi pesantemente al muretto con la schiena, poi si batté forte una mano sulla fronte.
Tirò un’ultima volta dalla sigaretta, poi gettò il mozzicone sulla strada.
Ken fu investito da un penetrante ed intenso l’odore misto d’alcool e fumo, tanto che sul suo viso si disegnò
un’espressione tra lo stranito e l’irritato.
- Sei ubriaca!- esordì, stentando a credere ai propri sensi.
- Non è vero... mai stata meglio. - balbettò Eve, in tutta risposta.
Lui le si avvicinò di nuovo, guidandola fino ad una panchina poco più in là, accanto alla fermata deserta dell’autobus.
La ragazza emetteva gemiti di dolore intervallati da sospiri rotti, evidentemente si sentiva come se le stesse
scoppiando la testa. Frugò nervosamente nella tasca del giubbotto ed estrasse il pacchetto di sigarette, quando lo aprì
si accese l’ultima e lanciò di nuovo l’involucro in mezzo alla strada. Poi prese a giocare con l’accendino, passandoselo
tra le dita e accendendolo a tratti.
22
Ken non parlava, fissava soltanto il volto sfiancato e contratto di Eve illuminarsi per brevi istanti e poi ripiombare nel
pallido bagliore dei lampioni.
- Che hai da guardare?- sussurrò lei, infastidita.
- Che ti è successo?- ribatté lui, senza tono.
Eve non vi badò, anzi, si alzò di scatto e prese a cantare.
- Io non so come dirgli che non voglio sprecare il mio tempo... Quando mi sentivo così stanca... ho lasciato cadere
tutto quanto... Io non voglio sprecare il mio tempo... Dimmelo tu, come faccio a dirgli che non ho più tempo... - erano
parole di una vecchia canzone che non credeva le fosse rimasta impressa - da sobria non l’aveva mai nemmeno
fischiettata una volta - forse per il significato delle parole, forse per la melodia.
Ci volle poco perché la voce pesante della ragazza si tramutasse in urla quasi disperate. Per Ken era un supplizio
ascoltare quella voce che più volte aveva ritenuto calda e matura, così storpiata e vedere la stessa Eve talmente
ubriaca da non riconoscerlo neppure.
La raggiunse in piedi, tappandole la bocca con una mano.
- Ma sei matto?!- protestò la bionda - Così mi soffochi! Mi soffooooochi!!- finì per tramutare le ultime parole in falsetto,
nel tentativo di riallacciare la melodia.
Nell’animo di Wakashimazu si fece largo uno strano sentimento di nervosismo; più le si faceva vicino e più l’acre odore
di fumo e alcolici gli invadeva le narici e più tentava di darsi una spiegazione razionale, più lo sconvolgimento di sapere
Eve in quello stato mandava all’aria ogni pensiero sensato.
- Un momento... ma noi ci conosciamo... - gli piantò in faccia i suoi occhi azzurro cupo, fissandolo così da vicino che
quasi con la bocca poteva sfiorare il suo mento.
- Gattino!!- esclamò allontanandosi di scatto e ridendo - Che bello vederti! Hai fatto i tuoi allenamenti? E gli altri?Eve si frenò di colpo, ed altrettanto di colpo smise di sorridere.
- Oh... ma oggi non dovevamo andare da Takeshi?... mi sono dimenticata!!- scoppiò di nuovo in una risata fragorosa.
Era effettivamente fuori di sé.
Ken non aveva ancora accennato alcuna parola, si limitava ad osservarla con dipinta sul volto un’aria dura.
Cosa diavolo le era saltato in mente di fare?! Mentre i suoi occhi erano fissi su di lei, la prima cosa che si trovò a
pensare fu solo che si stava rovinando; stava maltrattando il suo corpo, con il fumo, l’alcool... e il suo bel viso, fino ad
allora così serio, coscienzioso e riflessivo.
Quella sera era tutto trasformato. Tutto di lei aveva mutato forma: il volto era stravolto e il sorriso isterico, le
movenze nervose ed incontrollate.
Non poté attendere oltre, così si appressò un’ultima volta a lei, che non aveva frenato un attimo la sua convulsa risata.
Ora si stava togliendo la giacca e la felpa che aveva indossato quella sera e le stava gettando sul marciapiede, mentre
faceva delle giravolte su sé stessa e si scopriva le braccia, tenendo la sigaretta stretta tra le labbra.
- Neveeee! Neeeeve!!- invocava al cielo.
- Basta! Eve, smettila!!- Ken afferrò la sigaretta dalla sua bocca e gliela strappò dalle labbra, gettandola via. La
scosse, agguantandola di nuovo per le spalle con una stretta ferrea. La ragazza perse d’un tratto il suo confuso sorriso,
per coprirsi il viso con i pugni, fissando gli occhi scuri e arrabbiati di Ken sotto la luce fioca del lampione, da dietro le
dita.
- Fammi male! Picchiami!! Voglio andare da Nicholas!!- urlò di nuovo - Portami da Nicholas!Lui fu colpito da una sordida confusione, all’udire quelle parole, ma il buon senso gli intimò di non perdere altro tempo,
tentare di calmare Eve e riportarla a casa.
- Eve, ora basta. L’ultima cosa che farei è picchiarti.- le disse senza rabbia, diminuendo la presa su una spalla e
prendendole quasi dolcemente entrambe le mani con la sua.
- Adesso basta!- urlò di nuovo lei - Mi sono stancata di costruire tutta questa montagna di stronzate! Lasciami andare
da Nicholas... Nicholas...- il tono della voce della ragazza si stava smorzando, mano a mano che con dolore invocava
quel nome, ma le mani erano tornate all’altezza del petto di Ken ed ora battevano forte, straziate.
Wakashimazu avvertì una forte nota di spasimo nella sua voce, che gli penetrò fin dentro il cervello. Per un qualche
strano, sconosciuto motivo, fu quasi sul punto di non respirare più. Un’oscura sensazione di contrarietà gli percorse le
vene, giungendo fino alle mani, che presero a prudergli come se da un momento all’altro fossero pronte a prendere a
pugni l’intero mondo.
- Non ti farò male, capito?- si chinò su di lei, canalizzando quella sensazione in un abbraccio. Le cinse la vita ed il capo,
guidandola stretta a sé e portando la sua fronte fredda e sudata accanto al proprio collo tonico e profumato di colonia.
- Ora calmati, mi capisci, Eve? Eve, ci sono io. Ci sono io... sempre.- con ritmo cadenzato, ripeté volutamente le
medesime parole più volte, dandole modo di percepirle e di placare la rabbia, l’ebbrezza, il dolore.
Il suo sussurro le giunse chiaro, nonostante la confusione, la nebbia dei sensi. E la sua bocca sulla propria guancia le
procurò una calda emozione di famigliarità, di protezione.
Il contatto le fece spalancare gli occhi, incredula. Perché la stava abbracciando?
Perché la stava proteggendo?
Perché la stava conducendo via, lontano da Nicholas?
Finalmente giunse dinnanzi all’uscio di quella casa che aveva sorpassato qualche ora prima. Le luci erano tutte spente,
provò a suonare al campanello, ma non ricevette risposta.
Era evidente che non c’era ancora nessuno.
Fece scendere Eve dalle sue spalle con un’attenzione piuttosto riservata, mentre frugava in una sue delle tasche
sperando di trovare le chiavi.
Intuizione corretta, dal momento che la ragazza non aveva con sé una borsetta. Ci volle poco perché il piccolo mazzo
metallico gli scivolasse tra le dita, accompagnato dallo scampanellio del portachiavi d’argento.
Infilò la più grande nella serratura, palesemente la chiave d’ingresso - di quelle che si fabbricano per i portoni - e dopo
un po’ di giri la porta si poté aprire.
- Dov’è la tua stanza?- le sussurrò. Lei alzò fiaccamente lo sguardo, accompagnato da un debole gesto con la mano,
verso le scale. Il portiere la aiutò a salire i gradini, sorreggendola finché raggiunsero la prima porta in legno bianco,
che fortunatamente era proprio la stanza di Eve.
23
Ken accese la luce e la fece distendere sul letto, mentre lei si copriva gli occhi con le dita, infastidita dal bagliore
improvviso.
Gli occhi del ragazzo spaziarono per la stanza, una volta preso un sospiro profondo; involontariamente si trovò ad
incontrare schizzi sparsi sulla scrivania scura, matite e pennini senza cappuccio, righelli e tempere scoperte. Sulla
parete, invece, fissate con delle puntine rosse, tavole intere dipinte e perfettamente rifinite, sfumate,
particolareggiate. Un paesaggio, ritratti, montagne e poi... i mulini dell’Olanda.
Scostò lo sguardo, di nuovo sul tavolino basso, dove ancora un grande foglio giaceva incompiuto. Eve stava lavorando
su uno studio di un guerriero, a quanto pareva. Stava rifinendo le circonvoluzioni di un’armatura decisamente
complessa e l’elsa di una spada intarsiata e luminosa. Prese quel grande foglio tra le dita, per un angolo, stando
attento a non rovinare o compromettere nulla e fece per lodare mentalmente la bravura e la pazienza della compagna,
quando un nuovo pezzo di carta, più piccolo e certamente non destinato alla lavorazione con dei costosi colori, scivolò
giù dalla scrivania.
Ken si chinò a raccoglierlo, ma si fermò rimanendo accovacciato e con l’espressione piacevolmente stupita che aveva
assunto nel riconoscere sé stesso, Kojiro e Takeshi raffigurati come dei piccoli personaggi un fumetto, mentre si
scambiavano delle vicendevoli boccacce infantili. Era carino, tanto che si trovò a sorridere di tenerezza.
Ed era altrettanto carino e lusinghiero sapere d’essere - almeno ogni tanto - nei pensieri di Eve.
- Nevica...?- il sussurro di lei lo strappò alle sue considerazioni.
- No, non nevica.- rispose lui, mentre riappoggiava il foglietto sul ripiano e si slacciava il giubbotto. Eve era ancora
sdraiata con il dorso di una mano sul volto ed un’espressione vuota.
- Peccato. Tu dici che nevicherà?- farfugliò ancora.
- Non lo so.- fece Ken, posando la giacca su una sedia ed afferrando la coperta che stava sulla poltrona poco distante.
Mentre faceva sedere Eve e la liberava dalla felpa maleodorante di fumo, avvertì il tocco gelido delle sue mani.
Si affrettò a circondarle le spalle con il plaid, sfregando al contempo le proprie braccia su quelle della ragazza, che
però, d’un tratto, si ritrasse e si circondò i bicipiti con le mani.
- Non... non toccare il mio braccio...- mormorò, quasi incerta ed ancora annebbiata.
Alla mente di Wakashimazu sorse il ricordo della fasciatura che Eve aveva portato quell’estate, durante i loro primi
incontri. Poi erano sopraggiunte le maniche lunghe e così non aveva più avuto occasione di accertarsi se la ferita fosse
guarita oppure no o, semplicemente, aveva convenuto fosse stato così, legittimo dopotutto.
Ma in quel momento quel pensiero passò presto in secondo piano, ciò che contava era che lei si sentisse meglio al più
presto e, da parte sua, capire per quale motivo Eve avesse fatto una cosa tanto stupida in un momento così
apparentemente sereno.
La strinse a sé, allontanando le mani dal suo braccio e passandogliele sulle spalle, che trasse verso il proprio petto.
Per un attimo le parve di avvertire il profumo intenso di Ken. Le parve che Ken, il portiere, la stesse davvero
abbracciando, riscaldando, proteggendo... e non fosse tutto solo un brutto sogno od un’allucinazione.
Il ragazzo abbassò lo sguardo e discostò il viso della ragazza dal proprio collo. Il suo fiato caldo e profondo gli aveva
fatto ben intuire che si fosse addormentata.
Guardò distrattamente l’orologio, erano quasi le due e mezzo.
Decise su due piedi di non tornare a casa, quasi non fece in tempo a razionalizzare il pensiero. Sua madre sapeva che
se non rincasava, era perché si fermava a dormire da Kazuki, capitava spesso, non c’era ragione di farla preoccupare.
Rimase lì, in quella stessa posizione, ancora per qualche istante. Teneva ancora Eve tra le braccia, mentre il suo petto
si alzava ed abbassava ad intervalli regolari.
Dietro quel volto marmoreo e silente era convinto fosse nascosto qualcosa di molto più difficile da immaginare che una
lite familiare, una divergenza o una semplice serata allo sbando, quale poteva essere la causa delle azioni della
ragazza, quella sera.
Lasciò che, allentando la presa, il corpo di Eve si distendesse placido sul materasso, mentre lei seguitava ad essere
immersa nel sonno. Fece per alzarsi dal letto e dirigersi verso il bagno per rinfrescarsi il viso, quando fu preso da una
strana curiosità. Le sue attenzioni si canalizzarono di nuovo in blocco su di lei, tanto che, quasi senza nemmeno
accorgersene, si trovò a scoprirle parzialmente il braccio dal lembo della coperta e dalla corta manica della maglietta,
finché la pelle libera dalla fasciatura poté rivelare ciò che con tanta tenacia voleva essere a tutti i costi celato.
Una cicatrice.
Un profondo sfregio trasversale proprio sul bicipite.
Per quanto poco se ne intendesse Ken, immaginò che non fosse così recente; si trattava di una ferita già rimarginata
da tempo e che di certo non si rifaceva a quell’estate. A giudicare dalla profondità del taglio, era come se ciò che
l’avesse colpita con tanta veemenza da penetrarle nella carne, risalisse ad un tempo decisamente molto anteriore
addirittura a quello stesso anno.
L’ovvia domanda che si pose fu come fosse potuta accadere una cosa simile. Che cosa o chi l’aveva ferita. E com’era
mai potuto succedere. In quale occasione, per quale ragione.
Realizzò in poco tempo che, dunque, la fasciatura che portava non era nient’altro che un modo per nascondere la
lesione. Per occultarla e quasi... proteggerla, come se gli occhi del mondo potessero riaprirla soltanto guardandola.
Fu un attimo, un soffio, un sospiro.
Le sue dita spaziarono su quel braccio niveo e a poco a poco più tiepido, fino a delineare con una carezza i contorni
della cicatrice, tanto dolcemente quasi avesse timore di frantumare un cristallo.
- Che cosa succede, Eve?- bisbigliò, poggiando la propria fronte sulla sua e lasciando che l’oro e l’ebano dei loro capelli
si mescolassero in una danza fluente.
Passi pesanti sul pavimento, talloni che battono forte sulle mattonelle nude, poi un acuto colpo di tosse e un lamento
soffocato.
Ken aprì lentamente gli occhi.
Il sole inondava la stanza, già alto, tanto che fu costretto a coprirsi gli occhi con una mano per evitare il classico
bruciore del mattino.
Si sfregò le palpebre e si stiracchiò stancamente, scostandosi dalle coperte ancora calde e prendendo a guardarsi
intorno alla ricerca della confusa compagna di quella notte, ma non trovando altro che la porta del bagno semiaperta
dinnanzi al volto ancora assonnato.
24
Decise di alzarsi, nonostante avesse dormito con addosso jeans e maglietta - ora inutilmente ed inevitabilmente
stropicciati. Riconoscendo lo scroscio dell’acqua, si avvicinò alla già socchiusa soglia del bagno e con un leggero colpo
delle nocche, l’aprì.
Eve era china sul lavandino, tossendo forte e bagnandosi la faccia con ampi getti d’acqua gelida. Lui non disse nulla,
solo afferrò l’asciugamano accanto al ripiano e glielo porse.
- Non mi serve aiuto.- la voce della ragazza gli suonò quasi metallica e le sue parole più assurde che superbe.
- Non dire stupidaggini, lo vedi come sei ridotta?- si sentì di replicare, incredulo.
Lei chiuse con veemenza il getto, poi tornò ad appoggiarsi con le mani serrate alla ceramica nivea del lavandino. Era
come se mille tamburi le stessero rombando nelle orecchie ed i colpi delle bacchette si scagliassero direttamente
contro le pareti del suo cervello.
- Ho detto che non mi serve aiuto!- ripeté, nervosa, stavolta alzando la voce.
Ken immaginò che non dovesse essere ancora in sé, dal momento che l’irrequietezza del suo tono era percepibile a fior
di pelle, così si avvicinò di nuovo, poggiandole un braccio sulla schiena e l’altro a tenderle l’asciugamano.
- Non prendermi per una bambina stupida!- gli strappò la salvietta di mano - Non mi serve il tuo aiuto! Levati dai
piedi!- si discostò di scatto, con un grido quasi isterico.
Per un attimo a Wakashimazu salì in gola l’istinto di afferrarla per le spalle e scuoterla violentemente, finché non
avesse perso i sensi ed allora... allora avrebbe potuto trarla di nuovo a sé e saperla tranquilla.
- Finiscila! Non ti lascio qui in questo stato!- si trovò invece a ribattere, infastidito.
- Piantala di fare il premuroso, non ti ho certo chiesto io di aiutarmi!- gli occhi azzurri di Eve erano colmi di grigio
rimorso - E adesso levati dai piedi!Lui contrasse i pugni, scuotendo il capo. Che diavolo le era preso, tutt’un tratto?
- Eve tu non sai quello che dici! Non sei ancora del tutto sobria!- asserì, con espressione inasprita - Hai corso un bel
pericolo ieri notte ed hai avuto fortuna che t’abbia trovata! Non sai chi avresti potuto incontrare, quanti pazzi
potrebbero abusare di una ragazza che non capisce niente?! Fin troppi!- Ah, sì?- la bionda si scostò un ciuffo dal viso, portandosi una mano al fianco - Allora immagino che tu ti sia divertito
parecchio con me mentre non capivo un accidente!- le parole le uscirono dalla bocca senza averle pensate.
Il capo le doleva atrocemente, le pulsavano le palpebre, arrossate; avvertiva il battito del proprio cuore salire a mille,
non si ricordava di nulla e, mentre gridava, pareva che la testa le stesse per scoppiare da un momento all’altro.
E, dopotutto... silenzio.
Si fissavano negli occhi senza aggiungere nulla, solo le gocce del rubinetto mal chiuso scandivano il procedere del
tempo. Eve avvertiva pesantemente la rabbia di quei pugnali scuri e penetranti, immobili dentro i suoi occhi.
Rimasero lì, lei che tentava di mantenere un’espressione cinica ed indifferente, ma maliziosamente altezzosa e lui, che
si sarebbe mangiato il fegato pur di farle comprendere che non c’era nulla a cui alludere e che razza di azzardo
concreto aveva corso la sera prima.
Ma fu un attimo.
Ken si voltò, varcò prima la soglia del bagno, afferrò la giacca e si tirò dietro quella della stanza da letto.
Se ne andò.
Ed Eve restò sola con il rumore rimbombante nella sua testa dell’uscio sbattuto brutalmente.
Indugiò in piedi con l’asciugamano in una mano per qualche secondo poi, quando udì anche la porta d’entrata chiudersi
con la medesima violenza, sussultò e si svegliò da quella specie di trance.
Il mondo intorno a lei ricominciò a vivere; si gettò in ginocchio e con rabbia strinse gli occhi, scagliando un pugno al
pavimento.
Le nocche si fecero rosse quasi subito e lo spasimo del colpo si propagò in tutto il suo fisico già svigorito.
- Dannazione!- urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, prolungando la parola in un grido.
Non le importava del dolore lancinante che aveva alla testa, non le importava del suo corpo che pareva sfaldarsi, non
le importava assolutamente di nulla se non di lui, l’unico a cui pareva importare qualcosa di lei... le aveva voltato le
spalle... e se n’era andato.
Non una parola. Niente. Era stato orribile, una sensazione orrenda, e la cosa peggiore era ch’era stata proprio lei a
volerlo. Gli aveva rivolto parole che non avrebbe mai potuto nemmeno pensare di indirizzargli.
Era stata crudele ed ingrata.
E lui? Lui si era occupato di lei senza chiedere nulla, anzi, dimostrando addirittura apprensione.
Sebbene si ricordasse poco o niente di quella notte, dei flash le soggiunsero dinnanzi agli occhi, come la fermata
dell’autobus, l’alcool... e poi?
Wakashimazu l’aveva evidentemente portata a casa e le era rimasto vicino fino alla mattina. Quando si era svegliata
aveva avvertito una strana sensazione di calore e protezione, come se qualcuno la stesse cullando.
Solo quando realizzò che quel qualcuno non era parte di un sogno, ma era proprio Ken, era corsa subito in bagno,
dove era rimasta fino a quel momento.
Un conato improvviso la colse, facendola voltare di scatto verso il lavandino, dove cominciò a tossire impetuosamente,
quasi con rabbia, tanto da farle parere di star rigettando lo stomaco intero.
Ken aveva l’aria di essere veramente furibondo.
Si fermò di scatto, piegandosi sulle ginocchia.
Il sole della domenica pomeriggio brillava tenue sulle strade velate di brina. Era uscito a correre un po’, nonostante il
freddo. Era da pazzi, ma non riusciva a restare fermo.
Si domandava ancora che diavolo si fosse messa in testa Eve e se, soprattutto, aveva fatto bene ad andarsene e
lasciarla sola, pieno di rabbia.
Sicuramente aveva ancora bisogno di una mano, aveva l’aria di dover rigettare da un momento all’altro, eppure non
aveva retto all’insulto. Non si credeva così scioccamente permaloso.
Certo, l’azione di Eve poteva considerarsi benissimo un’evasione che prende tutti prima o poi, ma gli era rimasto
impresso il suo comportamento, era quasi sul punto di piangere dalla rabbia, o forse dal dolore e l’aveva implorato di
farle del male.
Si era sentito morire. L’aveva abbracciata, stretta quasi a soffocarla per implorarla di smettere. E le aveva assicurato
la sua costante presenza... sempre.
25
In quell’istante, mentre pronunciava quella parola, si era sentito più sicuro e più distrutto che mai a dover assistere ad
uno spettacolo simile. Ovvio che non l’avrebbe mai colpita... e poi quel nome: Nicholas.
Si era chiesto più volte chi fosse, dove fosse e perché Eve volesse raggiungerlo. Forse in Europa o magari a Okinawa...
erano tutte domande a cui non sapeva rispondere e gli bruciava non poterlo fare. Per la prima volta si era sentito
totalmente impotente, incapace di evitare uno scontro verbale, non all’altezza di sostenerlo.
E così si era allontanato, sebbene in quell’istante desiderasse ardentemente essere rimasto ed essersi preso cura di
Eve fino alla fine.
Sospirò pesantemente e riprese a correre, proprio nel momento in cui il ricordo della notte di sonno trascorsa accanto
a lei gli affiorò tiepido alla mente.
Quella mattina raggiunse la scuola in tutta calma, quasi non avesse voglia di entrarvi.
Non era né in anticipo né in ritardo, se l’era semplicemente presa comoda. Ormai si sentiva meglio, a parte l’umore. In
verità avvertiva ancora un po’ di mal di testa, ma non pareva preoccuparsene più di tanto.
Era stata più di un’ora sotto la doccia, voleva lavare via quel senso di tristezza, rabbia e frustrazione che aveva
addosso, ma evidentemente non ci era riuscita.
Non faceva che ripensare a ciò che aveva fatto, alla lettera, allo smarrimento e poi lo sconcerto, l’alcool... e Ken.
Una fitta le strinse lo stomaco, mentre un nuovo nodo in gola le impedì di deglutire.
Lo aveva davvero trattato da schifo. Non lo meritava di certo, ma si era subito resa conto che lui si era preso troppa
confidenza. Non era questo ad averla infastidita a quel modo, anzi le faceva quasi piacere ma... ma non poteva
permettere a nessuno di entrare nel suo cuore, di guardare ciò che conteneva ed addirittura di sperare di farne parte.
Non lo poteva permettere.
Era già troppo il fatto che Ken desiderasse proteggerla. Troppo. Eppure sentiva in seno un tremendo senso di colpa.
Stava... stava camminando verso di lei! Oh, meraviglia! Stava fissando proprio lei!
Mizuki si stava sciogliendo. Il suo piano infallibile aveva colpito ancor prima di essere messo in atto!
Difatti sarebbero dovuti partire per la gita di lì a poco, ma ciò che stava accadendo andava al di là di ogni sua più
rosea previsione.
Così tentò di disegnare sul proprio volto il suo solito sorriso spontaneo, ma l’unico risultato che riuscì ad ottenere fu il
nulla totale: Kojiro le passò di fianco senza badare minimamente a lei.
Mizuki fu spiacevolmente sorpresa, aggrottò le sopracciglia e fece per corrergli dietro, quando fu fermata da un
ragazzino che le si piantò dritto tra i piedi.
- Ehi!- si lamentò lei - Vuoi farmi venire un infarto?Il ragazzo socchiuse gli occhi scuri sorridenti e rise.
- Scusa! Non volevo farti spaventare!- la trovava a tratti buffa.
- Ci mancherebbe altro! Ora levati!- esclamò Mizuki, cercando di seguire Kojiro almeno con lo sguardo.
- No, no! Un attimo! Volevo chiederti una cosa!- le andò dietro, fermandola di nuovo.
- Cosa vuoi?- sospirò la ragazza, alzando gli occhi al cielo, mentre il capitano del Toho spariva giù per le scale.
- Tu sei molto amica di Eve, vero?- domandò Takeshi, tentando di catturare l’attenzione dell’improvvisata
interlocutrice. L’altra assunse un’espressione interrogativa.
Amica? Mh, per quanto riguardava lei, sì certamente, Eve era una grande amica... ma non era molto sicura che l’altra
ricambiasse con così tanto trasporto. Ad ogni modo annuì.
- Volevo solo sapere se tu sai cosa le prende. È da lunedì che la vedo così... vuota. Hai notato?Mizuki annuì ancora, accantonando del tutto il sogno di salutare il bel cannoniere.
- Sì, ma non so che le sia successo. Però quando è così preferisce essere lasciata sola, non chiederle che ha e
soprattutto non offrirti di aiutarla, non lo accetterebbe mai e ti risponderebbe male. E’ uno di quei periodi no che
vengono a tutti, non ti preoccupare.Gli si stava rivolgendo con molta confidenza anche se in realtà non gli aveva mai parlato prima e, soprattutto,
accidenti! La colse un brusco ritorno alla realtà: Kojiro era sparito! Sbuffò profondamente, portandosi le mani
ingioiellate ai fianchi.
- Mh... spero le passerà!- replicò lui - Comunque, grazie!- sorrise ancora, prima di voltarsi e fare per andarsene. Mosse
due lunghi passi di corsa lungo il corridoio, poi si voltò di scatto e tornò indietro.
- Scusa, non mi sono nemmeno presentato. Io mi chiamo Takeshi!- il ragazzo non smetteva di sorridere e di nuovo se
ne andò così come era venuto, non lasciando neanche il tempo a Mizuki di dirgli il suo nome.
Piuttosto alienato per i suoi gusti, quel tizio.
Poi scosse la testa e tornò improvvisamente seria.
Eve... possibile che si tratti ancora di Nicholas...? pensò, dirigendosi a passi lenti verso il cortile esterno, dove sperava
di incrociare di nuovo Kojiro.
Era stato tutto un gioco di sguardi per un’intera settimana: lui la fissava, poi distoglieva lo sguardo, lei lo guardava e
repentinamente si voltava.
Ken sospirò.
Non aveva detto a nessuno ciò che era successo, aveva solamente spiegato agli altri che Eve non si era sentita bene.
Ma pensandoci e ripensandoci era giunto alla conclusione di non poter più reggere quella situazione. Le avrebbe
parlato non appena fosse capitata l’occasione.
Ayame camminava accanto a loro, Ken e Kojiro.
Eve se n’era già andata e quel giorno Kazuki non c’era. La ragazza non aveva nemmeno provato a parlare con la sua
compagna. La vedeva fredda, distaccata... e ad un certo punto aveva inteso che c’era qualcosa che non andava. I suoi
occhi non avevano espressione, stava piuttosto male - o perlomeno non bene - ed Ayame l’aveva compreso,
nonostante la volontà di Eve di dissimulare l’apparenza.
Aveva deciso di partecipare comunque alla gita, stare lontano da casa le avrebbe fatto solamente bene - senza contare
che aveva versato la caparra almeno due settimane prima.
Eve si voltò appena in tempo verso il corridoio principale e vide Ayame arrivare di corsa.
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- Ciao!!- esclamò quest’ultima, riprendendo fiato. Si era prefissa di far tornare alle stelle il morale di Eve, cercando di
essere il più allegra possibile - un’impresa piuttosto difficoltosa anche per lei.
- Ehi, che allegria!- l’altra si sforzò di sorridere.
- Già! Dovresti sorridere anche tu! Da oggi abbiamo quattro giorni da trascorrere insieme! Non sei felice? Entusiasta?
Non stai nella pelle, nh?- le batté una mano sulla spalla, provando una tattica più diretta.
Eve sorrise di nuovo, ma si limitò a non aggiungere altro.
Quando salirono sull’autobus, erano già stati divisi in gruppi per ogni due classi. La ragazza si diresse senza pensarci
due volte verso uno degli ultimi posti in fondo, seguita da Ayame e ben presto furono raggiunte da Ken e Kojiro che
litigavano tra loro.
- Ti ho detto che non è colpa mia! Finiscila, Wakashimazu!- Ah, sì?- rispose bruscamente Ken - E allora a chi vuoi darla, questa colpa?- ...Takeshi!- fece a voce alta Kojiro, esclamando il nome del suo capro espiatorio.
Il portiere si sedette e scosse la testa, sciogliendosi in una risata, mentre Kojiro arrossì.
- Che hai da ridere?!- lo incalzò, tra l’imbarazzato e il contrariato - E’... è il primo nome che mi è venuto in mente!
Ken, piantala di ridere!!Il cannoniere si lanciò contro l’amico che, dal canto suo e a discapito dell’ordine del capitano, era energicamente
piegato in due. Inutile resistere, trovava estremamente buffo quando Hyuga perdeva le staffe in quel modo!
Ayame era sprofondata nella poltroncina, limitandosi a sorridere sotto i baffi. Non amava essere al centro
dell’attenzione, né vicino ad una di quelle scene che avrebbero canalizzato gli occhi del resto della classe su di lei.
Eve, invece, si limitava a seguire la scena con la coda dell’occhio. Non rise, né accennò nemmeno un piccolo sorriso.
Le sue labbra rimasero immobili e i suoi occhi tornarono a fissare fuori dal finestrino in pochi istanti.
Poco dopo venne alla luce il vero motivo del litigio: quei due rischiavano di fare tardi e, dal momento che i genitori di
Ken erano già usciti, uno doveva svegliare l’altro suonandogli alla porta di casa. Ma Kojiro se n’era completamente
scordato e a metà strada era tornato di corsa indietro, totalmente ed immediatamente memore di Wakashimazu che,
se non avesse ricevuto il segnale concordato, avrebbe seguitato a dormire fino a mezzogiorno.
Teneva gli occhi chiusi mentre gli altri parlavano. Fingendo di dormire, era sprofondata nei suoi pensieri.
Il viaggio era quasi giunto al termine e pensava che se avesse tenuto gli occhi aperti, avrebbe fatto sentire a disagio
gli altri, così immersa nel suo mutismo.
Ken si sistemò gli auricolari del lettore musicale ed affondò ancora di più nel sedile, non era certo facile divertirsi,
vedendo Eve in quello stato. Ayame si era spostata, credendo che l’amica dormisse davvero ed ora stava parlando con
quel suo speciale e dolcissimo sorriso assieme all’inavvicinabile Kojiro, il quale, stranamente, sembrava gradire la
compagnia della ragazza.
Kazuki, invece, sembrava contrariato. Se ne stava in disparte ad ascoltare il discorso dei due con un’espressione poco
bendisposta sul volto e le braccia incrociate al petto.
Si sistemarono in un albergo lontano dal centro di Onsensawa, immerso nel verde. I professori si erano dati un gran
daffare per scegliere il luogo della sosta. Ovviamente ci sarebbe stato un gran numero di siti da visitare, ma questo
non avrebbe avuto motivo d’essere d’intralcio al divertimento comune.
Aya appoggiò il borsone ai piedi del letto in cui avrebbe dormito, guardandosi intorno ed esaminando bene i particolari
della stanza. Lo stesso fecero Eve e Mizuki.
- Che ne dite di andare a mangiare qualcosa?- sorrise Ayame.
- Ma tu pensi solo a mangiare?- la riprese Mizuki, lisciandosi uno zigomo, laddove era caduto un po’ di mascara.
- Eh? Ma... se è la prima volta che dico una cosa del genere... - si lamentò candidamente l’altra.
- Sì, certo! E tutti quei pranzetti, onigiri, bento e tortine che porti alla squadra?- Mizu era piuttosto stizzita, agitava un
braccio con il caratteristico suono dei mille braccialetti tintinnanti sotto la manica del cappotto rosso.
- Finitela voi due.- sbuffò Eve - Siamo appena arrivati ed è quasi mezzogiorno. Concordo con Ayame.Mizuki sbuffò: due contro una, così si vide costretta a seguire le altre in sala da pranzo. Alcuni dei loro compagni erano
già lì, seduti ai tavoli con i piatti colmi.
Parevano tutti fremere e doversi caricare a dovere per affrontare al meglio la prima interessante escursione della
giornata. Così anche lei si gettò alle spalle l’impellente bisogno di punzecchiare Aya e si fiondò direttamente sul
vassoio dei dolci, accaparrandosi immediatamente le sfoglie più grosse e zuccherate.
Eve si buttò sul letto con inerzia.
Accidenti, non aveva nemmeno più una sigaretta. Era sicura di averle finite qualche giorno prima, solo che poi non ci
aveva nemmeno più pensato ed ora... ora le servivano proprio!
Sospirò lungamente e socchiuse gli occhi. L’uscita di quel pomeriggio era stata a dir poco sfibrante. I templi antichi
erano senza dubbio interessanti, ma lei non era certo in vena di riscoprire le magnificenze del passato. Non quel
giorno.
Mizuki aveva saltellato tutto il tempo con la sua macchina fotografica all’ultima moda, scattando una miriade di foto
anche ai soggetti più improbabili, Kazuki e Ayame erano rimasti piuttosto distanti, mentre Kojiro e Ken sembravano i
più normali di tutti - niente gridolini fuori luogo, né eccessivo entusiasmo.
Il pensiero delle sigarette la riportò immediatamente alla sera in cui Ken l’aveva trovata che vagava confusa per
strada; i suoi pensieri al riguardo erano altrettanto disordinati.
Talmente annebbiati che le si chiuse immediatamente lo stomaco, quando un dubbio atroce prese a ronzarle per la
testa. E se avesse detto o fatto qualcosa di equivocabile, mentre Wakashimazu era con lei?
Oh, maledizione.
Perché non ci aveva pensato prima?
Senza ragionarci due volte, si drizzò a sedere di colpo e cercò inutilmente di ricordare: vuoto totale, a parte ciò ch’era
accaduto al mattino e momenti di cui già vagamente aveva cognizione. Forse era anche per una qualche cosa detta o
accaduta che lui non le parlava più.
Un senso di impaccio e agitazione le si insinuò prepotentemente in testa. Questa poi, non poteva essere... ma più
cercava di razionalizzare, più il dubbio cresceva, insieme alla certezza che il sapere ed il vedere Wakashimazu così
distante era insopportabile.
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Convenne che doveva parlargli subito e, prima di tutto, scusarsi per il comportamento idiota che aveva tenuto, insieme
al domandargli che cosa era successo precisamente, fonte prima del problema.
L’unica cosa certa in quell’istante fu che Ken non le avrebbe mentito; c’era qualcosa di così innocente e leale in lui, che
ogni cosa al confronto scompariva.
Così uscì di corsa dalla stanza, decisa a trovarlo.
CAPITOLO 5 – Tanti segreti
Si accomodò fuori dall’albergo, nell’ampio e silenzioso giardino, poi si strinse nel giaccone e rimase ad aspettare. La
sera si era appena illuminata di stelle, che occhieggiavano del cielo nero.
Eve sospirò. Il suo fiato bianco pareva fumo, ma nonostante questo non sentiva molto freddo.
- Volevi parlarmi?- disse una voce piacevolmente conosciuta alle sue spalle. La ragazza non aprì bocca ed attese che
lui le si sedette accanto, sulle gradinate.
- Volevo scusarmi. - Eve fece una pausa - Per quello che è successo.Ken annuì. In realtà non era mai stato arrabbiato con lei, aveva provato solo un vasto ed incontrollato senso di perdita
quando l’aveva vista così stordita, sulla strada di notte.
- È tutto okay.- fece lui, con un sorriso. Gli istanti in cui lei gli urlava di lasciare la propria stanza con ira gli parevano
immensamente lontani.
La ragazza proseguì.
- E... e poi vorrei che mi dicessi quello che è accaduto. E’ piuttosto imbarazzante ammetterlo, ma non ricordo niente.Lui alzò il viso al cielo e socchiuse gli occhi scuri. Eve sembrava essere totalmente rinsavita; la preoccupazione
legittima gli fece sospirare di distensione, prima che potesse farlo lui stesso, era stata la compagna a cercarlo per
chiarire ogni cosa.
- Ti ho incontrata vicino al campo, ti ho fatta sedere alla fermata dell’autobus e tu hai cominciato a gridare una vecchia
canzone.- spiegò, raccogliendo i dettagli - A chiedere al cielo di darti la neve e... - s’interruppe - ...poi ti ho riportata a
casa. Sono rimasto a dormire accanto a te, nel tuo letto finché non ti sei svegliata. Spero non ti abbia infastidito
questo, piuttosto.Eve rimase a guardarlo.
Non poteva scorgere il suo volto ed i suoi occhi, dal momento che erano celati dai lunghi capelli. Si era chinato ed
aveva appoggiato i gomiti sulle gambe, incrociando le mani davanti a sé.
Silenzio. Lei si sentì più sollevata, rimase in tranquillità a fissare le stelle per qualche minuto.
Ken si morse piano il labbro inferiore, incapace di trattenere oltre la domanda.
- Eve, chi è Nicholas?La serenità che la circondava si ruppe, come uno classico specchio che va in frantumi.
Eve sgranò gli occhi al solo sentire pronunciare quel nome. Si voltò lentamente verso di lui, che stava ancora fissando
chissà dove - lei non poteva vederlo bene, i lunghi capelli scuri si frapponevano fra i loro sguardi.
Fu la ragazza ad alzarsi in piedi per prima, assumendo un tono freddo ma confuso.
- Tu... cosa... che sai di Nicholas?- Non conosco niente, se non il suo nome. L’hai ripetuto più volte quella sera, mentre...Eve si sentiva bruciare, tradire.
- Mentre...?- riprese la frase da dove lui l’aveva interrotta.
- Mentre mi dicevi che volevi andare da lui. M’imploravi che ti facessi del male.- lo disse in un sospiro.
Lei non aggiunse altro, non subito perlomeno.
Avvertì una dolorosa fitta al cuore, si trovò d’un tratto sul punto di piangere come una stupida e questa sensazione
sgradevole sfociò inevitabilmente nel desiderio di sfogarsi su qualcosa. Di tirare calci e pugni ad un corpo inerte finché
non le fossero mancate le forze.
- Perché... non me l’hai detto prima?- gli chiese, infine.
- Non volevo dirtelo. Non volevo che piangessi.- Ho... ho pianto?- la bionda ora sussurrava, quasi temendo una risposta positiva.
- No.- fece invece Ken - Ma avevi gli occhi pieni di lacrime. Non voglio che tu pianga ora e scusa se ti ho chiesto di
lui...Eve scoppiò in un grido violento.
- Cosa credi che me ne faccia delle tue scuse?! Maledizione, sono stanca di sentirti chiedermi scusa!! E non piangerò! una pausa, poi più a bassa voce -...non piangerò ancora.Gli voltò repentinamente le spalle per sparire di corsa su per le scale, passando davanti a Mizuki, rimasta senza nulla
d’interessante da fare nella hall.
- Maledizione! Maledizione!! Maledizione!!- imprecava, mentre sbatteva la porta dietro di sé e si buttava senza
attenzione sul letto, per soffocare le grida nel cuscino. Stringeva con violenza i pugni sul materasso e tentava di
frenare le lacrime di rabbia e sdegno che le sgorgavano dagli occhi senza che riuscisse ad impedire che nascessero.
Ad un tratto un lieve colpo alla porta.
- Eve, sono io...- si annunciò Mizuki, alquanto timidamente.
- Lasciami in pace!!- gridò l’altra, lasciando che per un attimo il suo volto si sollevasse dalla stoffa ruvida del
guanciale. L’amica scostò la mano dalla maniglia e si voltò dando le spalle alla porta, appoggiandovisi con la schiena e
sospirando con aria mortificata e preoccupata. Era così strano l’effetto che Eve riusciva ad avere su di lei...
Nel frattempo Ken non si era mosso, rimasto immobile per qualche istante, come se le urla della compagna avessero
rappresentato il finale di una commedia di cui già conosceva l’epilogo.
Rimase seduto sui gradini di pietra fredda con gli occhi serrati per qualche minuto ancora, poi si alzò e, in luogo di fare
ritorno all’hotel, sparì nella notte.
Non riuscì a chiudere occhio.
Era trascorsa qualche ora e la sua testa aveva smesso di pulsare, sebbene i suoi occhi dovevano essere ancora gonfi e
lividi. Eve fissava i volti sereni delle sue compagne di stanza, che dormivano nei rispettivi letti.
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Mizuki stringeva un piccolo coniglio rosa con mille nastri e brillanti, mentre Ayame si limitava a respirare placida con
un’espressione dolce ed elegante, da principessa.
Si stiracchiò, sfregandosi gli occhi con delicatezza, poi si rivestì velocemente e scese a passi impercettibili le scale,
uscendo sulla strada. Era tutto deserto.
Si sentiva costretta e piuttosto sciocca a guardare il soffitto di una stanza mentre tutto il resto del mondo intorno a lei
dormiva, così decise di fare la prima cosa che le era saltata in mente, ovvero tornare in cortile a fissare qualcosa che
non fossero pareti in penombra.
Si mosse sul largo marciapiede e sospirò. Se l’era presa con Ken... non c’entrava proprio nulla, lui. Doveva sfogare la
propria rabbia e l’unica cosa che era riuscita a fare era allontanarlo. Di nuovo.
Non le importava più di Nicholas, del fatto che non gliene avesse parlato prima, di aver gridato e di essersi comportata
da irresponsabile. Le importava solo di lui. Di Ken. E di cosa avesse potuto pensare, ora che per l’ennesima volta si era
permessa di urlargli in faccia.
Che avrebbe dovuto fare? Come si sarebbe dovuta comportare con quel ragazzo, dopo averlo trattato da schifo per la
seconda volta, senza che in realtà lui avesse fatto nulla per meritarselo?
Le passò davanti agli occhi tutto il periodo che avevano trascorso insieme: durante la calda e lontana estate, in quel
negozio si erano rivolti il primo sguardo... e poi, quando si erano rivisti e lui le aveva chiesto di accompagnarlo alla
festa di Kojiro, le era sembrato così semplice e genuino da stordirla. In seguito a quell’occasione, però, aveva avuto
modo di notare quel suo sguardo triste e sdegnato, al nominare Wakabayashi.
Sapeva qualcosa riguardo a Wakabayashi. Si diceva fosse un vero e proprio fenomeno.
Eppure aveva guardato giocare delle partite a Ken e non era riuscita a capire fino in fondo perché preferissero la
freddezza di Genzo alle acrobazie di Wakashimazu. Lui era da sempre ferito da questo stupido, ma bruciante fatto; non
voleva ammettere nemmeno a sé stesso di essere una riserva. Certo, come portiere era molto più dotato quel
Wakabayashi ma in quanto a potenza e stile Genzo non superava di certo Ken! Wakashimazu era più portato per
l’attacco - sebbene il ruolo da estremo difensore - i suoi tiri erano violenti, quasi disperatamente furiosi e, combinati
con le mosse di karate, divenivano micidiali.
Eve voltò casualmente la testa verso il cancello color sabbia, ancora immersa nei suoi pensieri e seguendo le linee
degli alberi che conducevano sino ad una radice più ampia e ben attecchita al terreno. Ciò che vide, oltre l’inferriata
chiara, ma silenziosa sotto la luce tenue della luna, le fece spalancare gli occhi e chiudere la gola in un solo istante.
- Ken...- sussurrò, realizzando che la figura barcollante che si aggrappava alla cancellata, altri non era che il portiere
del Toho.
Il ragazzo cercava di entrare dal giardino, anziché dall’entrata canonica, probabilmente dalla stessa uscita che aveva
varcato andandosene; si appoggiò all’ingresso principale e questo difatti si aprì senza opporre resistenza, tanto da
farlo cadere in ginocchio. Eve sussultò ed aggrottò le sopracciglia, chiedendosi cosa ci facesse Ken fuori dall’hotel a
quell’ora. Da solo, per giunta. E perché non si rialzava? Doveva essergli sicuramente successo qualcosa.
La ragazza gli si avvicinò lentamente poi, a mano a mano che i suoi occhi trasmettevano la realtà al cervello, la sua
andatura si faceva sempre più veloce. Si arrestò alle sue spalle, facendolo voltare e costringendolo a guardarla.
Incontrò i suoi occhi neri, spenti, tanto che dalle labbra di Eve sgorgò un sospiro di stupore talmente pesante da farla
rimanere immobile a fissarlo per qualche lungo istante.
- Ma... ma sei impazzito?!- esordì, afferrandolo per la giacca.
- Eve...- sussurrò lui, la bocca semichiusa.
La ragazza lo fece rialzare velocemente e Ken si appoggiò a lei senza parlare. Anche Eve non emetteva alcun suono, in
bilico tra il confusa e l’irrequieta. E ora dove avrebbe dovuto portarlo?
Si sedettero sui gradini, esattamente come qualche ora prima.
- Sei agitata?- le chiese. Eve sollevò lo sguardo verso di lui, scuotendo il capo.
- E tu sei ubriaco, portiere!- Portiere...- il sussurro di Ken la trasportò lontano, su quel muretto vicino a casa di Takeshi, in una notte con tante
stelle, proprio come quella che li stava fissando dall’alto in quel momento.
- Io non sono un portiere. Sono solo un ragazzino stupido.- si strinse nelle spalle, gli occhi lucidi dall’alcool riflettevano
liquidi il chiarore artificiale dell’unica fiaccola giapponese sopra la sua testa.
Accanto a lui, Eve si trovò a realizzare quanto assurda fosse stata la sua azione stessa, qualche settimana addietro...
entrambi avevano agito allo stesso modo per nascondere o forse portare alla luce e distruggere una volta per tutte un
problema, un cruccio, una sordida pena che nella vita quotidiana avevano sempre tentato di dissimulare,
mascherandola e gettandola in un dimenticatoio che, nonostante gli sforzi, più volte si era aperto a loro insaputa e
tutto era tornato a galla più feroce che mai.
- Tu pensi che sia un bravo portiere?- le domandò, a bruciapelo. Si era voltato verso di lei, il volto appoggiato alle
braccia, a loro volta puntate sulle ginocchia.
Eve socchiuse gli occhi, rimase a guardarlo come se non fosse realmente lì. Le veniva quasi da piangere, mentre
fissava il suo bel viso triste. In quell’istante si sentì infantile e colpevole per aver causato la caduta di Ken in un abisso
che già lo guardava dal suo cuore, in attesa come una bestia famelica.
Invece di tendergli la mano, l’aveva spinto. E questo le faceva bruciare la gola come una ferita mortale, incapace di
reprimere una sensazione di sconfinata inadeguatezza.
Era riuscita ancora una volta a fare del male a qualcuno di meraviglioso.
- Il migliore.- rispose, con un sorriso mesto.
Il grido del ragazzo la scosse.
- No!- si lasciò cadere giù dal gradino per sferrare un energico pugno al freddo ed ostile cemento - Io sono il numero
due! Il dannato numero due! E nonostante tutto quello che ho fatto e che faccio, non sono in grado di...- la sua voce si
calmò, quasi consapevole, quasi rassegnata -... di migliorare.Eve lottò contro sé stessa, contro il suo colpevolizzarsi, tentando di superare l’assurda necessità di redimersi, ma
agendo solo per il bene del ragazzo che le stava accanto. Gli si avvicinò e gli prese la mano.
- Basta dire idiozie, adesso!- lo scosse - Guarda qui, volevi spaccarti qualche osso, eh? E poi come faresti a giocare?Non le importava più di quello che aveva pensato qualche ora, qualche minuto, qualche istante addietro: Ken aveva la
mano destra che sanguinava, tremava ed il freddo dell’inverno gli gelava i pensieri e l’unica cosa che Eve sapeva di
voler fare, in quell’attimo, era stare vicino a lui.
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Un fiocco candido si posò sulla sua guancia e poi un altro, sui suoi capelli. Wakashimazu rimase immobile, alzò solo il
capo per incontrare per l’ennesima volta gli occhi azzurri e penetranti della compagna.
- Lasciami solo.- disse, faticando ad articolare le parole.
Eve rimase muta, ma non si allontanò, anzi si inginocchiò accanto a lui, togliendosi prima uno, poi l’altro guanto di
tiepida lana e prendendogli il viso tra le mani nude. Avvertì la pelle fredda e tesa del ragazzo sotto le sue dita, gli
scostò i lunghi capelli dal viso, avvicinandolo al suo petto e lasciando che si appoggiasse dolcemente alla sommità del
seno.
- Oh, dai. Quella burbera e psicolabile sono io, lasciami il mio ruolo.- sussurrò, mentre Ken spalancava gli occhi,
accompagnato dal sorriso materno della ragazza, il cui tocco sulla propria guancia lo fece rabbrividire. Era così calda e
morbida...
Fu sicuro di arrossire, mentre nella sua confusa mente giunsero chiare le ultime parole di lei.
- E’ tutto così soggettivo. Sì, sei il numero due, tuttavia in nazionale sei ritenuto comunque un grande portiere. Ma sei
anche il numero uno, sai? Per Ayame, Kojiro, Takeshi, Kazuki... i tuoi amici.- lo strinse con forza, entrambe le mani sul
suo volto attonito e imbarazzato - E per me.Aprì piano la porta, evitando di accendere la luce, quando Mizuki la precedette e fece chiaro, chiudendo piano l’uscio e
sussurrando:
- Ma dove diavolo sei st...- poi si accorse della presenza di Ken e tacque, incredula.
- Dov’è Ayame?- chiese Eve, non notando la terza compagna nel suo letto.
- È... lei e Kazuki sono usciti poco fa. Mi ha svegliata e ho notato che tu non c’eri così mi sono preoccupata... Eve... ma
lui è...La ragazza annuì.
- Sì, è piuttosto ubriaco... è una lunga storia. Aiutami a metterlo a letto.L’odore di alcool era piuttosto forte, tanto da aver impregnato i vestiti su cui probabilmente Ken aveva rovesciata - per
distrazione e mal coordinazione di una mente già confusa - una buona quantità e, di sicuro, se i professori fossero
andati a chiamarli per l’escursione la mattina seguente, avrebbero scoperto che il portiere aveva bevuto e senza
dubbio gli avrebbero affibbiato anche una bella sospensione. Così Eve fu costretta a togliergli la felpa ed i pantaloni,
sotto gli occhi estasiati di Mizuki.
Mentre la bionda sfiorava con le dita la pelle tonica del ragazzo, riusciva ad avvertire i suoi sviluppati muscoli ora
assopiti. Si accorse dello sguardo sognante dell’altra.
- Piantala Mizuki! Prendi questi piuttosto!- le lanciò gli indumenti, che la ragazza si affrettò a portare nel bagno,
strofinandoseli debitamente al petto, prima.
Eve scosse il capo, spazientita e quasi stretta allo stomaco da una strana sensazione di fastidio, mentre Mizuki lo
guardava smaniosa, desiderando ardentemente d’essere la sua biancheria.
Ken si era addormentato profondamente, disteso su un fianco nel suo letto e la ragazza si preoccupò di coprirlo con
una coperta pesante appena presa dall’armadio. Gliela distese sulle spalle e lungo l’intero corpo per evitare di fargli
prendere ulteriore freddo, dal momento che stava riposando con addosso solo i boxer e una maglietta a maniche
corte.
Mizuki spense la luce per lasciare riposare meglio Ken e si sedette sul proprio letto. Eve fece lo stesso, ora non sapeva
più cosa pensare... si era sfogata, non sentiva più quella sensazione di rabbia, anche se avrebbe dovuto, vedendo
come Wakashimazu si era conciato, ma tutto svaniva lentamente, forte del fatto che lui doveva aver provato la
medesima rabbia soccorrendola quando si trovava nella stessa situazione e che dopo averlo stretto tra le braccia, le
pareva che il resto del mondo non avesse più alcuna importanza.
- Mi puoi raccontare...?- le chiese nell’ombra l’amica.
Eve fu come scossa da un sogno ad occhi aperti, ma cominciò ugualmente a parlare come per allontanare uno
spauracchio, cominciando dalla lettera di Dex.
Sapeva di poterle raccontale tutto: Mizuki era a conoscenza anche di Nicholas.
Era appena andata via da Okinawa, quando si era trasferita nella parte meridionale della città aveva subito fatto la
conoscenza per caso di quella strana tipa, che le aveva subito rivolto un sorriso interessato, sin dal giorno in cui si
erano incontrate in un negozio specializzato in grafica. Eve aveva bisogno di un gran numero di retini per i suoi
disegni, mentre Mizu gironzolava, guardando interessata i vari aerografi.
Quest’ultima doveva fare un regalo ad un amico e le mancavano pochi centesimi, persi o dimenticati chissà dove - era
piuttosto sbadata. Eve glieli prestò e da lì, per sdebitarsi, Mizuki le offrì qualcosa da bere, il giorno subito dopo.
Fu così che cominciarono a frequentarsi; Eve era fredda, ma non le dispiaceva vedersi con qualcuno che sorrideva
sempre e che parlava di moda e prenotazioni dall’estetista come se si trattasse di ragioni di vita. Aveva subito trovato
Mizu piuttosto bizzarra e poi... voleva anche lei disperatamente riprendersi il suo sorriso, pur sapendo benissimo di
non poter essere in grado di farlo, finché un giorno - per pressione o per voglia di levarsi un gran peso dallo stomaco non le raccontò tutto di Nicholas. Già, lo raccontò ad una ragazza dal carattere diametralmente opposto al suo, che
viveva in un mondo diverso, incomprensibile e leggero.
Da quel giorno Mizuki comprese che la ragazza dallo sguardo di ghiaccio da cui era stata subito attratta, nascondeva
un abisso. E per qualche strano motivo si sentiva tremendamente e profondamente legata a lei, da una sorta di
silenzioso riguardo ed ossequiosa amicizia. Era fiera di camminare al suo fianco, di aver contribuito a ridare il sorriso
alla compagna che ormai considerava l’amica più grande. Le diceva spesso che le voleva bene ed anche se Eve non
aveva mai ricambiato a parole, era certa che sotto sotto anche per lei era così.
Ad un tratto le labbra di Ken si schiusero in un gemito e poi un sussurro che giunse chiaro ad entrambe le ragazze.
- Mh... Eve...La diretta interessata avvertì uno strano ed imprevisto calore sulle sue guance, era sicura di essere arrossita
parecchio: Ken aveva pronunciato il suo nome... magari la stava sognando.
Si portò le mani gli zigomi per palpare quello strano tepore che le aveva invaso il volto. Meno male che la stanza era
immersa nel chiarore della luna e non si potevano distinguere i colori, sarebbe stato ancor più imbarazzante.
- Senti, senti!... che gli hai fatto, Eve?- disse Mizuki, sogghignando sorniona.
- Eh? Che vuoi che gli abbia fatto?! Assolutamente niente!- ribatté la bionda, impettita - A proposito. Di certo domani
non potrà partecipare alle visite... dobbiamo pensare a qualcosa...30
- E se diciamo ai professori che non si sente bene? Lo chiudiamo in bagno e una di noi rimane qui con lui... beh, lo
devo coprire in qualche modo... se scoprissero che è sbronzo saranno guai!- E perché tu devi coprirlo?- intervenne Eve, le mani ai fianchi - Resto io, tu và ad accalappiarti Kojiro, avrai via libera!
Kazuki e Ayame staranno per i fatti loro e non ti sarà difficile cacciare vie le ragazzine.L’altra si arrotolò una ciocca di capelli ricci dalle sfumature bluastre attorno ad un dito, facendo maliziosamente
spallucce.
- Che c’è?- sussurrò - Non sarai mica gelosa? E poi, a dire il vero... Kojiro non mi interessa più di tanto.- Possibile che tutto ciò che pensi debba avere dei risvolti del genere?- la bionda cacciò la lingua - Mi sento
responsabile del suo stato, tutto qua. Infondo, se non gli avessi detto quelle parole, sarebbe andato tutto bene e lui
non avrebbe... fatto quello che ha fatto. Quindi rilassati, a lui ci penso io.- fece per terminare, poi aggiunse di sottecchi
- Hai per caso deciso di dedicarti solo a Ken?Mizu scosse la testa e sospirò, sistemandosi il colletto del pigiama rosa porcellana.
- Beh, devo ammettere che sono davvero due bei ragazzi! Ken e Kojiro, intendo. Però non posso continuare a pensare
a tutti e due contemporaneamente, voglio dire, verrebbe fuori una cosa strana, no? Diciamo che mi sto interessando
ad uno in particolare.- Uno chi?- domandò Eve, alzando un sopracciglio e sperando ardentemente che Mizuki non ripetesse la parola Ken.
- Se te lo dicessi non mi crederesti, ma mi colpisce tanto il suo modo di fare, il suo modo di essere... però non ti posso
dire più nulla per ora!- fece segno di no col dito, la sagoma ben visibile in contrasto con la finestra.
- Ah sì? E come mai?- continuò l’altra, con il suo sorrisetto animoso.
- Perché voglio essere sicura che mi piaccia...- inaspettatamente l’amica arrossì, poi se ne accorse e si limitò a
sciogliersi di nuovo in un sorriso - Però non farti illusioni! Le scommesse sono scommesse e Kojiro e Ken saranno
miei!- si alzò in piedi, in posa da Wonder Woman.
- Ma se hai appena detto che hai occhi solo per uno soltanto!- la rimbeccò Eve.
- Ho detto anche che le scommesse sono scommesse e non voglio perdere!- Mizuki prese a dondolarsi come una
bambina - E poi non dispiacerebbero a nessuno quei due, vuoi mettere? Alti e belli, piglio deciso, muscoli tonici...
aww!- Come vuoi, come vuoi...- la compagna scosse il capo, sospirando - Farò di tutto per farti perdere, allora, mia cara!
Se le scommesse sono scommesse, non ti lascerò vincere tanto facilmente.- ridacchiò poi, convinta.
- Sì, non si sentono molto bene.- asserì Mizuki, uscendo dalla stanza.
- Ma che ci fa Wakashimazu qui?- domandò il signor Nishimura, tra il preoccupato e il terrorizzato che qualcosa
potesse essergli sfuggito di mano.
Eve strascicò in vestaglia fino in bagno, dove Ken si stava bagnando la testa con l’acqua gelida per svegliarsi dal
torpore e per far riprendere alla realtà i contorni che le spettavano.
- Ieri sera eravamo sul portico e non mi sono sentita bene, così Wakashimazu mi ha riaccompagnata nella mia stanza
e, visto che lui non stava meglio di me, ha deciso di rimanere qui. Sa com’è, non è piacevole vomitare per i corridoi.disse Eve fingendo di avere l’emicrania - Dev’essere qualcosa che abbiamo mangiato.- Oh... capisco... anche un paio di ragazzi della sezione F si sentono poco bene questa mattina; hanno il vostro stesso
colorito pallido. E’ meglio che resti con voi in albergo.- dichiarò l’insegnante, assumendo un’aria professionale.
- Come vuole, noi oggi andremo a visitare un altro tempio Sengoku nella parte alta della città. Forse le converrebbe
venire, è molto interessante!- esclamò Mizu, con occhioni imploranti contornati da un allegro mascara blu.
- Già ma... forse farei meglio a rimanere. Quattro studenti, insomma...- Tenga presente che siamo entrambi maggiorenni, io e Springer, perlomeno.- vociò Ken dal bagno, aprendo la porta e
scoprendo un paio di occhi stravolti.
Aveva addosso l’accappatoio legato in vita disordinatamente. Il professore, guardandolo, si convinse che non stava
decisamente bene, ma non era troppo sicuro della responsabilità che avrebbe avuto se avesse lasciato soli i ragazzi e
Mizuki lo accompagnò fuori dalla stanza, mentre Eve ricacciava Ken in bagno.
- Rimarrò ugualmente. Ora cercate di dormire, io sono nella mia stanza se avete bisogno. Avanti Awashida, sbrigati o
farai tardi.- fece poi, con un sorriso.
- Ah, sì... adesso arrivo, prendo lo zaino!- Mizuki tornò in camera ed afferrò la sacca di Hello Kitty, caricandosela sulla
spalla e strizzando l’occhio ad Eve.
- Ce l’abbiamo fatta! Ora non ti resta che chiarire col portierino che, beninteso, ti lascio per gentile concessione! Mi sto
giocando una grandissima occasione, per te!- la salutò un una mano, sciogliendosi in un nuovo sorriso - Buona
fortuna! Ciao-ciao!Nishimura era già andato avanti e Mizu si affrettò a raggiungerlo, trotterellando lungo il corridoio.
Eve richiuse lentamente la porta e sospirò togliendosi la vestaglia, lasciando scoprire la maglietta e i jeans che portava
sotto. Ken uscì di nuovo dal bagno. I due rimasero a fissarsi per qualche attimo, ma poi distolsero lo sguardo quasi
contemporaneamente.
- Sei matto ad uscire così? Nishimura poteva scoprire tutto e sospenderti! Per fortuna non è incline ad insinuazioni e
fin troppo ingenuo, altrimenti!- la bionda si era portata le braccia al petto, indispettita per coprire l’imbarazzo.
- Eh... in che senso?- le domandò lui, candidamente.
- Nel senso che non ha minimamente pensato che un ragazzo e una ragazza, nella stessa stanza... oh, insomma!
Siamo stati fortunati che io sia pallida di mio e che quei due della sezione F siano davvero malaticci, stamattina! E
adesso muoviti, rientra in quel bagno, non lo vedi che sei in mutande? Fatti una doccia e riprenditi!- parlò
concitatamente, liberandosi magistralmente dall’impaccio.
Ken arrossì, sentendosi alla stregua di un sempliciotto per non aver pensato ad un’eventualità simile ed essersi
comportato da superuomo davanti all’inesperto docente, ma soprattutto per non essersi accorto che l’accappatoio gli
si era inavvertitamente slacciato, scoprendo i boxer neri a cui Eve alludeva con tanto di indicazione della mano.
Udì lo scroscio dell’acqua della doccia e si sdraiò sul suo letto, lo stesso in cui aveva dormito Ken. Poteva dirlo con
certezza, dal momento che riusciva a sentire il suo intenso profumo.
Chiuse gli occhi e strinse a sé il cuscino, finché non cadde tra le braccia del Sonno, ben consapevole di non aver
riposato granché quella notte.
31
Aprì gli occhi. Dinnanzi a sé un grande specchio ed alle sue spalle una presenza mite e familiare.
- Ti voglio bene.- una serena e placida voce maschile.
- Anche io ti voglio bene.- rispose lei.
- Staremo insieme per sempre?- sorrise la medesima nota che aveva esordito per prima.
- Sì, per sempre.- fu la sua replica, mentre lui le sfiorava con una spazzola d’argento lunghi capelli di grano.
Nicholas sorrise di nuovo, lasciando che i suoi limpidi occhi azzurri si riflettessero sulla superficie lucida ed
incontrassero così quelli della ragazza che gli sedeva dinnanzi.
Nicholas.
Eve.
Nicholas ed Eve.
Ken uscì dal bagno con un asciugamano scompostamente disteso sui capelli ed una mano a massaggiare piano la
testa, quando la vide: dormiva. Si era addormentata profondamente sullo stesso letto che lui aveva lasciato qualche
ora prima.
Sul suo viso nacque un sorriso spontaneo e placido. Ormai la leggera sbornia che si era preso gli era passata, poteva
ben affermare che a parte il mal di testa andava tutto okay. S’infilò la maglietta nera che gli aveva portato Mizuki insistendo per fare irruzione in camera sua e fargli recapitare tutto l’indispensabile - e si strofinò il collo con le dita.
Rimase quei pochi istanti a guardare Eve dormire profondamente, il petto di donna alzarsi ed abbassarsi ritmicamente,
poi si sedette accanto a lei, appoggiandosi al capezzale.
Ma cosa diavolo gli era saltato in mente di fare? Si sentiva alquanto stupido, in quel momento più che mai.
La sera prima, dopo le parole che la compagna gli aveva rivolto, dopo l’ennesimo rifiuto d’aiuto e l’astio, non ci aveva
visto più: era tranquillamente uscito senza incontrare anima viva proprio con l’intento di bere fino ad annebbiare i
propri sensi, esattamente come aveva fatto lei, quella sera di poche settimane addietro. Forse voleva dimostrarle
quanto era stato straziante vederla in quello stato, o forse semplicemente tentare di affogare i propri problemi in
qualcosa di distruttivo, senza troppi fronzoli, senza troppa cavalleria. Provarci, perlomeno.
Le portò una mano sui capelli e, senza distogliere lo sguardo, lasciò che le cortissime ciocche gli si insinuassero tra le
dita, solleticandogli l’incavo.
Era giunto alla conclusione che probabilmente Eve nascondeva qualcosa di più grande di lei, vista la reazione
esagerata della sera prima e nonostante il pacifico, lieve sorriso che aveva mentre dormiva.
Le si avvicinò ancora di più, quasi distendendosi; circondò il suo corpo con le braccia, come fosse un’azione meccanica
che era abituato a compiere da quando aveva memoria.
Finì per abbracciarla intensamente, tirandola addirittura a sé e lasciando che il suo capo si appoggiasse al proprio
petto, poi chiuse il cerchio spaziando con le braccia sulla sua schiena ed inspirando profondamente il suo stuzzicante
profumo.
Eve socchiuse lievemente le palpebre, a contatto con la pelle e con il calore avvolgente che la circondava. E in un
attimo la sua mente si scordò del sogno che aveva appena lasciato, del volto di Nicholas e della spazzola d’argento;
riuscì a vincere il dormiveglia per un solo, brevissimo istante, nel quale i suoi occhi si trovarono a contatto ravvicinato
col il viso pulito ed immobile di Ken.
La stava abbracciando. La propria fronte sul suo collo, il petto contro il suo addome, le mani stabili sul suo torace ed i
fianchi e la schiena catturati da un intimo calore.
Avrebbe potuto ordinare alla sua mente di svegliarsi, ma rimase inerme e ricadde nel sonno, troppo incredibile perché
potesse essere reale, troppo prezioso per desiderarne il termine.
Kojiro spalancò di scatto la porta, impaziente di comunicare la bella notizia, ma si frenò di scatto, trovandosi dinnanzi
una scena inaspettata. Il suo viso da stupito assunse subito una vena serena e sulle sue labbra si disegnò un sorriso
divertito.
Guarda un po’ Ken, allora non era solo una mia impressione...
Richiuse la porta, decidendo che forse non era il caso di disturbare.
Da un po’ si stava comportando come un ragazzino: faceva caso alle cose più insignificanti, prendeva in giro Takeshi
come un fratello maggiore e - soprattutto - curava modo di fare ed aspetto in funzione dell’impressione che avrebbe
potuto fare ad una persona in particolare... ma, accidenti, lui era Kojiro Hyuga! Da quando in qua aveva preso a
badare a certe superficialità?
Sospirò. Quella ragazza gli faceva uno strano effetto... eppure per quanto si sforzasse di reagire, di mantenersi saldo,
non poteva resisterle, soprattutto trovandosi ogni giorno davanti a quei suoi silenziosi occhi scuri, a quei suoi capelli di
seta fluida e a quel suo sorriso di miele, si sentiva come in estasi.
Era sciocco e forse decisamente imprevisto che proprio una ragazza del genere, del tutto diversa da lui, appartenente
ad un mondo di cui non conosceva le radici, avesse risvegliato un interesse così grande.
Non riusciva ad ammettere nemmeno a sé stesso che si era maledettamente innamorato di lei e che la Tigre si stava
lasciando trasportare da un sentimento del tutto nuovo. Era come se ogni giorno cominciasse un nuovo ciclo in cui si
riproponeva di piantarla con quelle scemenze da principessa e tutto pareva andare per il verso giusto, finché lei non
faceva la sua comparsa. Fosse stato così facile, fosse bastato il semplice non vederla per levarsela dalla testa, ma
addirittura quando non gli capitava di incontrarla le sue difese cadevano: cominciava infatti a sentire una mancanza
incredibile della sua presenza quieta ma sostanziale accanto a lui.
Sospirò di nuovo, notando finalmente gli occhi di Ayame che lo fissavano. Il suo volto assunse tutt’un tratto una
colorazione violacea: arrossì come se lei gli avesse letto nel pensiero.
- Hai dato la buona notizia?- chiese timidamente.
- Emh... no, veramente non credo dovremmo entrare.Aya gli rivolse uno strano sguardo.
- Che?Kojiro sprofondò ancora di più, affermando immediatamente d’essersi espresso male con un insolito gesticolare, così
per non andare oltre aprì leggermente la porta e fece dare un’occhiata anche alla ragazza.
- Oh!- sorrise lei, portandosi una mano alla bocca e sciogliendosi in un’esclamazione di tenerezza.
32
Kojiro fece per richiudere la porta, quando una spinta lo colse alle spalle e un’euforica Mizuki urlante come una groupie
fece la sua comparsa.
- Nevicaaaaaaaaaa!!Eve aprì di scatto gli occhi, svegliata di soprassalto da tutto quel trambusto e si trovò davanti una scena a tratti
inquietante: Kojiro a terra con il volto di Ayame a pochi millimetri dalla sua bocca e Mizuki saltellante e totalmente
incurante che mimava una cheerleader in atto di trionfo.
Poco dopo si accorse che anche Ken stava aprendo gli occhi e che ciò che le era parso di sognare, in realtà era vero...
aveva dormito abbracciata a lui.
Nonostante la crescente sensazione mista d’imbarazzo e dolcezza, si discostò bruscamente e si mise in piedi con le
mani ai fianchi.
- Mi avete fatto prendere un colpo!- li rimproverò.
- Volevi rimanere col principe azzurro tutta la giornata?- sorrise Kazuki, spuntato proprio in quel momento dalla porta.
Il centrocampista si ritrovò ben presto un cuscino sul naso.
- Ehi! Mi hai fatto male!- si lamentò massaggiandosi il viso.
- La prossima volta impari a tenere chiusa la boccaccia!- sogghignò Eve, soddisfatta del lancio da maestro. Aya si alzò
ricomponendosi alla meglio e lisciandosi la lunga treccia castana, mentre Mizuki - che non aveva smesso un attimo si
saltellare - ripeté ciò che aveva da dire.
- Ragazzi, nevica finalmente! E domani, niente escursioni!Ken si massaggiò gli occhi, tornando alla realtà a poco a poco e solo in quell’istante.
- Nh...? Eh?- Sveglia, portiere! A quanto pare domani niente camminate!- rise Eve, sorridendo sollevata, mentre lui si sfregava gli
occhi con i pugni e sbadigliava lentamente.
- Ma guardatelo! Sembra un orsacchiotto!- ridacchiò Mizu, stavolta imitando l’immobilità di un tenero peluche.
- Io odio gli orsacchiotti.- Ken cacciò la lingua con espressione scherzosa, dall’altra parte Kojiro teneva ancora Aya per
un fianco da quando si erano rialzati.
Nel momento in cui la ragazza se ne rese conto, tentò di non dare nell’occhio, per quanto fosse diventata paonazza; si
accomodò al bordo del proprio letto, quando Kazuki le si fece vicino.
Giusto in quel mentre li raggiunse un’occhiata involontaria e distratta di Eve, alla quale parve che l’espressione della
ragazza fosse piuttosto infastidita, tanto da farla rialzare immediatamente.
- Scusate, vado un attimo a rinfrescarmi la faccia...- disse in un soffio, scivolando veloce nella stanza da bagno.
- Allora, che si fa?- canticchiò Mizuki, mentre Aya si chiudeva la porta alle spalle - Ehi, a proposito! Peccato quel vostro
amico sia più piccolo di noi...- Eh?... che amico?- chiese Kazuki, aggrottando un sopracciglio.
- Ma sì, il vostro bersaglio, Sawada!- rispose la ragazza, raccogliendosi i lunghi capelli ricci in una coda e fissandola
con un fermaglio arancione - Ci potevamo divertire a tirargli le palle di neve!- aggiunse gustando un’immaginaria,
ipotetica battaglia.
Intanto lo sguardo di Ken si era soffermato sul volto rilassato di Eve, sembrava serena e questo lo sollevò. Perlomeno
non era arrabbiata, seccata o contrariata per quanto era accaduto la sera prima. Il sonno che li aveva colti era davvero
stato ristoratore.
- Già,- intervenne Kojiro, alzando le spalle - ma non gli farà male studiare un po’.- Takeshi studiare? Capitano, sei ubriaco?- la voce di Ayame fece di nuovo il suo ingresso nella stanza, mentre la
ragazza apriva la porta del bagno con un sorriso: pareva tornata sé stessa.
All’udire l’ultima parola, gli sguardi di Eve e Ken s’incrociarono di nuovo, quasi calamitati, per poi allontanarsi
repentinamente, accompagnati da un leggero impaccio dato da una coincidenza fin troppo delicata.
Aya sistemò il maglione blu sulla poltroncina, rimanendo in maniche corte.
Estrasse da un cassetto una gonna grigia, che s’infilò silenziosamente, poi con la spazzola si lisciò i capelli su una
spalla, davanti allo specchio.
Più si guardava, più si sentiva costretta ed inadeguata. Aveva appena discusso per l’ennesima volta con Kazuki e tutto
era finito in modo inaspettato. In modo orribile.
Gli aveva detto ciò che pensava non avrebbe mai potuto dirgli per mancanza di coraggio, eppure... era accaduto tutto
così in fretta, tutto così velocemente e... scioccamente.
Considerava da tempo che forse era il caso di parlare chiaro con sé stessa e con le persone che meritavano chiarezza,
ma non credeva potesse succedere in modo repentino e del tutto fuori controllo.
Aveva desiderato mille volte sfogarsi con qualcuno, prima, Eve forse... ma ogni volta che ci pensava, si trovava a
scuotere il capo con decisione, quasi impaurita. Chissà cos’avrebbe potuto pensare di lei, se avesse vuotato il sacco!
Sospirò. Non riusciva a capacitarsi e questo la rendeva ancora più scoraggiata.
Avrebbe fatto meglio a prepararsi alla svelta; da quando il giorno prima Mizuki aveva annunciato che con la nevicata le
uscite sarebbero state impossibili da realizzare, tutti si erano organizzati la giornata a modo loro.
D’un tratto un deciso battere alla porta.
- Arrivo, arrivo!- esclamò la ragazza, convinta che fosse una delle due compagne che, impazienti, la stavano
attendendo da un pezzo.
- Akimoto!- uno stupito Kojiro fece il suo ingresso nella stanza, evidentemente non si aspettava di vedere proprio lei.
- Oh, capitano!- fece lei, sobbalzando.
- Scusa, emh, cercavo Ken.- fu la risposta frettolosa che le arrivò - Pensavo che si fosse di nuovo infilato nella stanza
di Eve... cioè, nella vostra stanza.Lei poggiò la spazzola accanto allo specchio.
- Oh, no, no.- replicò - Sono scesi qualche minuto fa, credo abbiano già cominciato a litigare per il telecomando della
tv satellitare!- aggiunse con un sorriso, incrociando meglio che poté le mani al petto e tentando di assumere
un’espressione disinvolta.
Si aspettava che Kojiro si voltasse e, con un saluto, le dicesse che li avrebbe raggiunti e che si attendeva presto
avesse fatto lo stesso anche lei, invece... invece il ragazzo era rimasto sulla porta senza aggiungere nient’altro,
immobile.
33
I suoi occhi scuri e sempre troppo spesso contratti dalla rabbia, dalla decisione e dalla determinazione ora la stavano
fissando con lo stesso piglio così sicuro e caratteristico, in silenzio, quasi con una punta di indecisione e disperazione.
Aya non l’aveva mai visto così, o perlomeno, non aveva mai visto nessuno guardarla in quel modo.
Hyuga si soffermò sul volto candido e fresco della compagna, incorniciato da ciocche scomposte e morbide di capelli
castani. Le piccole mani appoggiate dolcemente alle altrettanto esili e nivee braccia scoperte sembravano volergli dire
che stavano lottando con tutta la loro forza per vincere l’imbarazzo.
Fu questione di un attimo.
Kojiro richiuse la porta alle sue spalle, entrando definitivamente nella stanza. Mosse due rapidi passi verso di lei, tanto
da arrivare ad afferrarle un polso e trarla a sé con una mossa repentina.
- Aya...- soffiò il suo nome sulle sue labbra di nuvola, stringendo la presa e facendola scivolare sulla propria bocca, per
scoppiare in un bacio.
La ragazza si sentì mozzare il fiato, stringere un braccio e lentamente anche un fianco. Sbatté più volte le palpebre,
non riuscendo a credere che ciò che stava accadendo fosse reale e, incredibilmente, si trovò aggrappata alle sue spalle
a ricambiare il bacio con tutto il trasporto di cui era capace.
Erano così vicini, poteva sentire il battito del cuore di tigre riflettersi sul proprio petto, stretto al suo. Kojiro, senza
alcuna fatica, la sollevò da terra per farla sedere sulla specchiera. Con la mano che le stringeva il polso passò a
cingerle una gamba, strappandole un intenso sospiro, che ruppe il contatto delle loro bocche.
- Capitano...- ansimò lei, il fiato corto ed il viso arrossato - Kojiro...- aggiunse poi, lasciando che il ragazzo la fissasse
da pochi millimetri di distanza, fronte contro fronte.
Ayame gli portò una mano non più incerta, né tremante sul volto, sfiorandolo con una grazia di cui solo lei era capace,
una dolcezza che Hyuga aveva solamente sognato sino a quel momento.
Gli bastò per farsi largo tra le sue braccia e lasciare che l’abbracciasse, l’avvolgesse completamente, consegnandosi
interamente al suo tocco caloroso ed energico.
Eve stava giusto considerando che oramai era da molto che non si divertiva a quel modo: aveva riso talmente tanto in
quel breve periodo, che non si ricordava nemmeno più della lettera - forte anche della consapevolezza inconscia di non
volersene ricordare affatto.
Oramai era giunta la sera che avrebbe preceduto la partenza per il ritorno a casa. Una buona notte riposante per tutti
e poi di nuovo pronti al viaggio.
Si trovava da sola nella hall; tutti i suoi compagni si erano precipitati nelle rispettive stanze per preparare
frettolosamente le ultime cose. Tra l’altro, Kazuki, Ayame e Kojiro parevano scomparsi nel nulla, Ken aveva annunciato
un’imminente doccia e Mizu l’aveva repentinamente seguito con la vana speranza di poter sbirciare qualcosa.
Finì per pensare che era anche diverso tempo che non toccava più una sigaretta, dalla sera in cui Ken era rimasto a
vegliare su di lei. Beh, senza dubbio stava facendo progressi, anche se del tutto involontari.
Voltò lo sguardo, attirata da uno scalpiccio sommesso e fu quasi investita da una sconvolta Ayame, che le passò vicino
di corsa, tenendosi le mani sugli occhi e correndo verso la propria stanza.
- Ehi! Ayame?- la inseguì per le scale, riuscendo ad infilarsi nella camera prima che la compagna le richiudesse
sonoramente la porta in faccia..
- Eve...- disse lei tra i singhiozzi, saltandole al collo e scoppiando in un pianto a dir poco disperato. Non si aspettava di
vederla, ma chiunque fosse stata la prima persona che le fosse capitato di incontrare, l’avrebbe gettata ancora di più
nel panico. Che fosse la sua compagna di stanza ad esserle comparsa davanti agli occhi era forse ciò che non sperava,
ma la fortuna aveva voluto concederle.
- Ayame, che hai?- le chiese l’altra, piuttosto stranita.
- E’... è successa una cosa orrenda! Oh, sono così stupida!- le rispose con voce incrinata dal pianto e scuotendo la
testa sulla spalla di Eve, la quale la afferrò per le spalle e la fece sedere sul letto, asciugandole le lacrime con la mano.
- Basta piangere.- fece, con dolce ingiunzione. Aya singhiozzò ancora qualche istante, poi la guardò con occhi
imploranti di aiuto ed poco a poco si calmò.
- Allora, puoi dirmi che è successo?- domandò Eve, passandosi la mano sui capelli corti. L’altra fece per cominciare,
ma un gemito fu lì lì per gettarla di nuovo nel pianto; solo quando la bionda le posò di nuovo una mano sulla spalla,
riuscì a tenere a freno le lacrime.
- E’... io... lo sai che le cose con Kazuki non andavano da tempo...- riuscì ad esprimersi, tra gli spasmi - Qualche sera
fa sono andata in camera sua e... e lui mi hai chiesto... lui voleva che facessimo l’amore.- tirò su col naso, strizzando
gli occhi come per scacciare una visione spaventosa - Gli ho detto di no, che non volevo mentirgli... non volevo farlo
per la prima volta con chi mi considerava solo al momento di una necessità del genere...Fece una pausa, mentre Eve seguitava a fissarla in attesa.
- Mi ha presa per una mano, non voleva lasciarmi andare... mi ha chiesto per quale motivo e io... io gli ho detto tutto
quanto! Tutto quanto!- il suo grido sconfortato accompagnò una violenta scossa del capo - Gli ho detto che non poteva
pensare agli affari suoi per tutto il tempo e poi, solo quando sentiva i suoi bisogni da uomo, ricordarsi che esisto
anch’io! Gli ho detto che non lo amo più e che... oh, potevo fermarmi, potevo fermarmi!- si tormentò, battendosi le
mani alla testa - Ma alla fine gli ho urlato in faccia che doveva lasciarmi stare, che sono innamorata di Kojiro... io sono
una sciocca!Scoppiò di nuovo a piangere, questa volta senza provare a frenarsi.
Eve non si sorprese. Lo sapeva, l’aveva intuito guardandoli che tra lei e Hyuga c’era un legame diverso dagli ordinari,
lo aveva inteso dalla prima volta che Aya aveva tifato per il capitano e non per Kazuki. Si ricordò di tutte le volte che,
all’uscita della scuola, aveva spinto la coppia ad avviarsi sola sulla strada, dicendo di non preoccuparsi e di cominciare
a dirigersi verso casa, che lei avrebbe aspettato Wakashimazu... ma evidentemente Aya e Sorimachi non riuscivano
più a comunicare da tempo.
- Non è finita, vero?- le chiese. Ayame si asciugò le lacrime, altre scesero lentamente dai suoi occhi e presero il posto
di quelle. Scosse la testa.
- Kazuki... lui mi ha lasciata andare, mi ha lasciata uscire dalla stanza senza dire più niente. E io... come una stupida...
credevo che tutto fosse finito, o perlomeno credevo che le cose non potessero andare peggio di così, invece... io...
Kojiro... lui è venuto a cercare Ken... noi abbiamo...34
Non arrivò più a proseguire, non riusciva più a parlare, i singhiozzi le impedivano di andare avanti ed Eve la guardò.
Stava per parlare, quando Ayame riprese parola con frenesia e disagio.
- Kazuki lo sa... io e il capitano abbiamo parlato questa sera... e... e... lui era lì, l’ho visto! L’ho visto solo io, Kojiro...
lui non se n’è accorto. Kazuki... ha ascoltato tutto... io non so più cosa fare... non so più che cosa pensare... non so
nemmeno quello che pensa di me in questo momento... di sicuro è arrabbiato... è furioso, mi odierà immensamente...
voglio morire...Eve si alzò di scatto, inaspettatamente scoccandole un’occhiata rabbiosa.
- Che cosa?- sibilò.
- Voglio morire!- Ayame lo ripeté urlando, convinta, mettendoci l’anima.
E fu un attimo. Sentì le dita di Eve e il palmo della sua mano forte sulla sua guancia. Per poco non cadde dal letto.
- Non dirlo mai più! Per questa sciocchezza tu vorresti morire!?- glielo gridò in faccia, senza minimamente badare alla
sua aria sconvolta.
- Ma... ma cosa ne sai tu!?- l’altra si teneva uno zigomo, aveva assunto un’espressione sfiduciata e combattiva - Io...
tu non sai quello che provo!- un disperato tentativo di ribellione.
Gli occhi della bionda la fulminarono in un istante, tanto che Aya si sentì rabbrividire.
- Ho provato mille volte il dolore che stai provando tu in questo momento; ti potresti nascondere, ma morire mai.fece, tra i denti - C’è gente che muore, ma meriterebbe di vivere!- Ma che...- la compagna non riuscì a comprendere, né a proseguire, mentre guardava quelle iridi di cielo furibonde
desiderava ardentemente nascondersi sotto terra. Non poteva tenere ancora a lungo il suo sguardo fisso sulle lame blu
con cui Eve le stava trafiggendo il cervello.
Questa si abbassò senza smettere di fissarla, ora i loro occhi erano di nuovo alla stessa altezza.
- Vorresti correre via, vero?- le disse, questa volta in tono materno.
Ayame non rispose, annuì appena con ancora la mano sulla guancia dolorante, lo sguardo mesto e la consapevolezza
di essersi comportata per l’ennesima volta da stupida.
- Sai, ci sono tempi, ci sono giorni in cui ci sembra di non poter sopportare la realtà ed allora non si desidera altro che
fuggire via, in un posto dove nessuno potrà mai raggiungerci.- le stava parlando come se di fronte agli occhi avesse
uno specchio e la propria immagine muta le si riflettesse nella mente - Ci sono pensieri, ci sono momenti in cui la vita
ci pare una maledizione più che un dono, ed allora si aspira unicamente a nascondere la coscienza in quel sogno
eterno, dove le cose possono muoversi solo secondo follia.Aya aveva smesso di respirare. Era come se a pronunciare quelle parole fosse la persona che aveva sempre tentato di
comprendere, ma che Eve aveva sempre, irrimediabilmente nascosto.
- Per non soffrire più, per non essere giudicata di nuovo?L’altra annuì e lentamente abbassò la mano dal proprio volto.
- Scegliere è difficile.- asserì la compagna - E quello in cui ti sei cacciata è un problema che puoi risolvere con le tue
forze, ma se non hai fiducia in te stessa non potrai mai arrivare ad una conclusione.L’altra aveva distolto lo sguardo ed ora sgranato gli occhi nell’ascoltare la voce dell’amica... una voce che mai prima
d’allora le era parsa così avvolgente.
- Io... io non so se riuscirò a...- replicò appena, sconfortata e fragile come un fiore.
- Non vorresti tentare?- la interruppe Eve, alzando di poco il mento.
- Ho paura.- ammise Ayame, finalmente scoprendo il suo intimo timore.
La bionda le portò una mano sul volto che poco prima aveva colpito, depositandovi un pizzicotto affettuoso.
Poi si alzò e fece per uscire, voltandosi solo un’ultima volta, prima di richiudersi l’uscio alle spalle.
- Fai attenzione, sai, rischieresti d’essere felice.- Ehi!La ragazza si voltò e non poté fare a meno di sorridere, incontrando quel viso allegro.
- Ciao, portiere!Ken si sedette di fronte a lei, al tavolo. Gli ultimi preparativi stavano per essere ultimati, una gran quantità di valigie e
borsoni erano sistemati nella stanza adibita ai bagagli, mentre un viavai di studenti sfilava dinnanzi ai loro occhi.
Alcuni erano già pronti alla partenza ed attendevano accomodati sugli ampi divani della sala, ai tavoli, oppure fuori, nel
grande cortile tutto coperto di bianco.
- Allora, che c’è di nuovo?- esordì lui, ancora sorridendo. Un tentativo d’approccio che Eve adorava.
- Mh... niente di nuovo.- replicò lei, con un’alzata di spalle. Il ragazzo si portò le mani dietro alla nuca.
- Non ti ho ancora detto grazie... per l’altra sera.- disse.
Eve si sentì tutt’un tratto strana, ricordando quel tenero abbraccio; fu certa di essersi dimenticata che l’uno doveva
delle scuse all’altro, come se l’aver dormito tra le sue braccia avesse cancellato ogni cosa.
- Figurati, dopotutto anche tu l’hai fatto per me. Era il minimo.- fece una pausa durante la quale il suo sorriso si
affievolì.
Abbassò gli occhi sulla mano fasciata del ragazzo, e di nuovo il ricordo del suo volto sofferente le si parò dinnanzi agli
occhi, così come la sua mano sanguinante, ferita di proposito.
- Perché l’hai fatto, Ken?- usò il suo nome, in un sospiro.
Wakashimazu rimase zitto, volse verso il basso entrambe le mani come a nascondere la fonte della questione e ritornò
a fissare i suoi occhi.
- Non lo so con precisione.- si trovò a rispondere - Suppongo che volessi uscire un po’ dalle regole...Lei mantenne i propri occhi fissi nei suoi, con uno strano sorriso. Poi serrò lentamente le palpebre; sapeva riconoscere
bene una bugia.
- E poi... - la voce di Ken proseguì, riprendendo il discorso forse parso troppo sciocco da lasciar cadere a quel modo Mi sono sentito male quando ti ho vista in quello stato, quando ti sei ubriacata.- confessò - Non l’ho fatto perché tu hai
compiuto la medesima azione, settimane fa, è solo che... provavo rabbia. Ma dal momento che avevi tentato di
scacciare i fantasmi in quel modo, e nonostante sia un grosso ossimoro dal momento che vederti così mi ha fatto
provare risentimento, volevo azzardare anche io... a ubriacarmi, intendo, per distruggere il dolore ed i problemi.Cristallino.
Eve si sentì tremendamente in colpa.
35
Tutt’un tratto le parole di Ken riguardo Wakabayashi, riguardo al fatto che essere il secondo portiere gli lacerava lo
stomaco e che non riusciva a migliorare malgrado gli sforzi la investirono.
Poteva sembrare un ragazzo come tanti ma, proprio come Ayame, ognuno nascondeva i propri drammi.
- Non ci si riesce, vero?- sussurrò, riaprendo gli occhi.
- No.- rispose immediatamente lui, con il medesimo tono di voce ed una punta di amarezza.
Aya evitava a tutti i costi lo sguardo di Kazuki e di Kojiro. Si sentiva terribilmente colpevole e sporca e l’essere
costretta in uno spazio così angusto come un pullman in presenza di entrambi le faceva tremare le ginocchia.
Il cannoniere se ne stava seduto immobile con lo sguardo fisso fuori dal finestrino, rivolgendo distrattamente la propria
attenzione ai veloci paesaggi che gli passavano di fianco. Non riusciva ad essere spensierato: gli occhi di Sorimachi
parlavano chiaro, era come se sapesse ogni cosa e lo sguardo implorante di Ayame lo tratteneva dall’avvicinare
ciascuno dei due.
Mizuki batteva il tempo con le mani alternatamene sulle proprie ginocchia e su quelle di Eve, ascoltando una canzone,
Ken dormiva profondamente immerso nel suo sedile e la bionda giocherellava con delle caramelle di zucchero, prima di
portarsele alle labbra e lasciare che emanassero un dolce profumo di frutta.
Kazuki sospirò e chiuse gli occhi. Ciò che aveva udito dalla propria ragazza, durante la conversazione con Hyuga, non
lasciava spazio a dubbi. Era confuso, più che furioso... poteva ancora considerarla sua, Aya?
Eve approfittò di una distrazione della compagna - che aveva preso a frugare nella sua sacca di Hello Kitty alla ricerca
di qualche strano affare - per alzarsi e sgranchirsi le gambe.
Si voltò e si mise a sedere sul sedile vuoto accanto al portiere, fissandolo nel sonno.
Era stato bellissimo sentire la sua presenza davanti a sé, quel calore che gli faceva venire i brividi lungo la schiena.
Pensava, immerso nelle proprie idee... pensava a lei, a quanto l’aveva affascinato dalla prima volta che l’aveva vista,
che aveva incontrato i suoi occhi profondi.
Non pensava che addirittura conoscendola meglio, si sarebbe presto sentito preso da lei con tutto sé stesso. E non era
questione fisica, come spesso gli capitava. Perlomeno non solo; rispetto alle altre ragazze Eve era come... gli piaceva
pensarla come la sua dea.
Per quanto si sforzasse di non pensarci e di non rischiare di innamorarsi di lei per non desiderare altre tensioni - non
voleva soffrire e non voleva farla soffrire: aveva ben inteso che Eve non era una persona semplice, né nascondeva un
passato di rose e fiori - dopo quelle sere, dopo tutto.
Ma ormai era già consapevole di essere sulla buona strada e, nonostante tutto fosse contrario alle proprie previsioni,
non riusciva, addirittura non voleva tornare indietro.
Ad un tratto la ragazza avvertì una mano picchiare leggermente sulla sua testa: Ken si era svegliato e aveva alzato un
braccio.
- Ehi! Allora non dormivi!- esclamò, sorridendo.
- Non riesco mai ad addormentarmi quando viaggio.- si stiracchiò - Nonostante sembri un infaticabile pigro.- aggiunse,
ridendo. Eve si lasciò trasportare dalla serena risata del portiere e gli lanciò a tradimento l’ultimo confetto colorato,
sicura di coglierlo alla sprovvista.
Invece Ken lo afferrò al volo e se lo mise in bocca con aria infantile. Adorava le caramelle di zucchero.
- Bella presa!- fece lei, stupita.
- Dopotutto, sono il migliore!- fu la risposta che le giunse, accompagnata da un sorriso.
All’udire quelle parole Eve si sentì strana, come se le si stesse sciogliendo il cuore. Non erano accompagnate da una
vena d’amarezza, come se fosse consapevole di star affermando una falsa verità, anzi... il volto del compagno era
trasparente e brillante.
Ma che pensava quel ragazzo? Sere prima si disperava perché Wakabayashi era su questa terra e poi... un momento,
forse stava parlando in virtù di quello che lei stessa gli aveva detto nella medesima occasione, ovvero che per lei era il
migliore in assoluto.
- Già...- arrossì, lusingata all’idea.
Ken piegò il capo da un lato, rimanendo a guardarla mentre tornava a rivolgergli un’occhiata amichevole.
- Come mai sono tutti e tre così giù?- le chiese poi, indicando con lo sguardo il capitano, Aya e Kazuki.
Eve scosse il capo, assumendo un’espressione poco convinta.
- Non so.- mentì.
CAPITOLO 6 – La scelta
Non appena aprì la porta, trovò la signorina Rama sorridente ad attenderla in piedi dietro la scrivania.
La donna si passò una mano sui corti capelli rossissimi e le fece cenno di sedersi. Eve si accomodò sulla poltroncina;
da quando aveva ricevuto l’avviso di convocazione nel suo ufficio, si stava chiedendo cosa mai l’allenatrice volesse
comunicarle, soprattutto sperando di non aver combinato qualche involontario guaio.
- Mi voleva parlare?- domandò, con aria interrogativa.
- Sì.- rispose quella, facendosi improvvisamente seria - È in ballo un affare importante.- Un affare importante?- ripeté la ragazza, aggrottando le sopracciglia.
Immaginò dovesse trattarsi di qualcosa di piuttosto rilevante, dal momento che la donna non le era mai sembrata così
seria. Era severa, certo, ma non era mai stata così concentrata, perlomeno davanti a lei.
- Eve.- disse ad un tratto, muovendosi verso la parete tappezzata di medaglie e riconoscimenti. La giovane la seguì
con lo sguardo. - Ti ritengo la velocista più valida di tutta la squadra.- asserì di lì a poco, portandosi le mani dietro la
schiena.
La ragazza non ringraziò né parlò, rimase solo in attesa del seguito. Per quanto quella frase potesse averla colpita,
sicuramente non era stata convocata per ricevere complimenti.
- A partire dal mese prossimo si terranno delle competizioni a livello agonistico, che riguarderanno tutto il Giappone.
Vorrei che tu partecipassi. Che ne dici?- concluse l’allenatrice, sistemandosi il colletto della casacca marrone.
Competizioni a livello agonistico... tutto il Giappone... non ho combinato nessun guaio... oh, wow!
- Ma certo!- Eve scattò su dalla sedia, più entusiasta per il non aver ricevuto alcuna ramanzina che per l’inattesa
notizia.
36
Nonostante il sollievo iniziale, l’idea di partecipare e magari anche vincere quelle gare cominciava ad entusiasmarla
moltissimo.
- Calma, calma.- sorrise l’altra - Ovviamente dovrai allenarti il doppio, se non il triplo e soprattutto...- fece una pausa Dovrai smettere di fumare.Eve rimase per qualche istante stranita, chiedendosi come quella donna l’avesse scoperto, ma non le ci volle molto.
Probabilmente l’aveva vista fuori dalla scuola o magari mentre assisteva agli allenamenti della squadra di calcio.
Tuttavia non se ne preoccupò, infondo non toccava una sigaretta da chissà quanto tempo.
Aveva deciso da sola di smettere, soprattutto dopo la sera in cui... beh, e poi aveva talmente tanti pensieri per la testa
ed un trasporto crescente nel trovarsi in un ambiente amichevole e senza pretese, che non voleva nemmeno più sentir
parlare di sigarette.
- Non so come tu abbia fatto, forse è stato l’allenamento costante in concomitanza con il vizio a far sì che il tuo corpo
si abituasse, ma ora ti pregherei di non usare più sigarette.- riprese - Sai, a mio tempo ero anch’io una cosiddetta
testa calda, ma un bel giorno ho scoperto che dovevo rinunciare a qualcosa per poter inseguire la mia passione.- Testa... calda?- ripeté di nuovo Eve, incerta se dovesse prenderla come un accostamento o un’accusa.
- Non fraintendermi, Springer, ma sai bene che il sistema scolastico è piuttosto rigido, senza contare che a lungo
andare il tuo fisico ne risentirebbe moltissimo e metteresti a repentaglio la tua carriera.- la signorina Rama pareva
davvero coinvolta nel discorso, addirittura sembrava aver già puntato su Eve una cospicua somma.
- La mia carriera?- domandò lei, stranita - Sta già parlando di carriera?- Certo!- la donna si sciolse in un sorriso, battendole una mano su una spalla - Diventerai una stella, te lo dico io! E,
fidati, io so riconoscere il talento: se ti classificherai tra le prime quattro volerai fino in Europa per i mondiali!La bionda fu come fulminata.
Le parole Europa e mondiali erano decisamente più grandi di lei e l’udirle così a ciel sereno la stordì per un attimo.
Abbassò lo sguardo per un momento, non sapeva se viaggiare fino al cosiddetto vecchio continente fosse una così
grande idea, ma dopotutto era così lontano che le pareva un fine quasi impossibile da realizzare.
Essendo sincera con sé stessa, dopotutto, ammise che non ci voleva nemmeno pensare, voleva dedicarsi solo alle gare
nazionali e magari mettersi in vista in Giappone. Non era mancanza di fiducia in sé stessa, piuttosto si trattava di
estremo impeto da parte dell’allenatrice, nonostante lei stessa si definisse un asso nel riconoscere i talenti.
- Non si preoccupi, non tocco una sigaretta da almeno un mese e poi avevo già deciso di darci un taglio!- sorrise,
rassicurandola - Per quanto riguarda l’Europa, non è una decisione semplice da prendere, però posso darle l’immediata
conferma sin d’ora che parteciperò alle gare nazionali.- concluse, sforzando di usare un tono più professionale
possibile. Funzionò, dal momento che l’espressione dell’insegnante fu come illuminata.
Le comunicò che le competizioni giapponesi si sarebbero tenute entro un mese, tempo esiguo per prepararsi, ma se
avrebbero lavorato con tenacia, di sicuro Eve sarebbe riuscita ad arrivare in alto.
Di nuovo parole fin troppo cariche di entusiasmo, ma questo alla ragazza parve non importare: era decisa a dare il
meglio di sé in qualunque caso, la finalità le importava poco.
- Non mettermi le mani addosso, moccioso!- Non permetterti di chiamarmi così, bastardo!Takeshi corse a perdifiato giù per le scalinate, per incontrare la figura di Mizuki sostenere Aya per le spalle.
- Ma che succ...- s’interruppe, notando poi Kazuki che sferrava un pugno dritto nello stomaco del suo capitano e
quest’ultimo che si piegava in due dal dolore.
Ayame era in lacrime, sconvolta, mentre dall’atra parte Eve cercava di farli smettere. Era sopraggiunta pochi minuti
prima, sperando di poter essere in tempo per salutare la squadra al termine degli allenamenti, dopo il colloquio privato
con la signorina Rama ed invece aveva trovato il campo già deserto, ad eccezione dei due ragazzi.
Kojiro scoppiò in un acuto colpo di tosse e, rialzandosi quasi fulmineamente, assestò un altro pugno dritto in faccia a
Sorimachi. Il ragazzo cadde all’indietro e batté la testa sul terreno erboso, proprio in coincidenza della linea bianca di
limite.
- Kojiro! Basta!- tuonò la bionda, muovendo un passo in avanti. Aveva malamente lasciato cadere giacca e cartella
sulla bassa panca in legno dell’allenatore, non appena si era accorta di ciò che stava accadendo e, infastidita dal fatto
che Mizu e Aya se ne stessero impalate senza fare nulla per fermarli, si era sforzata di accollarsi la parte.
Il cannoniere non disse nulla, si pulì la bocca sporca di sangue con il dorso della mano e guardò Kazuki con odio.
- Non osare mai più mettermi le mani addosso.- sibilò.
L’altro si rialzò barcollando, riavvicinandosi minaccioso.
- Ma certo, capitano!- calcò l’intonazione sull’ultima parola, prima di colpire di nuovo.
Eve sbuffò, stando attenta a non mettersi troppo in mezzo al campo d’azione del pugno e, nel farlo, il suo sguardo
cadde su Takeshi, fermo giusto accanto a Mizuki ed Ayame.
- Sawada, non stare lì impalato! Dammi una mano, prima che arrivi qualcuno!!Il ragazzo lasciò scivolare la sua mano dalla spalla di Aya e raggiunse l’amica.
- Ma si può sapere che succede!?- domandò, irrequieto.
- A dopo le domande!- ribatté in fretta la bionda - Se arriva qualcuno e li trova così, rischiano di essere cacciati dalla
squadra e sospesi da questa dannata scuola!Il sole del pomeriggio brillava nel cielo azzurro e i nembi andavano disperdendosi nell’aria fredda dell’inverno.
I nervi di Eve erano decisamente visibili a fior di pelle.
Takeshi non sapeva che Mizuki fosse in buoni rapporti con Aya, piuttosto credeva che tra le due non corresse buon
sangue e che lei fosse addirittura infastidita da quest’ultima. Si rincuorò - nonostante la gravità della situazione - nel
notare che, in realtà, Mizu potesse essere in grado mettere da parte le antipatie, a dispetto del suo atteggiamento
superficiale da snob. L’aveva giudicata male e si sentì un po’ in colpa per questo.
- Su, basta litigare!- s’inserì tra i due compagni più grandi, mettendo le mani avanti.
- Stanne fuori!- gridò Kazuki, in preda alla collera e prima di cominciare a colpire l’altro sul petto.
Kojiro si trovò costretto tra l’orgoglio e la ragione, digrignò i denti. Non voleva farlo dal principio, ma a quel punto si
decise ad usare le gambe.
- Maledizione! Se usa le gambe di sicuro gli spezzerà qualche osso!- gridò Takeshi, lanciando una decisa voce alla
ragazza.
37
Eve corse incontro a Kazuki, nel tentativo di spingerlo via prima che il capitano potesse caricare il destro.
Si rese conto da sola che era troppo tardi: Hyuga si preparava a sferrare uno dei suoi poderosi calci, prendendo la
mira sul costato dell’avversario come se fosse un pallone fermo in area di rigore, quando avvertì alle proprie spalle una
morsa talmente ferrea da immobilizzarlo.
La bionda si voltò appena in tempo per assistere alla scena, tirando un sospiro di sollievo.
- Mollami, Ken!- urlava Kojiro.
- Non avresti mai la meglio su di me, capitano.- replicò l’altro, con una calma glaciale.
Il compagno rimase bloccato ancora per qualche istante, con i muscoli rigidi e il cuore a mille per la fatica, la rabbia e
le percosse ricevute.
Maledizione...
Per quanta forza potesse adoperare, quel diavolo d’un portiere aveva ragione: non poteva certo mettersi contro Ken!
La frustrazione gli cresceva nel petto, non poteva fare nulla, così cercò rapidamente di ragionare. Se si fosse mosso o
avesse tentato una qualsiasi mossa di resistenza, di sicuro Wakashimazu l’avrebbe atterrato... dannazione! Per quanto
potesse sforzarsi di tenere a freno l’ira, una sgradevole sensazione gli avviluppava i sensi: si sentiva di nuovo come in
gabbia.
La razionalità si fece strada difficilmente sino ai suoi occhi, così serrò le palpebre nel tentativo di rilassarsi - l’unica
cosa saggia. Sospirò pesantemente, un sospiro tremante dalla collera, poi si guardò velocemente intorno: Kazuki
ansimava ancora per terra, sotto lo sguardo di ghiaccio di Eve, Takeshi poco più in là con negli occhi una
preoccupazione senza fine e Aya... le lacrime le bagnavano il soffice volto teso, i suoi occhi scuri lo imploravano
silenziosamente di non andare oltre.
- Sono calmo. Lasciami pure.- sbuffò infine, permettendo al portiere di allentare la presa ed incrociare le braccia al
petto.
Il capitano si avvicinò alle panchine, afferrò la propria cartella, caricandosela su una spalla, ed il borsone.
- Capitano...- soffiò Ayame, ma quello si voltò una sola volta, lanciandole un’occhiata tra il rassegnato e il malinconico.
Era come se il suo sentimento per lei fosse destinato a non mettere radici da nessuna parte ed ora che quelle radici
erano scoperte, parevano diventate mille volte più deboli e fragili.
Non aggiunse nient’altro, si limitò ad uscire dal cancello immerso nel silenzio più assoluto.
Sorimachi si rialzò a fatica, massaggiandosi la nuca.
- Kazuki, io...- stava per cominciare Aya, voltatasi verso di lui con aria allarmata.
- Taci! Non voglio mai più sentire la tua voce!- le urlò infuriato, i suoi occhi attraversati da una vena di cieco
risentimento. Detto questo, raccolse anche lui le proprie cose fino ad allora buttate là senza badarci e corse via.
Per fortuna le lezioni erano terminate da un pezzo, la maggior parte degli alunni non girovagavano più tra chiacchiere
e risa per i corridoi ed il cortile, mentre gli insegnanti dovevano ancora uscire; se avessero assistito ad una scena del
genere, avrebbero preso dei provvedimenti piuttosto seri nei confronti dei due e del resto dei presenti - senza contare
che la storia e le premesse sarebbero divenute di pubblico dominio.
Aya rimase in silenzio, stretta nel suo cappotto a dar sfogo alle ultime lacrime, respirando pesantemente. Era tutta
colpa sua, si sentiva una ragazza orribile, incapace di fiducia e d’amore. Sciocca.
Takeshi sospirò.
- Ma che diavolo avevano quei due?Non gli arrivò nessuna risposta.
Eve chinò il capo all’indietro, trovandosi faccia a faccia col cielo; il suo fiato bianco si disperdeva nell’aria e le nuvole
stavano lasciando spazio all’azzurro infinito, defilandosi verso angoli remoti dell’atmosfera.
Si mosse lentamente fino a raggiungere la propria cartella scura, per afferrarla e prendere la direzione del cancello,
camminando verso casa. Non badò né a Mizu, né ad Ayame, troppo sconvolta per sentire ragioni e forse lei stessa
troppo contrariata per essere una consolazione per l’amica.
Fu raggiunta in breve tempo da Ken e Takeshi.
- Ehi! Aspetta Eve!- gridava Sawada. La ragazza si voltò e s’infilò una mano nella tasca del giubbotto.
Avanzarono insieme lungo la strada semideserta.
- Tu sai che gli è preso?- domandò, rompendo il silenzio. Wakashimazu se ne stava dietro di loro, la sua figura
imponente proiettava per terra una lunga ombra che la bionda fissava con la rassicurante sensazione di essere in
presenza di una difesa senza ostentazioni.
- Qualunque cosa sia è una questione tra il capitano, Aya e Sorimachi, io mi sono già intromessa abbastanza. Non ne
voglio più sapere.- gli rispose, mostrandogli un’espressione serena, che però tradiva una gran seccatura.
Inconcepibile, dovevano per forza venire alle mani per una cosa così stupida? Ed Ayame, invece di starsene lì
impalata, perché non aveva fatto nulla?
Takeshi si fermò a breve con aria ancora un po’ stranita di fronte al proprio cancello, salutando entrambi e
ripromettendosi di non cominciare a congetturare sulle varie possibili cause della lite dei compagni.
Ken ed Eve proseguirono l’uno di fianco all’altra.
- Sei davvero arrabbiata, stavolta.- affermò Wakashimazu, le mani dietro la nuca e la cartella ciondolante per la
schiena.
- Risparmiati i commenti, portiere!- sbuffò lei, scuotendo il capo.
- Okay, okay...- il ragazzo tacque, chiudendo un occhio ed alzando il mento.
Il silenzio era di nuovo calato inesorabile ed il suono dei loro passi scandiva i pensieri di ognuno.
- Senti, scusami.- sospirò di nuovo la bionda, stavolta più distesa - Sono solo un po’ nervosa, stanno succedendo
troppe cose nello stesso momento e...- Scuse accettate, non ti preoccupare.- sorrise lui, interrompendola, evidentemente non si era sentito né offeso né
attaccato dall’intimazione ricevuta poco prima - Piuttosto, conosco un metodo infallibile per sbollire la rabbia...- Sei forte, complimenti!- le disse, annodandosi meglio la cintura color pece.
Eve sorrise con gli occhi, mentre beveva a grandi sorsi l’acqua dalla piccola bottiglia. Immaginava che glielo stesse
dicendo per cortesia, più che credendoci davvero: un esperto di arti marziali come lui ne doveva aver ben viste di
persone veramente forti!
Ken si stiracchiò, sdraiandosi sul tatami con gambe e braccia aperte.
38
- Cerchi di ingraziarti qualche favore?- fece lei, appoggiando la bottiglia a terra.
- Che? No...- rispose il ragazzo, tra lo stranito e il divertito.
- E allora non fare l’adulatore, non ti si addice sai?- cacciò la lingua, abbandonandosi accanto a lui nella medesima
posizione, sfinita. Si sentiva del tutto spossata, ma diecimila volte meglio.
Il metodo infallibile di Ken funzionava davvero.
- Non ti sto adulando, ricordi la nostra vecchia sfida?- Wakashimazu socchiuse gli occhi - Allora la parai, ma la palla
aveva superato la linea della rete di un soffio. Ci hai messo una potenza incredibile, già allora avevo una buona
ragione per definirti forte. Quella di oggi è una riprova, anche se è stato solo un allenamento generico e tu di karate
sai meno di nulla.- le scompigliò i capelli con una mano, ridacchiando.
Eve avvertì un improvviso senso di compiacimento e morbida tenerezza nel petto. Era vero, la loro vecchia sfida... il
compleanno di Ken... quel giorno che avevano trascorso insieme, durante la calda, interminabile estate.
Si sentì piccola e sperduta dentro il gigantesco karate-gi che le aveva fatto indossare, ma anche molto fiera di aver
potuto saggiare per la prima volta l’arte marziale di cui Wakashimazu era indubbio maestro.
Non l’aveva mai ponderato prima, ma solo in quell’istante si era resa conto di quanto in realtà Ken doveva essere abile
ed esperto - aveva visto soltanto la punta di quello che doveva essere un gigantesco iceberg: i suoi movimenti erano
coordinati e decisi, il frusciare della pesante casacca lasciava intendere ad ogni atto una grande potenza e la stabilità
del suo corpo anche nelle pose più improbabili era massima.
S’immaginò le meraviglie di cui doveva essere capace in un incontro serio ed agonistico e di quanta autorevolezza di
spirito dovesse possedere.
- E poi, ehi, perché il ruolo dell’adulatore non farebbe per me?- soggiunse divertito, seguitando a punzecchiarla.
- Perché sembri freddo, menefreghista, a tratti strafottente.- rispose semplicemente lei con un’alzata di spalle, come
fosse la cosa più naturale del mondo.
Ken si alzò sugli avambracci, un sorrisetto incredulo e un sopracciglio alzato.
- Ah, grazie tante!- rise di nuovo.
- No, dico sul serio.- Eve rotolò su sé stessa fino a raggiungere la posizione prona, poi piantò i gomiti sul tatami e il
capo sulle mani, mentre alzò ed incrociò le gambe.
- E’ l’impressione che dai a chi non ti conosce, di uno con cui è meglio non avere a che fare, se no si rischia di finire
k.o.Lui si lasciò cadere di nuovo, tenendosi la testa con entrambe le mani.
- Questa sì che è nuova! Dici sul serio?- ribatté, mantenendo la sua aria spensierata.
- Ah-ah.- la bionda annuì, lasciandosi trasportare dalla sua allegria.
- Beh, il fatto che tu mi dica ciò che pensi, l’apprezzo.- sorrise, voltando il capo verso di lei, ancora salda in posa
infantile - Ma in realtà io sono buono!- scherzò, accompagnando la frase con un movimento delle dita sul proprio
petto.
Eve rilassò il volto, appoggiando gli avambracci a terra ed il mento sul dorso delle mani.
Gli sorrise semplicemente, mentre lui si portava su un fianco.
- Lo so.- disse, distendendo le labbra e curvando il capo da un lato.
Ken rimase senza respiro. E fu sicuro di arrossire.
I raggi dell’ultimo sole penetravano tra imposte alte e semiaperte del dojo e si poggiavano trasversalmente sulle loro
figure, indorando i capelli di grano di Eve ed illuminandole gli occhi celesti.
Era il sorriso più candido che qualcuno gli avesse mai rivolto. Da mozzare il fiato. Da fermare il cuore.
- Ti... senti meglio?- le chiese, schiarendosi la voce e tentando d’apparire deciso a riprendere.
- Mi sento a pezzi, Bruce Lee, dammi tregua!- rise lei, passandosi una mano sulla fronte sudata e tornando in
posizione supina.
- Come? Per così poco? Avanti, tirati su!- Ken si rialzò con un balzo.
La ragazza si era coperta gli occhi con una mano, come a volersi comicamente riparare da una tortura, ma quando si
aspettò di tornare a fissare il soffitto della palestra, ciò che si trovò dinnanzi fu un sorridente Wakashimazu che le
tendeva la mano.
Restò quasi impalata senza essere capace di sbattere le palpebre per qualche lungo istante, a partire dal momento in
cui il suo sguardo incontrò gli scolpiti pettorali attraverso lo scollo del karate-gi del compagno. Per un attimo fu tentata
di afferrare la sua mano e tirarlo verso di sé, piuttosto che fare perno per rialzarsi, ma la razionalità e lo sfinimento di
due ore di allenamento presero il sopravvento.
- No, sono a pezzi!- ripeté, tornando a coprirsi gli occhi per nascondere l’impaccio e l’inaspettato pensiero licenzioso.
Ken incrociò di nuovo le braccia e tornò a sedersi accanto a lei.
- Non dovresti stancarti subito...- sorrise.
- Ehi! Le mie gambe reggono, ma il resto non lo sento più!- protestando, Eve si voltò un’ennesima volta verso di lui Non sono come te, che puoi picchiare la gente per un giorno intero e uscirne indenne.- aggiunse, con un’espressione
infantile.
L’altro si portò le braccia al petto, chiudendo gli occhi.
- Non che mi diverta a picchiare la gente, il karate è tutt’altra cosa. Sai, esistono venti concetti basilari conosciuti con il
nome di Shoto Nijyukun che, oltre alle formalità, dettano dei veri e propri dogmi; primo tra tutti, bisogna sempre
tenere presente che il karate non è mezzo di offesa o danno, ma rettitudine, riconoscenza. Il karate è capire sé stessi
e capire gli altri.- la ragazza aveva leggermente lasciato dischiudere la propria bocca, in ascolto.
Wakashimazu pareva aver assunto l’aria di un saggio, giovane nume, mentre parlava illuminato dal sole carminio, i cui
raggi obliqui si posavano leggeri sulle sue spalle e sul suo volto rilassato.
Per un attimo, in quel preciso istante, il cuore di Eve si riempì di meraviglia, nel rendersi conto che non aveva mai
visto nulla di umano o inanimato di così idealmente bello.
Ken era... perfetto.
- Nel karate lo spirito viene prima dell’azione. E’ lealtà e spontaneità, il karate insegna che le avversità colpiscono
quando c'è rinuncia, è regola per tutta la vita.- stava a mano a mano ripetendo i principi più importanti, come se un
lungo elenco gli stesse transitando dinnanzi agli occhi serrati - Il karate non è vincere, ma l’idea di non perdere. Mani e
piedi come spade. Come l’arco, il karateka deve avere contrazione, espansione, velocità ed analogamente in armonia,
rilassamento, concentrazione, lentezza.39
Per una strana, remota ragione, la ragazza si sentì crescere un nodo in gola e gli occhi umidi. Era quasi come assistere
ad un mantra di elevata grandezza spirituale, pendeva dalle sue labbra come se le stesse rivelando la ricetta per
l’immortalità ed in mezzo a tutto quel silenzio celeste, la voce del compagno risuonava eminente e forte, tanto da
parerle irraggiungibile, etereo.
- Lo spirito deve sempre tendere al livello più alto.- concluse Ken, tornando a rivolgere i suoi occhi neri alla realtà.
Eve deglutì ed emise un profondo ed impercettibile sospiro, tornando a respirare. Era come se la profondità dell’animo
di lui le si fosse rivelata d’un tratto come una sfolgorante folgore, intensamente, dolorosamente - e lei non fosse
pronta, non subito, non per tutta quella luce.
- Insomma, sei una pappamolle.- rise di nuovo il portiere, sciogliendo le braccia e poggiando le mani indietro, di nuovo
a terra.
Lei fu grata di questo strappo improvviso, non era sicura di poter reggere oltre qualcosa di così intenso.
- Che cosa?!- si scosse, saltando su a sedere - Ripetilo se hai coraggio! Non saprò nulla di arti marziali, ma me la cavo
bene con la lotta di strada, sai?!- esclamò, alzando il capo in segno d’indignazione.
- Ah, sì?- Wakashimazu seguitò a ridacchiare, decisamente poco convinto - Pappamolle.- ripeté, per nulla intimidito.
Eve strinse i pugni, abbandonando con un sorriso lo spirituale incontro verbale di poco prima e lasciandosi invadere da
un caratteristico senso d’infantile immaturità.
- Ridi, ridi!- fece, minacciosa, lanciandosi su di lui e prendendo di mira i suoi fianchi tonici e compatti - Rimangiati
quello che hai detto!- Mai!- insisteva Ken, ma ci volle poco perché scoppiasse a ridere come un bambino - No! Ti prego! Il solletico no! Mi
arrendo! Mi arrendo!- Non ho ancora finito, così impari!- rise la bionda, non dando cenno di volersi fermare. La risata nitida e trasparente
come acqua che il portiere lasciava giungere alle sue orecchie, la faceva sentire mille volte più motivata a continuare,
se non fosse che d un tratto la porta scorrevole dell’entrata al dojo si spalancò e la signora Wakashimazu fece capolino
sulla soglia, con un sorriso materno che voleva invitare entrambi a prendere il tè pomeridiano.
- E questo è karate?- domandò, sgranando gli occhi.
I due arrossirono all’istante, bloccandosi l’una sull’altro. Le mani della ragazza aderivano saldamente agli addominali di
lui, sotto la sua casacca slacciata - la cintura nera slacciata sotto il suo corpo atletico - mentre le dita di Ken erano
saldamente strette alle spalle di lei, tanto da poterne palpare i muscoli contratti.
- Credo si chiami... lotta libera...- azzardò Eve, sollevata dal fatto che la donna si lasciò immediatamente andare ad un
riso divertito.
Dovevano sembrarle davvero ridicoli.
- Grazie tante, mi sento davvero bene ora.- Figurati.- Ken si portò una mano dietro al collo, annuendo in un sorriso.
La ragazza sospirò e tornò alla sua tazza di tè che, pur non essendo una grande intenditrice, reputava uno dei migliori
che fino ad allora avesse bevuto.
Si guardò intorno, per avere l’ennesima riprova che Ken era pazzo per il calcio: foto e locandine dei più grandi portieri
del mondo erano appese alle pareti ed alle ante dell’armadio, per non parlare delle varie medaglie su uno scaffale bene
in vista.
- Quelle le hai vinte giocando a calcio?- le indicò.
- Alcune. Altre sono premi di partecipazione ed un buon numero le ho ricevute ai campionati di karate.- le rispose,
fissando la sua stessa direzione.
- Sono due sport completamente differenti.- commentò lei, seguitando a fissare le immagini in fotografia.
Ken annuì di nuovo, questa volta più debolmente.
Poteva dirglielo? Doveva? Voleva?
Ma ancor prima di porsi la questione, si trovò già in bocca le parole necessarie a fornirle una spiegazione esauriente,
che gli scivolarono naturalmente dalle labbra.
- Mio padre vuole che mi dedichi soltanto alle arti marziali.- cominciò - Sebbene qualche anno fa, vincendo il
campionato con il Toho, mi avesse concesso di giocare unicamente a calcio, ogni volta che mi vede con un pallone, una
rivista sul calcio o qualunque altra cosa che riguardi questo sport, diventa... freddo.- il suo sguardo si rabbuiò un poco
- Più volte mi sono trovato a pensare che il suo atteggiamento di allora fosse soltanto una via transitoria, come fosse
sicuro che, dandomi corda per un certo periodo, sarei tornato presto al dojo, ma così non è stato e probabilmente è
frustrato per il fallimento di quella sua sorta di piano. So bene che lo infastidisce parecchio il fatto che io mi dedichi a
migliorarmi come portiere, ma dopotutto è stato lui a propormi una scelta. Ed io ho deciso: il calcio.- accavallò
largamente le gambe, rimanendo seduto sul bordo del letto - Anche se me la cavo bene anche con il karate, in fin dei
conti lo pratico da quando sono nato, è ovvio che debba aver imparato qualcosa...Eve si specchiò nel suo sorriso... un po’ sereno, un po’ malinconico.
Ken aveva scelto, stava camminando per la sua strada... e lei? Distolse lo sguardo, tornando a guardarsi intorno. Non
era una questione da porsi in quel momento.
- Interessante la tua stanza.- cambiò volutamente discorso.
Wakashimazu non aveva smesso di rivolgerle uno sguardo gentile, le sue labbra si curvarono in un dolce sorriso.
- Anche la tua è interessante.- rispose, rilassando l’espressione.
- Che? La... la mia?- Eve cadde dalle nuvole - Oh, già.- si affrettò ad aggiungere, realizzando che quella volta in cui
l’aveva portata sulle spalle fino a casa, Ken aveva addirittura avuto occasione di dormirci, nella sua stanza!
- Hai talento, sai? Ho visto qualche tuo progetto e poi... mi piace come disegni la squadra.- aggiunse, notando la
perplessità di lei.
- La squadra?- di nuovo una domanda ingenua.
- Il tuo disegno in cui ci siamo io, Kojiro e Takeshi che ci facciamo le boccacce.- rise di gusto, annuendo - E’ stato uno
dei primi che ho notato, è spassosissimo!Eve arrossì. Beh, decisamente non poteva definirsi un’opera d’arte...
- Che? E’ solo uno sgorbio...- replicò, tra l’imbarazzato e il lusingato.
- Ah, grazie di nuovo! Mi riempi di complimenti, oggi!- fece ancora Ken, scuotendo il capo e seguitando nella sua
serena risata.
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- Oh, no! Non intendevo... dicevo che è uno scarabocchio, ne faccio a migliaia di quel genere nelle ore di inglese, devo
averlo buttato...- buttò là la bionda, poggiando la tazza sulla scrivania accanto a quella di Wakashimazu.
- Davvero?- il compagno parve rammaricato - Peccato, mi piaceva.Eve lo guardò fisso, sgranando gli occhi.
- Non dire scemate!- esordì poi, voltandosi verso la poltroncina e prendendo di mira il cuscino che stava placidamente
appoggiato ad uno dei braccioli.
- È la verità!- protestò lui, assottigliando lo sguardo.
- Non ci credo!- scherzò di nuovo la ragazza, afferrando rapidamente il guanciale e lanciandoglielo contro.
Inutile dire che Ken lo prese al volo.
- Nota da ricordare: mai lanciare niente contro un portiere!- disse poi a sé stessa, soffiandosi via un ciuffo dalla fronte.
- E mai mettersi contro un karateka.- aggiunse lui, le mani ai fianchi.
- Fantastico, sei intoccabile!- esclamò Eve sarcastica, lanciandogli uno sguardo prima seccato, poi illuminato.
- Oh no, non ci provare!- il ragazzo scattò in piedi.
- Oh, sì!- rise lei con un ghigno sul volto.
Ken indietreggiò finché non arrivò di nuovo a toccare con le gambe il bordo del letto dove poco prima era seduto. La
bionda gli si avvicinava pericolosamente.
- Adesso riprendo la mia opera da dove l’ha interrotta tua madre...- disse sorridendo sprezzante, ma inaspettatamente
il portiere si mise in posizione.
- Ricorda che posso parare anche te!- rese deciso, mentre Eve gli si faceva vicino più velocemente.
Quando avvertì le sue mani afferrarle i fianchi e sollevarla da terra, cominciò a ridere anche lei, sentendosi leggera
come una piuma.
- No! No! Mettimi giù! Ma così non vale!- si lamentò giocosamente.
- Abbandona i tuoi piani, hai perso!- le disse, mentre lei si dimenava. Era esile ma molto ben definita, riusciva a
sentire i contorni dei suoi fianchi femminili sotto la propria stretta.
- Non ancora!- affermò Eve, mentre prese a spaziare con le mani sul petto del compagno - Cosa fare adesso? Mi lasci
andare o sopporti la tortura?Wakashimazu non poteva muovere le braccia, dal momento che erano occupate a sostenere Eve a mezz’aria ed il
proprio viso sorridente si compiaceva della sua inabilità. La guardava dritto negli occhi chiari e divertiti, giusto qualche
centimetro sopra la propria fronte... l’unica soluzione che fu condotto ad adottare fu il rafforzare la presa, cingendole
completamente la vita, per poi lasciarsi cadere sul letto trascinandola sopra di sé.
Lei non disse nulla, semplicemente il contatto improvviso con il suo torace, il suo collo, il suo intero corpo l’aveva
totalmente inebriata. Ora riusciva a cogliere il profumo di Ken direttamente dalla sua pelle... elettrizzante.
Restarono lì distesi senza muoversi, le mani di lui persistevano sui fianchi della ragazza che, muta, aveva chiuso gli
occhi ed appoggiato la fronte nell’incavo del suo collo.
- Bella mossa, complimenti, non me la sarei mai aspettata!- rise, dopo qualche istante. Ma non accennò ad alzarsi,
rendendosi conto che stava poggiando la bocca a qualche millimetro dal suo petto, al principio semiscoperto sulle
clavicole dalla larga maglia. Continuava a percepire il suo profumo d’uomo con gli occhi ora semichiusi.
Il portiere tentò una prima volta di sollevare gli avambracci dai suoi fianchi, il cuore accelerato.
Ma... cosa mi prende? Non riesco a scostarmi da lei... è come se... non ce la faccio...
Poteva avvertire il seno di Eve premuto contro il proprio addome e le sue labbra di velluto che gli sfioravano il collo.
Aveva ancora le gambe aperte ed avvertiva quelle di lei immobili nel mezzo, rasentare le proprie. Riconosceva in sé un
desiderio trascinante di stringerla sempre più forte, di prolungare quel contatto all’infinito.
In quel momento la ragazza si chiese per quale motivo Ken la stesse abbracciando così... di nuovo. La invase quella
sensazione di dolcezza e protezione che aveva provato quando lui si era addormentato con lei. Adorava il modo in cui
le cingeva la vita, in una stretta forte e decisa, ma allo stesso tempo così delicata che si sentiva tutt’uno con lui,
dimentica di ogni angoscia, di ogni pensiero razionale.
La cosa che la turbò maggiormente era che smaniava ardentemente di perdersi in lui, senza obblighi, oneri, né
incombenze; mai aveva permesso a sé stessa di essere sull’orlo di perdere coscienza a quel modo...
Lo squillo repentino del telefono sul comodino la fece scattare a sedere, come se qualcosa fosse penetrato nel loro
mondo e avesse rotto l’incantesimo dell’abbraccio.
Ken sembrava altrettanto scosso e preso alla sprovvista; rimasero a fissarsi per qualche istante. Nessuno dei due
arrossiva, nessuno distoglieva lo sguardo, occhi negli occhi finché il suono del telefono non cominciò a farsi fastidioso.
Lui si voltò e alzò il ricevitore senza dire una parola, lasciò che fosse l’altro ad iniziare la conversazione.
- Sì.- si trovò a rispondere - Sì, sono io. Venerdì, chiaro.Eve si era portata una mano sulle ginocchia, mentre fissava la nuca del compagno e la sua voce risoluta scandire
decise parole.
- Ci sarò. D’accordo, arrivederci.Wakashimazu riappese, per poi voltarsi di nuovo verso di lei e rivolgerle un inaspettato sguardo raggiante.
- La prossima settimana ci sarà la riunione per il nuovo torneo.- annunciò, negli occhi neri un bagliore d’entusiasmo.
L’altra si sciolse in un sorriso.
- Metticela tutta, titolare.- disse, entrambe le mani ai fianchi.
Il ragazzo annuì, ricambiando il sorriso con una punta d’imbarazzo, lusingato dalle parole della compagna.
- Chissà se Kazuki e Kojiro giocheranno?- si fece d’un tratto serio, soprappensiero - Credo che dopo ciò che è successo
oggi la squadra abbia subito un bel crack.Eve rimase zitta. Ayame aveva combinato davvero un bel pasticcio, si trovò a pensare, e Ken ci aveva messo poco a
fare due più due.
- Tu sai qualcosa, non è vero?- le chiese, infatti, alzando lo sguardo nei suoi occhi - Se è così, puoi dirmelo. Magari
possiamo fare qualcosa.La bionda si stiracchiò, assumendo un’aria leggera.
Forse era davvero la cosa migliore, parlarne con qualcuno... e magari Ken aveva ragione, nella sua volontà di fare del
bene alla squadra: avrebbero potuto inventarsi qualcosa. Insieme.
- È una storia lunga.- cominciò - Una sera, ad Onsensawa, Sorimachi ha chiesto ad Aya... beh, voleva che facessero
l’amore. Lei non se l’è sentita...-.
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- Tutto qui? Che c’entra Kojiro, allora?- Wakashimazu la interruppe, con un’espressione interrogativa. Eve cominciò a
pensare che il due più due che aveva idealizzato poco prima fosse poco più di una supposizione...
- Non direi.- si limitò a passarci sopra, continuando il discorso - Ayame, in un attimo di panico, gli ha urlato in faccia
che non lo ama più e che è innamorata di Kojiro.- Ah, ma sembra una telenovela!- sospirò lui, le mani dietro la nuca.
- Ma vuoi stare zitto?! Non ho finito!- stavolta lei fece un balzo in avanti, tappandogli la bocca con entrambe le mani La mattina dopo il capitano è venuto nella nostra stanza a cercare te, credendo che ti fossi di nuovo nascosto nel mio
letto.- gli lanciò un’occhiata vispa - Ma eravamo già tutti nella hall a litigare per il satellitare, ricordi? Mancava
all’appello soltanto Aya, che sembrava stranamente giù di corda e si era attardata nel prepararsi.- A cercare me...?- fece l’altro, solleticandole il palmo di una mano con le labbra.
- Non è questo il punto.- Eve alzò gli occhi al cielo, non era proprio quella la risposta che si era aspettata da lui. Gli
lanciò un altro sguardo, stavolta più eloquente, tentando di farsi intendere meglio.
- Cioè, mi stai dicendo che Kojiro è andato a letto con Akimoto?!- finalmente Wakashimazu tagliò il traguardo.
- Sei perspicace!- sospirò la compagna, tornando a poggiare le mani sulle proprie ginocchia, le gambe piegate
sull’ampio e morbido materasso - Come se non bastasse, Kazuki ha ascoltato una loro conversazione dove
sicuramente alludevano a quella sera. E’ questo il vero e proprio fatto scatenante. Sorimachi è un ragazzo calmo, o
perlomeno è questa l’impressione che da; credo che abbia cercato di tenere per sé la cosa, stando alla larga da
entrambi, Aya lo sapeva e non ha fatto nulla. Dopo un po’, però, credo che gli si siano spezzati i nervi e che abbia
colto la prima occasione per dare addosso a Hyuga.- E io che credevo che Kojiro di ragazze non ne volesse sentire nemmeno parlare...- sospirò il portiere - Però ora che ci
penso, immagino fosse da un bel po’ che aveva messo gli occhi su Ayame. Adesso mi spiego le loro lunghe
chiacchierate, mi chiedevo cos’avessero mai da dirsi due persone totalmente diverse come loro, e invece sembrava
davvero che ogni argomento fosse buono per intavolare un discorso e cercare un contatto. E poi tutte le volte che
tornavano o arrivavano a scuola insieme...Il ragazzo si concentrò di più, pareva che tutti i pezzi di un puzzle a cui non aveva badato poi molto in passato,
stessero quadrando alla perfezione nella sua mente.
- Vuoi dire che tra quei due c’era già qualcosa?- Eve lo svegliò dal suo sogno ad occhi aperti.
- Beh, niente di fisico, se è questo che intendi.- Ken alzò le spalle, tornando ad appoggiarsi con gli avambracci
all’indietro - Però Kojiro è sempre stato troppo gentile con lei, non hai mai notato? Ogni volta che Akimoto apre bocca,
il capitano sembra cadere in trance. Immagino sappia mascherare bene le proprie emozioni, ma per me che lo conosco
da quando eravamo alti la metà di adesso, è tutt’altra cosa.La bionda stette a guardarlo per qualche istante, complimentandosi mentalmente con lui per aver notato delle piccole
cose a cui nessuno sembrava fare caso.
Un improvviso flash del primo giorno di scuola le balenò dinnanzi agli occhi e, doveva ammettere, Ken aveva
pienamente ragione. In quell’occasione Kojiro pareva fuori di sé dalla rabbia ed era bastata una sola frase di Ayame che non aveva spiccicato parola dall’inizio della punizione per il ritardo - per farlo tornare a respirare normalmente.
- E ora che ti ho detto quello che so, che si fa?- domandò, fissando i lunghi fili di capelli scuri che poggiavano sulle
larghe spalle del compagno.
- Non ne ho idea.- disse lui, alzando naturalmente le mani, pur rimanendo puntato con i gomiti e mantenendo la
posizione. Eve per poco non cadde dal letto.
- Ma come sarebbe!?- sbottò - Hai voluto che ti raccontassi!? E allora adesso inventati qualcosa!Il portiere la guardò con aria divertita e poco colpevole.
- Ehi, ehi! Non te la prendere con me!- rise. Eve era buffa quando saltava su a quel modo, c’era qualcosa di
estremamente infantile nel suo volto che tante volte aveva visto pensoso, grave e fin troppo serio, che gli procurava
un senso di gaudio e tenerezza nel cuore.
- Sì, come no, scusa.- mormorò lei, stringendosi nelle spalle, seppur poco convinta.
- Ascolta un po’...- cominciò Ken, inaspettatamente tirandosi su e facendosi più vicino a lei.
L’altra prese a fissare i suoi occhi neri che avevano assunto un non so che di losco e per nulla rassicurante e la sua
espressione concentrata; lo stette a sentire attentamente.
- Venerdì ci saranno le convocazioni.- alluse alla notizia ricevuta poco prima - Kazuki e Kojiro non potranno mancare e
allora...- E allora...?- ripeté lei, pendendo dalle sue labbra come una bambina che aspetta che le sia concessa un’ennesima,
preziosissima caramella.
- Basta che tu porti Ayame ed io quei due nel ripostiglio della palestra, non sarà difficile con la squadra al completo
crederanno di doversi occupare di qualcosa di ufficiale, poi li chiudiamo dentro e...- E il giorno dopo usciranno i giornali con la notizia di prima pagina: “Trovati tre ragazzi dissanguati nel ripostiglio della
palestra dell’istituto Toho”!- la ragazza sbottò, interrompendo la folle spiegazione del compagno - Ma è ridicolo! Quelli
si faranno fuori a vicenda!- Ma vuoi stare zitta?! Non ho finito!- Wakashimazu ripeté volutamente le medesime parole che Eve aveva pronunciato
qualche minuto prima. Questa gli lanciò un’occhiataccia, ma lui proseguì senza badarci.
- Se capiranno di non poter uscire, se ne staranno buoni. Dopotutto hanno anche i loro cervelli, che spero funzionino.
Sono grandi abbastanza per non ricadere nello stesso errore, fidati, e poi lì da soli con Ayame non potranno fare altro
che chiarire.Lei sembrava poco convinta.
- Basta che alla fine non se la prendano con lei.- di nuovo un’alzata di spalle.
- Non credo tu ti debba preoccupare di questo: Kojiro non lo farebbe mai. Lo conosco abbastanza bene da potertelo
giurare. E’ impulsivo, dispotico, ma quando si tratta di qualcosa che ama, sa tirare fuori una ponderatezza che è in
grado di controllare molto bene.Eve alzò entrambe le sopracciglia, curvando la bocca da un lato.
- Già, infatti si è visto cos’è successo ad Onsensawa...- commentò, con un’espressione sospettosa. Il ragazzo le lanciò
repentinamente il famoso cuscino sul viso.
- Che c’entra, Kojiro è pur sempre un uomo!- asserì.
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Eve lo guardò di sottecchi per qualche istante, mentre lui rimase in attesa di una risposta. Non era sicura fosse la cosa
giusta da fare, dopotutto non si era mai intromessa negli affari degli altri a quel modo - né aveva mai avuto interesse
e ragione di farlo - ma Ken sembrava davvero sicuro di sé e di voler dare un efficace apporto per far sì che la squadra
non cadesse in totale disfacimento, così si lasciò trasportare dall’entusiasmo.
- Te l’ha detto nessuno che sei proprio un genio?- cacciò la lingua, con un sorriso.
Wakashimazu distese l’espressione, rallegrandosi che la sua trovata fosse stata accolta positivamente. Dopotutto, se
Kojiro e Kazuki avessero mantenuto le ostilità, di sicuro il loro team non avrebbe fatto una gran figura ai campionati,
avrebbero rischiato grosso. E se la posta in gioco dipendeva dall’osare, tanto valeva farlo fino in fondo.
- Sì, sì, modestamente.- la ringraziò con un sorriso. Lei scattò di nuovo sulle ginocchia, il guanciale stretto tra le mani.
- Non darti tante arie! Anche se ti sei difeso dal solletico, nessuno mi impedisce di soffocarti!- esclamò, spingendolo
indietro e premendogli il cuscino sulla faccia.
Ken si ritrovò di nuovo le braccia sui fianchi di lei, prendendo a dibattersi e a ridere di gusto.
- Che?! Sei impazzita? Eve... umhpf... Eeeeve!!- Ci sei?- Ci sono!- Perfetto! Ora!I ragazzi chiusero pesantemente la porta, che si bloccò con un tonfo sordo.
- Ehi!!- la voce di Kojiro suonava lontana, dall’altra parte delle pesanti imposte in metallo.
Ken e Eve si batterono un cinque, coordinazione perfetta.
- Mi odierà a morte!- fece Wakashimazu, con un sussurro, ma non senza trattenere un sorriso soddisfatto.
- Ma che dici, non eri tu a sostenere che appena avranno chiarito, tornerà tutto come prima?- lo incalzò la compagna,
spingendolo lontano dal ripostiglio per gli attrezzi ginnici.
Correndo silenziosamente per il corridoio, ritornarono in palestra usando le scale.
L’orario scolastico anche per quel giorno era giunto al termine e le convocazioni straordinarie per il torneo in nazionale
erano chiuse.
Gli esaminatori erano sempre stati dei professionisti molto seri e, come già in passato era accaduto, si erano impegnati
al massimo per valutare le prestazioni di ognuno dei giocatori del Toho. Wakashimazu era caricato al massimo ed
aveva dato il meglio di sé, così come Hyuga e Sorimachi, che per quel pomeriggio parevano aver messo via la rivalità.
Una rivalità che sarebbe sicuramente scoppiata nuovamente alla prima occasione utile, era come una bomba caricata
che sicuramente non avrebbe retto per l’intero campionato.
Eve e Ken addussero la scusa di voler rimanere in palestra ad allenarsi, mentre tutti gli altri lasciavano l’ala sportiva
dell’istituto, di modo da lasciare ai due occasione di controllare la situazione.
- Sei pronto? Questo è il mio tiro più forte!- la bionda calciò la sfera con quanta forza aveva in corpo e lui si lanciò per
accoglierla tra le braccia.
L’impatto fu più violento del solito: la palla batté forte contro il suo petto, ma il portiere la trattenne più che poté,
cercando di non perdere l’equilibrio.
Furono attimi, istanti brevi e glaciali.
Ken tentava di non sbilanciarsi ulteriormente e fermarsi con la sfera tra le mani, ma il pallone era caricato a dovere e
lo spinse ancora più indietro, finché non si decise, con uno sforzo dei bicipiti, a deviarlo.
Il tiro andò ad infrangersi rumorosamente e con energia sulle gradinate.
- Accidenti!!- imprecò, rialzandosi. Era convinto di poterla stoppare, ma era stato costretto a rigettarla con un deciso
spasmo dei muscoli. Davvero di rado gli era capitato di assistere e vivere un così intenso rigore.
- Hai visto che le mie gambe sono più forti dei tuoi salti?- rise lei, soddisfatta. Sembrava poco crucciata del fatto che
Wakashimazu fosse riuscito a non concederle il goal, piuttosto enormemente compiaciuta che il portiere non fosse
riuscito a trattenere la sua potenza.
In effetti, Ken doveva riconoscerlo, quella ragazza possedeva una carica eccezionale nelle gambe, era senza dubbio
molto portata per gli sforzi degli arti inferiori e non per nulla aveva scelto la squadra di atletica.
- Beh, se non altro ci stiamo allenando sul serio.- disse poi, oltrepassando la linea biancastra e recuperando il pallone,
per poi rilanciarlo alla compagna.
L’aria si stava facendo pesante.
La finestrella era chiusa e si era bloccata dall’esterno.
Kojiro si massaggiava una spalla, che cominciava a fargli piuttosto male, dopo i mille tentativi di buttare giù la porta.
Regnava un silenzio insopportabile. Ayame si era portata una mano al petto e fissava il pavimento, preoccupata.
Ancora silenzio.
- Riproviamo!- esclamò tutt’un tratto Kazuki, dirigendosi verso la porta.
- Sarebbe inutile. Ci ho già provato infinite volte, come hai potuto notare, ma senza risultato.- gli disse l’altro, con una
vena di sarcasmo.
- Ah sì? Solo perché non ci sei riuscito tu, superuomo, non vedo perché io non ci debba nemmeno provare!- il
compagno lo rimbeccò con astio.
- Perché ti romperesti qualche osso ancora prima di toccare la porta!- fu la risposta che gli arrivò.
- Adesso basta!- gridò - Sono stato buono e professionale finché si trattava delle convocazioni, adesso non ti permetto
di parlarmi così! Solo perché sei il mio capitano?! Non ne hai il diritto!- Finitela!- l’urlo della ragazza bloccò i due, che stavano per cominciare una nuova rissa, ma tornò subito dopo a
guardare il suolo, arrossendo notevolmente e vergognandosi della propria uscita.
Non doveva intervenire, dopotutto la causa di ogni rancore era lei e parlando sapeva bene che avrebbe peggiorato
ogni cosa.
- Senti, senti. Sei ancora capace di parlare, allora?- sibilò Kazuki, guardandola di sottecchi.
Aya si strinse un pugno alla maglia bianca, prendendo a singhiozzare. Non riusciva ad innalzare alcun tipo di barriera
alle frecce avvelenate che da interminabili giorni Sorimachi le stava scagliando addosso.
- Oh, adesso ne ho abbastanza dei tuoi pianti!- sbuffò poi.
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Prima ancora che Hyuga potesse muovere il primo passo ed alzare mani e voce per difenderla, la ragazza aggrottò le
sopracciglia e fece proprio un coraggio che non le apparteneva, esplodendo in un urlo disperato e allo stesso tempo
soffocato dai singhiozzi che tentava di reprimere.
- Ma che ti prende, Kazuki?!- la sua voce trasparente era carica di dolore - Da un po’ di tempo non sei più lo stesso!
Sei diventato... cattivo! Io... quando ti dissi che non ti amo più non era per liberarmi della tua presenza e fare i miei
comodi, cosa credi! Solo... fattene una ragione!!L’altro aveva spalancato gli occhi, non aveva mai visto Ayame difendere coi denti qualcosa. E gli si strinse il cuore nel
rendersi conto che quel qualcosa, in quel momento, non era affatto il legame che era intercorso tra loro, ma ciò che la
univa a Kojiro.
Prima ancora che potesse replicare, lei seguitò nel suo sfogo.
- Non mi importa se tu pensi che io sia una... specie di puttana! Non mi interessa!- si lasciò cadere in ginocchio, sul
pavimento freddo e polveroso - Ho sbagliato, ho commesso un errore imperdonabile a non parlartene prima, ma... ma
ti giuro, non volevo rovinare la vostra amicizia! Siete stati buoni compagni sin dai tempi delle elementari... e ora... ora
per colpa mia... tutto è andato distrutto. Mi dispiace, mi faccio schifo... mi faccio schifo!!- terminò, con un grido d’odio.
- So che non ti servirà a molto e forse finirà a mio danno, ma quando calci, cerca di prendere la mira.- la voce di Ken
le arrivò serena e distesa.
Eve scosse la testa.
- E come faccio, scusa?- E’ tutta questione di posizione.- rispose lui - Se riesci a ruotare il piede di modo da far prendere la rotta al pallone,
hai già fatto metà del lavoro. I portieri esperti si accorgono immediatamente della direzione che assumerà il tiro dalla
posizione della gamba di chi lo sferrerà, ma essendo un’atleta di corsa e non un calciatore, dovresti riuscire ad eludere
facilmente il problema con la tecnica della partenza...- Ehi, ehi, time up! Apprezzo i consigli, ma ci vuole una doccia, mi hai fatto faticare con questo pallone!- replicò,
sorridendo e lanciando la palla nel cesto insieme a tutte le altre, per poi dirigersi verso le docce.
- Buona idea.- lui la imitò e presero direzioni diverse, verso i rispettivi spogliatoi.
Era di nuovo silenzio.
Kazuki aveva preso a stringere i pugni, lottando con la propria razionalità. Per quanto si sentisse frustrato, tradito,
assente... non ce la faceva, non riusciva ad odiarla.
Sapeva bene che quella che stava soffrendo maggiormente era Ayame: a causa del suo carattere sempre
condiscendente e mai egoista, aveva portato agli eccessi una bontà che a lungo andare l’aveva danneggiata.
Non era riuscita ad essere meschina nemmeno per un attimo e durante la loro ultima lite era stata capace di
confessargli la verità con negli occhi una disperazione che lasciava adito ai divoranti sensi di colpa.
Tuttavia, non si mosse di un passo.
- Ho... ho deciso.- sussurrò d’un tratto la ragazza, rialzandosi - Io mi faccio da parte. Sarei anche disposta ad
andarmene da questa scuola... lo so che è difficile, ma... vi prego... potete almeno provare a tornare gli amici di
tempo?Ora li stava fissando entrambi con occhi rossi e gonfi, carichi ed estenuati.
Le pulsavano le tempie e le girava la testa. Passò lo sguardo da Kojiro a Kazuki, entrambi silenti, con la bocca
leggermente aperta.
Il capitano, che fino a quel momento non aveva aggiunto nulla, si avvicinò all’altro per afferrandogli la mano e
stringergliela inaspettatamente. Così Aya voleva, così doveva andare.
Le aveva procurato fin troppo male, affrettando le cose e lasciandosi trasportare dagli istinti. D’ora in poi l’avrebbe solo
protetta, aveva deciso che lei sarebbe stata la propria donna, la sua metà.
Kazuki si lasciò guidare da lui, poi i suoi muscoli si ripresero e rispose alla stretta del capitano.
Non parlava, si limitava a fissarlo in quegli occhi che mille volte si erano colmati di sdegno e collera, durante gli
incontri con gli avversari, ma che ora erano attraversati da una luce che confermava ogni timore: Kojiro amava
davvero la sua Ayame - anche se, oramai, non poteva più considerarla tale.
Si era sforzato di fingersi adulto, ma... infondo era ancora un ragazzino. In quel momento voleva tornare ad essere
piccolo piccolo per sentirsi meno sciocco, ma era ben conscio di non poter tornare indietro.
Era stato lui stesso a metterle fretta: voleva che facessero l’amore a tutti i costi ed invece doveva tenere conto dei
suoi sentimenti. Nell’occasione della loro definitiva separazione, aveva avvertito soltanto una voglia crescente di
avvinghiarsi al suo corpo fragile ed unirsi a lei, nonostante conoscesse bene il carattere di colei a cui stava rivolgendo
una richiesta - quasi un ordine - simile.
Semplice, non ne aveva tenuto conto. Che stupido era stato.
Ed ora ne stava pagando le conseguenze. Arrivò addirittura a pensare che forse gli stava proprio bene, che potesse
essere una giusta punizione... e vedendo le sue lacrime sincere, l’animo innamorato di Kojiro... non poteva far altro
che tirarsi indietro e ricominciare. Rinunciare da uomo.
- Era destino.- disse infine, rassegnato.
Aya sgranò gli occhi. Fu come se ogni cosa fosse mutata in un istante.
Il ragazzo abbassò lo sguardo e riprese a parlare.
- Forse... era destino che tu t’innamorassi di lui... e lui di te.- sospirò - Non ho mai pensato a te come a una specie di
puttana, Ayame. E non lo farò mai perché ti rispetto. Ognuno ha i propri momenti di debolezza, mi rendo conto di non
essere stato mai alla tua altezza, troppo impegnato nelle mie stupidaggini e troppo sicuro che tu saresti sempre stata
là. Ho dato troppe cose per scontate, e questo è imperdonabile.Seguì una lunga pausa, durante la quale Sorimachi tentò di reprimere quel nodo che dallo stomaco gli stava
lentamente salendo in gola ed incrinando la voce.
- Ma che non succeda con te, Kojiro!- alzò lo sguardo, come per rimproverarlo e scacciare le lacrime - Se la farai
soffrire, dovrai vedertela di nuovo con me. E stavolta non ci saranno Eve e Ken a fermarci!L’altro riprese a respirare e non poté far altro che, incredulo, sorridergli da amico.
- Grazie... grazie...- intervenne Ayame, fissandolo ora con il suo classico sguardo materno e riconoscente.
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- Ehi! E non pensare nemmeno di andartene da qui, chiaro?- aggiunse Kazuki, con un sorriso atto a dominare la
debolezza - Tenterò di essere tuo amico... ci proverò.- aggiunse poi, annuendo sinceramente.
Gli costava parecchio ammettere che avrebbe dovuto investire di più su un rapporto e su una ragazza come Akimoto,
che aveva sempre visto come spalla presente, ma che mai aveva seriamente considerato come fonte di passioni e
tormenti. Era a causa sua se Aya non si sentiva adeguata, ma piuttosto trascurata e messa in ombra; a causa del suo
essere troppo sicuro e forse del suo contare troppo poco su una persona in realtà così bisognosa di attenzioni come lei.
La ragazza, intanto, aveva preso a guardare i due con occhi diversi... avevano ancora le mani unite in una stretta
fiduciosa ed in quel momento si sentì il cuore più leggero.
- Non piangere più, adesso.- le disse il capitano, in uno dei toni più dolci che gli avesse mai sentito usare. Quello che
stava vedendo era un Kojiro che non aveva mai avuto modo di osservare... e sapere che la dolcezza che nascondeva,
l’aveva riservata per lei, la fece sentire tutt’un tratto così paradossalmente al proprio posto nel mondo.
- Ah, mi ci voleva proprio!- sospirò Eve, ravviandosi i capelli appena asciugati. Si sistemò i pantaloni e la maglietta, poi
indossò la felpa fin troppo larga per la sua taglia, così lasciò aperta la cerniera.
Ken la attendeva fuori dalla palestra con le chiavi in mano. Aveva ancora i capelli leggermente bagnati, i jeans blu e
una maglietta che lasciava intravedere i lineamenti dei muscoli.
- Ma sei matto ad uscire così? Mettiti addosso qualcosa o ti prenderai un accidente!Il portiere le sorrise e, non badando all’apprensivo comando, fece tintinnare il mazzo di chiavi.
- Arrivo subito, vado a mettere queste nell’ufficio della Rama e torno!Dopodiché chiuse la palestra e corse dietro l’angolo. Eve rimase ad aspettarlo, seduta sul borsone.
Il sole del pomeriggio si faceva largo dietro i pini del cortile basso, di lì a poco avrebbe cominciato a calare dietro
l’orizzonte. Una leggera brezza spirava da sud, dove il profilo squadrato dell’istituto Toho si stagliava imponente contro
il cielo sereno.
Qualche minuto dopo Ken era di ritorno, proprio mentre la ragazza stava constatando sul proprio orologio che erano
quasi le quattro.
- Devi tornare?- le chiese. Eve scosse la testa.
- Non ho orari. Mia madre non c’è per tutta la settimana. Meeting, convegni eee... che ne so.- rise, alzando le spalle.
- Ti faccio un po’ di compagnia se vuoi...- si offrì lui.
Gli sorrise. Un vero cavaliere.
Poi notò che era ancora in mezze maniche e mutò repentinamente espressione.
- Mi ascolti quando parlo?- sbuffò - Sei appena uscito dalla doccia e non ti sei nemmeno asciugato bene i capelli!- Non ti preoccupare, sto bene così!- Wakashimazu ruotò gli occhi.
- Già... beh, affari tuoi!- la bionda sbuffò di nuovo, accogliendo con poca benevolenza il gesto del portiere.
Ken, dal canto suo, sorrise di nuovo e fissò dritto davanti a sé, realizzando che questo era un altro di quei lati infantili
di Eve che la rendevano irresistibilmente buffa - finché non avvertì qualcosa di morbido e caldo sulla propria testa.
Si accorse che la compagna gli aveva lanciato la propria felpa, con sguardo spazientito.
- Dovresti portartene una anche tu.- disse poi, risoluta.
L’altro la fissò, era decisamente grande per lei, di sicuro a lui sarebbe andata a pennello.
- Mettila.- continuò, le mani ai fianchi.
- Non fa niente, Eve, io...- Non era un consiglio!- proruppe lei, tra l’innervosito e l’ultima punta di condiscendenza.
Il ragazzo gliela rilanciò in testa con un sorrisetto.
- Ah sì? Se le cose stanno così...- Eve gli si avvicinò pericolosamente e gli afferrò le spalle, facendolo sedere sul suo
stesso borsone, accomodandosi accanto a lui e finalmente riuscendo nel suo intento: portare l’indumento sportivo sulle
spalle di entrambi.
- Scemo.- gli sussurrò, cacciando la lingua in un’espressione corrucciata.
Ken avvertì chiaramente il proprio volto mutare di temperatura. Eppure era quasi sempre uscito dagli allenamenti in
quello stato; sì, certo gli avevano già detto cento volte di coprirsi bene, ma non ci aveva fatto mai molto caso,
dopotutto possedeva un fisico molto resistente.
Solo in quell’occasione in cui si voltò e poté guardare Eve persa nei suoi pensieri con il viso tra le mani, seduta proprio
accanto a lui... provò qualcosa che lo fece sospirare pesantemente.
- Allora, com’è andata la convocazione?- gli chiese tutt’un tratto.
- Eh...? Oh? Quale convoc... ah, sì! Certo! - dopo un iniziale impaccio, fu come destato da un sogno ad occhi aperti Siamo andati tutti molto bene! Tra qualche perdita e qualche innovazione, anche quest’anno sono in nazionale. E tu, a
proposito? A quando la prima gara?Il volto della bionda s’illuminò, all’udire la bella notizia che - nonostante tutto - quasi l’intero distretto dava per
scontata.
- Tra un mese ci saranno le nazionali.- rispose poi, rispondendo alla domanda - Se mi piazzo tra le prime quattro
andrò... in Europa.- aggiunse con tono più basso.
- Non mi sembri molto entusiasta.- commentò lui, un’espressione tra l’apprensivo ed il sorpreso. Eve, per contro, si
limitò ad un’alzata di spalle.
- Mi piace questo sport, ma per ora voglio pensare solo ad impegnarmi per le nazionali.Ken si rammentava della loro prima conversazione veramente personale e, conoscendo le origini paterne della
compagna, arrivò a pensare che l’Europa era dove stava l’altra metà della sua famiglia. Gli parve che lei non fosse
tanto impaurita di non riuscire a piazzarsi tra le prime quattro, ma che fosse quasi infastidita dal fatto che se ci fosse
riuscita sarebbe dovuta partire per l’occidente.
- Non vuoi rivedere tuo fratello...?- mormorò, come se avesse paura di farle del male, toccando un tasto troppo
delicato. Ma lei non si arrabbiò, anzi sorrise.
- Non è così... anzi, mi farebbe piacere rivedere Dex.- ribatté, annuendo.
Wakashimazu non lasciò trascorrere nemmeno un secondo, prima di porle una questione che gli era balenata in mente
già da parecchi istanti.
- E’... è per Nicholas?- un attimo, un soffio.
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Si pentì quasi immediatamente di averlo detto: l’ultima volta che le aveva chiesto di lui, Eve gli aveva gridato contro.
Si era ritrovato i suoi occhi taglienti dritti nel cervello ed alle proprie orecchie la sua voce era giunta straziata dalla
furia.
In fin dei conti non sapeva nemmeno chi fosse questo Nicholas, magari era qualcuno di cui lei era innamorata... e
forse l’aveva fatta soffrire parecchio. Poteva essere una delle ragioni di tanta agitazione interiore.
Per la prima volta, mentre sentiva pronunciare quel nome, Eve non fu invasa da quel caratteristico senso di rabbia e
vuoto che l’aveva accompagnata durante gli ultimi lunghi anni... anzi, si sentiva quasi ingiustamente serena.
Perché? Perché si sentiva così bene, anche se stavano parlando di Nicholas...?
La ragazza si alzò e si stiracchiò senza aggiungere altro, andando ad appoggiarsi alla ringhiera di freddo metallo che
circondava il campo di atletica.
Non rispose.
Ken rimase in silenzio; aveva abbassato la testa, gli occhi coperti dalla lunga frangia ribelle - non si aspettava una
risposta. Stava per cambiare di nuovo discorso, magari vertendo su qualcosa di più leggero per evitare un ulteriore
disagio, quando lei si voltò, appoggiandosi con la schiena alla stessa balaustrata grigia.
- Nicholas...- le sue labbra si schiusero, rivolgendo uno sguardo verso di lui ed attendendo che alzasse il capo per
incontrare i suoi occhi.
Poi si voltò di nuovo e sospirò.
- A volte è meglio non conoscere ciò che le persone si portano dentro. Cambierebbero troppe cose...- disse, quasi
rivolta a sé stessa.
Il portiere ora la stava guardando, il suo corpo snello era immobile a fissare il cielo terso. Era come se fosse dipinta. O
il soggetto di una fotografia lontana. Si sentiva estraneo a quella scena, come a ciò che Eve teneva nello spirito... e
questo gli provocava un acuto spasmo al cuore.
Per qualche pieno minuto non parlò.
Regnava un silenzio strano e pesante.
- Ricordi quando mi hai chiesto cosa si prova ad avere un fratello?- la voce di Eve tornò a sfiorare, malinconica e
leggera, l’aria del pomeriggio - Beh, è meraviglioso. Andavamo d’accordo, altre volte litigavamo. Era bello.Gli occhi neri di Ken erano fissi sul suo profilo quasi in controluce. Il sole si rifletteva sui suoi corti capelli biondi e
creava un intermittente luccichio riflettendosi sui due minuscoli orecchini ad anello che portava al lobo sinistro.
- E’ nato due minuti dopo di me.- di nuovo una frase breve e soffiata - Stessi occhi, stessi capelli, caratteri quasi
simili... io e Nicholas... gemelli.Fece una pausa di silenzio, rimase muta come se qualcosa di stretto e doloroso in gola, proprio sotto il palato, le
impedisse di parlare... quando Ken si alzò.
- E’ in Europa anche lui?- le domandò, lieve.
- Europa?- chiese Eve.
Nella sua voce Wakashimazu fu certo di avvertire una vena di cupa felicità che trovò corresponsione nella sua
espressione: la compagna stava sorridendo tristemente.
Poi si voltò verso di lui, ancora... per l’ultima volta.
- Overdose.Quell’unica parola bastò a colmare il silenzio che aveva saturato l’atmosfera per interminabili attimi.
Il ragazzo vide i suoi occhi, la sua bocca sorridere... e poi lacrime amare rigarle il viso fino a morire sulle sue labbra ed
abbandonare il suo viso, cadendo come petali di cristallo trasportati dal vento a terra e sulla maglietta candida.
Era la prima volta che la vedeva piangere. Sentì il proprio cuore lacerarsi nel petto, squarciarsi in mille pezzi e gemere
gridando disperato. Una parola aveva distrutto un intero mondo, aveva creato un abisso.
- E’ patetico. Quante ne avrai sentite così, in tv.- continuò Eve, con lo stesso sorriso aspro, stringendosi il braccio
laddove giaceva lo sfregio che aveva sempre tentato di nascondere - La cicatrice... sono stata io. Volevo morire con lui
e... per un attimo, ci stavo riuscendo. Volevo colpirmi a morte. Avevo un coltello... ma non ce l’ho fatta. Nel momento
in cui ero decisa a trafiggermi il cuore, le vene, qualcosa ha fatto sì che il colpo deciso mi ferisse soltanto il braccio.
Credo... sono stata io a salvarmi da me stessa.Chiuse gli occhi, celandogli l’azzurro delle proprie iridi ed abbandonò quel sorriso, chinando il capo verso terra.
- Tutti si chiedevano perché l’avesse fatto... ma, sarà immorale, a me non importava, io lo sapevo già. Ero la sua
gemella, eravamo due metà. Era solo un bambino, un ragazzino di quindici anni... tuttavia sapeva bene a cosa andava
incontro. Lo sapeva bene, ha scelto. Era la sua scelta, malgrado tutti i più svariati professionisti chiamati in causa
affermassero il contrario, che un ragazzo come lui non poteva rendersi conto di quanto devastante e pericoloso fosse il
mondo in cui si era addentrato, che era stato incosciente. Sciocco. Vizioso e corrotto.- ad ogni frase un controllo del
tono di voce le impediva che questa s’incrinasse - L’ho visto deperire, l’ho visto morire... ed il mio cruccio più grande,
quello che secondo i più non dovrei mai riuscire a perdonarmi, è che nonostante Nicholas non avesse mai accettato il
mio aiuto, io non ho nemmeno provato ad offrirglielo, facendo leva e contando sul suo rifiuto di venirne fuori.- seguì
una lieve pausa, durante la quale Eve scosse lievemente il capo - Eppure non rappresenta un tormento, un rimorso...
proprio perché Nicholas non voleva venirne fuori, non desiderava farlo. La colpa che mi è stata imputata mille volte è
che, sapendo ogni cosa, non ho mosso un dito. E non si tratta più di rispetto per il libero arbitrio di mio fratello, per
quanto negativo e distruttivo abbia potuto essere. Si tratta di follia. Di immoralità. Ho ritenuto legittima ed intoccabile
la sua decisione di mettersi sulla strada della morte.Questa volta la voce della ragazza si fece più grave, mettendo a nudo la propria distorta negligenza.
- Da piccoli mi diceva che saremmo stati insieme per sempre, ma... nel mio cuore inesperto del mondo, sapevo che
c’era qualcosa che avrebbe interrotto l’idillio, prima o poi. Chiamalo sesto senso, presunzione, oppure semplice
terrore... ma sapevo che in qualche modo ci avrebbero separati. E così è stato.I suoi zigomi tondi erano freddi e distanti, rigati dalle lacrime.
- E poi, come una stupida... volevo seguirlo, ero in preda al dolore... ma, vedi, non sarebbe stato giusto. Che senso ha
morire, per emulare le gesta di qualcuno che ha già compiuto la propria scelta? Per espiare qualcosa di cui non ero
nemmeno totalmente padrone...? Nicholas è morto... ed io ero troppo terrorizzata all’idea di dover affrontare il mondo
da sola. E così il mio suicidio non sarebbe stato un gesto d’amore, ma d’egoismo. Non aspiravo a scomparire con lui.
Per quanto difficile possa essere stato... mi sono rialzata e ho tentato di vivere non più per il nostro tutt’uno che non
c’è più, ma per me stessa.46
Tacque.
I sibili del vento interrompevano la linea di silenzio che correva tra i due. Una sottile linea di porpora vellutata che
ondeggiava a suono di una musica invisibile e senza voce.
- Perdonami, Ken, se quando mi sono ubriacata ti ho chiesto di farmi del male, se sono riuscita a portare in superficie
le tue preoccupazioni più nere e... se ti ho messo in una condizione di disagio e rabbia. Non voglio andare da
Nicholas... voglio restare qui, finalmente ho trovato il mio mondo perfetto. Non voglio più cercare mio fratello... voglio
solo... vivere.- mormorò, abbandonando le braccia lungo i fianchi.
Lui serrò pugni e mascella, aggrottando le sopracciglia. Le si avvicinò velocemente a grandi falcate, le afferrò
violentemente le spalle, tanto da scuoterla, e la strinse al proprio torace con quanta forza aveva in corpo.
- Vivi.- le sussurrò con veemenza, una mano stretta alla sua nuca - tra le dita i capelli di grano - e l’altra attorno ai
fianchi rotondi non più di ragazza, ma di donna.
CAPITOLO 7 – Un sentimento senza eguali
- Non voglio la tua pietà.- la voce di Eve si era mantenuta integra, non spezzata dai lamenti.
- Non è pietà, è coraggio.- replicò Ken, tra il contrariato e il categorico.
Eve serrò le palpebre per un attimo - un attimo solo - e sfregò il proprio volto sul torace del compagno. La stoffa
leggera della maglietta aderì alla sua guancia, seguendola nei brevi movimenti.
Sorrise debolmente e gli gettò le braccia al collo, senza aggiungere una parola. Aveva bene inteso ciò che lui stava
tentando di trasmetterle; le era arrivato tutto così improvvisamente e direttamente, come quell’abbraccio, che aveva
raggiunto repentinamente il suo cuore.
Una sensazione di libertà le circolava nel sangue, come una brezza tra i capelli... e chiusa tra le braccia di Ken si
sentiva felice, per la prima volta qualcuno le stava infondendo coraggio e non una patetica dimostrazione di carità o un
dispiacere che in breve tempo sarebbe stato facilmente dimenticato.
Era quasi sicura che se Nicholas l’avesse vista in quel momento, sarebbe stato fiero di lei. Avrebbe sorriso ed insieme
le avrebbe rivolto un leggero sguardo di rimprovero, come a dirle che era stata sciocca a pensare di non essere in
grado di vivere senza di lui e di aver trascorso lunghi anni soffrendo spasmi intensi ad ogni attimo che le era capitato
di pensarlo.
Comprese tutto quanto in un lampo, come se l’abbraccio di Ken fosse un tramite, un ponte per un ipotetico ed ideale
paradiso.
Ricambiò la stretta con altrettanta veemenza, aggrappandosi all’ampia schiena del portiere e spingendo il proprio volto
nell’incavo del suo collo, dove già più volte aveva avvertito l’intenso e rassicurante profumo della sua pelle.
Wakashimazu si scostò lievemente, per prenderle il viso tra le mani, asciugandole le lacrime e sorridendole
dolcemente.
- Tu sei Eve, soltanto Eve.- sussurrò, poggiando le labbra sulla sua fronte - E non hai bisogno di nulla per essere
completa. Sei Eve e basta.Eve.
Soltanto Eve.
Eve e basta.
- Eve e basta...- ripeté lei, dando voce ai propri pensieri.
Si sentiva una, una solamente, indipendente, rassicurata e sostenuta... e finalmente poteva abbandonare ogni
proposito di ferire le persone che tentavano d’avvicinarla per timore che potessero penetrare nel proprio cuore...
proprio com’era successo con lo stesso Ken, quel giorno in cui aveva malignamente alluso a Wakabayashi.
Quella volta si era sentita immediatamente meschina, non le era mai accaduto, quel portiere aveva dato una bella
scossa alla sua vita interiore... ed era successo così naturalmente che si era stupita e spaventata: non poteva credersi
così fortunata, dopo tanto dolore.
Rimase a guardarlo per qualche istante, poi si lasciò cadere di nuovo sul suo petto, sicura di venire accolta, questa
volta in una stretta più morbida e serena. Poggiò entrambe le mani sui bicipiti scoperti del ragazzo, lasciandosi
sostenere placidamente.
- Portiere?- fece d’un tratto, discostandosi dal suo torace.
- Che c’è...?- le domandò Ken, percependo la sua inquietudine.
Eve lasciò scivolare le proprie dita sugli avambracci del compagno.
- Quei tre sono ancora nel ripostiglio...- sussurrò, realizzando che era trascorso più tempo del previsto. Molto più
tempo del previsto.
Wakashimazu non poté fare a meno di scoppiare a ridere: ciò che Eve aveva appena detto lo aveva lasciato
sconcertato, perché in confronto alla storia che gli aveva confidato, quella era una vera e propria stupidaggine! Ed era
contento di aver contribuito a sollevare il cuore della compagna e a farla sorridere di silente riconoscenza, almeno per
un attimo.
- E non ridere!- esclamò Eve, sbuffando. Era tornata quella di sempre, come se fosse uscita dall’incantesimo del vento
ed ora che se ne stava lì dinnanzi a lui, mettendo un broncio poco convinto, Ken non poté fare a meno che definirla
stupenda, nella propria mente. L’aveva vista piangere e sorridere allo stesso tempo, come fosse dipinta ad acquerelli
su uno sfondo di solo cielo.
- Vado a riprendere le chiavi nell’ufficio, me n’ero completamente dimenticato!- si batté una mano sulla fronte,
scuotendo il capo - Vieni!- aggiunse poi, attendendola.
- Resto qui. Ti aspetto.- rispose lei, portandosi le braccia dietro la schiena.
Ken, invece di correre verso la sala, scosse di nuovo la testa e si sporse per afferrarle un polso.
- Oh, no, tu vieni con me, ho detto!- intimò, categorico.
Eve spalancò gli occhi, sentendosi trascinata dalla forza mascolina del portiere.
- Da sola combini già fin troppi pasticci, non ti lascio, sai?- affermò, tirandola per il braccio, mentre muoveva i primi
passi verso l’entrata laterale.
- Che?!- protestò la bionda - Ma quali pasticci, senti chi parla!Pronunciò le ultime parole di ribellione con il tono infantile di chi non fa sul serio, lasciandosi condurre da Ken e
rivolgendogli ancora una volta, dal profondo del cuore, un silenzioso grazie per la sua volontà di non lasciarla sola.
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- Allora Ken ed Eve erano d’accordo!- Ayame sgranò gli occhi, mentre sul volto di Kojiro balenò una smorfia
contrariata.
- Quei due insieme sono pericolosi.- commentò, annuendo.
- Avranno anche intenzione di ritornare a prenderci o vorranno lasciarci qui per sempre?- sospirò l’altro, chinando la
testa verso il proprio petto.
Stavano giusto per riprendere a lamentarsi ed a pensare ad un eventuale piano di fuga, quando la porta si aprì
pesantemente ed un sorridente Ken fece capolino dalla soglia.
- Wakashimazu!- scattò Kojiro, saltando su a sedere dai materassini impilati. Il portiere lasciò del tutto l’uscio ed
incrociò le braccia al petto.
- Ehilà, chi si vede! Hyuga!- fece, alzando il mento rivolto al capitano.
- Piantala di fare lo scemo! Ma ti rendi conto di quello che avete fatto!?- continuò il bomber, furioso.
- Beh, se ci mettiamo d’impegno potremmo anche pensare di farci pagare per fare i consulenti.- sorrise Eve, accanto a
lui.
- Springer!- il cannoniere si avvicinava con aria assassina, riprendendoli entrambi con aria e tono fin troppo formale;
accadeva soltanto quando si arrabbiava veramente e, beh, quello pareva proprio essere uno di quei casi.
- E... non avete concluso nulla?- proseguì la ragazza, con un sorrisetto abbozzato, notando le tre facce poco
bendisposte.
- Oh, sì! Abbiamo risolto!... però abbiamo anche avuto il tempo di meditare vendetta!- Kojiro ora sorrideva... alquanto
pericolosamente.
Eve e Ken si scambiarono uno sguardo repentino e preoccupato.
- Ma che bella notizia!- ridacchiò il portiere, attendendosi di essere afferrato per il bavero dal proprio capitano.
- Tanto non fanno mai sul serio.- Kazuki rivolse un sorriso paziente alla bionda, che si era portata a debita distanza Hyuga è solo un po’ risentito per non essere riuscito a gestire completamente la cosa, ma nulla di più...Ora Sorimachi sembrava parlare placidamente e privo di rabbia, tanto da lasciare intendere alla ragazza che il suo
animo furente doveva essersi - almeno in parte - placato.
- Eve... - poi si voltò, richiamata da Ayame, giusto al proprio fianco. Capì che aveva pianto molto dal rossore degli
occhi e dal pallore accentuato del suo volto. Doveva esserci stata una quasi battaglia, lì dentro... ma in quel momento
sembrava che anche Aya avesse ritrovato la pace - o perlomeno ci stesse provando.
- Volevo... ringraziarti.- mormorò, mentre l’altra si voltava completamente verso di lei - Per oggi, per quella volta che
mi hai dato quello schiaffo... per tutto. Si va avanti... si cerca di farlo. “Rischieresti d’essere felice”... parole tue.Lei non rispose, non avrebbe saputo cosa dirle e, soprattutto un “di niente” o un “figurati!” le sembravano piuttosto
inutili e scontati. Si limitò a sorriderle ed a portarle una mano sulla fronte per ravviarle due ciocche di capelli ribelli ed
ormai totalmente ingestibili.
Ayame avvertì nel tocco di Eve qualcosa di materno e comprensivo, come se lei stessa capisse quanto prezioso
potesse essere l’avere la certezza di godere della protezione di qualcuno...
- Perché Wakashimazu non si oppone?- le sorse spontaneo chiedere, dopo che lui e Kojiro erano finiti quasi a ridosso
delle porte metalliche con un tonfo. Non facevano evidentemente sul serio, Hyuga non gli stava facendo male
realmente, più che per sua propria scelta, perché il portiere si limitava con leggerezza a ridere ed a parare i colpi che
gli giungevano veloci dall’altro.
- Di sicuro, se lo facesse, gli spaccherebbe qualche osso!- rise Kazuki - Mi sarebbero utilissime le sue tecniche!- Ciao ragazzi, a domani!- Kazuki li salutò e voltò l’angolo, scomparendo di corsa. Era già abbastanza in ritardo ed
oramai il sole era quasi tramontato.
- Portiere?- Ken fu distratto dalla voce di Eve, quasi giunta sulla porta di casa.
- Nh?- si fermò a guardarla.
Cominciava a fare caldo anche quella sera e sulla strada verso casa erano rimasti soltanto loro, Kojiro ed Ayame un
poco più indietro.
- Noi due siamo amici?- gli chiese fermamente. Non credeva di riuscire a ripetere una seconda volta quella domanda.
Ma lui rivolse uno sguardo al cielo prossimo all’imbrunire e sorrise dolcemente.
- Scusami se te l’ho chiesto ma... io... non ho...- ricominciò la bionda, rendendosi conto di dover essergli sembrata
piuttosto stupida, con quell’uscita.
Ci volle poco perché avvertisse una leggera pressione sulla propria nuca e perché, alzando gli occhi, incontrasse quelli
scuri e rassicuranti del compagno.
- Ne dubiti per caso?- la spiazzò.
Eve rimase per un istante tra il compiaciuta e l’imbarazzata; per evitare che lui la vedesse arrossire, prese a fissare lo
scuro asfalto finché non si scosse.
- Sì, però non te la prendere sempre con i miei capelli!- protestò, mettendo di nuovo un broncio infantile.
- Che? Ma se è la prima volta!- ribatté Ken, le mani ai fianchi.
- La prima?!- Eve aveva ripreso il suo animo battagliero e ricominciarono a discutere come bambini, finché Kojiro non
li raggiunse ed Aya li salutò da lontano, per poi voltarsi ed incamminarsi anch’essa verso casa.
Eve convenne che avrebbe fatto meglio a fare la stessa cosa: dopo una giornata del genere cominciava a sentire gli
effetti del duro allenamento che aveva sostenuto nel primo pomeriggio e non vedeva l’ora di tuffarsi in una vasca
d’acqua bollente.
Quando lasciò i due, portiere e capitano si rivolsero uno sguardo silenzioso, prima di riprendere a camminare l’uno di
fianco all’altro. La quiete della sera, le rare automobili che transitavano ed i raggi del sole oramai orizzontali
concorrevano a rendere il loro quartiere un luogo piuttosto tranquillo, a quell’ora.
- Questa me la paghi, Wakashimazu.- esordì d’un tratto Hyuga, bloccando a metà uno sbadiglio del compagno.
- Me l’hai già detto ventisette volte.- rispose quello, sfregandosi un occhio.
- Beh, questa è la ventottesima!- furono le uniche parole che Kojiro riuscì ad usare per controbattere, incrociando le
braccia al petto.
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L’altro non pareva impensierito, il volto disteso e tranquillo. Lasciava che la cartella gli penzolasse contro una scapola,
tenendola con una sola mano appoggiata con il dorso sulla spalla, mentre con l’altra reggeva il borsone blu scuro da
calcio.
- Mi dispiace essermi fatto gli affari tuoi, capitano.- asserì d’un tratto, voltando lievemente il capo verso l’amico - Ed
anche Eve. Per quanto sia fuori di testa, posso garantire per lei.- rise.
Al pensiero di quanto la ragazza si fosse preoccupata per la buona realizzazione di un piano così campato in aria, una
sensazione di tenerezza si fece sentire nel suo io.
- Se non aveste dovuto chiarire, non riesco ad immaginare quanto sarebbero potute precipitare le cose.- riprese poi,
facendosi serio - Ammetto che abbiamo corso un gran rischio.Kojiro prese un gran sospiro.
Già.
Eppure non riusciva a non provare una grande gratitudine nei confronti di quei due, nonostante si sentisse quasi in
obbligo di celarla dietro il proprio, classico atteggiamento scorbutico.
- Tu sei lo specialista dei rischi.- scosse il capo, arrendendosi.
All’udire quelle parole, Wakashimazu non trattenne un ennesimo sorriso.
- Ah, credevo che quello fossi tu!- esclamò, arrestando l’avanzata sul marciapiede, all’ombra delle fronde degli alberi
alti.
Hyuga si era fermato giusto dinnanzi a lui, prendendo a fissarlo con aria giocosa e irriverente.
- Ti cedo volentieri il ruolo.- fece - E sei anche il re dei masochisti, se proprio te la devo dire tutta; giocare con una
spalla rotta, parare con una mano già sanguinante... ne avrei mille da raccontare su di te.- Oh, lusingato!- rise il portiere, da un lato realmente compiaciuto che Kojiro gli stesse ricordando frammenti di
passato, nascondendo la lode nell’umorismo.
Dietro le sue spalle, il sole lasciava il posto alla volta rossa, rendendo cremisi ed arancio il fluente telone che faceva da
tetto naturale all’atmosfera e che di lì a qualche ora sarebbe stato gremito di brillanti spettatori.
In quell’attimo Wakashimazu gli apparve in tutta la sua semplicità, i capelli gli ricadevano sulle ampie spalle e gli occhi
neri gli sembravano quasi totalmente diversi da quelli del ragazzino solitario che aveva incontrato così tanto tempo
addietro.
Non poté fare a meno di rivolgergli quel sorriso fraterno e riconoscente che sentiva già distendersi sulle proprie labbra,
ancor prima di aver formulato il pensiero.
- Sei un ottimo uomo. E un ottimo amico, Ken.Non si aspettava una reazione del genere da parte di Ken.
Quando l’aveva rivelato a Mizuki, per rabbia e smarrimento, gli occhi dell’amica avevano cominciato a riempirsi di
lacrime... versate per compassione, incredulità, forse fin troppa partecipazione. E nulla aveva cambiato lo stato delle
cose: Eve aveva seguitato a sentirsi chiusa in una dama di ferro, sola ed inadeguata, furiosa e terrorizzata.
Ma a lui... a lui l’aveva raccontato perché aveva letto in quegli occhi neri e placidi una sconfinata profondità ed aveva
sperato che in quell’abisso potesse accogliere anche lei, con tutto il proprio dolore, senza rifiutarla, senza che potesse
cambiare opinione e considerazione sul suo conto. E così era stato: l’aveva stretta e le aveva fatto sentire il suo
coraggio. Tanto da infonderle nel cuore una speranza di vita alla quale si era immediatamente e disperatamente
legata, dalla quale mai più nessuno l’avrebbe strappata via.
Serenità... ecco cosa provava. Da tempo aveva tentato di non pensare più a Nicholas come un ricordo doloroso e fonte
di abbandono, ma ora ci stava riuscendo realmente. E finalmente.
Si sentiva come libera dal peso intossicante della morte, che per tanto, troppo tempo le aveva attanagliato le vene.
Sussurrò un grazie, prima di cadere addormentata tra le coperte soffici e calde.
Overdose.
Overdose.
Overdose... aveva quindici anni.
Eve aveva sofferto un’angoscia tremenda, aveva convissuto per lungo tempo con un segreto deturpante.
Ken si richiuse la porta della propria stanza alle spalle.
Forte di ciò che gli aveva rivelato, ora poteva comprendere ogni singola allusione ed atteggiamento che la compagna si
era vista costretta ad assumere, per proteggere sé stessa. Ma il suo animo era stato in grado di reagire.
E di nuovo le lacrime di cristallo di Eve gli comparvero dinnanzi agli occhi, come se stesse rivivendo la medesima
scena: il suo sorriso accennato e malinconico e la sua pelle eburnea che rifletteva i raggi del sole pomeridiano.
Essere venuto a conoscenza del suo passato lo faceva sentire quasi... speciale. Aveva confidato qualcosa di così intimo
e tormentoso proprio a lui, si sentiva... al di sopra degli altri, per Eve, per una persona di cui ammirava la forza
d’animo e la tenacia, il coraggio di non essersi distrutta, di aver resistito al baratro.
Aveva letto nei suoi occhi la speranza che ciò di cui sarebbe venuto a conoscenza non avrebbe cambiato le cose - né in
bene, né in male - che avrebbe seguitato a vederla come la ragazza cui aveva stretto la mano, durante un caldo
giorno di agosto dell’anno ch’era trascorso.
Ed era stato così. Ciò che ora sapeva, non aveva fatto altro che legare il proprio cuore al suo, serrato, stretto come in
uno degli abbracci che già aveva avuto occasione di regalarle.
Si distese sul letto e chiuse gli occhi. Non era cambiato assolutamente nulla, ciò che provava, continuava a sentirlo
ben chiaro nel suo cuore.
- Ti amo...- sussurrò.
- Perfetto! Corri, Eve!... un nuovo record!!- gridò la signorina Rama, stoppando il cronometro.
Eve respirò a pieni polmoni, proseguendo di qualche passo al di là del traguardo e seguita delle sue compagne
esultanti.
- Di questo passo, altro che quarto posto! L’oro sarà tuo!- le gridò Ren, afferrandole un braccio.
Per contro la bionda si limitò a sorridere e si sistemò la maglietta bianca.
- Non esagerare, adesso.- fece, cercando di modulare il fiato.
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- Per oggi basta, andate a cambiarvi. Ehi, Springer...- l’allenatrice la fermò prima che potesse entrare in spogliatoio Stai andando forte! Ricordati però di non sforzarti troppo, tra una settimana le nazionali.Il suo entusiasmo era palpabile nell’aria, pareva entusiasta come se avesse dovuto partecipare alle gare di persona.
Eve distese le labbra in un altro muto sorriso, che mascherò al meglio per non farlo risultare di circostanza.
- Lo so, stia tranquilla. Cercherò di guadagnarmi qualche primato!- l’ironico segno di vittoria con le dita ed entrò in
spogliatoio, dove fu accolta dalle compagne con un’ovazione.
- Fantastico, Eve!- di nuovo Ren ad appoggiarsi alla sua spalla.
- Non ho mai visto nessuno correre così veloce!- le fece eco un’altra.
- Non sarà il sangue europeo a darti una marcia in più?- di nuovo un breve applauso, accompagnato da delle occhiate
scherzose, ma sicure.
- Ehi! Ehi!- si difese lei, tentando di togliersi le compagne di dosso - Ma siete matte??Le altre sorrisero, poi presero a sistemare le proprie cose nei rispettivi borsoni, dopo la debita doccia. Dopodiché
finirono irrimediabilmente per rimanere nello spogliatoio, perse in chiacchiere eccitate a causa della competizione
oramai alle porte.
Pochi passi nel corridoio, poi l’allenatrice entrò dopo aver bussato, una cartelletta rossa tra le mani. Ogni ragazza
sapeva cosa significava.
- Ragazze, aspettate ad uscire. Devo darvi i nomi di quelle che sicuramente parteciperanno alla nazionale.- fece una
pausa, alzando gli occhi neri in quelli delle interessate - Sono Springer e Dairou.Ren ed Eve si guardarono, poi la prima tese la mano alla seconda, che strinse in un sorriso entusiasta - nonostante
dalle tabelle dei cronometri e dalle convocazioni della Rama, sapevano già di essere qualificate.
- Fate del vostro meglio.- aggiunse la donna - Ah! Quelle che non si sono classificate nei tempi non si disperino: darò
domani i nomi per le provinciali, avrete modo di rifarvi daccapo. Allora, buona serata e non faticate troppo!- strizzò
l’occhio, uscendo dallo spogliatoio ed accompagnando la porta dietro di sé.
Le ragazze scoppiarono in un gridolino di gioia collettivo, che le accompagnò fino alla loro uscita dall’istituto.
- Mizuki...?- Eve sembrò sorpresa di vederla fuori da scuola.
- Ah, sei uscita finalmente!- disse lei, voltandosi di scatto e facendo visibilmente sventolare le pieghe della gonna della
divisa. La bionda si portò il borsone su una spalla, riprendendo la marcia.
- Che ci fai qui a quest’ora?- le domandò, facendosi al suo fianco.
- Ti aspettavo.- rispose l’altra, come fosse la cosa più naturale del mondo - Andiamo insieme?Così le due presero a camminare verso casa, si era fatta sera un’altra volta.
Mizu si sistemava meticolosamente le due mollettine viola ai lati del capo, che tenevano a bada una chioma riccia e
ribelle. Si era evidentemente rifatta la permanente da poco, optando anche per un cambio di tinta: da blu i riflessi sui
suoi capelli neri erano divenuti color malva.
- Allora andrai a Hokkaido?- le domandò, a lavoro concluso.
- Ci puoi giurare!- replicò Eve, ridendo - Tra sette giorni sarò là.- Ah! Che bello!- Mizuki le saltò al collo, più entusiasta della Rama - Farò il tifo per te! Mi porterò anche la squadra di
calcio! Sarà un successone!- Ehi! Calmati! Perché dovresti portare anche il Toho?- l’altra si scostò per evitare di finire strangolata dall’energica
stretta dell’amica. Questa le rivolse uno sguardo malizioso, sbattendo più volte le lunghe ciglia incurvate.
- Oh... ecco perché!- Eve sbuffò in un sorriso. Mizu non si sarebbe smentita mai.
- Eheh...- ridacchiò, dedicando un’affettuosa gomitata alle costole della bionda - Il mio piano non si è concluso!- Ma dai!- questa volta la compagna non trattenne uno scoppio d’incredulità - Ma se avevi detto che... ehi! Sbaglio o
non hai combinato niente con Kojiro e Ken ad Onsensawa?L’altra scosse energicamente la testa, emanando un dolciastro profumo di frutta esotica.
- Purtroppo no, ma...- fece per cominciare.
- Se è così, pare che tu mi debba un favore.- la interruppe Eve, restituendole la gomitata.
- Ma il piano non è finito!- si lamentò l’amica, mettendo un broncio ribelle.
La luminosità del sole pomeridiano si rifletteva sul volto della compagna, che aveva assunto l’aria di chi la sa lunga,
seguitando a camminare lungo la strada lastricata di mattonelle grigie.
Intorno a loro diversi studenti che rincasavano dopo le attività dei club o delle ripetizioni del doposcuola; proseguivano
chi in una direzione, chi nell’altra, immersi in chiacchiere amichevoli od in silenziosi pensieri.
- Niente ma. La scommessa riguardava solo la gita.- replicò Eve - E poi non ti sei dilungata in quel discorso sibillino sul
fatto che stai cominciando a pensare ad un ragazzo soltanto, eccetera, eccetera?Mizuki si arrese, messa con le spalle al muro dall’ultima affermazione della bionda.
- E va bene...- sospirò, chiudendo gli occhi ed inarcando le sopracciglia - Cosa vuoi?Eve si giocò bene la sua carta, lasciandosi guidare da quel qualcosa che le frullava in testa dal giorno in cui Mizu si era
offerta di restare in stanza a badare ad un Wakashimazu post-sbornia.
- Tu pensi ancora a Ken e a Kojiro in quel modo?- fece, intavolando la discussione per fare in modo di ottenere la
risposta desiderata.
- In che modo?- domandò di rimando l’altra, incrociando le braccia al petto sul nastro porporino della divisa scolastica.
- Andiamo, in quel modo!- la bionda sospirò, spazientita - Corpi nudi e umidi, spogliarelli, macchine del sesso, hai
presente? Il tuo genere di pensieri.- aggiunse con scioltezza.
La ragazza dai capelli ricci arrossì di colpo ed altrettanto repentinamente abbassò il capo, prendendo a marciare un po’
macchinalmente e con le membra rigide.
Ma che genere di immagini le stava facendo venire il mente, Eve?! Senza preavviso, poi! Perlomeno doveva prepararsi
psicologicamente, per evitare il fumo dalle orecchie!
- Beh...- si schiarì la voce, tentando di mandare via il rossore agitandosi entrambe le mani davanti al volto in un
tintinnare di bracciali e ninnoli - Ora, è vero, penso ad un ragazzo solo, ma... beh, non posso evitare l’abitudine di una
vita, nel vederli a quel modo nei miei filmini mentali!- sorrise, in una strana espressione tra il malizioso e l’impicciato.
Eve non comprese se Mizuki fosse imbarazzata per la natura delle visioni evocate, oppure per l’avere finalmente
ammesso di essersi seriamente interessata a qualcuno.
- Allora ecco il favore che devi farmi.- asserì, decisa e soddisfatta dalla risposta ottenuta.
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Mizu la guardò di sottecchi, un po’ titubante ed un po’ timorosa di vedersi chiedere ogni cosa a proposito di quel
fantomatico unico ragazzo sul quale aveva canalizzato le proprie attenzioni affettive.
- Ti chiedo di non pensare più a Ken in quel modo.- formulò infine la bionda, sistemandosi il collo bianco della casacca.
Ci mancò poco che l’amica non inciampasse nei suoi stessi piedi.
- Cooooosa??- gli occhi di Mizuki si spalancarono, increduli.
- Hai sentito benissimo.- replicò Eve, mantenendo uno sguardo più altero e fiero possibile, la testa alta per non finire
preda delle domande incessanti della compagna.
- Ma... Ken... cioè, io... impossibile che tu mi abbia chiesto una cosa simile!- riuscì finalmente ad articolare, battendosi
una mano nel palmo dell’altra - Vuoi dire che Wakashimazu ti piace! Che...- fece uno strano sorriso -... comincerai a
pensarlo tu in quel modo?- Può darsi.- fu la replica che le arrivò, accompagnata da un’espressione enigmatica.
- Come sarebbe a dire “può darsi”?!- sbottò Mizuki - Tu sei cotta di Ken!Eve si ritrovò a tapparle la bocca con uno scatto improvviso.
- Urlalo più forte, già che ci sei! A Hokkaido non ti hanno sentita! - esclamò, premendo le mani sulla bocca dell’altra.
Mizuki tentò di tenere a freno il batticuore causato da una così improvvisa scoperta, fulmine a ciel sereno.
- Allora è così?- sussurrò, poi curvando gli occhi verso la bionda, con sguardo sornione.
- Può darsi.- fu la risposta ripetuta che si vide arrivare.
- Allora buona fortuna!- Takeshi le strizzò l’occhio con aria disponibile.
L’intera squadra di atletica in divisa era riunita nel cortile posteriore dell’istituto, accompagnata anche da un gran
numero di studenti regolari che, rimasti dopo le lezioni, si era fermato apposta per salutare Eve e Ren ed augurare loro
buon viaggio ed in bocca al lupo per le gare di Hokkaido.
- Ehi, non parto mica per dei mesi! Stiamo via solo cinque giorni!- la bionda ricevette l’ennesimo “buona fortuna” da
Ayame che, portatasi le mani al petto, la guardava con occhi luminosi.
- Beh, vorrei che al tuo ritorno fossi vincitrice!- dichiarò Mizuki, scansando in malo modo il compagno più giovane Forse ci vedremo per le finali!L’amica si sistemò la cerniera della tuta blu, portandosi poi le mani ai fianchi.
- Anche se non venite, non è che ci rimango male!- fece, con un sorriso tuttavia lusingato - Anche se vi conosco e so
che pur di saltare qualche giorno di scuola, sareste disposti a venire fino a Hokkaido!- Il sostegno innanzi tutto!- riprese Sawada, restituendo a Mizu lo spintone, seppur mantenendo un’aria intellettuale.
Inevitabilmente il gruppo scoppiò in una risata divertita, a parte la ragazza dai capelli ricci, che con tenacia stava per
rifarsi sotto, mirando giusto al collo di Takeshi.
Eve si sentì richiamare dall’allenatrice con tono impaziente, poco più in là; il tempo scarseggiava e la partenza era
imminente. Così, dopo aver salutato i compagni, si avviò verso il piccolo pullman che le avrebbe condotte
all’aeroporto.
Ken la trattenne all’ultimo momento - dopo che si fu distanziata dal gruppo di qualche buon metro - afferrandole un
braccio ed avvicinando repentinamente il suo volto al proprio.
- Non pensare di vincere solo per te stessa o non ce la farai.- le sussurrò giusto pochi centimetri dalle labbra, con un
sospiro carico - Consiglio di un professionista.- aggiunse poi, distendendo l’espressione e la presa, lasciandola andare.
Ad Eve ci vollero diversi istanti per realizzare cosa le avesse detto e captare il messaggio, rapita com’era dai suoi occhi
neri a causa dell’inaspettata azione del portiere.
- Cercherò di vincere anche per voi, contento?- riuscì a mormorare infine, con una punta di sarcasmo. Era il meglio che
fu in grado di elaborare, tornando ad articolare pensieri razionali.
Wakashimazu annuì, mantenendo il suo sorriso disponibile e poi passò a salutarla definitivamente, aspettando insieme
all’intero gruppo di amici e compagni che il minibus partisse.
- Dunque, ho preventivamente controllato tutti gli orari dei traghetti e dei treni a basso costo!- Mizuki scattò come una
molla, attaccando a parlare a macchinetta - Ovviamente sarà un viaggio lungo, quindi ai deboli consiglio di ritirarsi!
Ah, e ovviamente, paga il nostro capitano Hyuga, vero?- Che?!- il diretto interessato saltò su, tra lo stralunato e il contrariato.
- Ma sì, insomma, sei l’unico tra noi che lavora!- la ragazza alzò le spalle, ravviandosi la chioma riccia e prendendo a
camminare insieme agli altri verso il cancello.
- Certo, ma questo non significa che debba fare da tour operator!- ribatté Kojiro, non cogliendo l’ironia della compagna
e risultando ancora una volta affettuosamente comico agli occhi della pacifica Ayame.
Erano atterrate a Chotose senza eccessivi problemi, il viaggio sino a Sapporo si era svolto senza stress alcuno e là
l’ambiente appariva piuttosto ordinato e formale. Aveva altresì avuto occasione di confrontarsi con ragazze che
provenivano da tutto il Giappone e, nonostante la sua natura solitaria, si era sentita inaspettatamente a proprio agio.
Le piste erano ampie e professionistiche, gli scrutatori accademici ed a tratti dottorali, mentre lo stadio sempre
gremito di spettatori con i rispettivi cartelloni e slogan per le atlete che erano venuti a sostenere.
Inoltre lei e Ren si erano classificata nei tempi senza troppa difficoltà; avevano superato addirittura le ragazze della
squadra di casa, ma stranamente era l’ultima cosa a cui Eve dava inconsciamente importanza.
In quel momento si trovava silenziosamente a scrutare fuori dalla finestra della stanza d’albergo ed a realizzare che
l’indomani sarebbe stato il giorno decisivo per le competizioni, ma soprattutto cominciava a sentire una certa
mancanza, come se il correre per le strade di prima mattina, perché in ritardo a causa della sveglia, fosse qualcosa di
essenziale.
Ed alla fine del percorso, trovare ad accoglierla l’intero gruppo di amici.
Amici? Strana parola.
Non aveva mai avuto il tempo, né l’occasione di riflettere sullo stato e sul significato di essa, eppure... eppure sentiva
tutti così inevitabilmente vicini; la dolce Ayame, l’esuberante Mizuki, il serio e determinato Kojiro, il vivace Takeshi, il
gentile Kazuki e... Ken.
Quale aggettivo poteva accostare al nome di Wakashimazu?
Incrociò le braccia al petto. Capace, abile, valente? Atletico, robusto, affidabile? Affascinante? Irresistibile?
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No, stava decisamente andando oltre. Lo stava descrivendo come l’uomo perfetto - il che era forse un po’ eccessivo,
dal momento che l’uomo perfetto non esiste e lei stessa si riteneva ben lungi dall’essere tale.
- Eve, guarda qui!- Ren aveva acceso la tv e richiamava a gran voce l’attenzione della compagna.
La bionda lasciò i suoi pensieri al davanzale della fredda finestra, avvicinandosi al video, dove un uomo dai capelli
bruni ed occhiali scuri parlava con decisione al microfono di un inviato speciale; sotto, in sovrimpressione, la scritta:
“Munemasa Katagiri - osservatore Nazionale - Talent scout Federazione Nipponica”.
- Credo che la nazionale si dovrà impegnare molto quest’estate! I ragazzi sono dei fuoriclasse ma anche i vecchi rivali
sono migliorati molto. Li aspetterà un campionato mondiale molto duro, ma se la loro grinta avrà la meglio sull’ansia
da prestazione, avranno buone probabilità di vincere. Anche se oramai hanno partecipato a più di un torneo, ricordo
che sono pur sempre dei ragazzi e che l’emozione di scendere in campo è sempre veramente forte.Pareva davvero sapere il fatto suo.
- Un nuovo campionato mondiale!- Ren batté le mani dall’eccitazione - Pensa, ci saranno ancora sicuramente le nostre
quattro stelle!Si riferiva evidentemente ai quattro migliori giocatori del Toho, ma Eve cadde dalle nuvole.
- Davvero? Oh, già. Così presto?- si rammentava bene che Ken le aveva parlato delle selezioni, e di averle passate
egregiamente. Ma non immaginava che da allora fosse trascorso così tanto tempo... sembrava ieri.
- Già.- la compagna annuì, stringendo il telecomando nella mano destra ed indicando Katagiri alla tv - Quest’estate si
giocherà in Germania. Non l’ho seguito dall’inizio, però questo tipo carino dice che ci saranno grandi sorprese!Si lisciò i capelli neri a caschetto e si sistemò la molletta verde che portava sulla destra della fronte.
Eve si portò una mano all’orecchio destro, carezzando meccanicamente la coppia di minuscoli orecchini d’argento ad
anello.
In Germania?
Già, che sciocca, era stata da poco ufficializzata la notizia che per quell’estate Amburgo avrebbe aperto le sue porte
alle giovanili sportive di ogni nazione. Uno di quei progetti a livello mondiale atti a promuovere iniziative di rilievo
sociale e agonistico... una bella trovata, dopotutto.
Ad un tratto la loro allenatrice bussò alla porta, interrompendo la loro chiacchierata.
- Ragazze, siete ancora sveglie? Vi ricordo, signorine, che domani mattina alle sette dovete essere sveglie e pimpanti
al campo! Per cui basta pettegolezzi da salone di acconciature e dritte a nanna!- i passi della signorina Rama si fecero
più attutiti sulla moquette del corridoio, poi anche Ren si decise a sedare l’euforia e spense la televisione,
riappoggiando il telecomando accanto allo schermo.
- Allora ‘notte, Eve!- disse, stiracchiandosi e massaggiando il guanciale.
- ‘Notte.- rispose l’altra, sistemandosi la larga felpa grigia che le faceva da pigiama e buttandosi letteralmente sul
letto.
Si accoccolò sotto le coperte, seguitando a pensare a ciò che la loro tirannica preparatrice atletica aveva interrotto con
il suo intervento.
Quell’estate, un nuovo torneo mondiale.
Kojiro, Kazuki, Takeshi e... Ken.
Inevitabilmente il nome del portiere andò a stimolare la sua fantasia in fatto di aggettivi.
Grammatica e retorica a parte, si sarebbero dovuti scontrare con dei veri campioni provenienti da tutto il mondo.
Come diceva l’osservatore della nazionale, avrebbero dovuto superare nuove, difficili prove e... ad un tratto un flash.
La voce ardente, eppur consapevole e rassegnata di Wakashimazu.
“Io sono il numero due! Il dannato numero due! E nonostante tutto quello che ho fatto e che faccio, non sono in grado
di... di migliorare.”
Wakabayashi! Ma certo, se ci fosse stato anche lui?
Oh, che domande si stava ponendo... certo che ci sarebbe stato anche lui!
Per Ken tutto questo avrebbe rappresentato un ulteriore, doloroso test da vincere. E sicuramente, malgrado quella sua
aria indifferente ed a tratti arrogante, avrebbe sicuramente sofferto molto per l’eventuale presenza di Genzo davanti a
lui.
Sbadigliò.
Accidenti, si era addormentata tardi la sera prima, seguitando a pensare alle sorti di Wakashimazu... ed ora, per tutto
il tragitto sino allo stadio, non era riuscita a tenere a freno nemmeno uno sbadiglio.
- Ehi, non sei agitata?- le disse Ren, mentre fremeva sulla sua corsia.
- Nh...?- Eve le rivolse un’occhiata stranita - No.- rispose tra lo smarrito ed il sospettoso, cominciando ad acquisire la
consapevolezza che forse avrebbe dovuto esserlo, dal momento che mancavano pochi minuti al via. Eppure, fu come
se tutto quello a cui stava partecipando, di cui era parte integrante, non fosse altro che una scena vissuta in terza
persona... si sentì quasi estraniata ed un po’ contrariata.
Il silenzio sopraggiunse inesorabile, dopo il categorico monito del direttore di gara. In uno spazio così esageratamente
grande, un’assenza di rumori impressionante si era fatta largo tra le persone e le cose; solo dopo poco il brusio degli
spettatori si rifece sentire, irrequieto.
Quando il sovrintendente alzò la pistola, le atlete si abbassarono.
Nessuno sparo, le giovani si slanciarono in avanti una dietro l’altra, per fermarsi qualche metro più avanti.
= Dairou. Quarta batteria. Falsa partenza. =
L’altoparlante annunciò con tono solenne ed impersonale l’errore di Ren, la quale picchiò violentemente un piede per
terra, i pugni serrati. Il pubblico ebbe un fremito che si chetò quasi immediatamente.
Eve si era mossa solo di qualche passo, sicura di non aver udito il segnale di partenza, ed ora fissava la compagna di
squadra tornare indietro con il volto contrito.
Si sistemò gli shorts azzurri, il numero sedici sulla coscia destra, poi si riavviò una ciocca di capelli biondi dietro un
orecchio. Anche le altre tornarono alle batterie di partenza, accanto alle atlete che si erano mosse di poco o non si
erano mosse affatto.
Avrebbe dovuto dirle qualcosa?
Forse.
- Non riesco a vedere il traguardo.- sospirò Ren, tremante.
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- Il traguardo non si vede.- le rispose Eve, serena.
L’altra alzò il capo, abbassandosi di nuovo in posizione.
- Per questo, se ti aiuta, devi usare qualche trucchetto psicologico.- proseguì, portandosi una mano al ventre scoperto
- Fa’ finta che laggiù ci sia chi di più importante hai al mondo.- concluse, indicando con gli occhi la linea di arrivo.
Lei aveva sempre pensato a Nicholas, anche quando lui non c’era più. Soprattutto da quando lui non c’era più.
Ed era stato quel pensiero fisso, quell’ossessione, a darle il massimo impulso per migliorare. Ogni volta aveva corso
per raggiungerlo, disperatamente, affannosamente... eppure all’arrivo la attendeva sempre il vuoto. Un vuoto
momentaneo, perché sperava, illudendosi che alla prossima gara, se fosse riuscita a fare meglio, sarebbe arrivata ad
afferrare almeno l’ombra della sagoma del fratello, prima che potesse svanire, volare via in un filo invisibile.
Ma quel giorno c’era qualcosa di diverso... e forse era per questa ragione che si sentiva così leggera e senza pietre nel
cuore.
Avrebbe pensato a qualcun altro: ai suoi amici. A tutti i suoi amici, coloro che erano riusciti a farla sorridere sin dalla
prima stretta di mano.
Di nuovo in posizione, il direttore sollevò la pistola e questa volta lo sparo si fece sentire forte e chiaro, rimbombando
per alcuni secondi nell’arena.
Le atlete si scagliarono in avanti, prendendo immediatamente una velocità impressionante.
Eve avvertiva la terra sotto di sé tremare, nella sua mente una cantilena ipnotica.
Quadricipite. Sartorio. Vasto. Gluteo. Adduttore. Retto. Polpaccio. Gemelli.
Avanzamento. Come una macchina. Più veloce.
La finale. Doveva avere l’oro.
Ora!
Scattò in avanti con quanta potenza aveva in corpo, contrasse ogni singolo muscolo e mosse le braccia ritmicamente
più veloce, per stare al passo con le gambe e bilanciare l’andatura.
Sto arrivando, Ken! Non scomparire!
Se lo immaginò al di là della linea di arrivo, con il dolce sorriso che riservava solamente a lei... e la faceva sentire
speciale, tra le nuvole...
Strinse i denti, serrando la mascella ed inspirando a pieni polmoni, mentre le gambe la portavano a tagliare il
traguardo.
L’urlo del pubblico divenne un boato, Eve ruotò il corpo di 360 gradi ed ai suoi occhi ora spalancati si presentò uno
spettacolo straordinario: l’immensa folla, la marea di persone che strillava e festeggiava per la sua vittoria si
confondeva con i coriandoli lanciati sullo sfondo... e tutti sembravano così piccoli ed estatici. Era certa di non
conoscere nessuno tra la moltitudine, tuttavia festeggiavano lei, proprio lei, che per prima aveva tagliato la linea
d’arrivo.
Era stato tutto così semplice, che ora le pareva il mondo vorticasse forte intorno a lei, mentre gridava dalla felicità.
Non aveva mai provato una sensazione di simile compiacimento; non ne aveva mai avuta l’occasione, né lo spirito per
esserne in grado, mentre ora... ora che stava vivendo, viveva di gioia.
Un attimo brillante, assordante, stordente.
- Eveeeee! Eeeeeeve!!- la bionda levò il capo ancora ridendo, convinta che una voce così vicina la stesse acclamando
ed invece... qualcuno la stava chiamando: Mizuki si sbracciava dalle gradinate, urlando il suo nome con le mani
portate alla bocca.
Ayame si era stretta esultante ad un braccio di Kojiro, che l’aveva accolta con altrettanto giubilo. Kazuki e Takeshi
battevano forte le mani sopra le proprie teste, urlando con le loro energiche voci maschili ed anche Ken era là... se ne
stava in piedi accanto a Mizu, dall’alto della sua imponente statura, con un sorriso disteso sulle labbra e gli occhi
luminosi di esultanza.
Allora erano venuti... c’erano tutti!
Fino a quel momento non aveva pensato di poter lavorare seriamente per qualcosa di così impegnativo, ma ora si era
fatto tutto quanto più reale.
Dall’inizio era stato quasi come un gioco, o meglio, un’ulteriore futile e superflua competizione che non le avrebbe
portato nulla, dal momento che non poteva riottenere in nessun modo la presenza di Nicholas accanto a sé, ma
mentre stringeva la medaglia d’oro tra le mani, tutto quanto pareva essere invaso da una luce sfolgorante.
La alzò verso il cielo ed un’ovazione si levò dalle file dello stadio. Mille voci, mille colori, mille e più anime unite in
un’unica esultanza. Scontato dirlo, ma era meraviglioso udire urla di gioia solo per lei, soltanto per Eve come singolo
individuo e non più come metà complementare di qualcosa di lontano e perduto.
La sera stessa, dopo le interviste di rito, i brindisi ed i festeggiamenti, decise che avrebbe fatto ritorno a casa insieme
al gruppo di amici che con così tanta premura si erano messi in viaggio fino ad Hokkaido. Aveva ottenuto il permesso
dalla responsabile e, seppur con qualche smorfia di disappunto da parte sua, era riuscita ad eludere telefonate, biglietti
e giornalisti - che avrebbe ritrovato in ogni caso al suo ritorno - e fuggire via.
Ora il suo capo poggiava lieve sulla spalla di Ayame, addormentata come lei. L’auto di Kazuki sfrecciava veloce per le
strade buie ed avvolte nell’atmosfera notturna, mentre i lampioni rischiaravano il percorso con intensa luminosità.
- Allora il nostro Icaro andrà in Europa?- chiese Kojiro, seduto accanto al portiere con un gomito appoggiato al
finestrino. Il suo volto scuro semi illuminato dall’intermittente passaggio accanto alle sorgenti di luce era sereno e
disteso.
- Icaro...?- rise Kazuki, il freno abbassato mentre si fermava ad un semaforo - Non potevi scegliere un soprannome
più appropriato, credo.- Non lo so.- rispose Ken, assumendo un’espressione ambigua e prendendo a fissare distrattamente fuori dal finestrino
dettagli che le tenebre gli impedivano di cogliere appieno.
Kojiro riuscì a cogliere nei suoi occhi una vena d’inquietudine, ma tacque mentre Mizuki, accanto e quasi
prepotentemente addossata a Takeshi, si stiracchiava, rubandogli sempre più spazio vitale.
- Davvero carina la tua monovolume!- sorrise, rivolta al guidatore.
- Magari avessi una monovolume tutta mia!- rispose Sorimachi, ricambiando il sorriso dallo specchietto retrovisore E’ di mio padre e, beh, gli dovrò un sacco pieno di yen visto quanto abbiamo consumato in benzina!La ragazza rise, mentre Sawada si faceva valere, respingendola per la schiena.
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- Non eravamo d’accordo di dividerci la spesa?- affermò poco dopo, vincendo la battaglia contro il compagno più
giovane.
Quando arrivarono a destinazione erano trascorse diverse ore e si era fatto piuttosto tardi.
Eve scese stancamente dall’auto, trascinandosi dietro il borsone. Kojiro si offrì di darle una mano, ma lei rifiutò
sostenendo che era fin troppo tardi e che avrebbero fatto meglio tutti quanti a tornare a casa, prima di perdere le
poche ore di sonno che erano rimaste a loro disposizione per riprendersi dal viaggio.
Sorrise, ringraziandoli ancora una volta di cuore per l’inaspettata e magnifica sorpresa, li abbracciò uno per uno e fece
cenno finché l’auto di Kazuki non si fu allontanata dalla sua vista.
Quando entrò in casa si aspettò di poter finalmente entrare in letargo, ma improvvisamente e piacevolmente si
imbatté in sua madre, che si era svegliata a causa delle luci e del suono del motore dell’automobile in sosta di fronte a
all’appartamento.
Eve dovette rassicurarla e spiegarle che, nonostante la donna si aspettasse il suo ritorno solamente per il giorno dopo,
tutto era filato liscio ed era rientrata insieme al gruppo di amici. Le mostrò la medaglia guadagnata nella gara finale
che, purtroppo, non aveva fatto in tempo a seguire a causa del turno di lavoro. Ma si dimostrò molto entusiasta e la
trattenne per diverso tempo prima di accorgersi che la figlia era molto stanca e che avrebbe fatto meglio a rimandare
le chiacchiere al giorno dopo, permettendole di godersi un meritato riposo.
Così Eve poté raggiungere la propria stanza, lasciar cadere il borsone a terra e gettarsi ancora vestita sul materasso.
Non fece in tempo a razionalizzare nulla, che cadde immediatamente in un sonno profondo e tormentato da pensieri e
figure segrete, seguitando a stringere la medaglia in una mano.
Fino a un anno prima era depressa. Una malattia orribile per una donna così giovane, per sua madre.
Era caduta nel baratro della depressione qualche mese dopo la separazione dal padre e diverso tempo dopo la
scomparsa di Nicholas. Eve non era riuscita ad andarsene, a lasciarla sola e partire con il lui per l’Olanda.
Aveva visto allontanarsi inesorabilmente anche l’unico fratello che le era rimasto, desiderando ardentemente cambiare
ambiente, seguirli e volare via per stabilirsi in una nuova nazione, lontano da quella che aveva visto la fine della sua
metà speculare.
Eppure era rimasta.
Forse per il desiderio di non abbandonare sola a sé stessa la propria madre.
Forse per codardia, per l’incapacità e la mancanza di spirito per ricostruire altrove qualcosa di totalmente diverso e
lasciare che le cose cadessero laddove si trovavano, senza mediazione e mutamento alcuno.
Forse per rimanere inesorabilmente e disperatamente attaccata al ricordo, ed a quel dolore che, per quanto distruttivo
fosse, era l’unica cosa che poteva ricondurla ancora a Nicholas.
Poi sua madre aveva risollevato il volto al sole, al mondo. Aveva stretto i denti e, come una sorella, si era appoggiata
a lei per risalire in superficie e non finire mangiata, logorata da sé stessa.
La morte di qualcosa ch’era nato e cresciuto nei suoi lombi le aveva segnato l’anima con una cicatrice indelebile che
avrebbe portato dentro in eterno con la volontà di tenerla stretta, di non lasciarla andare né volerla cancellare, in
quanto ricordo di ciò che di più prezioso una donna può possedere al mondo.
L’esigua differenza d’età che intercorreva tra lei ed Eve aveva concorso a permetterle di vedere la figlia come un saldo
punto di riferimento ed essere a sua volta qualcosa di più che una madre. A volte pensava che se non fosse stato per
questo, probabilmente non sarebbe mai riuscita a comprenderla ed a farsi comprendere e la stessa Eve era grata a
qualsiasi tipo di fatalità per averle concesso una persona così unica ed esclusiva alla quale guardare come àncora e
non sentirsi irreparabilmente sola.
Sebbene le loro giornate si articolavano in modo differente, era certa che, quando rientrava, quella casa apparteneva
ad entrambe. Ed ogni cosa che attestava la proprietà e la presenza della madre - dalle cose più apparentemente
sciocche come le riviste a cui era abbonata sul tavolo della cucina, i guanti ed i foulard lasciati nell’inguaribile
confusione sul corrimano della scala, i fiori curati nei vasi del salotto e le pantofole al pian terreno - concorreva a
riscaldarle il cuore con quell’inconfondibile tepore famigliare e far sentire forte e chiara la sua presenza, anche se
invisibile.
Che fare ora?
Europa. Era certa di aver udito Hyuga parlare di Europa, ad un certo punto del viaggio.
Ed a quello stesso punto del tragitto aveva deciso che ci sarebbe andata, che avrebbe abbandonato la paura, che
sarebbe diventata adulta e che, per una volta, avrebbe fatto la cosa giusta: sarebbe andata a fare visita a suo padre.
Non occorreva che rispondesse alla lettera di Dex; tra un indicativo mese avrebbe avuto l’occasione di ripartire.
Secondo le rosee previsioni ed ufficiali comunicazioni della sua preparatrice atletica, se fosse riuscita a piazzarsi bene
ai campionati di Hokkaido, avrebbe avuto l’occasione di andare a studiare in Germania e ad allenarsi in campi e
strutture molto meglio organizzati in vista dei veri campionati del mondo di atletica juniores.
Aveva avuto l’oro, per cui non le restava altro da fare se non attendere che le venisse rivolta la proposta ufficiale ed
accettarla.
I suoi occhi si socchiusero per un attimo, ritornando nel dormiveglia.
Chissà come avrebbe trovato suo padre, in Olanda...
Forse era troppo tardi?
Chissà cos’era successo in quei mesi...
Chissà...
- Te ne vai?!- l’esclamazione di Takeshi si fece largo per il corridoio gremito di studenti.
- Ma come...?- Aya, invece, sembrava spaesata e smarrita.
- Non puoi!!- la categorica Mizuki si era portata le mani ai fianchi, i bracciali tintinnarono rumorosamente tra loro.
- Perché?- la voce di Kojiro sembrava autorevole e pacata come sempre, sebbene avesse lasciato trasparire una vena
di sorpresa ed impreparazione alla notizia che Eve aveva appena comunicato loro.
Ken non disse nulla, si limitò a tentare di trattenere un’espressione stordita e rammaricata, mascherandola dietro un
volto di ghiaccio, mentre la bionda sorrise semplicemente, stringendosi nelle spalle.
La pausa pranzo era iniziata da un po’ ed i ragazzi erano appena riusciti a riunirsi, così Eve aveva colto l’occasione per
comunicare loro ciò che pochi giorni addietro le era stato ufficialmente proposto e confermato dalla signorina Rama:
l’Europa era solo questione di tempo.
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- Già.- rispose, mantenendo un tono candido - Vado a studiare in Germania, così avrò modo di allenarmi con la
squadra agonistica. Mi è stato prospettato ancora prima che partissi per Hokkaido: qualora mi fossi piazzata in una
buona posizione avrei dovuto considerare seriamente l’ipotesi. A dire il vero non ci avevo mai nemmeno pensato, ma...
è come se adesso tutto quanto mi fosse più vicino, quasi tangibile. Ho la possibilità di lavorare per qualcosa di più e...
beh, non vedo perché non farlo.- poi notò l’espressione imbronciata di Mizuki - Ehi, ehi, tornerò!- aggiunse, ridendo.
- Sì, certo, tra sette mesi!- esclamò quella, per niente d’accordo.
- Ma... ci terremo in contatto, vero?!- Ayame aveva curvato le labbra in un’espressione di tenera supplica.
- Certo!- la bionda seguitava a sorridere per non lasciar trapelare il sottile dispiacere che ad ogni modo provava, per
aver preso la decisione di partire e lasciare un ambiente così caldo e famigliare.
Ma dopotutto aveva scelto ed infondo sarebbe tornata in Giappone dopo i mondiali.
Il portiere continuava a non parlare, immobile con le mani infilate nelle tasche della divisa scura.
- Però se non torni con l’oro, ti conviene rimanere qui!- sbuffò di nuovo Mizuki, sforzandosi di abituarsi all’idea.
- Beh, su questo ci devo lavorare!- fu la risposta di Eve, che le rivolse un’occhiata scherzosa.
- E così vai via.- Ken scagliò un bolide contro la traversa; la palla rimbalzò e gli tornò violentemente tra le braccia.
Come poteva starle lontano per sette mesi? Sette lunghi mesi, poteva morirne.
Aveva cominciato a sentire il bisogno pressante di dirle tante cose, di urlare, di stringerla finché gli fossero mancate le
forze e finché il proprio io non fosse stato saturato dal suo profumo, prima che lei partisse.
- Caspita, saresti un ottimo bomber!- ad un tratto la sua voce, calda ed entusiasta.
Wakashimazu non si voltò, abbandonò cadere il pallone sul campo di ghiaia, lasciando che rotolasse qualche
centimetro più avanti.
- Perché sei andato via così?- ora il tono di Eve si era fatto più sereno, quasi malinconico. Il portiere si voltò ed
incontrò inaspettatamente i suoi pugnali blu.
Distolse lo sguardo, fissando distrattamente i pentagoni neri della sfera, poco più in là.
- Ehi! Non sarai mica triste per me?- rise d’un tratto la compagna, decidendosi a sbloccare una scena quasi ghiacciata.
- E’ tanto strano?- le rispose lui, in un soffio, sempre seguitando a fissare terra. La ragazza avvertì un tuffo di stupore
e tenerezza al cuore nell’udire quelle parole, poi si sciolse in un nuovo, gentile sorriso.
- Non hai i mondiali quest’estate?- gli domandò, facendosi più vicino con aria fiduciosa. Ken si ritrovò a fissarla dritto
negli occhi, spalancando i propri.
- Ci vedremo sicuramente, prima del mio rientro in Giappone.- continuò, dicendogli qualcosa che probabilmente anche
lui avrebbe fatto bene a tenere presente, prima di gettarsi nell’istrionico sconforto di un moccioso - E non credere di
liberarti di me, verrò a trovarti ovunque tu sia in Germania!- aggiunse con una nuova risata contenuta, spalancando le
braccia ed offrendogli un contatto che Ken non rifiutò.
Le affondò una mano tra i capelli ed un braccio a cingerle le spalle, mentre lei si trovò ancora una volta a pensare che
adorava avvertire le sue dita sul capo e poggiarlo a quell’ampio petto d’uomo.
Si strinsero forte, come fosse l’ultima volta.
Non andare, Eve... resta qui. E’ tutto così perfetto... non mi lasciare adesso. Come faccio a dirti che senza di te le
strade la mattina, ogni singolo momento in cui ho occasione di incontrarti e le giornate intere... sarebbero vuote?
Ti amo, Eve, ti amo, ti amo, ti amo...
Per quanto i suoi pensieri fossero saturati di quelle due semplici parole, non riuscì a pronunciare nulla, come se
qualcosa bloccasse la sua estrema sicurezza, forse il timore di rovinare tutto quanto e causare l’irreparabile, prima che
lei se ne andasse e quindi rischiare di perdere le ultime settimane che gli rimanevano a disposizione da trascorrere
insieme.
Un mese passò in fretta - un lampo - più velocemente di quanto potessero supporre.
Sua madre l’aveva salutata da poco, si erano lasciate la sera prima ed ora Eve aveva appena riattaccato il telefono
cellulare, dopo averle rivolto gli ultimi arrivederci. Erano rimaste assieme quasi tutta la notte a preparare le ultime
valigie ed a farsi compagnia prima della partenza; aveva molto apprezzato il suo sforzo di conciliare gli impegni di
lavoro con i propri programmi, addirittura da sacrificare preziose ore di sonno notturno.
Ora il suo volto si rifletteva silenzioso sull’immensa vetrata, ritagliando un esiguo spazio solo per i suoi occhi azzurri.
Sospirò, scuotendo il capo come per levarsi di dosso quella sensazione di ipocondria che cominciava ad aleggiare
attorno alla sua persona. Era piuttosto infastidita da questo, non aveva dopotutto deciso? Ed allora per quale ragione
si sentiva così sradicare da un luogo che in realtà non avrebbe mai voluto lasciare...?
Centinaia di diverse voci e suoni si alternavano e sovrapponevano nella grande sala partenze internazionali, mentre
Ren e la Rama, sedevano l’una assonnata e l’altra impaziente sui sedili in metallo chiaro poco lontano da lei.
Le gigantesche ma discrete luci artificiali riflettevano sui monitor e sugli enormi tabelloni che, gradualmente, scalavano
l’ordine dei voli.
L’allenatrice si lisciò i cortissimi capelli rossi e si sistemò il leggero bagaglio a mano su una spalla, stando ben attenta a
non sgualcire l’elegante giacca nera; poi si alzò in piedi e richiamò l’attenzione delle sue due atlete, facendo segno di
seguirla per il terminal.
Eve si stropicciò gli occhi e rivolse un ultimo sguardo agli aerei sulla pista al di fuori della vetrata, poi si portò la
borsetta su una spalla e si voltò per andare dietro a quelle che sarebbero state le sue compagne di viaggio fino a
Amburgo.
I suoi occhi si spalancarono all’istante, credendo di sognare, mentre nella sua mente prese a chiedersi se il ragazzo dai
lunghi capelli scuri che stava in piedi a qualche metro da lei non fosse tutta un’illusione data dalla sua fin troppo
incalzante e precoce nostalgia.
- Ken!- esclamò, correndogli incontro.
Il portiere le prese immediatamente le mani tra le proprie, segno tangibile che non poteva essere un sogno. Lui era là,
era là davvero... e non attendeva altro che lei si voltasse e si accorgesse della sua presenza.
- Ti avevo già salutato ieri... perché sei qui?- gli chiese tristemente, realizzando che, nonostante la contentezza di
riaverlo dinnanzi, ora sarebbe stato più difficile separarsi.
- Volevo rivederti un’ultima volta ancora.- rispose Wakashimazu, con un placido sorriso.
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- Ehi, non essere tragico, ci vedremo quest’estate!- Eve si lasciò prendere dall’ilarità, specchiandosi nel volto perfetto
del compagno, che dal canto suo scosse il capo.
- Sì, ma per cinque mesi non...- Shh...- la bionda gli portò due dita alla bocca, sfiorando lievemente le sue labbra lisce ed armoniose - Penserò
intensamente al mio istruttore personale di Kung-fu!- rise, mantenendo gli occhi fissi nei suoi - Gli scriverò, lo
chiamerò e... - Ti voglio bene, Eve.Gli occhi della ragazza mutarono da sereni a meravigliati, bloccando l’intera frase a mezz’aria.
L’intero mondo attorno a loro ghiacciò, carico di tensione come fosse stato appena pronunciato qualcosa che avrebbe
cambiato le sorti dell’intera sua vita.
Ci volle poco perché Eve riuscisse ad interiorizzare ciò che Ken aveva appena espresso, dopotutto nulla di così
apocalittico, nulla di così spiazzante... o forse sì...?
Ed ecco di nuovo quella sensazione tremenda di non volersi allontanare da lui, di lasciar cadere tutto e stringersi alle
sue spalle, sicura che l’avrebbe sorretta, che l’avrebbe stretta, che non l’avrebbe lasciata cadere.
Avrebbe dato tutto ciò che aveva per un ultimo abbraccio da Ken, ed invece...
- Io devo...- sbatté più volte le palpebre, scivolando via dalle sue mani - Io devo andare!- e si voltò, correndo via.
Sawada procedeva speditamente per il cortile, diretto verso gli spogliatoi.
Quel giorno il tempo non era molto sereno, anzi, le prime gocce di pioggia battevano leggere sulla tettoia del
parcheggio per le biciclette, che attraversò velocemente per arrivare a destinazione.
Incrociò il capitano, già in divisa, che attendeva il resto della squadra in compagnia di coloro che, come lui, erano
arrivati in anticipo alla sessione d’allenamento pomeridiana. Lo oltrepassò, rivolgendogli un sereno cenno di saluto con
la mano, ricambiato da una pacca sulla spalla.
Quando raggiunse finalmente gli spogliatoi vide venirsi incontro un Wakashimazu piuttosto soprappensiero, che per
poco non lo notò neppure, se non l’avesse richiamato ad alta voce.
Il portiere gli indirizzò un leggero segno del capo, proseguendo lungo il corridoio grigio e semi illuminato.
A Takeshi parve che il suo volto già piuttosto ombroso avesse acquisito una piega ancor più seriamente impensierita,
ma si limitò a passare oltre con insicurezza; quando Ken assumeva quell’aria scura aveva quasi timore ad
avvicinarglisi.
Una volta che il compagno ebbe chiuso dietro di sé la porta dello spogliatoio, l’altro si fermò, chiudendo gli occhi per
un istante e rimanendo immerso nel silenzio e nella solitudine.
Si era allontanata, era quasi scappata.
Ora che avrebbe fatto? Che avrebbe potuto fare, lui, dal lontano Giappone? Si trovava dall’altra parte del mondo.
Il pensiero di aver definitivamente perso Eve lo faceva sentire vuoto ed impotente e, si sa, quando la fantasia inizia a
lavorare, ciò che congettura può essere mille volte più dannoso della realtà.
Gli pareva di non averle detto nulla di male, anzi, era quasi sicuro di fare la cosa giusta dando voce ai propri
sentimenti, di modo da trasmetterle l’appartenenza ad un legame stabile che sarebbe sopravvissuto alla lontananza.
Eppure... l’idea che Eve potesse tornare cambiata, che le cose al suo rientro in Giappone sarebbero divenute
totalmente fredde ed impersonali, l’idea che potesse trovare qualcuno e che per questa ragione od un’altra non
potesse tornare affatto gli prendeva lo stomaco come una raffica di violenti pugni. E faceva male.
Quel giorno lei e Ren uscirono dall’ostello molto presto, si erano ambientate con inaspettata facilità ed i responsabili
erano stati molto disponibili con tutte le nuove arrivate.
La signorina Rama aveva affittato un appartamento poco lontano - raggiungibile con qualche fermata di bus - e si era
premunita di riempirle di note con numeri di telefono, indirizzi, orari di ritrovo per gli allenamenti ed addirittura recapiti
di alcune boutiques che aveva avuto modo di scoprire di persona, tempo addietro. Era senza dubbio una donna di
mondo, super organizzata e iperattiva, ed a tratti la cosa spaventava un po’ le sue due pupille.
Ren ed Eve si trovavano per la prima volta ad affrontare un ulteriore primo giorno di scuola in un istituto straniero.
Avrebbero seguito i cosiddetti corsi light per conciliare una preparazione atletica a livello mondiale, ma non tralasciare
in maniera assoluta lo studio. Quando sarebbero tornate in patria, si sarebbe trattato di recuperare il tempo perduto
sui libri, ma l’evento pareva ancora così lontano da non impensierirle.
Le ragazze giunsero davanti all’edificio prima che suonasse la campanella. C’era già una miriade di gente, nessuno
indossava divise ed ognuno portava sulle spalle uno zaino diverso e colorato, tanto che Eve si trovò a realizzare che
Mizuki sarebbe andata a nozze con il sistema estetico dei paesi occidentali.
- Mi sento un po’ in soggezione...- sospirò Ren, sistemandosi nervosamente le forcine colorate che le pinzavano le
ciocche di capelli ai lati del volto.
Eve si lasciò seguire all’interno dell’edificio rosso cupo ed insieme cercarono la loro classe; dopo qualche difficoltà la
trovarono e si prepararono definitivamente per una nuova vita scolastica.
Se c’era una cosa che le era subito mancata era l’essere destata la mattina da un’immancabile sveglia in ritardo ed
indossare la sua divisa. Era piuttosto strano vestirsi normalmente anche per andare a scuola, sebbene non fosse
affatto male.
In quei giorni si impegnò a fondo nell’allenamento, pose ben chiaro dinnanzi a sé il detto chi ben comincia è a metà
dell’opera, soprattutto per evitare di rimanere indietro rispetto alle giovani africane che, dopo il primo incontro, le
avevano trasmesso con il loro talento innato una voglia di dar fondo a tutte le forze. Contro di loro ci sarebbe stato
parecchio da faticare, erano veramente fenomenali!
La piega iniziale che aveva preso la sua avventura europea la indusse anche a riflettere su ciò che aveva lasciato ed a
occuparsi di mantenere la promessa fatta ad Ayame, ovvero quella di scrivere e mantenersi in contatto con gli amici e,
soprattutto, di risolvere il pasticcio che aveva combinato con Ken, l’ultima volta che si erano visti.
Si era sentita una sciocca per ciò che aveva fatto... lui le aveva detto di volerle bene e in tutta risposta lei si era
voltata ed era scappata, letteralmente fuggita via. Doveva esserle sembrata una stupida... dopotutto, non era quello
che voleva sentirsi dire? Non era certo una dichiarazione d’amore, era un semplice ti voglio bene, eppure era riuscita a
comportarsi in maniera idiota anche in quell’occasione.
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Sospirò. La prima cosa che avrebbe fatto, appena messe in ordine le idee, sarebbe stata una telefonata a
Wakashimazu, mentre ora si sarebbe occupata di scrivergli una lettera che, nonostante la lentezza del trasporto
postale, gli avrebbe sicuramente fatto piacere ricevere - insieme al disegno che il ragazzo aveva tanto elogiato,
nonostante Eve si fosse affrettata ad affermare di averlo gettato via.
Non era stato affatto così, l’aveva tenuto e l’aveva portato con sé. Ora l’avrebbe incluso alla lettera, sperando di poter
realizzare una gradita sorpresa.
CAPITOLO 8 – Il Kaiser
Il ragazzo si sporse dal materasso, liberandosi dal groviglio di coperte che gli avvolgeva il capo e le spalle e raggiunse
finalmente la cornetta del telefono.
- Sì?- rispose, quietando l’intenso squillare.
- Ken!- dall’altra parte un’acuta esclamazione.
Il portiere spalancò di scatto gli occhi, venendo improvvisamente investito dalla realtà. Il sonno scivolò via come
frantumato, mentre si posizionava stabile sui gomiti.
- Eve...?- sussurrò incredulo, poi si schiarì la voce - Eve! Come stai!?- cercò di essere più naturale possibile, seppur
lasciando che l’entusiasmo prendesse il sopravvento.
- Sto bene! Ciao, portiere! Mi dispiace se mi faccio sentire solo ora, reperire un telefono è facile, ma i problemi
arrivano quando dici di dover fare un’intercontinentale!- rise lei, stringendo forte le dita attorno al ricevitore. Era così
meraviglioso poter risentire la voce di Ken, si sentiva emozionata come una bambina.
- Volevo solo chiederti scusa.- aggiunse poi, sperando di riuscire a dire le parole giuste - Non dovevo andarmene così,
solo... non potevo sopportare un altro arrivederci lungo ore.La sua determinazione avrebbe potuto crollare a momenti, se lui avesse seguitato a guardata per qualche istante di
più. Avrebbe svelato al mondo che, tolta la maschera, in realtà avrebbe voluto restare tra le braccia di Ken, rimanere
là o portarlo con sé in Germania - tutto pur di non separarsi da lui.
Ma non era così che dovevano andare le cose, non sarebbe stato giusto, non sarebbe stato maturo, non sarebbe stato
furbo e nemmeno corretto nei confronti di entrambi e della possibilità che le veniva offerta.
- Ehi, non fa niente, non ti preoccupare.- la voce del ragazzo la riportò alla realtà, sollevandole un macigno dallo
stomaco. Ken si ravviò alla meno peggio le ciocche ribelli che nel sonno avevano preso una direzione tutta loro,
schiarendosi nuovamente la voce.
- Piuttosto, vedi di allenarti come si deve perché tra cinque mesi, quando arriveremo lì, vogliamo trovarti in forma e
pronta a vincere di nuovo l’oro!- aggiunse, appoggiando il mento ad una mano e potendo finalmente sorridere.
Lei l’avvertì, dall’altra parte del telefono, il suo lieve e fiducioso sorriso, tanto che di nuovo la sensazione di slancio e
trepidazione le cinse il cuore.
- Sarà fatto!- annuì energicamente - Non vedo l’ora di rivederti! Mi manchi moltissimo e...Si bloccò, ma che stava dicendo!? Forse si era fatta prendere un po’ troppo dall’entusiasmo.
- Io, emh... allenati anche tu, chiaro?!- riprese, in tono più quieto, ma categorico - Ho tutta l’intenzione di venire a
tifare Giappone, quest’estate!Wakashimazu sorrise di nuovo, la voce di Eve gli era mancata così tanto...
- Lo farò.- rispose, mentre si liberava dell’ingombrante cuscino - Stenterai a credere quanto mi troverai migliorato!- Ci conto, sai!- fu la replica della bionda, che si voltò per controllare l’orologio a muro - Ora ti devo lasciare.- D’accordo...- annuì lui - Ci sentiamo presto, vero?- aggiunse, con la speranza di non doversi privare di nuovo tanto a
lungo di un contatto con lei.
- Certo, hai carta e penna?- Eve gli dettò il numero dell’ostello ed i recapiti che avrebbero potuto essere utili per un
futuro contatto, mentre Ken si premuniva di trascriverli dopo essere balzato giù dal letto ed afferrato una matita.
- Perfetto.- affermò, riappoggiandola sulla scrivania.
- Va bene, allora alla prossima.- sorrise.
- Ciao...- fece, vedendosi però subito interrotto.
- Ahm... Ken?- Eve trattenne il fiato, nel pronunciare il suo nome.
Wakashimazu riaccese l’attenzione, rimanendo immobile e concentrato.
- Nh?- Mi dispiace, non dovevo scappare così, ma se fossi rimasta un attimo di più, credo... non avrei avuto il coraggio di
andarmene.- lo disse di nuovo tutto d’un fiato, fermandosi solo una volta, prima di concludere - Ti voglio bene anch’io,
Ken.Riattaccò, considerando che probabilmente quella era stata la telefonata più disastrosa di tutta la sua vita... ma che
perlomeno era riuscita a sentire di nuovo la sua voce, ad avvertire il suo sorriso... ed a comunicargli ciò che forse
avrebbe dovuto dirgli molto tempo prima.
Il portiere rimase per qualche istante con il ricevitore ancora accanto all’orecchio, incerto se credere o no di aver
realmente udito ciò Eve gli aveva detto.
Poi riagganciò, le labbra distese in un sorriso intenerito. Che ragazza strana. Allora non era arrabbiata, né se l’era
presa per le sue parole, prima di lasciarsi.
Ma che era andato a pensare...? Si era preoccupato troppo, aveva addirittura ipotizzato che Eve l’odiasse per ciò che le
aveva detto! Che stupido, aveva perso totalmente la cognizione della realtà, pensandola inesorabilmente lontana. Ma
lei gli aveva appena dimostrato di essergli molto affezionata e questo gli aveva dato la carica giusta per affrontare in
modo ottimista i mesi che ancora li separavano.
Si sarebbe allenato fino allo svenimento ogni giorno, avrebbe perseguito il suo scopo con una tenacia che mai aveva
impiegato prima, sarebbe riuscito a migliorarsi in maniera severa e rigorosa, di modo da mirare ad un’eccellente
prestazione a livello mondiale.
Tutti sarebbero rimasti sbalorditi... ed Eve sarebbe stata fiera di lui.
Domenica mattina.
Si presumeva riposo, invece per l’ennesima volta si apprestava ad uscire dall’ostello in tenuta sportiva.
Avrebbe corso sino a mezzogiorno, resistenza prima di tutto.
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Era già passato un mese e mezzo dal suo arrivo ad Amburgo, ma stava facendo già visibili progressi, migliorando i suoi
tempi. Sebbene fosse un’atleta di velocità, piuttosto che una maratoneta, aveva finito per non riuscire a fare a meno
della corsa mattutina, sebbene Ren la considerasse pazza ad uscire ad allenarsi le uniche volte che poteva concedersi
un riposino prolungato.
Ma ad Eve non importava granché, piuttosto guardava all’estate che sarebbe seguita, ai mondiali veri e propri... e poi
tra meno di quattro mesi, avrebbe rivisto gli amici del Toho.
Si rigirò il berretto da baseball e cominciò a correre per la strada battuta e silenziosa.
La Germania, o almeno lo scorcio che aveva modo di vedere, era per lei decisamente un mondo nuovo. Davvero
diversa dal Giappone; usi, costumi, cibo... era così somigliante all’Olanda che aveva visitato quelle rare volte da
bambina e di cui il padre le raccontava spesso, in passato.
Quando giunse dinnanzi ad un’alta rete arrestò la marcia, rendendosi conto che lo spiazzo di verde che recintava altro
non era che un campo da calcio e che un pallone stava rotolando adagio verso di lei.
Sorrise lievemente, chinandosi a raccoglierlo. Le sovvenne spontaneamente il ricordo del fugace incontro con Ken,
ancor prima che lui conoscesse il suo nome.
Si guardò intorno, ma non notò nessuno: la strada era deserta ed il campo non ospitava alcuna attività, così lasciò
cadere la sfera, bloccandola con un piede e prendendo a palleggiare.
Non l’aveva mai fatto, senza Ken - e soprattutto senza che lui ridesse della sua imbranataggine - ma dopotutto non
c’era anima viva e poteva permettersi qualche ricordo piacevole.
- Non male.- le disse una voce alle spalle.
Eve gelò.
Ovviamente, scontato che non appena pensava una cosa, accadeva l’opposto.
Si voltò, tentando di mantenere un’espressione compita, ed incontrò due occhi di cristallo, un viso d’angelo, zigomi alti
incorniciati da capelli biondi come oro, molto più chiari dei suoi.
- E’ tua?- gli domandò, indicando con un cenno del capo la palla che aveva stoppato sotto al tallone destro e notando
la divisa calcistica che portava il nuovo venuto.
- Sì.- rispose lui, annuendo. La ragazza gliela rilanciò, facendo per voltarsi di nuovo e riprendere a correre. Quello la
raggiunse subito, palla al piede.
- Non ti ho mai vista da queste parti.- fece, tenendo il passo.
- Non sono di queste parti. A dire il vero non sono nemmeno di Amburgo.- si limitò a replicare Eve.
- Il mio nome è Karl, gioco nella nazionale tedesca.- al solo sentir nominare la parola nazionale, la giovane si voltò
repentinamente verso di lui, fermandosi di nuovo.
- Eve.- rispose, alzando un sopracciglio e stringendogli la mano.
- Sei una velocista.- era più un’affermazione che una domanda, quella del ragazzo, che rivolse il suo sguardo allo
stemma della federazione agonistica sulla tuta di lei, all’altezza del seno.
- Sono qui per allenarmi con la lega. Vengo dal Giappone.- confermò la bionda, rivoltando le maniche della felpa.
- Giappone...- ripeté lui, serio e pensoso. Il sole del mattino si rifletteva morbido nelle sue iridi di cielo, di un azzurro
chiaro e delicato e sul suo volto rilassato e signorile.
- Che c’è?- gli chiese lei, notando l’espressione impensierita.
- Quest’estate con tutta probabilità il Giappone sarà uno degli avversari che dovremo affrontare e a quanto mi hanno
detto la squadra è migliorata moltissimo. Senza contare che è stato molto difficile confrontarsi con loro, tre anni fa...- Tu... hai giocato contro Wakashimazu? Ken Wakashimazu?!- la domanda enfatica di Eve interruppe il discorso del
tedesco.
- Wakashimazu...? Intendi il portiere?- Karl tornò a rivolgere lo sguardo al volto teso e curioso di lei - Beh sì, ma
durante gli scorsi mondiali non ne ho avuta l’occasione: è stato sostituito con Wakabayashi per un infortunio alla
mano, prima di scontrarsi con la mia squadra.- Wakabayashi...?- all’udire quel nome la bionda fece per saltare come una molla, ma riuscì a trattenersi in virtù di ciò
che aveva ancora da chiedere al nuovo incontro - E’ tanto migliore di Wakashimazu?Schneider alzò un sopracciglio, cominciando a chiedersi come mai una ragazza che non aveva nulla a che vedere con il
calcio, fosse così interessata all’argomento.
- E’ la freddezza il suo segreto.- si spiegò - Genzo riesce a rimanere impassibile addirittura durante un rigore, mentre
Wakashimazu ha dalla sua parte l’agilità di un gatto, e ti assicuro non ho mai visto fare parate come le sue... però si fa
prendere dai sentimenti, dall’agitazione del momento. E’ il suo punto debole.Eve rimase tra il contrariato ed il riflessivo, taciturna. Non le piaceva che qualcuno parlasse a sfavore di Ken, anche se
fosse stata la verità, provava come un senso di disapprovazione nei confronti delle parole di quel Karl.
- Ehi, qualcosa non va?- la smosse lui. La ragazza scosse il capo biondo, con un sospiro leggero.
- Devo assolutamente veder giocare questo Wakabayashi.- affermò, senza darci poi più di tanto peso. Forse avrebbe
avuto l’occasione di farlo durante i mondiali, così avrebbe finalmente compreso cos’avesse di tanto speciale e di così
fenomenale da rappresentare un gran cruccio per Wakashimazu.
- E’ una questione personale, allora!- rise il tedesco, le mani ai fianchi.
- Una specie.- rispose l’altra, rimanendo sul vago ed alzando le spalle, ancora chiedendosi se la fama di questo Genzo
fosse meritata o meno.
Poi Karl disse qualcosa che la spiazzò.
- Giocava nell’Amburgo fino a poco tempo fa, il suo campo d’allenamento è poco lontano dall’aeroporto, hai presente?- Cioè... Wakabayashi è qui!?- sbottò, evitando di perdere l’equilibrio.
- Sì, si allena in Germania da tempo. Pensavo lo sapessi, dal momento che mi hai chiesto di lui.- l’aria del giovane si
fece stranita e perplessa.
- No che non lo sapevo!- soggiunse a gran voce - Accidenti, devo vederlo!Karl le spiegò che generalmente la domenica sera si allenava da solo o con pochi presenti, maniaco della perfezione
fino in fondo - pensò Eve, che colse l’occasione per farsi spiegare come avrebbe potuto raggiungere questo locus
amenus e poter finalmente trovarsi faccia a faccia con il grande “Super Great Goal... qualcosa” di Fujiama.
Lo incontrò la sera stessa, sulle scalinate del palazzetto sportivo.
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Non si aspettava di rivederlo, ma a quanto pareva il tedesco era venuto appositamente, dal momento che non
indossava più nessuna tuta d’allenamento, ma una morbida camicia azzurra ed un paio di jeans.
- Credevo ti saresti vestita da... ragazza.- le disse Karl, incrociando le mani al petto ed evidentemente alludendo alla
mise sportiva di Eve.
- Avrei dovuto...?- fece lei, alzando un sopracciglio e nascondendo le spalle all’interno della larghissima casacca. Si era
vestita a quel modo per un motivo ben preciso e di certo non l’avrebbe spiegato a quel tizio, che tra l’altro pareva
trovarsi lì per ammazzare il tempo.
- Beh, ad un appuntamento non ci si dovrebbe presentare con una semplice tuta di atletica...- alluse lui, tra il confuso
ed il divertito.
Il sole all’imbrunire si rifletteva sui suoi capelli dorati, delineando i lineamenti d’angelo del suo volto maschile.
- Appuntamento?!- Eve fece tanto d’occhi, realizzando in un attimo che Schneider doveva aver afferrato in modo
distorto la propria attenzione verso Wakabayashi, o forse era stata lei stessa con la sua astrattezza, ad aver lasciato
che lui intendesse ciò che in realtà aveva quasi ribrezzo anche solo ad ipotizzare - Ma che hai capito! Credi che sia una
fan di Wakabayashi!? Oh, questa sì che ha dell’incredibile!- soggiunse poi, scuotendo energicamente il capo.
- Ma... e allora...?- Karl non fece in tempo a terminare di chiederle per quale motivo in realtà si trovasse lì per
incontrare Genzo, che Eve l’aveva già superato e si stava già dirigendo verso il campo.
Lo individuò immediatamente tra i pali bianchi della porta. E dove, sennò.
Si calcò il berretto sugli occhi e sistemò alla meno peggio la cerniera della tuta, ritenendosi per la prima volta
fortuitamente lieta di non essere stata dotata dalla natura di un petto fin troppo florido. Si avvicinò al cesto stracolmo
di palloni, afferrandone uno e portandoselo sotto un braccio.
Il campo era ormai semideserto, il verde intenso del prato accoglieva le ombre trasversali della recinzione alta e degli
imponenti lampioni con molteplici scacchi di luci. L’esiguo gruppo di ragazzi che avevano accompagnato Genzo durante
l’allenamento serale si erano già diretti verso gli spogliatoi, lasciandolo solo ed avviandosi celermente verso gli
spogliatoi. Il portiere stava per fare lo stesso, dopo aver bevuto a grandi sorsi dalla propria borraccia rossa, quando
una presenza in movimento lo fece voltare di scatto, di sorpresa.
Un ragazzetto esile e non troppo alto si era portato dinnanzi all’area di rigore, posizionando un pallone sul dischetto ed
ora gli aveva voltato le spalle, allontanandosi di qualche buon metro.
Eve si voltò soltanto quando fu certa che Wakabayashi l’avesse scorta, fissando i suoi occhi neri e decisi da sotto la
visiera del cappello, poi picchiò prima un tallone poi l’altro a tastare la consistenza del terreno.
Socchiuse le palpebre e come una cantilena, le parole e la voce ferma di Ken le tornarono alla mente con ritrovata
energia.
Quando calci, cerca di prendere la mira.
E’ tutta questione di posizione.
Se riesci a ruotare il piede di modo da far prendere la rotta al pallone, hai già fatto metà del lavoro.
I portieri esperti si accorgono immediatamente della direzione che assumerà il tiro dalla posizione della gamba di chi lo
sferrerà, ma essendo un’atleta di corsa e non un calciatore, dovresti riuscire ad eludere facilmente il problema con la
tecnica della partenza.
Si accovacciò, spostando il baricentro un poco avanti, facendo leva sulle spalle.
Le dita appoggiate sull’erba, i quadricipiti contratti.
La tecnica della partenza. Ken aveva avuto un’idea geniale.
Non avrebbe mai pensato di poterla utilizzare, un giorno, né tantomeno in presenza di Wakabayashi, il quale stentava
a credere ai suoi occhi e, soprattutto, aveva preso a chiedersi chi diavolo potesse essere quel ragazzino dalla
corporatura esile e dalle mani lisce che - incredibile - stava davvero apprestandosi a tirare...?
Eve serrò gli occhi e prese un gran respiro.
Si era allenata più del dovuto da quando era arrivata ad Amburgo. Le sue gambe avevano acquisito una potenza di
scatto dieci volte superiore alle aspettative ed ora tutto questo le sarebbe tornato utile per concludere l’improvvisata
sfida.
S’immaginò di udire il fischio del direttore di gara e sollevò il bacino in alto, caricando i muscoli delle gambe e della
schiena.
Nel momento in cui l’irreale sparo del via saturò la sua mente, riaprì velocemente gli occhi e fissò il volto di quel
portiere dalle spalle larghe, senza espressione.
Non si fece attendere.
Contrasse ogni singolo nervo e scattò in avanti.
Una manciata di secondi.
Genzo lasciò cadere la borraccia a terra, che cadde rovesciando inconsistenti gocce d’acqua cristallina.
Quando giunse in prossimità della sfera si arrestò per un istante, sollevando minuscoli granelli di terra ed erba. Poi
colpì.
Il pallone parve scomparire, tanta era la potenza impressa dalle gambe di una velocista. Eve si trovò irrimediabilmente
sbilanciata dalla forza che aveva compresso al tiro, ma poco le importava oramai: la palla era in volo, rettilinea, dritta
verso la porta.
Si lasciò cadere, appoggiando di nuovo una mano a terra per sorreggersi appena in tempo per vedere i pentagoni del
globo bianco e nero confondersi, sfrecciare verso i pali e finire tra le mani di Wakabayashi, che si era tuffato verso
l’angolo alto destro.
- Non è possibile!- Eve si lasciò sfuggire un urlo incredulo e rabbioso, nel constatare che quel ragazzo aveva stoppato il
suo tiro con i palmi ed ora stava cercando di trattenerlo.
L’espressione stupita, contratta, sconcertata e rigida di Wakabayashi era tutta concentrata sulla sfera e sulla volontà di
arrestare la sua corsa ed inibire la sua intensità schiacciante.
Scivolò.
Il pallone slittò dalle sue mani con un contraccolpo violento per andare ad insaccarsi in rete, deformando l’intreccio
bianco alle sue spalle; il portiere cadde in ginocchio e prese a guardarsi attonito, irato ed incredulo prima le mani e poi
la palla, che era tornata indietro, ora rimbalzando serena.
Karl la prese sotto il suo piede sinistro - era sceso sul campo proprio nel momento in cui aveva visto Eve avvicinarsi
all’area di rigore, intendendo i suoi scopi.
59
Allibito, ma freddamente scostante, era rimasto a guardare l’azione, mentre mille pensieri e considerazioni si
accavallavano nella sua mente sorpresa.
Genzo intanto si era alzato in piedi e, massaggiandosi lo sterno, tentò di individuare e catturare lo sguardo di quel
tipo, seppur nascosto dalla visiera del cappellino da baseball.
Eve però si era già voltata ed aveva ripercorso velocemente la strada verso l’uscita del campo, infilandosi tra le
inferriate basse e sparendo dietro la cancellata.
- Ren, Ren!- si imbatté nella compagna proprio quando, dopo una corsa furiosa ed incapace di trattenere l’entusiasmo,
varcò la soglia della sala principale dell’ostello - Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!!L’altra sorrideva, trasportata dall’enfasi della compagna, che l’aveva afferrata per le spalle e la stava scuotendo
energicamente.
- Hai fatto... hai fatto cosa?- le domandò, tentando di capirci qualcosa.
- Ho segnato un goal memorabile a Wakabayashi!- la bionda scoppiò a ridere, togliendosi il cappellino e lanciandolo in
aria, per poi riprenderlo e ripetere l’azione una seconda volta - Ah, avresti dovuto vedere la sua faccia! Avrei dovuto
portare una macchina fotografica! Oh, accidenti, se solo Ken fosse stato lì! E’ stato... è stato... - e si lasciò di nuovo
trascinare da un riso euforico.
- Che cosa hai fatto?!- la compagna spalancò gli occhi scuri e, dopo essersi fatta spiegare la questione a grandi linee,
la guardò tra l’impressionato e l’atterrito - Ti rendi almeno conto di ciò che hai fatto?!- Eh?- l’altra si fermò, finalmente e la guardò dubbiosa.
- E’ Genzo Wakabayashi! Adesso a quello gli prenderà un colpo!- Ren si portò una mano alla fronte spaziosa, alzando
gli occhi al cielo.
- Ma che dici!- Eve, contrariata, emise un sospiro spazientito - E’ un ragazzo come un altro, Ken almeno riusciva a
trattenere i miei tiri!- ma l’altra non parve granché convinta.
- Sì, certo! Perché le tue gambe non avevano ancora sopportato due mesi di allenamento in federazione! Senza
contare tutte le scappatelle che fai per esercitarti ancora non appena hai un attimo di tempo libero! Pensa se adesso
Genzo comincerà a diventare paranoico! Insomma, battuto da un ragazzino, Eve!- Non m’importa!- sbuffò lei, perdendo totalmente l’accalorato trasporto e voltandosi dall’altra parte per raggiungere le
scale che l’avrebbero condotta all’appartamento.
A quanto diceva la sua compagna, aveva commesso un abominio. Era migliorata moltissimo, tra l’altro, ma non le era
piaciuto per nulla ciò che Ren le aveva appena detto. Se davvero Wakabayashi avesse iniziato ad allenarsi il doppio,
frutto di una reazione a catena da lei stessa innescata, le cose sarebbero decisamente precipitate.
Inutile dirlo, ma cominciò a preoccuparsi. Forse aveva fatto una stupidaggine... l’ultima cosa che desiderava era che il
rivale di Wakashimazu aumentasse le sue già ottime prestazioni. E adesso? Ah, se Ken l’avesse saputo, era certa che
l’avrebbe rimproverata un sacco, o peggio...
- Aya! C’è il ragazzo delle consegne!- la voce della madre dal retro richiamava l’attenzione della ragazza all’ingresso,
chiedendole di riporre la spesa a domicilio, mentre lei badava al bucato.
Ayame scostò lo sguardo dall’ingombrante pacchetto in carta verde che da diversi minuti stava fissando con occhi
dubbiosi, incerta se aver fatto la cosa giusta ad acquistare ciò che conteneva, oppure no.
Si era chiesta a lungo se la sorpresa sarebbe stata accolta con gioia, oppure con reticenza, tanto a lungo da farla
indugiare a tal punto da lasciare il fagotto sulla propria scrivania per una settimana intera.
Sospirò, scostandosi dalla sedia ed uscendo dalla propria stanza. Percorse a passi veloci il corridoio e raggiunse
altrettanto velocemente la porta d’ingresso.
Poi uscì in cortile, percorrendo il breve tratto di mattonelle incastrate a mosaico tra loro sino al cancelletto basso.
- Ko... Koji!- esclamò stupita, rendendosi conto di trovarsi di fronte al capitano del Toho.
- Ciao, Aya.- la salutò lui con un sorriso solare, sollevando la busta in cartone scuro.
- Oh... emh, io... emh, ciao!- riuscì a sbrigarsela infine, tentando di rassettarsi come meglio poté la gonna al ginocchio
ed i capelli castani dietro le orecchie. Hyuga si sciolse in un’espressione affettuosa, notando il rossore sintomo
d’imbarazzo sul volto della ragazza.
- Che fai, stai benissimo.- sussurrò, facendosi avanti e poggiandole una mano sulla testa.
Lei fu certa di essere sprofondata nel più acceso vermiglio, mentre le dita del cannoniere le carezzavano lentamente la
fronte.
- Grazie, ragazzo delle consegne...- replicò mormorando, raggiungendo il suo braccio con le proprie, affusolate mani.
Poi il suo sguardo si posò sulla borsa che lui stava ancora sorreggendo.
- Oh, lascia che la prenda io.- ingiunse, facendo per chinarsi, ma lui la ritrasse dalla sua portata.
- Ehi, non ci pensare neanche, piuttosto fammi strada.Ayame tornò a specchiarsi sul volto abbronzato e sereno del compagno, distendendo le labbra in un soffice sorriso.
Nonostante il suo essere scostante, Kojiro sapeva sempre come svegliare la tenerezza in lei, perfino ora che si era così
indirettamente offerto di aiutarla a sistemare la spesa.
Le piacevano le sue frasi silenziose, che nascondevano i suoi intenti in poche parole, eppure sapevano essere così
adorabilmente assordanti. Era così anche con i suoi fratellini, con la sua famiglia - ed era stato proprio quando Aya
aveva scoperto questo suo lato premuroso ed impegnato, dietro il suo carattere fiero e caparbio, che si era innamorata
di lui senza inibizioni.
Gli fece strada sin nella cucina, dove il ragazzo poggiò il suo fardello sul tavolo e prese a svuotarlo ordinatamente.
- Non perdi tempo qui? Di solito il tuo giro delle consegne copre la parte opposta della città.- realizzò la giovane, con
una punta d’apprensione che il ragazzo si impegnò immediatamente a quietare, facendo cenno di no con il capo.
- E’ la mia ultima tappa. E poi, beh, ogni tanto i giri cambiano...- mentì, rimanendo sul vago.
In realtà non poteva certo dirle di aver fatto i salti mortali per accaparrarsi l’ordine, una volta udito che l’indirizzo per
la consegna sarebbe stato quello di casa Akimoto. Un’occasione da non perdere per rivedere, anche solo per pochi
minuti, il volto armonioso e gentile della sua Aya.
Lei contrasse il volto in un’espressione pensierosa, poi con un sospiro si decise.
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- Aspetta qui.- gli disse, passandogli accanto velocemente e lasciando il piccolo ambiente domestico in favore del
corridoio. Kojiro fece appena in tempo a chiedersi con espressione smarrita dove la ragazza fosse finita, che questa
ricomparve sulla soglia con un pacco verde tra le mani, porgendoglielo con decisione.
- Tieni!- fece con enfasi, tendendo entrambe le braccia.
Hyuga lo accolse tentennante, decisamente sorpreso.
- Che cos’è?- chiese, alzando il volto in quello lievemente imbarazzato della compagna.
- E’... una cosa che ho comprato per te.- Ayame si strinse nelle spalle, invitandolo con gli occhi a scartare.
- Per me...?- ripeté lui, quasi a sé stesso, disfacendo l’involucro di carta e scoprendo una casacca color grigio scuro
con le maniche strette ai polsi e le rifiniture nere sulle spalle.
Fu così colto alla sprovvista che tentò due volte di parlare, ma entrambi gli sforzi gli morirono in gola. Era così poco
abituato a ricevere qualcosa da qualcuno, figurarsi un regalo del genere! Da parte di Aya, poi...
- Ti piace?- la voce delicata di lei lo riportò alla realtà, facendogli sbattere più volte le palpebre e riprendere a fissare i
suoi occhi neri ed il suo volto candido, rigido nell’attesa di una risposta - Avevi detto che lavorare od allenarti la sera è
molto stancante, dato che le temperature calano... e poi le tue mani si stanno rovinando per il freddo, per cui
pensavo... ho pensato che avresti avuto bisogno di qualcosa di adatto.- il suo sguardo si muoveva repentinamente da
una parte all’altra del locale, ovunque tranne che sul viso meravigliato di Kojiro, poi si scosse e ritornò nei suoi occhi,
con un gesto repentino delle mani - Oh, non che ciò che indossi ora non sia adatto, solo che... è che...Lui si avvicinò quel tanto che bastò per cingerle i fianchi e far aderire il suo esile corpo al proprio, quasi sollevandola
da terra.
- E’ un regalo bellissimo, Aya.- le sussurrò sulle labbra, prima di stringerle alle proprie in un prolungato e morbido
contatto. Il suo tenue profumo di narciso bianco si confuse con tutte le fragranze del mondo, colmando la sua mente
ed accendendo ogni screziatura inesplorata dei suoi sensi.
Aveva notato la pelle rotta delle sue mani, aveva pensato a regalargli qualcosa che avrebbe potuto farlo stare meglio...
aveva pensato a lui, esclusivamente a lui... Ayame.
Le carezzò il volto, scostandosi dalle sue labbra seriche e scostandole una ciocca di lunghi capelli castani dagli occhi.
- Ecco perché ultimamente sembravi così interessata alle taglie dei miei vestiti...- fece poi con un sorriso, ricordandosi
a poco a poco di averla vista più volte leggere incuriosita le etichette delle proprie magliette nell’ultimo periodo, ma di
non averci fatto poi molto caso al momento.
- Già... non sono stata molto accorta, vero?- le gote di Aya assunsero nuovamente un colorito acceso, stringendosi di
nuovo nelle spalle e poggiando le dita sul suo torace d’uomo - Oh, a proposito! Provatela, vediamo come ti sta!Kojiro abbassò la cerniera della giacca e si infilò le maniche con disinvoltura, richiudendola poi ad azione terminata.
La ragazza batté le mani in un fremito entusiasta.
- Ah, è perfetta! Ti sta benissimo!- vociò estasiata, saltandogli al collo con entrambe le braccia trasportata dalla
contentezza.
Questa volta fu lui ad avere la certezza di essere piuttosto arrossito, coinvolto e trasportato dallo slancio della ragazza
che ora si stava stringendo felice al suo petto.
Quando lasciò campo era oramai di nuovo sera, gli allenatori stavano uscendo e portavano con loro i cronometri e gli
attrezzi di atletica.
Erano giorni, settimane che i suoi allenamenti avevano preso un ritmo forsennato, smanioso: passava quasi tutta la
giornata al campo della federazione, spesso anche fuori dall’orario di esercizio - senza contare le pause di cui
approfittava per tornare ad addestrarsi.
La corsa e l’allenamento erano sempre stati un modo per esorcizzare i problemi e tenerli fuori dalla propria mente, e
così stava capitando anche in quell’intenso periodo, soprattutto dopo che Ren le aveva rotto le uova nel paniere
riguardo la faccenda di Wakabayashi.
- Signorina Springer?- il dirigente la scosse dai suoi pensieri, facendosi strada nella sua mente e riportandola al
presente. Eve si voltò per incontrare la distinta figura d’uomo in giacca e cravatta che il più delle volte assisteva al
training comune. Si fermò, appoggiando il borsone a terra sulla pista e lasciando che il responsabile le venisse incontro
con uno sguardo indagatore rivolto all’intera sua giovane persona. I pantaloncini corti e neri le fasciavano le gambe, la
maglietta elastica le arrivava poco sopra l’ombelico e la larga felpa verde aperta le cadeva morbidamente sulle spalle.
- Volevo parlarle del suo rendimento.- Eve gli scoccò un’occhiata interrogativa, alzando un sopracciglio, mentre l’uomo
si lisciò il pizzetto finemente curato con una mano.
- Si sta impegnando molto, come ho potuto notare. Ma non crede che otto ore di allenamento al giorno siano un po’
eccessive?- domandò, con aria accademica.
- Non faccio soltanto corsa.- si limitò a replicare lei, rimanendo in attesa della seconda battuta dell’interlocutore.
- Questo lo so bene, ma le consiglio ugualmente di andarci piano. Il suo fisico potrebbe non reggere.- il tono di voce
del dirigente si fece quasi apprensivo, famigliare, e nei suoi occhi chiari balenò un lampo di professionale
consapevolezza. Sapeva bene il fatto suo.
- Lei è molto giovane e troppe ore di allenamento potrebbero sovraccaricare il suo intero organismo, spingendolo ad
uno sforzo non proprio. Inoltre lo sport non dev’essere costrizione, non voglio certo che diventi una macchina!concluse, annuendo brevemente al termine della frase.
Eve non rispose. Aveva capito perfettamente.
- Allenarmi di meno.- imitò il cenno del capo dell’uomo - Cercherò di riprendere il mio ritmo, allora.- sorrise poi,
disponibile.
- Bene.- convenne lui - Allora non si faccia vedere qui per le prossime ventiquattro ore. Si prenda una pausa debita,
poi si ricomincerà con la preparazione canonica.- sorrise di rimando, soddisfatto dell’esito della conversazione.
Poi i due si strinsero la mano e si salutarono, ognuno per la propria strada.
Eve uscì dal campo di atletica e si diresse stancamente verso l’ostello. Non badò a nulla strada facendo - niente
vetrine, niente passanti - si limitò a raggiungere l’edificio tentando di non cadere preda di una sonnolenza prematura.
La hall era stranamente deserta e per le scale silenziose i suoi passi furono attutiti dalla grigia moquette.
Era tutto tranquillo, salvo quando aprì la porta della propria camera, incorse in una visita inaspettata.
Alzò un sopracciglio, non ricordandosi una Ren Dairou così teutonica, ma soprattutto così mascolina.
- E tu che ci fai qui?61
- Stai molto meglio in pantaloncini.- fu la replica dell’intruso, che si sistemò meglio sulla poltrona scura.
Lei scosse la testa ed appoggiò finalmente il borsone a terra, accanto al proprio letto.
- Allora?- soggiunse fiaccamente, già pervasa dalla debolezza e da uno sbadiglio incombente.
- Beh, sono venuto a farti una visitina.- rispose Schneider - Mi è bastato chiedere in giro ed ho trovato per caso una
ragazza con la tua stessa divisa, nei dintorni. La tua amica Ren mi ha detto che alloggiate entrambe in questa stanza e
mi ha dato le sue chiavi, è stata fin troppo gentile. Non è carino sparire senza dirmi nemmeno dove stai e il tuo
cognome.Per poco Eve non fu presa dall’istinto assassino di scovare Ren e colpirla con due salutari ceffoni, era sempre la solita
ingenua! Certo decisamente meno esuberante ed aggressiva, ma proprio come Mizuki non sapeva resistere al fascino
di un bel ragazzo.
- Volevo parlarti di Genzo.- concluse.
La bionda fu sopraffatta da un altro sbadiglio, abbandonando i suoi propositi assassini scaturiti da un’aggressività a
sua volta derivante dal duro e spossante allenamento.
- Non è diventato paranoico, vero?- chiese infine, lasciando che Karl si abbandonasse ad un riso divertito.
- No, niente paura.- era elegante e riservato anche nel modo di ridere - Si allena come sempre, è un tipo piuttosto
razionale.Eve trasse un sospiro di sollievo, perlomeno poteva liberarsi dal peso di una congettura inutile.
- Perché hai sfidato Wakabayashi?- le chiese tutt’un tratto, i suoi occhi azzurri brillanti sotto la luce artificiale della
stanza. La ragazza sospirò, massaggiandosi le braccia intorpidite.
- Una lunga storia.- buttò là, con espressione poco coinvolta - Diciamo che volevo solamente sapere se è degno di
essere titolare.- rispose poi, alzando le spalle.
- E allora...?- riattaccò il tedesco, invitandola ad un giudizio.
- Allora non lo so.- di nuovo un’alzata di spalle da parte della bionda - E’ bravo, per quanto ne possa sapere io di
calcio, ma non ho abbastanza schemi per valutare e poi, non so, forse sono migliorata troppo...Inevitabilmente la conversazione si spostò sul personale; il fatto di aver fatto grandi progressi non aveva più nulla a
che fare con Genzo, anche perché chi gli aveva segnato quel goal non era stata lei, ma Ken. Era stato Ken ad
insegnarle come mirare, come eludere i sensi di un portiere così preparato come Wakabayashi.
Non si considerava investita di alcun merito.
Eppure aveva paura... aveva paura di essere diventata troppo forte.
Ma che le prendeva, lei doveva correre, non giocare a calcio! E poi era tutto di guadagnato, o no...?
Si trovò a sospirare di nuovo intensamente e pesantemente.
Non era soddisfatta, per quanto potesse sforzarsi e mettere anima e corpo nell’atletica... a fine giornata riusciva a
sentire solo un gran senso di spossatezza ed estrema frustrazione data da stupide piccole regole, prima fra tutte quella
di non poter mangiare ciò che desiderava, seguire un rigore alimentare piuttosto ferreo... e poi stare attenta a non
farsi male, perché altrimenti la federazione avrebbe dovuto sborsare palate di yen, ma soprattutto non poter
trascorrere il vero tempo importante con chi ora sentiva così lontano ed intoccabile.
Il suo fisico, poi, era terribilmente messo a dura prova. All’inizio aveva cominciato a correre per sport, poi dopo la
scomparsa di Nicholas ci si era buttata a capofitto, ma ora... ora che non aveva più nulla da cui fuggire e che tutto era
diventato più serio - forse troppo serio - quello che un tempo era stato un divertimento, ora era divenuto un gran
peso, un onere incombente.
- Lascerò la corsa, dopo i mondiali.- annunciò, rompendo il silenzio e, nonostante tutto, stupendo sé stessa nel
rendersi conto che ne stava parlando con un tizio che nemmeno conosceva... e che forse proprio per questo motivo
sentiva essere una persona come un’altra, la persona giusta per ascoltare le parole che l’avrebbero almeno
parzialmente liberata da un ormai sgradevole carico.
- Sei molto forte, però.- sussurrò Karl di rimando, restando impassibile ed altero come un imperatore.
- E allora? Non devo dipendere dalla mia forza, non voglio.- rispose Eve, sedendosi stancamente alla scrivania e
sorreggendosi il capo con entrambe le mani- Non so nemmeno perché ne sto parlando con te, Schneider, ma penso
che se continuassi, finirei per dimenticare me stessa ed odiare l’atletica.- Dopo ciò che mi ha detto Ren, penso di essermi fatto una mezza e vaga idea su di te, Springer.- replicò lui, le braccia
incrociate al petto - Sei la numero uno in Giappone, però se il prezzo da pagare per la gloria è troppo alto, penso non
convenga giocarsi il tutto per tutto.- le sue parole le suonarono come un conforto - Ci si butta a capofitto solo se si è
certi dei propri desideri.La ragazza scosse il capo, contrastando l’ultima affermazione del cannoniere.
- Credo ci si possa buttare a capofitto in qualsiasi impresa, anche in quelle il cui barlume di speranza è minimo, anche
in quelle dettate unicamente dalla disperazione. Ma io non credo di essere così coraggiosa, o così nobile. Ci sono
sacrifici che non sono disposta a fare. Nemmeno per tutta la gloria del mondo.- la sua voce suonò come lontana ed
echeggiata, quasi rivolta ad un interlocutore lontano, solenne - Penso che riprenderò a disegnare, piuttosto. Oh, di
quello non mi stancherò mai!- aggiunse poi, con tono più leggero, ritrovando la presenza di Karl poco lontano.
- Disegni?- chiese lui, con un cenno del capo.
- Già.- si limitò a rispondere Eve, sperando di allontanare l’attenzione da una passione così intima e privata, che forse
avrebbe fatto meglio a non tirare in causa.
Seguì una breve pausa di silenzio, durante la quale il sommesso ticchettio della sveglia di Ren invase la stanza, poi il
ragazzo si alzò, raggiungendo l’uscio e rivolgendole un ultimo sorriso.
- Ora devo andare.- annunciò, afferrando la maniglia - Se proprio vuoi lasciare, allora metticela tutta. E’ l’ultima gara,
giusto? Allora lascia che la tua stella brilli un’ultima volta.Si sporse a consegnarle tra le mani le chiavi consegnategli poco tempo addietro dalla compagna di stanza della bionda,
poi lasciò definitivamente Eve sola.
Sì, avrebbe corso per l’ultima volta, poi sarebbe tornata in Giappone a dedicarsi a ciò che realmente amava, a vivere la
propria vita. Ne aveva già sprecata abbastanza, ora voleva fare ciò che desiderava e nulla più. Non le importava della
fama, del denaro e di tutto il resto... solamente delle persone a cui era legata, a cui voleva bene, compresa sé stessa.
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CAPITOLO 9 – Dopo la morte, la vita
- Ancora, capitano! Tirane un altro!- Ne sei sicuro? Io comincio ad essere stanco.- Kojiro si portò una mano dietro la nuca di folti capelli scuri, sollevando
diverse ciocche e sfregando via il sudore dal collo.
- Sicuro! Tira!- gridò di nuovo Ken, in impeccabile posizione tra i pali. Hyuga fece partire l’ennesimo Tiger Shot, che si
spense tra le braccia di Wakashimazu, saltato per afferrarlo ed atterrato al suolo in piedi, con uno scatto agilissimo.
- Ormai conosci a memoria i miei tiri! Dovresti allenarti con qualcun altro, tipo... qualcuno-che-non-si-chiami-Hyuga.il capitano raggiunse la porta con un mezzo sorriso, speranzoso di convincere il portiere a smettere l’allenamento, più
che convinto delle proprie parole.
Di solito il maniaco dell’esercizio era lui, da quando Ken gli aveva sottratto il ruolo con così tanta discrezione?
Sembrava che da un giorno all’altro dovesse sostenere l’esame della vita e che dovesse quindi mantenersi sempre,
costantemente preparato.
Si rammentò dei primissimi allenamenti che, anni addietro, avevano sostenuto insieme. Sotto la pioggia, con il sole,
tra la neve... avevano sempre lavorato sodo, ognuno per superare sé stesso, sin da quando erano dei ragazzini
inesperti del mondo che non desideravano altro se non giocare a calcio.
Ken sospirò pesantemente, passandosi un braccio sulla fronte e le nocche di una mano sul volto, sporcandosi
lievemente una guancia di terra. Si era appena tolto i guanti per lasciare respirare le dita gonfie ed arrossate, poi si
fece un poco più avanti e si lasciò cadere schiena a terra al centro dell’area di rigore.
Il compagno gli schermò la vista del sole, fissandolo dall’alto con sguardo fraterno, braccia ai fianchi.
Accidenti, Wakashimazu stava diventando davvero forte, stava superando i suoi deficit e colmando le lacune che
ancora non lo rendevano un completo estremo difensore. Doveva ammetterlo, era ammirevole.
- Sono passati quattro mesi, eh.- fece d’un tratto il capitano, evidentemente alludendo alla partenza di Eve. Il
compagno si sfregò il volto con una mano, dando tregua alle gambe in tensione, ora morbidamente distese sull’erba.
- Quattro...- ripeté poi, quietando il fiato corto - Tra un mese ce ne andremo anche noi.- Sarà un bene poterci allenare con tutta la squadra.- aggiunse l’amico, raggiungendolo a terra e distendendosi
qualche centimetro lontano da lui, non mancando però d’appoggiargli la testa nell’incavo morbido tra costole e anca
destra.
- Ehi, ma che fai?! Sai che dovrai pagarmi per questo?- rise Ken, sollevando lievemente il capo e portandosi le braccia
dietro la nuca.
- Taci, Wakashimazu, e fammi da poggiatesta.- fu la risposta di Kojiro, che si abbandonò con gli occhi chiusi e le mani
intrecciate sul proprio ventre - Dopo tutto l’allenamento extra che mi fai fare, come minimo me lo devi.Il vento caldo di maggio soffiava tra i lunghi capelli castani della ragazza, che entrò in fretta in casa.
- Sono qui, scusate il ritardo.- si annunciò Ayame, togliendosi la giacca leggera e liberando le lunghe ciocche
dall’impedimento del fermaglio nero.
Una volta raggiunto il salotto di casa Sawada, i ragazzi si accalcarono sul telefono, mentre il padrone di casa
componeva il numero ed impostava il viva voce.
Dall’altra parte una voce femminile annunciò il costo della tariffa internazionale e pregò di rimanere in attesa: presto
sarebbero stati collegati con l’interlocutore segnalato.
- La signorina Springer? Sì, stava uscendo un momento fa, un attimo.- la receptionista lasciò la hall in un sommesso
picchiettio di tacchi e si affrettò a raggiungere Eve giusto sulla porta dell’ostello.
La ragazza si lasciò ricondurre indietro, chiedendosi stranita chi mai potesse telefonarle alle sette del mattino, mentre
la donna le passò il ricevitore, sparendo di nuovo dietro il bancone ed impegnandosi in un repentino vai e vieni con
plichi di cartelle, fotocopie e fogli volanti tra le mani.
- Pronto?- la bionda si schiarì la voce, venendo immediatamente investita da un’ondata di folle allegria.
- Auguriiiii!!- Eve scostò la cornetta dal volto, massaggiandosi l’orecchio tra l’incredulo e lo sbigottito.
- Come stai!? Da quanto tempo!- il tono di Sawada tornò a farsi sentire forte e chiaro.
- Takeshi...?- la ragazza riconobbe la sua voce non senza una punta di sorpresa, stranita dal fatto che a chiamarla
fosse il giovane compagno - Io sto bene e tu?- Anche noi stiamo a meraviglia!- esclamò Mizuki, civettando vivace.
- Mizu!- al identificare anche lei, Eve sorrise di gioia - Che bella sorpresa!- Ci siamo tutti!- si annunciò Kazuki, sporgendosi sul microfono del viva voce.
- Per farti gli auguri!- soggiunse Ayame.
- Buon compleanno, Icaro!!- gridò ancora Mizuki, stringendo Aya per i fianchi e facendo perno su di lei per mettersi a
saltellare e mantenere l’equilibrio.
- Sì, però non distruggermi il telefono!- protestò Takeshi, suscitando le risa del gruppo.
- Ciao, Eve!- il capitano esordì un sorriso deciso, liberando Ayame dalle grinfie della strega.
- Come vanno le cose?- fece Ken, appoggiandosi ad una spalla di Hyuga.
Lei si trovò tutt’un tratto investita da un senso di famigliarità e stretta consuetudine: le tornarono alla mente come in
una vampata d’aria improvvisa tutti gli odori, ordinari ma lontani, che aveva lasciato in Giappone.
L’odore caldo delle coperte del proprio letto, quando apriva gli occhi la mattina.
Quello del caffè, preparato in fretta e furia ed altrettanto repentinamente sorseggiato, prima di uscire di casa.
La fragranza del balsamo fruttato di Mizuki, che le dava il benvenuto a scuola e quello delicatissimo e quasi
impercettibile di Aya, principessa di nuvola.
Il profumo d’erba e terra che adorava, mentre assisteva agli allenamenti ed alle partite del Toho. Il suono degli
schiamazzi dei ragazzi, dei loro passi in corsa, decisi e calibrati.
L’odore della pelle di Ken.
L’aroma del tramonto sul far della sera.
- Eve...?- all’udire la voce del portiere che richiamava la sua attenzione, si rese conto con stupore e non senza darsi
della stupida, che quasi le veniva da piangere. Erano ormai tre mesi che non sentiva la sua voce; l’ultima volta l’aveva
chiamata lui, come promesso, eppure l’emozione era sempre uguale.
- Ken...- sussurrò, stupita dal sentire il proprio tono così debole.
63
Emise un leggero colpetto di tosse e tentò di riprendere padronanza di sé stessa, mentre scuoteva il capo e si
stringeva una mano al polso.
- Come stai, allora? E com’è Amburgo?! Come sono i tedeschi? Scommetto dei fusti biondi alti due metri! Allora, allora,
hai incontrato nessuno che corrisponda alla descrizione?!- Mizuki la investì di domande entusiaste ed accese, alle quali
Eve non riuscì a rispondere in tempo, prima che le venisse posta istantaneamente un’altra questione animata.
Ma alle parole dell’amica si sovvenne dell’incontro che oramai qualche mese prima aveva avuto modo di fare, con quel
calciatore, per cui decise di riportare la conversazione su toni un po’ meno frivoli e più... beh, calcistici. Sicuramente a
Kojiro avrebbe fatto piacere sapere.
- A dire il vero ho incontrato un ragazzo che credo conosciate tutti, ha già giocato contro il Giappone e...- Chi!?- intervenne di nuovo Mizu, interrompendola - E’ un bel ragazzo!?... Ahio!- Takeshi le aveva tirato una gomitata,
nella speranza di quietare i bollenti spiriti della compagna.
- E’... non lo so.- rispose Eve, mordendosi un labbro. Di certo non si aspettava che le venisse chiesta un’opinione
riguardo all’aspetto di Karl e, soprattutto, era ben lungi dal concederla, principalmente in presenza di Wakashimazu Si chiama Karl qualcosa Schneider.- annunciò, crucciandosi del suo difetto di mangiarsi parte dei nomi che avrebbe
invece dovuto conoscere.
- Karl Heinz Schneider!?- per fortuna c’era Kazuki.
- Schneider!?- intervenne il portiere, altrettanto incredulo.
- Quel magnifico biondino?!- strillò Mizuki, di nuovo alla carica.
- Sì, ecco!- rispose l’altra, confermando il nome completo del tedesco - E’ molto preparato, vi conviene allenarvi molto,
se non volete essere battuti da lui e dai suoi colleghi!- aggiunse poi, tentando di infondere nei compagni un
amichevole incoraggiamento.
- Non succederà, ci stiamo allenando duramente anche qui.- annunciò Kojiro, con il suo piglio deciso ma sereno.
- E poi tra un mese arriviamo!- aggiunse Ken, sorridente.
- Sì, lo so, portiere! Non vedo l’ora di riavere un po’ di Toho, sto cominciando ad essere malinconica. Vi aspetto!- fu la
replica di Eve, che ricambiò il sorriso invisibile, schermato dalla distanza.
Chiacchierarono ancora un po’, poi si salutarono con nuove promesse ed esortazioni e la bionda lasciò la sala grande
per uscire all’aperto e raggiungere Ren, che l’aspettava da qualche minuto.
Sawada spense il viva voce e spinse il tasto di fine chiamata, riattaccando definitivamente il ricevitore.
- Però che fortuna!- sbuffò Mizuki - Voi ve ne andrete in Europa e noi qui a vedervi in tv!- Beh, non sarà grave, nonostante in differita sia tutta un’altra cosa, ma perlomeno li vedremo.- disse Ayame, pacata.
L’altra non pareva per nulla convinta ed aveva preso a giocherellare contrariata con l’orlo dei corti calzoncini in jeans
risvoltati al ginocchio.
- Ma io volevo gustarmi dal vivo quel bellissimo biondino di Schneider! Non è giusto!!- si lamentò, mettendo il broncio.
- Uffa, possibile che pensi sempre e solo a quello!? Sarà la primavera, ma ehi, tieni a freno gli ormoni!- Takeshi si
portò le mani ai fianchi, assumendo l’espressione di una vecchia e stizzita suora di clausura.
- Ma non è vero!- gemette Mizuki, stavolta arrotolandosi intorno alle dita di una mano la lunga cordicella rosa che le
pendeva dalla cintura e suscitando una risata generale tra i presenti.
Ken si portò la busta alla fronte, lasciandola in bilico ed allungando le braccia in atto di stiracchiarsi sul materasso.
Stava disteso supino nel silenzio della sua stanza, mentre il sole del primo pomeriggio si faceva largo tra le tende e
conciliava il sonno del dopo pranzo.
Si sistemò le maniche della maglia nera, poi riprese la lettera tra le mani e si trovò di nuovo ad estrarne il contenuto
per rileggerlo. L’aveva ricevuta qualche giorno addietro, euforico che Eve avesse mantenuto la parola.
Gli aveva scritto le proprie scuse per essere scappata via il giorno della partenza all’aeroporto ed un sacco di altre cose
che oramai aveva imparato a memoria.
Sembrava piacerle, Amburgo. E sembrava anche allenarsi parecchio, il più delle volte saltando anche i corsi scolastici.
Inoltre gli aveva anche inviato il disegno che raffigurava il trio di spicco del Toho e che con stupore si era trovato in
allegato. Allora non l’aveva affatto buttato via... l’aveva tenuto. E l’aveva migliorato e rifinito per fare in modo che ora
potesse tenerlo lui, dal momento che aveva dimostrato tanta partecipazione sin dall’attimo in cui n’ebbe scoperto
l’abbozzo. Era stato piacevolmente colto di sorpresa da quell’inaspettato pensiero.
Ma dopo la telefonata del giorno prima, non riusciva a tranquillizzarsi; era certo molto felice che gli avesse scritto e di
sapere che tutto in Germania procedeva per il verso giusto... ma Eve aveva incontrato Schneider.
Chissà cosa si erano detti... e se quei due si fossero piaciuti? Infondo lei era molto attraente ed il tedesco non era da
meno: possedeva quel fascino esotico e glaciale che gli conferiva l’attrattiva di un vero e proprio kaiser.
Ah, accidenti, stava cominciando a sognare ad occhi aperti come un ragazzino, riguardo eventuali ed inverosimili
drammi! Senza contare che la possibilità si era estesa ad ogni singolo incontro che Eve avrebbe potuto fare.
Con nessun altra era mai stato così preoccupato dal rischio opprimente di perdita che ora gli ronzava acutamente in
testa - anzi, addirittura non si era mai posto il problema. Ogni giorno che passava sentiva la tensione aumentare
convulsamente, come se la possibilità di non rivederla più si stesse concretizzando a poco a poco, tanto da fargli
scoppiare il cuore.
Aveva trascorso quasi cinque mesi senza di lei e nonostante dovesse pensare che il più fosse fatto, che oramai a
settimane anche la nazionale giapponese avrebbe raggiunto Amburgo, in realtà si sentiva vuoto come non mai;
desiderava di nuovo vedere il volto di Eve, sentirsi chiamare portiere con il suo tono energico ed esclusivo, i suoi occhi
celesti guardarlo con l’irresistibile aria capricciosa che assumeva quando lui, dall’alto dei suoi quasi centonovanta
centimetri, l’apostrofava scherzosamente come una pappamolle.
Mai era arrivato a nutrire simili sentimenti, credeva di essere già stato innamorato ed invece... solo ora se ne rendeva
conto: c’era qualcosa di mille volte più intenso e distruttivo, carico ed appassionato in ciò che lo legava ad Eve. Si
rendeva conto che non ne era banalmente innamorato, ma l’amava enormemente, più di ogni altra cosa.
Ci era voluto così poco perché accadesse... era stato così naturale, privo di affettazione... semplice. Ed ora era
dannatamente perso di lei, non c’era giorno che non la pensasse; la lontananza non aveva spento un fuoco fatuo, ma
alimentato un tizzone vivo e tra non molto tempo l’avrebbe raggiunta, le avrebbe dimostrato quanto era migliorato,
tanto da meritare il posto da titolare. L’avrebbe fatto per sé... e per lei.
64
Priva di sensi, sognava distesa sul letto dell’infermeria.
Il tenue sole mattutino si rifletteva sul grande armadio a muro metallico, giusto davanti al suo temporaneo giaciglio,
mentre il totale silenzio dominava il piccolo ambiente bianco.
Oramai pensava di aver acquisito un ritmo stabile e invece... un calo di pressione, diceva il medico. In effetti era così.
Stava correndo nei pressi del campo, ancor prima di entrare per l’allenamento, quando l’aveva colta un improvviso
capogiro ed Eve si vista costretta ad appoggiarsi al muro, in preda alla vertigine.
Karl la stava accompagnando, mantenendo un invidiabile passo cadenzato, correndole al fianco diretto nel medesimo
senso per raggiungere la piattaforma calcistica. Si era fermato, domandandole se ci fosse qualcosa che non andava,
ma lei non aveva fatto in tempo a rispondere, che la vista le si era affievolita e le forze l’avevano abbandonata,
lasciandola preda dello svenimento.
Schneider l’aveva condotta dentro al campo della federazione e, dopo la visita repentina da parte del medico di
guardia, ora la bionda stava dormendo ancora su quel lettino spoglio, dietro la tenda bianca.
Karl era rimasto lì. Ed ora la guardava muto, mentre le sue palpebre erano serrate e la sua mente altrove, forse in un
sogno che al risveglio sarebbe stato istantaneamente dimenticato.
Fu un istante. Il ragazzo si chinò su di lei per sfiorare le sue labbra con le proprie, esercitando una leggera,
impercettibile pressione e socchiudendo gli occhi. La leggera brezza penetrata dalle imposte semiaperte gli smosse
lievemente la frangia, che lambì impalpabile le ciglia silenti di Eve.
La ragazza arricciò il naso nel sonno, poi, come infastidita, emise un flebile sospiro e voltò il capo dall’altro lato.
Si ravviò senza badarci più di tanto i capelli biondi dietro le orecchie. Oramai stavano crescendo ed ancora non aveva
pensato a tagliarli come di consueto.
Quando si era svegliata l’infermeria era deserta e si era sentita tutt’un tratto come trasportata in un luogo silenzioso
ed etereo, tra il candore delle pareti ed il penetrante odore di asettici medicinali.
Poi era arrivata la signorina Rama, a dir poco furibonda.
Strano, Eve si aspettava un minimo d’apprensione, e invece...
- Eve!- Oh? Salve.- si voltò verso di lei, riappoggiandosi sul letto e calzando le scarpe da ginnastica..
- Vorrei dirti due parole, se non ti dispiace.- fece l’allenatrice, le mani ai fianchi e gli occhi semichiusi a scrutarla con
aria di rimprovero.
- Nh?- fece la ragazza, seguitando nell’intento di sistemarsi i calzoncini elastici.
- Voglio che tu la smetta di allenarti per una settimana a partire da oggi.- la donna dai cortissimi capelli rossi spazzola
la stava guardando severamente, per nulla intenzionata a rinunciare alla ramanzina che si era preparata per la sua
atleta più scapestrata, la quale, dal canto suo, lasciò cadere una scarpa e prese a rivolgerle un’occhiata incredula.
- Ma che...? Non posso!- si ribellò - Tra quindici giorni ci sono le gare ufficiali!Mihoko Rama mosse un passo avanti e scosse il capo, lasciando tintinnare gli orecchini a cerchi intrecciati, prendendo
poi a gesticolare animatamente.
- Ti rendi conto che se ti capitasse un altro calo di pressione simile a questo, rischieresti di non parteciparvi per nulla,
alle gare ufficiali!? E fortuna che c’era Schneider con te, a portarti dentro al campo, altrimenti ti avremmo trovata
dopo ore! Tu e la tua fissa di volerti allenare in ogni momento utile! Sei già stata richiamata dal dirigente coordinatore
in persona una volta, sei proprio recidiva!- la sua voce acuta risultò ancor più stridula alle orecchie della bionda che,
vedendosi attaccata in modo così imperativo, recuperò la scarpa e se la infilò stizzosamente al piede, cominciando ad
armeggiare con i lacci.
Aveva già rinunciato agli esercizi serali, che diavolo doveva fare ancora?! Senza contare che il fatto d’essere svenuta
sulla strada come un sacco di patate decisamente minava già di suo alla propria autostima.
- Se io mi rifiutassi?- domandò all’allenatrice, senza distogliere l’attenzione dal pavimento.
- Saresti fuori, Springer!- la donna si passò una mano sul capo, com’era solita fare quando la tensione si impadroniva
di lei - Non sto scherzando, non posso rischiare la tua salute e, se tanto vale tanto, posso anche escluderti.Eve non aggiunse più nulla.
Ecco come rovinare il buonumore. Sembrava tutto andare per il verso giusto: aveva addirittura passato l’anno
scolastico senza troppe preoccupanti lacune e, soprattutto, aveva cominciato a fremere per l’arrivo dei giocatori
giapponesi, di lì a una settimana soltanto.
Aveva deciso di mettere tutta sé stessa in preparazione dell’ultima performance atletica della sua vita, ed ecco che
qualcosa di stupido si parava sulla sua strada. Era soltanto svenuta - non aveva mica contratto un virus mortale! - ma
la Rama sembrava più intransigente del solito e, dal momento che il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lei, Eve
convenne di distendere i nervi e lasciare che tutto scivolasse senza troppi scogli.
Non le diede la soddisfazione di farsi vedere ulteriormente contrariata, dispiaciuta o seccata. Si congedò un asciutto
cenno di concordia e poi uscì sulla strada, il borsone su una spalla e la cerniera della tuta chiusa sino al mento.
E va bene, non si sarebbe allenata per una settimana, se era questo che voleva quella nazista nevrotica, ma questo
non le avrebbe impedito di partecipare al campionato.
Quando rientrò nella propria stanza, tutto le sembrò più disteso e meno frenetico, quasi pervaso da un’atmosfera di
consuetudine che pareva aver dimenticato in favore di sveglie all’alba e pasti veloci e poco sostanziosi. La camera era
sgombra, Ren era uscita in tutta fretta poco prima che anche lei lasciasse l’ostello la mattina stessa, dicendo di dover
andare a farsi bella per un appuntamento fissato per quel pomeriggio... o qualcosa del genere - in verità non era stata
a badarci molto.
Si sedette al bordo del proprio letto ancora disfatto, sospirando pesantemente e considerando che forse era venuta
l’ora di fare ciò per cui principalmente ed inconsciamente era stata spinta a volare sino in Europa.
Si portò le mani in grembo, esitando e tentando di riordinare i pensieri. Avrebbe voluto attendere sino al termine dei
mondiali, all’inizio i suoi piani erano questi, ma ora il vuoto che si era fatto largo nella sua mente si stava lentamente
colmando dell’idea pressante di prendere il primo treno per Amsterdam.
Era quasi contrariata dal fatto che si sentisse pressoché indolente per aver dovuto approfittare delle gare di atletica,
per trovare il coraggio di ripensare alla notizia che tanto profondamente l’aveva scossa, mesi addietro... e soprattutto
per decidere il da farsi.
65
Sospirò di nuovo, stavolta alzandosi per andare a frugare nel fondo della sua valigia - ormai quasi dimenticata sul
fondo dell’armadio - alla ricerca della lettera di Dex. La trovò un po’ spiegazzata tra le pagine di un manuale di
atletica.
La fissò per qualche istante, poi si decise ad aprirla e trascrisse il numero su un foglio di carta, che portò con sé nel
salone d’ingresso dell’ostello.
Mentre percorreva il corridoio e le scale, i passi attutiti dai pesanti tappeti, si rendeva conto che forse bastava un
impeto di decisione per indurla a compiere ciò che stava per fare ed evitare un osceno procrastinare.
Si fece lasciare la postazione telefonica da un impiegato con dei grossi occhiali quadrati poi, una volta che il giovane
uomo si fu allontanato per tornare alle proprie occupazioni, Eve compose il numero riscontrandone la correttezza sul
foglio che aveva portato con sé.
Un gran sospiro.
Primo squillo. Secondo. Terzo.
- Pronto?- la voce che le rispose suonò profonda e affannata. Era una voce ormai d’uomo, di qualcuno che ormai si
chiedeva fosse stata in grado di riconoscere, dopo tutti quegli anni.
- Dex...?- domandò poi, appressando la bocca al ricevitore.
- Sì, chi è?- rispose quello, tra l’affermativo ed il titubante. Gli pareva di aver già udito quel tono, da qualche parte...
eppure chi poteva chiamarlo sul numero privato? Non conosceva il mittente.
- Eve.- fece lei, semplicemente annunciando il proprio nome.
Silenzio.
Dexter non rispose, la sorella udì solo un rumore di diversi passi sommessi in sottofondo e qualche lieve sospiro.
- Eve...- ripeté con voce tremante - Pensavo che non avessi più chiamato.- Beh, lo sai come sono fatta, dimentico sempre tutto.- cercò di ironizzare, nascondendo l’emozione ed il rammarico di
star risentendo il fratello in un’occasione tanto tragica. Dex emise un soffio, accompagnato da un lieve sorriso
liberatorio.
- Che si dice?- Tutto al suo posto.- fu la risposta della ragazza, che si appoggiò con la schiena al bancone in legno - Sono in
Germania e tra un paio di giorni ho intenzione di essere lì.- In Germania...?- dopo lo stupore iniziale, Dexter le confermò l’indirizzo della clinica in cui il padre era ricoverato da
diversi mesi a quella parte, poi si preoccupò di darle le informazioni adatte perché potesse arrivare a destinazione
senza problemi.
- Chiaro. Allora a presto.- annuì Eve, trascrivendo le informazioni sul medesimo pezzo di carta sul quale aveva
scarabocchiato il numero di telefono.
- A presto.- le rispose l’altro, facendo per chiudere la chiamata.
- Mi dispiace, piccolo, ti chiedo scusa.- aggiunse brevemente lei, frettolosamente sperando di che il fratello non avesse
riattaccato. Ed infatti era rimasto in ascolto.
- Avrei dovuto chiamarti prima, invece ho lasciato passare un sacco di tempo.- riprese, mordendosi il labbro inferiore
con un canino - A quest’ora papà poteva non esserci più e io non...- Già.- la interruppe il ragazzo, dall’altra parte, in una triste e consapevole affermazione - Ma lo so come sei fatta,
dimentichi sempre tutto.- aggiunse in un mesto sorriso.
Eve gelò e, nel suo cuore di brace, mille spine si fecero largo tra le vene.
Poteva sperare di essergli grata per alleviare il peso con le sue parole, ma certo il senso di colpa non sarebbe stato
attenuato così altrettanto facilmente.
- Ti aspetto, allora.Riattaccò.
Era stata una conversazione breve, ma tesa. Ed aveva avvertito la tensione nella voce di quel ragazzo non più
bambino, cresciuto lontano, separato da lei e dall’intero suo mondo... la voce di suo fratello, del suo piccolo, distante
fratello.
- Lo so, Ren. Non ti sto chiedendo di mentire, soltanto non correre immediatamente a spifferare tutto alla Rama.- le
disse Eve, pazientemente tentando di tenere a freno la rabbia per essere stata sorpresa dalla compagna con delle
stupide e petulanti domande.
Ren era tutta eccitata e moriva dalla voglia di raccontare a qualcuno del suo appuntamento di qualche giorno prima
che, a quanto pareva, era andato a gonfie vele ed ora necessitava di un consiglio sull’abbigliamento che avrebbe
dovuto adottare per la seconda uscita.
Non appena aveva fatto il suo ingresso nella stanza comune aveva notato qualcosa di strano in Eve, che stava per
lasciare l’ostello facendole trovare un biglietto in cui spiegava che era partita ed avrebbe fatto ritorno entro la
settimana. Nulla più.
Ma si erano incontrate ed ora la bionda cercava di togliersi d’impiccio e tentare di arrivare alla stazione in tempo per
salire sul treno che l’avrebbe condotta alla prima stazione di scambio.
- Ma lo sai che se lo sa la Rama ti potrebbe buttare fuori dalla squadra!?- squittiva Ren, con aria ansiosa.
- Ti ho già detto che lo so, non è questo il problema. Ho considerato il fatto che sono troppo importante per lei e la sua
squadra, e lo dico perché è un dato di fatto, non un vanto. Ed anche se dovesse accadere, vedrai che mi farà correre.
E poi mi è stata lei a darmi una settimana libera, sarebbe da sciocchi non prenderla in parola!- alzò le spalle,
prendendo lo zaino.
- Eh... ma... non avresti fatto prima ad avvertire la federazione...?- la raggiunse l’altra, di nuovo esordendo con
un’espressione irrequieta.
- Certo, e secondo te mi avrebbero lasciata partire?- intervenne Eve, rivolgendole uno sguardo alterato - Beh, ci si
vede!Uscì dal portone principale, limitandosi a rivolgerle un cenno con la mano, oramai già voltata di spalle.
Era ovvio, lampante, palese che la Rama o chi per essa non le avrebbero mai concesso il permesso di andarsene:
troppi rischi, troppo formalismo, troppa indiscrezione. Come sempre. Così aveva deciso di fare di testa sua; a dire il
vero non le importava nemmeno granché del fatto che avrebbe anche potuto rischiare il posto ai mondiali, anche se
era quasi sicura che l’allenatrice non l’avrebbe mai espulsa. Contava troppo, per il suo piccolo, gretto tornaconto.
66
Stupido a dirsi - oramai aveva preso la piega di un grande ossimoro - ma stava realmente ardendo a mandare all’aria
l’intenso allenarsi dei mesi passati, il duro e prolungato lavoro che, nonostante tutto, era più che disposta a sacrificare,
una volta resasi conto che per lunghi mesi, un po’ la paura ed un po’ la mancanza di risolutezza, l’avevano indotta a
tralasciare parte di quella famiglia che già era andata in pezzi una volta e che, malgrado il destino, malgrado il dolore
e malgrado il terrore di riaprire vecchie cicatrici, sentiva che non poteva lasciare indietro.
E poi non voleva avere cattivi pensieri, desiderava solo pensare a suo padre; Dex non le aveva detto nulla, quindi
presumeva che la situazione dovesse essere più o meno stabile.
Le occorsero parecchi cambi e diverse ore di viaggio, ma alla fine la stazione centrale di Amsterdam la accolse
costante ed invasa dalla folla, proprio come la ricordava. Si confuse tra la gente, tra i colori ed i profumi dell’Olanda, si
specchiò in diverse decine di volti assorti, decisi, pensosi... ognuno aveva una propria strada da percorrere, ma era
quasi grottesco pensare che per degli attimi più o meno lunghi, le vite delle persone si lambivano ed incrociavano,
silenti ed immote, quasi inconsapevoli, per poi separarsi così come si erano avvicinate, ad ogni fermata del tram.
In poco tempo si trovò davanti al padiglione grigiastro che Dex le aveva descritto per telefono, scrutando i vetri delle
finestre mute e pensando che dietro ad una di esse c’erano suo padre e suo fratello che la stavano aspettando.
Socchiuse gli occhi ed attraversò la strada, mentre il vento caldo le sfiorò i capelli e l’accompagnò finché non ebbe
completamente raggiunto il lato opposto della via, tra il brusio dei frettolosi passanti.
Si avviò su per le scale senza prendere l’ascensore e seguendo le indicazioni stampate su grandi cartelli gialli.
Terapia intensiva.
Fuori dal reparto, un paio di infermiere.
L’acre odore tipico degli ospedali le invase le narici, sino a penetrarle nel cervello, nelle membra - sino a saturarla, ma
malgrado ciò Eve non vi badò e percorse il lungo corridoio a passi spediti.
- Mi scusi, non si può entrare.- una voce alle sue spalle, una mano sul dorso.
La ragazza si voltò, trovandosi di fronte una delle infermiere che aveva notato poco indietro. Annuì, mentre lo sguardo
sorpassò le spalle della donna, raggiungendo la sagoma solitaria di un ragazzo sui sedici anni, capelli chiari, occhi
celesti. Era vestito con una semplice maglietta azzurra senza maniche ed un paio di pantaloni piuttosto larghi, sotto ai
quali indossava un paio di scarpe da ginnastica.
Si sarebbe detto un giovane qualunque, nonostante l’aria stanca, ma Eve riconobbe immediatamente gli stessi
lineamenti che la memoria le richiamava, silente... era forse solo più uomo.
Le labbra piegate all’interno della bocca e la testa china, i capelli troppo corti non gli permettevano di nascondere gli
occhi. Se ne stava là, appoggiato al muro con la schiena come se aspettasse qualcuno... Dex.
- Mi faccia passare, quel ragazzo è mio fratello.- disse.
L’altra si voltò verso il diretto interessato, per poi tornare a rivolgere ad Eve uno sguardo sorpreso.
- Lei sarebbe la figlia del signor Springer?- le domandò, tra lo stupito e l’incredulo.
- Esatto.- rispose la bionda, distogliendo lo sguardo e prendendo a camminare verso di lui. L’infermiera non si oppose
ulteriormente, notando la grande somiglianza con il ragazzo, il quale già da qualche tempo aveva annunciato di star
attendendo la visita della sorella.
Lo conoscevano bene in reparto, Dexter Springer. Se ne stava per la maggior parte del tempo seduto accanto al
padre, raccontandogli la propria giornata, chiedendogli consigli e pareri riguardo a fatti che probabilmente non erano
altro che invenzioni, segni di allarmi che non esistevano e che avevano l’unico scopo di rendere l’uomo partecipe di
una vita che si svolgeva ben al di là dell’ospedale. Avevano spettegolato parecchio su quei due, padre e figlio - senza
pretese, senza cattiveria, avevano avanzato mille ipotesi sulla loro situazione, su una condizione famigliare e privata
che nonostante la lunga permanenza in clinica, nessuno dei due aveva mai rivelato, forti di una gran riservatezza.
Il ragazzo alzò la testa assumendo un’aria corrucciata, infastidito dai passi che provenivano veloci - quasi correndo verso di lui dal corridoio solitamente quasi deserto.
E in quell’attimo, occhi negli occhi, blu nel blu... Eve e Dex si scambiarono una lunga occhiata carica di ogni cosa
dimenticata, di ogni sentimento sino ad allora sopito... eppure silente. Poi si mosse verso la nuova venuta.
S’intesero subito, al primo sguardo. Tre lunghi anni non bastavano a separare l’istinto di due fratelli, che s’infransero
petto contro petto in un abbraccio violento e scosso dai singhiozzi soffocati di un ragazzo solo e afflitto, che fino
all’ultimo aveva sperato.
- Eve...- sospirò più volte, stringendo la sorella per le spalle e colmandosi del suo profumo così lontano e dimenticato,
ma d’un tratto intensamente vicino.
- Sono qui.- gli ripeteva lei, sforzandosi di trattenersi dall’impeto, sebbene una lacrima le rigò il viso pallido e latteo.
Una lacrima che Eve non asciugò, né trasportò via; stette lungamente stretta tra le braccia di suo fratello, rendendosi
conto che quello scricciolo che era, oramai l’aveva superata in altezza di una buona decina di centimetri. Poteva
avvertire di nuovo il suo calore, il suo fiato caldo e tremante infrangersi su una spalla, insieme alle gocce di pianto.
Era quasi strano tenere accanto al cuore qualcuno di cui aveva voluto allontanare il ricordo sino a qualche mese prima.
Un ricordo amaro, una cicatrice che per chiudersi necessitava il totale allontanamento dalla fonte di dolore. Non aveva
mai tenuto Dex così vicino a sé, se non nella prima infanzia... ed ora era quasi come trovarsi catapultata in quel
periodo di sorrisi e caramelle, dolcemente dimenticato ed amaramente rimpianto.
Lui si asciugò presto le lacrime con il dorso di una mano, fissando a terra ed infilandosi poi le mani nelle tasche dei
pantaloni. Quando alzò il capo era pronto a sorridere, seppure le gote arrossate. Oh, quel sorriso... quanto le pareva
opaco e trapassato, quasi parte di un’altra vita.
Adorabile angelo, i timidi e solitari occhi segnati dalla stanchezza facevano contrasto con il viso sereno e
malinconicamente sorridente.
La guardava senza aggiungere nulla, Eve. Sua sorella. Era cresciuta tanto; la cosa che aveva notato sin da subito era
l’altezza... ed i capelli che ora portava molto corti.
Il suo volto marmoreo aveva assunto lineamenti definiti più adulti, ora Eve poteva dirsi una donna... e questo creò non
poco sconforto nel cuore del giovane, consapevole oramai che il tempo trascorso andava ben al di là di quanto aveva
sino ad allora immaginato.
- Dov’è la tua treccia d’oro?- le chiese, sempre sforzandosi di sorridere e di non cedere all’impulso di gettarsi tra le sue
braccia e piangere ancora.
- E chi lo sa...- rispose lei con lo stesso sorriso ed una quasi rassegnata alzata di spalle.
67
- E così corri.- Già, ma ho intenzione di lasciar perdere. Non mi ispira più così tanto... non posso mangiare quello che voglio, avere
delle ore fisse di allenamento è dura e poi mi manca disegnare, mi mancano i miei progetti. Ho sempre qualcosa in
sospeso che rischia di cadere nel dimenticatoio...Dexter si stiracchiò, serrando le palpebre con delicatezza.
- E’ tipico di te.- sospirò, tornando alla realtà, mentre Eve si era voltava verso di lui con uno sguardo interrogativo sul
volto illuminato dai raggi del sole già alto nel cielo - Quando qualcosa comincia a farsi seria, te ne distacchi
completamente.La ragazza non si sentì colpita negativamente da quell’affermazione, già più volte il fratello le aveva rivolto frasi del
genere, in passato... e tutto quello non era motivo di amarezza, ma quasi debolmente fonte di una piacevole
consuetudine che non era cambiata affatto dopo tutto quel tempo, la consapevolezza di avere ritrovato in Eve qualcosa
che aveva lasciato, che non era mutata, che era sempre sua sorella.
- Già, che ci vuoi fare!- sospirò lei - Sarà un problema quando riceverò una proposta di matrimonio!- aggiunse con una
breve risata. L’altro si lasciò trasportare dall’ilarità e la spintonò lievemente con la falsa intenzione di farla cadere dalla
panchina in legno del piccolo cortile dell’ospedale su cui erano seduti, all’ombra di un imponente albero dalle diffuse e
rigogliose fronde.
- Attenta o diventerai una cicciona, se smetti di fare la velocista!- scherzò, mentre Eve si aggrappava allo schienale
per non finire per terra.
- Che fai, sfotti!?- lo attaccò con uno scatto repentino, grattandogli la testa biondissima con le nocche.
Dex si liberò dell’affettuosa stretta, poi si stiracchiò nuovamente e sospirò in un sorriso, lasciando ad Eve il tempo di
considerare strano come quel ragazzo non avesse perso il sorriso, pur vedendo suo padre in fin di vita in uno squallido
lettino bianco...
- E tu che mi dici?- gli aveva raccontato tutto di lei.
- Mh...- il giovane alzò le spalle, portandosi le mani dietro la nuca a sostenere la testa. Era una giornata limpida, le
nuvole passeggere si rincorrevano per quel cielo incredibilmente azzurro, dello stesso cristallino colore degli occhi di
Dexter.
Eve alzò lo sguardo, appoggiando un braccio allo schienale della panchina ed il volto ad una mano.
- Ti sei fatto grande, piccolo.- sussurrò, lasciando che la debole brezza le scompigliasse la corta frangia.
- Sì...?- il fratello si strinse nelle spalle - Ma ora non hai più scusanti, non mi puoi più chiamare piccolo, sono più alto di
te!- Ah, ci vuole poco ad essere più alti di me!- rise Eve di rimando - E poi pensavo che ti piacesse!- aggiunse, con un
moto di stupore.
- E’ da quando avevo cinque anni...- sorrise come un bambino. Placido e sereno, la replica di uno di quei sorrisi
infantili e senza pensieri che la sorella manteneva intatto in uno dei frammenti della propria memoria.
Era rimasta a guardarlo per lunghi istanti senza proferire più alcuna parola, la spensieratezza appena sfiorata se n’era
inesorabilmente andata, lasciando il posto non alla scontata malinconia, ma alla più nitida quiete.
L’ombra delle foglie mosse dal vento creava silenziosi giochi di luce sul volto del fratello, rendendolo muto e lontano
come un’antica scultura di cui non si conosce origine, né fine.
- Non voglio che tu mi odi. Non avrei dovuto lasciarti solo.- mormorò Eve, poco dopo, chinando lievemente il capo e
poggiando la guancia sull’avambraccio ancora addossato alla panca.
Lui non si mosse, era come se si aspettasse una frase del genere, o come se ciò che lei aveva appena detto gli
suonasse del tutto inutile, superfluo.
Voltò lentamente la testa bionda, socchiudendo le palpebre e schiarendosi la voce d’uomo.
- Sei mia sorella.- replicò naturalmente, ma con una gravità nel tono che lasciava trasparire tutta la maturità di un
ragazzo cresciuto troppo in fretta - Lo sei sempre stata, dovrei odiarti perché mamma e papà si sono separati?Eve sospirò pesantemente, sollevando il petto e riabbassandolo, tremante.
- Dovresti odiarmi per aver prorogato fino ad oggi. Per essere così poco risoluta, per...- Oh, piantala!- Dex le tirò un altro amorevole spintone - Non è questione di coraggio, io lo sapevo che saresti venuta.
Sei mia sorella, te l’ho detto, no?- aggiunse poi, offrendole la propria mano come appiglio. Quando la ragazza alzò il
capo, si specchiò nei suoi occhi fiduciosi ed afferrò la sua mano, stringendola forte.
Era come se tutto l’amore del mondo fosse canalizzato nelle sue dita; all’inizio le era parso che Dexter avesse imparato
con il tempo e con i drammi a non badare a più nulla, a non aspettarsi più niente dalla vita, cosicché ogni buona cosa
che ne veniva, potesse essere accolta come dono, con giubilo... ed invece... invece in quel momento si stava rendendo
conto che suo fratello non aveva mai smesso di sperare, che anche se il suo cuore era a pezzi non ne aveva gettato
via i cocci, convinto o forse aggrappato all’esile speranza e sogno di poterlo ricostruire, un giorno.
- Forse è meglio se la chiamiamo.- fece lei, tornando a sedersi accanto al giovane, che però scosse la testa.
- Non verrebbe.- asserì.
- E invece sì.- replicò Eve, mantenendo la stretta salda della mano. Dex alzò un sopracciglio, gettandole un’occhiata
tentennante, come se fosse bastata una parola sola per essere totalmente convinto a fare ciò che entrambi sapevano,
a fare ciò che andava fatto.
- Tentare...?- Tentare.- confermò lei.
Non le disse nulla di più.
Riattaccò il ricevitore, prima che potesse chiedere spiegazioni.
Le aveva solo fatto prendere nota dell’indirizzo e le aveva comunicato di venire il più presto possibile.
- Le hai detto nulla di papà?- le domandò Dex, quando Eve tornò dalla hall dei telefoni.
- Non potevo.- scosse la testa, trovandosi di nuovo a fissarlo in quegli occhi così simili ai propri - Voglio vederlo.annunciò poi, reprimendo in gola un ennesimo sospiro.
Fu condotta senza frasi di rito, né sciocchi intercalari nella stanza in cui riposava Damien Springer. Attraversò il lungo
corridoio con la stessa ansia e pesantezza che sentiva quando doveva coprire i cento metri che la separavano dal
traguardo, a passi lenti, vuoti, che rimbombavano nell’androne bianco.
68
Quando l’infermiera scostò la tendina candida, Eve poté constatare che ogni cosa era vera - nessun sogno l’aveva
ricondotta in Olanda - era tutta realtà.
Suo padre era malato. Gravemente malato.
Gli occhi azzurri infossati nelle cavità e semichiusi, persi, indistinti, spenti.
Era attaccato a delle macchine attraverso sonde, tubi, aghi.
Pallido, immobile. I capelli chiarissimi stavano quasi scomparendo, confondendosi con il colore bianco cadaverico e
giallastro dell’ittero della pelle. Era dannatamente giovane... eppure sembrava così vecchio e debole.
Si avvicinò al letto senza dischiudere le labbra, sino ad allora serrate l’una sull’altra - Dex le stava al fianco.
Le palpebre dell’uomo ebbero un fremito e si volsero lentamente verso la nuova venuta, che si era portata dinnanzi
alla finestra, schermandogli la luce tenue del sole ed apparendogli come eterea visione di qualcuno di trapassato.
- Nicholas...- sussurrò, facendo per muovere una mano verso la sagoma della ragazza.
Eve chiuse gli occhi e schiuse finalmente la bocca, facendosi avanti per permettergli di distinguere i lineamenti
femminili sul proprio volto.
- No, papà. Sono Eve.- disse, lieve.
- Eve...- ripeté lui, mettendosi a sedere aiutato da entrambi i figli.
- Ciao...- sussurrò la ragazza, tentando di reprimere un leggero moto di confusione dato dall’essere stata scambiata
per Nicholas in modo così inaspettato.
- Eve. Come stai?- ripeté l’uomo, protendendo entrambe le deboli braccia ed abbracciandola forte - Non credevo di
poterti rivedere... come stai, piccolina mia...? Sei cresciuta tanto... tanto...- Sto bene.- rispose lei, evitando di apostrofare uno squallido e fuori luogo “e tu?” e lasciando che il padre le passasse
una mano sui capelli, sorridendo debolmente e rimirandola sussultando a tratti.
- Sono contento... che tu sia venuta.Una sordida e strisciante rabbia le si era fatta largo nello spirito dal momento in cui suo padre le aveva rivolto il primo
sguardo... dopo anni.
Come poteva vederlo così e non fare nulla? Sarebbe morto. A settimane. Trapianto? Troppo tardi.
Quell’uomo avrebbe chiuso gli occhi per sempre, oramai il tempo era soltanto qualcosa di vacuo e superfluo. Aveva
aspettato troppo. Ed ora...? Ora non poteva compiangersi, Dex gliel’aveva già ripetuto mille volte. Ognuno, in quella
storia, aveva avuto il suo ruolo; inutile dolere delle proprie volute azioni.
Qualche giorno prima aveva chiamato la madre, che sarebbe arrivata oramai a breve. L’aveva fatta preoccupare
parecchio, nominando il reparto di terapia intensiva... ed ora era sicura che sarebbe stata da loro.
Aveva altresì richiamato più volte, ma Eve non si era sbottonata. Forse se sua madre avesse saputo il vero motivo per
cui la sua presenza era richiesta in Olanda, non sarebbe più venuta... o l’avrebbe fatto con pensieri di ogni genere in
mente. L’ansia non era certo una buona compagna di viaggio, ma era quantomeno meglio di ogni sentimento negativo
avrebbe potuto causare il rivelarle ogni cosa.
- Allora?Dex scosse la testa.
Stavano per perdere le speranza, quando una giovane donna dai lunghi capelli corvini si avvicinò a lei correndo.
- Eve! Stai bene, grazie al cielo!- la abbracciò con veemenza, ma la ragazza non disse nulla - Sei impazzita?! Perché
non mi hai detto nulla, che cosa ci...Fece per proseguire nel suo scatto d’apprensione, quando il suo sguardo superò la spalla della figlia ed incontrò gli
occhi limpidi di quel ragazzo che ogni giorno della sua vita si rammaricava di non poter stringere a sé.
- Dexter...- soffiò, sforzando di mantenersi lucida e non cedere ad uno svenimento improvviso.
L’ansia data dal silenzio di Eve e dal viaggio preparato così in tutta fretta... tutte le ore passate a congetturare cosa
potesse essere accaduto, ed ora... prima ancora che potesse pensarlo, le tracce di nero mascara si stavano sciogliendo
sul suo viso pallido, trasportate via da lacrime nervose.
Eve si sentì tutt’un tratto come stretta in una morsa di ghiaccio. Ma infondo non doveva essere anche lei triste per suo
padre? Per quell’uomo che avrebbe dovuto vedere come il papà di sempre, quello che l’aveva allontanata perché
somigliava troppo a Nicholas... Solo allora cominciò a nascere nella sua mente l’idea che probabilmente era Nicholas
ad assomigliare troppo a lei.
- Vieni con me.- le disse poi, prendendola per un braccio e senza darle il tempo di dare un abbraccio decente al
fratello. Non poteva fermarsi, non adesso. Quella sarebbe stata un’altra cosa che Dex avrebbe dovuto perdonarle, nel
corso del tempo. Se ci sarebbe riuscito, quello spettava soltanto a lui deciderlo... ora Eve sapeva che se avesse
permesso al vuoto di impossessarsi di lei per un solo, misero istante, sarebbe stata capace di lasciare cadere tutto compresa sé stessa - ai piedi di un letto bianco ed anonimo d’ospedale.
La condusse in quella stanza deserta e bianca... ecco cosa voleva farle vedere.
- Mio Dio...- mormorò la donna, bloccandosi.
- Narumi...?- disse flebilmente l’uomo disteso, mentre gli pareva di scorgere realmente il volto di colei che un tempo
era stata la sua appassionata consorte.
Lei non si mosse, rinunciò repentinamente allo slancio di tornare indietro per strappare un abbraccio a Dex. Tutto si
annullò in un istante solo, durante il quale i suoi occhi dal taglio orientale non incontrarono il corpo debilitato di
Damien, la sua pelle itterica ed i mille aghi che gli penetravano nella carne.
Rimase in piedi senza riuscire a controllare il senso di smarrimento, improvvisa indolenza, spasmo e nausea che le
aveva attanagliato lo stomaco, in un silenzio strano, teso, disperato. Poi scoppiò di nuovo in lacrime.
- Ma che... ma che ti è successo...??- urlò, gettandosi ai suoi piedi ed aggrappandosi alle sue mani bianche.
Alcune infermiere accorsero poco dopo, seguite da un medico in camice bianco e stetoscopio alla mano.
- Che succede qui!? Lo sa che non può...- la prima infermiera lasciò cadere la frase a metà, quando riconobbe i due
fratelli fermi sulla soglia ed intendendo che la donna in lacrime che strofinava il volto alle braccia del paziente doveva
esserne la madre.
Si trovò a considerare che si trattava una donna molto bella, persino con il volto distorto dal dolore di una scoperta
così improvvisa e terribile.
Poco più tardi tutto le fu più chiaro.
69
- Eve, perché non me l’hai detto subito?- Perché se l’avessi fatto, tu non saresti mai venuta.- fu la risposta della ragazza, che prese l’ultimo sorso dal bicchiere
d’acqua, poi lo riappoggiò sul comodino.
La donna tacque. Aveva ragione... non era altro che una vigliacca, non sarebbe mai andata se l’avesse saputo. Presa
dalla pena, dalla paura, da ogni piccola inquietudine, che si sarebbe trasformata in una mostruosa angoscia, si sarebbe
nascosta... finché tutto non sarebbe finito ed oltre.
Dio, era uno spettacolo orribile... quell’uomo ridotto ad uno straccio sul un lettino desolato in una clinica che non
aveva saputo ridonargli la vita.
- Mi dispiace infinitamente, signora... ma glielo devo dire: a suo marito non restano che poche settimane. Il tumore
localizzato è divenuto ormai inoperabile. Abbiamo tentato di proporre al signor Springer diverse volte terapie di
termoablazione, iniezioni percutanee di etanolo e chemioembolizzazione, ma si è sempre rifiutato. Se vuole seguirmi,
le illustro queste procedure.- il medico aveva proferito le parole che l’avevano fatto sentire in colpa già molte altre
volte; si lisciò il pizzetto grigio e la accompagnò fuori.
- Aspetti...- la voce debole dell’uomo interruppe la marcia dei due, facendo sì che i presenti si voltassero verso il letto Voglio che... che stacchiate queste macchine.- sorrise poi, placido.
- Cosa...?- domandò incredulo lo specialista.
- Ha capito cosa intendo. Credo che il destino si sia preso l’onere di riunire tutti qui, tutta la mia famiglia, prima che
me ne andassi... e penso questa sia un’occasione insperata, forse addirittura troppo per me. Ora che siamo qui tutti e
quattro insieme, vorrei dare l’ultimo addio alle persone che amo di più al mondo.- gli occhi della moglie si riempirono
nuovamente di stille di cristallo, mentre si portava una mano alla bocca per evitare che i singhiozzi si facessero troppo
acuti.
- Non voglio che restino ancora a lungo per vedermi deteriorare giorno per giorno. Immagino di essere già uno
spettacolo abbastanza pietoso, non voglio pesare di più. Facciamolo, per favore.La richiesta era stata portata avanti con un tono fin troppo formale, quasi gelido... quasi non si trattasse della vita, ma
di una decisione qualunque, professionalmente ponderata.
Ci vollero diversi minuti perché il dottore lasciasse la stanza - tra vani tentativi di convinzione e frasi mirate a
comprendere il reale stato d’animo del paziente - cosicché l’uomo potesse rimanere solo con i famigliari.
- Cosa sono quei musi lunghi?- sorrise, facendo un grande sforzo - Non ho nulla da recriminare, voglio che siate felici,
tutti voi.Narumi si avvicinò di un passo repentino, stringendogli di nuovo forte le mani. Tutt’un tratto si era ritrovata
inesorabilmente vicino al cuore di un uomo che aveva ingiustamente tentato di reprimere e dimenticare, ma che
dopotutto era rimasto sempre costantemente accanto al ricordo del suo figlio perduto, come ombra e come presenza.
- Perché non hai tentato di guarire?!- gli domandò con disperata aria di rimprovero.
- Perché... sono stanco.- un lungo sospiro rotto si fece largo tra il ventre gonfio e l’ampio ma debole petto dell’uomo
che una volta doveva essere stato prestante e sano - Ho dato tutto alla vita, mi sono sforzato di viverla ogni giorno al
massimo, senza rimandare, senza crucci, né pensieri. E non voglio che la mia condizione precluda a voi la possibilità di
farlo. Non voglio costringere i miei figli a vegliare sul mio letto per anni, portandogli via il periodo migliore della loro
vita, costringendoli a stare accanto a qualcuno che, anche con un trapianto, non avrebbe mai una possibilità di stare
bene. Finirebbero per odiarmi ed odiare loro stessi. Ho già perso un ragazzo, non voglio rendere schiavi anche loro...
anche te.- si specchiò nelle iridi scure della moglie, che d’un tratto aveva smesso di respirare, trattenendo il fiato - Sei
giovane, affascinante... e intelligente. Hai ancora il tempo di essere felice... io mi faccio da parte.Eve serrò la mascella, mentre Dex strinse più che poté i pugni delle mani per evitare di piangere, per evitare di
crollare. L’avrebbe fatto a suo tempo, quando ogni cosa che ora si muoveva caotica nel suo cuore si sarebbe quietata.
Poi il padre si rivolse a loro, con il medesimo sorriso provato.
- Siete cresciuti più belli di quanto immaginassi. Vivete le vostre vite nella gioia più intensa... e quando sarete tristi,
ricordate che potete ricominciare quando volete. Non vi frena nulla, siete liberi di fare le vostre scelte come io ho
compiuto la mia. E ora per favore, Narumi, non chiedere più. Ti sembrerà una frase fatta, ma forse un giorno capirai.- Papà...- sussurrò il ragazzo, mentre la donna non aggiunse nulla, si limitò a poggiare il capo pesante sulle lenzuola
azzurrine, accanto alle mani ossute del compagno.
E rimasero lì... anche il giorno in cui videro i suoi occhi spegnersi per sempre.
L’avrebbero ritrovato, forse, prima o poi, nei loro cuori - giusto il tempo di ricomporne i pezzi - come avrebbero
ritrovato Nicholas.
Ed avrebbero considerato entrambi parte di loro stessi, di nuovo.
Sarebbero venuti ad essere un ricordo dolcissimo, tenero e un po’ amaro... come il gusto di un caffè preso di fretta in
un bar alla stazione, mentre i treni passano e il vento porta via fogli anonimi di giornale, tra il mormorio frenetico della
folla e le mille direzioni che può seguire un binario.
Il sole al tramonto faceva capolino dagli alberi che costeggiavano la corsia.
Il punto cardine che doveva seguire, a cui si era riproposta di fare capo era la gratitudine che provava verso suo
padre... per ogni cosa.
Il paesaggio sfrecciava veloce alla sua destra.
Non si sentiva più in conflitto con lui, probabilmente ogni parola che le aveva detto aveva concorso a far sembrare la
scena più melodrammatica, ma in quel momento Eve si trovò serenamente a ringraziarlo con un muto sorriso per
averla messa al mondo, per averle regalato la cosa più bella che aveva, per averle insegnato il valore di una scelta.
Il taxi frenò ed i tre scesero quasi contemporaneamente.
Per quanto si fosse sforzata di reprimere ogni cosa, non poteva non ammettere che l’amava e l’aveva sempre amato
intensamente ed ora, forte del suo onore, non doveva far altro che vivere, solo... vivere. E lo avrebbe fatto - ora sì che
era completamente libera del peso intossicante della morte - e le sembrava di volare, se solo avesse avuto un paio
d’ali.
- Mamma...?- Dex sollevò il proprio zaino, poggiando una mano sulla spalla della donna - Ti posso chiamare ancora
così?La donna si fermò, l’intero aeroporto ghiacciò dinnanzi agli occhi oltremare del ragazzo, desiderosi di una risposta, di
un segno qualunque d’affetto. Eve avrebbe detto che la madre si sarebbe di nuovo lasciata andare ad una scossa di
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pianto... ed invece le sue labbra dipinte di tenue rosso si distesero in un sorriso così caldo ed avvolgente che le parve
d’essere tornata bambina, al tempo in cui la vedeva accoccolata in poltrona a cullare quel fagottino minuscolo tra le
braccia, illuminata dal sole del mattino che filtrava tra le imposte bianche semiaperte ed i ciliegi nel giardino
mandavano un inconfondibile profumo di primavera.
- Vorrei che tu non avessi mai smesso di farlo...- sussurrò al suo orecchio, traendolo a sé con un braccio, mentre la
ragazza si voltava con un sorriso sereno per pagare la corsa, lasciando ai due un nuovo attimo d’intimità.
Poche ore dopo erano di nuovo sul punto di salutarsi, al terminal. Sebbene Eve avesse già in programma un ritorno in
treno, così com’era venuta, la madre aveva insistito per farla tornare in aereo: così facendo avrebbe guadagnato più
tempo e accumulato meno stress. Protettiva fino in fondo.
- Sicura?- le chiese per l’ennesima volta, aggrottando le sopracciglia.
- Ma certo! Sono grande, ormai! E poi ho già il biglietto!- e per la milionesima volta, Eve le rispose le medesime parole
- Perché non ti occupi un po’ di Dex, ora? Preparati a diventare il cocco di mamma!- rise, lanciando una gomitata al
fratello, che si lasciò contagiare dalla battuta e le restituì l’affettuoso colpo.
- Non cantare vittoria, ti aspettiamo in Giappone!- sorrise, porgendole lo zaino che fino ad allora si era offerto di
portare per lei.
L’aereo per Tokio partì prima di quello per Amburgo, così - dopo saluti, promesse e raccomandazioni - i tre si
separarono ed Eve rimase un po’ di tempo ancora da sola, seduta sulla poltroncina della gigantesca sala, aspettando il
suo turno per il check-in.
Era accaduto tutto così in fretta, che ci avrebbe messo mesi per abituarsi all’idea, al fatto che ora che lei, la mamma e
Dex erano di nuovo insieme... residui di una famiglia spezzata, ma dopotutto ancora in piedi.
Avrebbero ricominciato daccapo, ma questa volta sarebbe stato per sempre - ed uniti. E non avrebbe pianto, né
abbassato lo sguardo d’ora in poi, quando si sarebbe parlato di Nicholas o del padre. Avrebbe sorriso, pensando che le
vite che entrambi avevano vissuto erano state sentite con ardore e lei aveva dedicato loro tutto l’amore del mondo.
Si sentiva tremendamente lontana anche da quel brutto periodo, scuri anni di sedicenne scontrosa e selvatica, quando
credeva che il mondo era nero e buio, atroce e cattivo e le persone false e bugiarde. Quando trattava tutti come piccoli
vermi striscianti, umiliava e faceva soffrire le persone per non finire vittima di un altro, tremendo dolore com’era stato
perdere la sua perfetta metà e vedere la propria famiglia disfarsi come una statua di sale.
Era morto, scomparso per sempre dal mondo, l’uomo della sua vita.
L’aveva amato col cuore, con l’anima - non aveva mai smesso di farlo, infondo, e lo sapeva bene, Narumi, madre e
moglie. Sapeva bene che se fosse rimasta al fianco di Damien, probabilmente prima o poi sarebbero finiti entrambi
nell’apatia più totale, seguitando ad incolparsi per la perdita di Nicholas, per la disattenzione come genitori, per
l’inadeguatezza ed ogni carenza, su ogni fronte.
E così si erano lasciati quella mano che si erano stretti per anni, prendendo direzioni diverse, provando a dimenticarsi,
tentando di disprezzarsi.
Eppure... eppure.
Ma ora doveva guardare avanti, per il bene dei suoi due ragazzi e per il proprio.
Felicità. Il sogno che aveva da tempo, desiderava realizzarlo in qualunque modo.
Era riuscita lentamente a vincere la depressione, a non dipendere più dai farmaci. Aveva sconfitto i fantasmi del
passato ed ora si sarebbe detta capace di vivere senza angosce, senza dubbi che le martellavano il cervello... dubbi di
non essere una buona madre, una buona persona, una buona donna.
Niente era perfetto, certo, questa era forse l’unica cosa di cui era certa, ma poteva rendere tale ciò che amava di più e
con esso rendere felici i suoi figli. Dex. Eve. Perché, dopotutto, non è il raggiungere la compiutezza, ciò che rende
pienamente fieri ed appagati, ma gli sforzi che si fanno per raggiungere una perfezione che forse non arriverà mai, ma
che i cui risultati sono in grado di scaldare il cuore, anche dopo anni di gelo.
Si era sentito vuoto per troppo tempo, era cresciuto repentinamente da un momento all’altro, quando gli avevano
detto che suo fratello maggiore non c’era più, li aveva lasciati... era volato in cielo. Mille volte si era soffermato a
guardare quello stesso cielo, sperando che prima o poi le nuvole gli restituissero Nicholas.
Eve era diventata fredda, selvatica, scontrosa ed aggressiva. Ciò che la circondava aveva perso ogni valore e si era
trovata a rifiutare qualsiasi rapporto umano, divenendo per contro iperprotettiva nei suoi confronti, trattandolo come
cristallo, arrivando addirittura ad alzare le mani su qualcuno che aveva la sfortuna di lanciargli uno sguardo non
proprio benevolo.
Poi si erano separati e lui era stato catapultato in un mondo totalmente nuovo. Aveva dovuto imparare a cavarsela da
solo, ad ambientarsi in un continente così diverso e che solo col tempo aveva smesso di parergli strano.
Ciò che ora si sentiva di fare era il riscattare tutto quello che si era perso in quegli anni, fingendo di sembrare forte,
ma in realtà soffrendo terribilmente per essere stato sradicato e buttato a mare, dovendo ancora imparare a nuotare.
Sorrise, mentre voltò il capo dal viso provato della madre - reclinato dolcemente sulla sua spalla - ed andando a
rivolgere lo sguardo limpido ai gonfi e voluminosi cirri nivei fuori dall’oblò del finestrino, come a dire nuvole, tenetevi
Nicholas... e papà. E’ con voi che devono stare.
CAPITOLO 10 – La nazionale
- Ehi!- fu la prima, sorpresa esclamazione che le sfuggì dalle labbra, quando incontrò Ren seduta al tavolino della hall,
intenta a sistemarsi il colletto di una camicetta scollata.
- Eve!- fece quella, di rimando, saltando su e correndole incontro - C’è poco da stare allegri, la Rama è nera di rabbia!
Ma dove sei stata?! Senza dire nulla! Che cavolo...- fece poi, dando un occhio all’orologio ed afferrando la borsetta per
poi sfrecciare fuori dall’ostello - Ti aspetta su...- aggiunse in tutta fretta, andando incontro ad un tizio dall’aria tutta
tedesca a cui la compagna non badò molto, vista l’impossibilità di riconoscerne i lineamenti, data a sua volta
dall’essere in controluce ed abbagliata dal riflesso della porta girevole che in quel momento catturava i raggi del sole e
li direzionava giusto nei suoi occhi.
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Bell’accoglienza dopotutto, si trovò a pensare, mentre saliva le scale e raggiunse la propria camera. L’allenatrice la
aspettava - dopo la telefonata ricevuta appena atterrata all’aeroporto di Amburgo - camminando nervosamente per la
stanza.
- Springer!- tuonò, non appena la vide - Sei giorni! Sei! Ma dove diavolo sei stata!? Cosa ti è saltato in mente!? Potevi
almeno avvisare!! Dove diavolo sei andata a cacciarti!?- ripeté, decisamente più che nero, il suo volto aveva assunto
una colorazione paonazza.
- In Olanda.- rispose semplicemente, stringendosi nelle spalle e non concedendo nient’altro all’allenatrice.
- Chi ti ha dato il permesso!? E a fare cosa?! Sei sotto la mia responsabilità, indipendentemente dal fatto che tu abbia
superato o meno la maggiore età!!- sbraitò di nuovo la donna, i cui pendenti tintinnarono rabbiosamente e la bocca si
apriva in maniera spropositata e quasi spaventosa agli occhi silenti di Eve.
- Lo so, mi scusi.- fece di nuovo la ragazza, con tono noncurante, quasi indifferente. Questa volta Mihoko Rama sentì i
propri nervi spezzarsi, la faccia tosta di quella ragazzina era insopportabile, come poteva rimanere impassibile dopo la
gravità dell’azione che aveva compiuto?!
- Non prendermi in giro, Springer! Sei fuori dalla squadra!- poche parole, il concetto era chiaro.
- Come vuole.- disse la bionda, alzando nuovamente le spalle. L’aveva bene messa in conto una conseguenza del
genere, addirittura come uno dei mali minori che potevano venirne. La donna - infastidita e irritata più che mai - voltò
i tacchi ed uscì dalla stanza, sbattendo la porta con un movimento repentino del braccio. Se fosse rimasta un minuto di
più, probabilmente avrebbe finito per metterle le mani al collo!
- Scommettiamo che domani verrà ad implorarmi di ritornare?- fece Eve, con la medesima leggerezza nel tono, rivolta
a sé stessa, più che ad un interlocutore invisibile che s’immaginava avesse assistito all’intera scenata.
Aveva fatto i suoi calcoli molto meglio dell’allenatrice, lucidamente ed alla luce di ogni variabile e, sebbene tutto fosse
accaduto così rapidamente e quella donna fosse decisamente fuori di sé, di certo Eve aveva considerato il punto
cardine dell’intera impresa che la Rama mirava a farle svolgere.
- Ed ecco perché ti chiedo di tornare a far parte della squadra.- concluse, trattenendo un moto di stizza e tentando di
mantenere il controllo; dopo la sfuriata del giorno prima, l’aveva decisamente data vinta ad Eve, che dal canto suo se
ne stava seduta in poltrona con le braccia incrociate, un sopracciglio alzato ed abbigliata ‘in borghese’ con una canotta
nera a pieghe ed un paio di jeans chiari piuttosto larghi per la sua vita sottile.
- Ci avrei giurato!- fece la ragazza, non riuscendo a frenare un mentale complimentarsi con sé stessa per aver previsto
tutto in modo esatto. Il mondo della Rama era incentrato sui nuovi talenti, non poteva privarsi di lei, sarebbe stato un
terribile spreco di fama - ovviamente per sé stessa, non certo per l’atleta in questione.
- Attenta Eve!- fece quella con un pugno serrato sul tavolo, irritata dal fatto che oramai Eve pareva aver scoperto il
gioco - O questa è l’ultima gara che correrai!- Lo so bene.- affermò la bionda, chiudendo gli occhi - Sarà l’ultima.Di certo l’allenatrice non si aspettava una replica del genere. Sapeva bene che quella ragazzina era difficile da
smuovere, ma certamente non avrebbe mai confidato in una risposta così condiscendente.
- Come...?- si trovò senza parole, prendendo a fissarla in modo strano.
- Dopo questi mondiali non correrò più.- annunciò l’altra, confermando alla Rama di aver sentito bene.
- Ma sei impazzita!?- ci volle poco perché la donna saltasse su di nuovo, realizzando le intenzioni dell’atleta che sedeva
di fronte a lei con sguardo distaccato e recependo finalmente il messaggio - Ti rendi conto o no delle possibilità che
hai, diventando una velocista di prima classe!?- di nuovo un’esclamazione stralunata, accompagnata dal gesto nervoso
di passarsi una mano tra i cortissimi capelli scarlatti.
- Rendersi conto non significa accettare l’opzione.- Eve incrociò le mani al petto, intrecciando le dita - E correre non è
quello che desidero fare. Se voglio vivere veramente come dico io ed esserne felice, devo fare ciò che più mi piace.La Rama pareva non essere per nulla d’accordo, prese piuttosto a fissarla come avesse parlato arabo o in qualche
idioma indecifrabile e perciò incomprensibile.
- Hai preso della droga, in Olanda?!- non si risparmiò una maligna allusione - Non parlarmi come se fossi Buddha, tu
hai perso la testa!!- di nuovo una nota stridula nella voce spazientita.
A tratti Eve si cominciava a chiedere cosa mai avesse preso all’allenatrice. Sembrava un’indemoniata, non l’aveva mai
sentita urlare in quel modo e decisamente stava rischiando di farle saltare i nervi - oltre che i timpani - per cui si
decise a troncare la discussione.
- So benissimo che per lei e la sua carriera sono importante, per questo mi ha chiesto di ritornare nel gruppo.- i suoi
occhi di ghiaccio percorsero il volto della donna con silente flemma - Ma non posso trattenermi oltre il mondiale. Ho
lavorato sodo e vi parteciperò, ma la mia non è una passione.Si risparmiò dal dirle che aveva pensato e spiegato mille volte che la corsa era sempre stato un modo per allontanare i
problemi e tenere occupata la mente. Non voleva farlo per tutta la vita, non voleva finirne divorata. Avrebbe
conservato un piacevole ricordo, ma nulla più. E nulla di meno.
L’altra si zittì. Allora l’aveva capito? Che quella ragazzina avesse compreso ciò che la muoveva di certo non era
lusingante, ed un attimo di reticenza le si fece largo nella mente.
Di certo non poteva costringerla, nemmeno offrendole sacchi d’oro. Poteva solo sperare che tutto fosse momentaneo e
seguitare a tentare di convincerla con pazienza e pacatezza nelle settimane a venire.
- Fa un po’ come credi, Springer...- concluse poi semplicemente, lasciandosi cadere rassegnata sulla poltroncina dietro
la scrivania, mentre Eve lasciava l’ufficio.
- Ehi, Karl Heinz!- Ren gli si avvicinò correndo, mentre lui le sorrise e le fece cenno con la mano.
Non appena l’ebbe raggiunto la ragazza gli stampò un bacio sulla guancia, per poi tornare a guardarlo negli occhi ed a
sciogliersi sotto il suo sguardo da principe.
- Ciao...- ripeté poi, più pacata e timidamente.
- Sai dove posso trovare Eve? Dicevi che è tornata ieri.- le chiese poco dopo, mentre lei abbassò le mani dalle sue
larghe spalle e gliele portò al petto.
- E’ in camera.- rispose, accompagnandolo fino al pianerottolo, poi lasciò che il bomber salisse e bussasse alla porta.
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Eve gli aprì con aria indaffarata ed evidenti difficoltà a sistemarsi l’incrocio elastico del top da allenamento sulla
schiena. I suoi occhi poco attenti in quell’istante non mancarono di avere un palpito di sorpresa, trovandosi di nuovo di
fronte a Schneider.
- Ehi, che ci fai qui?- gli domandò, abbandonando la soglia e lasciando che lui entrasse, tornando dinnanzi allo
specchio a figura intera e voltandogli le spalle per tentare di risolvere il problema.
- Allora ci sei! Dove ti eri cacciata?- le sorrise di rimando, chiudendo la porta dietro di sé.
- Mh... - finalmente l’incrocio pareva andare come doveva andare - Mi serviva una breve pausa.- fu la vaga replica
della bionda, che repentinamente si sedette sul bordo del letto per allacciarsi le scarpe.
- Oh, a proposito!- scattò, associando il movimento alla figura del nuovo venuto - Mi hanno detto che sei stato tu a
portarmi dentro al campo, quando sono svenuta... beh, grazie.- fece, lanciandogli un’occhiata riconoscente.
Karl arrossì di colpo al ricordo di cos’era accaduto poco dopo, così si voltò e, mantenendo la sua aria signorile, prese a
fissare un punto imprecisato al di là della finestra.
- Di nulla.- ribatté, annuendo convinto.
- Qualcosa non va?- gli chiese preoccupata, facendosi vicino per afferrare il cappellino da baseball sulla scrivania. Era
decisamente indaffarata e poco concentrata su di lui.
- No, no. Tutto okay.- le disse, voltandosi di nuovo e sorridendole. Questo doveva fargli intendere che Eve non
ricordava... del bacio, perlomeno. Sicuramente dormiva, anche se quasi avrebbe preferito sperare fosse stata
cosciente, accantonando l’incertezza ed andando dritto al punto.
- Tra poche ore sarà qui la nazionale giapponese.- fece poi, cambiando repentinamente discorso.
- Lo so!- fu l’esclamazione euforica di Eve - Non sai quanto ho aspettato questo momento!Schneider fu investito dalla vitalità della frase, lasciandosi andare ad un commento che subito dopo ritenne sciocco.
- Allora tiferai Giappone?Eve lo guardò di sottecchi, con aria sorniona.
- Beh, se vuoi alzerò una bandierina anche per voi!- sorrise, lo stava evidentemente prendendo in giro. Ma Karl sorrise
di rimando, lasciandosi alle spalle l’ostacolo dei pensieri che avevano preceduto quelle parole.
- Anche se Wakabayashi sarà in porta?- le domandò a bruciapelo, tentando di punzecchiarla laddove sapeva essere un
punto conosciuto e instabile. Forse l’unico punto conosciuto, ora che ci pensava bene... di Eve sapeva davvero così...
estremamente poco.
- Oh, no. Quello lo escludo categoricamente! Sarà Wakashimazu il titolare!- fu come se al pronunciare il nome di Ken i
suoi occhi celesti avessero assunto un tono mille volte più luminoso e fiducioso.
- Oh.- a Karl non venne in mente più nulla da dire al riguardo, se non una breve esclamazione intesa ad affermare che
aveva capito - seppure quasi sorpreso da quel nuovo slancio da parte della ragazza.
- Scusa se non mi trattengo oltre, ma stavo andando a fare gli ultimi allenamenti della settimana. Pochi giorni e poi il
grande incontro col resto del mondo.- sorrise, accompagnandolo sul pianerottolo e chiudendo la stanza a chiave, per
poi infilarsela nella tasca della felpa grigia - Beh, ci si vede!Sparì giù dalle scale in un battibaleno, così velocemente che Schneider si chiese se mai si fosse realmente accorta
della sua presenza; rimase in piedi a guardarla andare via dalla finestra del corridoio che dava sulla strada e
considerando che, accidenti, si era preso proprio una bella cotta.
Forse l’insolita iniziativa che quella ragazza aveva preso con il voler sfidare Genzo, forse il suo essere sempre così
elusiva... e forse proprio il fatto di non sapere proprio nulla di lei, se non le cose essenziali, avevano concorso a farlo
sentire inevitabilmente affascinato dalla sua persona.
Ma... allora, si chiedeva, perché mentre Eve era via, aveva baciato Ren?
All’inizio aveva accettato di uscire con lei pensando si dovesse ambientare ed avesse bisogno di qualcuno della città
per farlo... eppure era successo. Si era lasciato trascinare anche il giorno successivo in un incontro che non aveva più
nulla del ritrovo, ma aveva preso la piega di un vero e proprio appuntamento.
Ren era carina, simpatica, una ragazza solare e decisamente disposta a mettere in gioco ogni cosa e fin dal primo
istante. L’aveva compreso addirittura al termine del loro primo incontro, gli era bastato chiacchierare un po’ con lei
perché gli venisse presentata l’intera vita, i gusti, le preferenze di quella ragazza che, nella timidezza, era risultata
comunque molto appassionata.
E come in ogni finale che ci si aspetta perfettamente, era scappato il bacio. Anche se, considerando le cose, era stata
forse un po’ lei ad essergli saltata addosso... certo non gliene faceva una colpa, dal momento che si era trovato a
ricambiare il contatto con il medesimo trasporto.
Ed ora? Come fare per spiegare a Ren che era stato tutto un malinteso... e che prima che Eve partisse, aveva baciato
lei, sebbene questa non potesse ricordarlo e, soprattutto, paresse tutta presa dalla nazionale nipponica. Inoltre
cominciava a balenargli in mente il sospetto che fosse interessata ad un soggetto preciso degli undici; al solo nominare
Wakashimazu Eve era scattata come una molla... ed ora che ci pensava bene, l’aveva nominato e difeso anche la
prima volta che avevano avuto occasione di parlarsi...
- E così questa è la Germania...- Misugi scrutò il paesaggio con aria attenta e soddisfatta - Proprio come la ricordavo.Il sole si infrangeva leggero sulla sua fronte, rivolta al verde degli alberi del grande viale che costeggiava i campi. Era
quasi un idillio - quasi, perché una presenza fin troppo vivace concorreva a turbare la quiete dell’arrivo.
- Dov’è Schneider?! Eh?! Lo incontriamo, vero??Una presenza che Takeshi riusciva a sopportare a stento anche nel vecchio continente.
- Piantala, Mizuki! Ma perché l’abbiamo portata!?- sbuffò, alzando gli occhi al cielo e sprofondando nel sedile del
pullman, accanto al finestrino.
- Forse perché mio padre è stato incaricato di seguire la nazionale juniores in trasferta mondiale, te l’ho già detto che
è il miglior reporter sportivo di tutto il Giappone?! Mi ha permesso di venire perché sono dolce, carina e di compagnia!la ragazza si ravviò una ciocca di lunghi capelli ricci dalla fronte, poi si arrangiò la maglietta con la stampa ‘Bier? Hier!’
di modo che chi non l’avesse ancora vista, potesse saggiare del suo tocco di classe a tema.
- Ah, sì? Non ti ha portata perché l’hai pregato fino all’estremo?- il ragazzo roteò di nuovo gli occhi - E poi levati quella
maglietta, sembri un’ubriacona!Mizu non la prese bene, gli rifilò un doloroso pizzicotto su un braccio, portandosi le mani ai fianchi.
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- Punto primo, io non prego nessuno! Secondo, carino, guarda che la maglietta è di buon auspicio! Non mi piace per
nulla la birra, se la vuoi sapere tutta, ma qui siamo nella patria del luppolo e voglio sembrare simpatica e gradevole! E
poi se non ti va di stare in mia compagnia puoi anche girare al largo e non starmi appiccicato!!- esclamò infine,
stizzita, potendo finalmente riprendere fiato.
- Ne avete ancora per molto, voi due?- questa volta fu Kazuki ad alzare gli occhi al cielo.
Uno spaesato Tsubasa si sporse dal sedile anteriore, rivolto ad un quasi irritato Kojiro.
- Sono così tutti i giorni?- rise.
- Tutti i giorni.- confermò Hyuga, portandosi una mano alla fronte e massaggiandosi le tempie. Quei due gli avrebbero
fatto venire l’emicrania ancor prima di scendere dal bus.
Qualche minuto di viaggio ancora e la nazionale giapponese poté fare il suo ingresso nell’hotel in cui avrebbe dovuto
alloggiare per il resto del soggiorno in città. In quella parte di Amburgo c’erano diversi alberghi e strutture sportive
adibite per l’occasione del torneo internazionale di rugby, di calcio juniores e le olimpiadi giovanili di atletica.
Si trattava di eventi mondiali promossi in contemporanea per incentivare lo sport agonistico a livello giovanile e
intercontinentale ed il tutto si sarebbe svolto durante quell’estate assolata nell’accogliente Germania.
Ken si stava giusto chiedendo quando Eve avrebbe disputato la prima gara, ma i suoi pensieri furono interrotti da un
impeto di folla dell’intera squadra verso un punto preciso della hall.
Si avvicinò anche lui, richiamato da un altrettanto stranito Misaki per scoprire la fonte di tanto entusiasmo: Genzo
Wakabayashi uscì dall’ascensore con il cappellino calcato sulla fronte. Ci volle un attimo perché alzasse la testa, si
fermasse e sorridesse all’intero gruppo, ben conscio che tutti gli occhi erano canalizzati su di sé.
- Si è messo in posa. Si è messo in posa, da non credere.- Ken non seppe trattenere un’uscita a bassa voce tra
l’ironico e lo stralunato - Potrebbero scritturarlo per uno di quei telefilm cult americani, quelli di nicchia, ma che presto
diventano un fenomeno mondiale. Poi tutte le ragazzine comprerebbero le sue figurine, attaccherebbero il suo poster
al muro e...- Kojiro gli tirò una salutare gomitata ad un fianco, frenando il suo sarcasmo e lasciando che i due portieri
si fissassero, sorridendosi - ma non troppo - con aria di sfida.
E dopo l’ovazione, il festeggiamento, il giubilo per Wakabayashi - dovuto principalmente al fatto che non si faceva
vedere da tre anni, oramai - Wakashimazu poté raggiungere finalmente la propria stanza.
- Che fai, Kojiro? Entri o pianti la tenda in corridoio?- disse, seccato. Il capitano gli lanciò un’eloquente occhiata delle
sue, poi fece il suo ingresso in camera - luminosa e spaziosa, degna di personalità illustri, sebbene lui non si sentisse
per nulla tale e né s’era mai posto la questione.
Ken buttò lo zaino per terra, che si fermò pesantemente sul pavimento. Le valigie sarebbero state scaricate e
trasportate a tempo debito dagli addetti.
- Ehi, calmati o Genzo ti straccerà, se sei nervoso non concluderai niente.- Kojiro aveva poca voglia di discutere,
sospirò e si distese sul letto, sprofondando nel materasso. Ken era andato così bene fino ad allora, perché avrebbe
dovuto farsi venire la bile per la sola presenza di Wakabayashi...?
- Ci vediamo!- Eve si fece largo tra la folla di ragazzi che attendevano il loro turno per gli allenamenti della maratona
ed uscì di nuovo dal campo, diretta negli spogliatoi.
- Sì... allora chi è!?- una voce femminile tutta eccitata la raggiunse, investendola in pieno non appena fece il suo
ingresso nel piccolo ambiente illuminato dalla lampada rettangolare.
- Ehi! Ciao, che succede?- salutò la bionda con noncuranza, appoggiando il borsone alla panca e prendendo a rovistarvi
all’interno alla ricerca di un asciugamano per la doccia.
- La nostra Ren ha una storiella con un campione, ma non ci vuole dire chi è!- disse la ragazza dai capelli corti che
aveva appena parlato. Era la terza migliore del Giappone, si chiamava Eiko e veniva da Sendai, sul fiume Hirose.
Portava le ciocche nere non troppo lunghe sempre raccolte in un codino ed al principio aveva mostrato un po’ di
diffidenza nei confronti delle due del Toho, forse gelosa del fatto che fossero giunte insieme ad occupare le posizioni
più alte della classifica nazionale... o forse per semplice iniziale snobismo, che si era col tempo placato per lasciare il
posto ad un amichevole sorriso.
- Un campione? Allora, Ren, chi è?- sorrise Eve, togliendosi la maglia e prendendo ad armeggiare con le scarpe ed i
calzoncini. La compagna si vedeva messa alle strette, da quando aveva confidato a Eiko dei suoi appuntamenti, la cosa
pareva essere destinata a diventare di pubblico dominio.
- E va bene...- sospirò, rassegnata ma anche lusingata dal fatto di frequentare una così invidiata personalità - Si... si
chiama Karl Heinz...- arrossì nel pronunciare il nome del ragazzo a cui aveva preso a pensare giorno e notte.
- Schneider!? Il bomber tedesco??- il grido di Suzue le colse di sorpresa. Lei si era classificata quarta alle nazionali, era
soprannominata la gigantessa di Shizuoka per la sua considerevole altezza. I capelli castani le arrivavano giusto alle
spalle ed i grandi occhi del medesimo colore erano sempre vigili ed attenti, pronti quasi a scattare come quelli di un
gatto laddove percepiva il minimo cambiamento d’aria. Era una ragazza molto divertente, era piuttosto brava ad
imitare i personaggi della tv, ma ancora di più quelli realmente esistenti... e quando aveva incontrato la Rama ed
aveva preso a farle il verso, Eve e Ren ricordavano di essersi spanciate dal ridere per una giornata intera.
- Zitta!- Ren arrossì ancora di più e le tappò la bocca con la mano.
- Ehi, allora si dà da fare con le nuove arrivate, il biondino!- sogghignò Suzue, da dietro le sue dita - E poi perché
nasconderlo? E’ una bella cosa, no?- S... sì...- mormorò l’altra, come una bambina timida.
Eve sorrise. Ah, ecco perché Schneider gironzolava così spesso per l’ostello e spesso le capitava di ritrovarselo in
camera nei momenti più strani...
- A proposito di bei calciatori...- intervenne, con sguardo ammiccante - Lo sapete che i nostri sono qui?- Che!? La nazionale di calcio!? Di già!? Io sapevo che sarebbero arrivati la prossima settimana!- Eiko sgranò gli occhi,
colta di sorpresa, mentre Eve riassumeva un’aria maliziosa.
- Sì, e io ho tutta l’intenzione di andarli a trovare oggi, al primo allenamento utile.Tatsuo Mikami assisteva agli allenamenti con piglio severo, al suo fianco Munemasa Katagiri, sigaretta alla bocca.
Avevano discusso a lungo sui probabili errori di formazione, cosicché potessero decidere per quella definitiva senza
ulteriori intoppi. Ciò che era certo era che Misaki e Oozora sarebbero stati collocati a centrocampo, e con Kojiro in
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attacco avrebbero sfondato le difese avversarie con grande fermezza; la risolutezza del numero nove era conosciuta
ben oltre gli schemi di gioco.
Il problema che ora si stavano ponendo era il decidere quali difensori schierare ed il portiere che sarebbe stato titolare.
Wakashimazu era migliorato parecchio e Katagiri aveva aguzzato l’occhio ben prima del commissario tecnico,
riconoscendo in Ken miglioramenti fin troppo evidenti. Ciò che si domandava in quel momento era se anche Mikami
avesse notato il medesimo sviluppo delle doti dell’estremo difensore e lo stesse confrontando con Wakabayashi, il suo
pupillo di sempre.
I nomi di Makoto Soda e Hiroshi Jito erano già stati annotati sul taccuino dell’allenatore, erano dei grandi difensori,
fuori e dentro l’area di rigore erano capaci di creare un vero e proprio muro invalicabile ed era evidente li ritenesse
molto validi.
- Un 5-4-1?- chiese Munemasa, a puro scopo informativo.
- Già...- rispose pensoso Tatsuo.
- Che c’è?- domandò ancora il primo, notando l’apprensione dell’allenatore.
Il responsabile stampa, il signor Awashida, ascoltava la conversazione tra i due, voltando di tanto in tanto la testa per
dare un occhio alla giovane figlia che stava seduta sulle gradinate ad ammirare i bei ragazzi che le sfilavano dinnanzi
in campo. Mizuki fece un cenno con la mano al padre, accompagnandolo con un sorriso a trentadue denti, poi tornò ad
appoggiare la testa sul palmo della mano ed a mirare i giocatori con aria sognante. Una pacchia, decisamente.
- Hai notato Wakashimazu?- replicò Mikami, di rimando.
- Certo. Non passa di sicuro inosservato.- Katagiri aveva appena avuto la risposta alla domanda che si era posto
qualche istante prima - Ha fatto progressi stupefacenti.- soggiunse poi, sistemandosi gli occhiali scuri.
- Esatto.- il sospiro del più anziano dei due era grave e apprensivo - Sto pensando seriamente di schierarlo sin dal
primo incontro, nonostante la presenza garantita di Genzo.- fece, mantenendo lo sguardo fisso sul ragazzo che si
apprestava a calciare una saetta verso Sano. Il talent scout rimase qualche istante soprappensiero.
- Che dirà Wakabayashi?- esordì qualche attimo dopo.
- Genzo è un gran portiere, la sua tecnica è stabile. Ed io lo conosco bene, fin troppo bene. Sia lui che Wakashimazu
hanno fatto grandi progressi in questi ultimi anni, ma è come se il miglioramento di Genzo si eclissi in confronto a
quello di Ken. Il nostro giovane karateka mi ha stupito... ed immagino abbia in serbo ancora molto per noi. Sarebbe da
irriconoscenti, inoltre, non dargli un’immediata possibilità.Il suo interlocutore rimase pensieroso. Certo sarebbe stato un cambiamento, se davvero Ken fosse stato rivestito di
tale carica sin dal principio. A dirla tutta non gli dispiaceva; aveva visto quel ragazzo ad ogni torneo crucciarsi per
essere secondo, anno dopo anno... e se lo sarebbe meritato davvero, il posto.
- Non crede che, invece, sarebbe meglio tenerlo per le partite oltre gli ottavi?- sollevò invece una repentina questione
tecnica, alla quale però, Mikami seppe tener testa con sguardo altero.
- Ogni partita è importante, non sottovalutare questo mondiale, Katagiri.- mormorò, il tono basso e quasi con una
punta di rimprovero tra una pausa e l’altra, poi si portò le mani a megafono alla bocca.
- Basta così! Venti minuti di pausa e poi si ricomincia!- annunciò voltandosi, diretto nel suo ufficio.
- Ci siamo.- si disse Eve.
Ren camminava accanto a lei, pensierosa, stretto al petto il pass che attestava la loro appartenenza alla federazione
sportiva, tanto da permettere di entrare negli impianti agonistici senza troppi problemi. Aveva insistito perché la
compagna la portasse con sé, curiosa di vedere da vicino quelli che erano stati definiti stelle nascenti del calcio
giapponese.
Le due avevano attraversato il lungo corridoio semi illuminato, per poi essere investite dalla brillante luce del sole, una
volta sul campo erboso. Fecero per muovere i primi passi verso il gruppo di giocatori riunito poco lontano, quando una
voce le sorprese alle spalle.
- Ehi, voi due! Chi siete?- era un tono categorico, ma conosciuto.
Eve si voltò lentamente, come se più che da quel richiamo perentorio, fosse stata attratta da una goccia di passato.
Ci vollero diversi secondi perché colui che aveva parlato si abituasse alla vista dei suoi occhi azzurri, di nuovo dopo
tanto tempo. Il cannoniere spalancò le palpebre, non credendo ai propri occhi... anche se era controluce poteva
distinguere il corpo snello ed i lineamenti del viso di quella ragazza - che oramai erano diversi mesi che non
incontrava. Indossava un paio di jeans lunghi e risvoltati sulle scarpe dalle stringhe slacciate ed una canottiera bianca
che le fasciava le forme sul petto, sugli avambracci delle polsiere dello stesso colore... e gli sorrideva.
- Eve!- esordì finalmente Kojiro, enfatizzando il tono con un sorriso. Accidenti, di certo non si aspettava di incontrarla
come infiltrata, pensava ad un incontro un po’ più formale, ma tutto sommato era contento di rivedere quella peste anche così inaspettatamente. Immaginò immediatamente la faccia che avrebbe fatto Ken, gli sarebbe preso un colpo...
senza nessun preavviso!
Takeshi, al suo fianco insieme ad un altro ragazzo, curvò le labbra nello stesso stupito sorriso e le corse incontro
insieme a Hyuga, che le aveva già stretto amichevolmente la mano e le domandava come fossero andate le cose fino
ad allora. I tre presero a parlare fitto fitto per qualche istante, finché Sawada non si accorse di aver mollato
asciugamani e bottiglie d’acqua al ragazzo che era rimasto indietro. Il povero Oozora, infatti, era rimasto in disparte
con il carico tra le braccia ed un’espressione sorpresa sul volto... la stessa che contraddistingueva Ren nello stesso
istante, poco lontano da Eve.
- Aemh... scusa... Eve, lui è il nostro capitano: Tsubasa Oozora.- soggiunse Takeshi, invitando il numero dieci a farsi
avanti e riprendendo la propria parte dalle sue mani - E lei è Eve Springer, corre per il Giappone nei mondiali di
atletica leggera e... beh, frequenta il Toho.I due si scambiarono uno sguardo sereno ed un lieve inchino.
- Piacere.- fece lei, notando solo allora la stranamente silenziosa compagna di squadra alle proprie spalle - Ah, e... lei
è Ren Dairou, una mia compagna di squadra.Il ragazzo sorrise, forse un po’ più risollevato di sapere che le due ragazze erano amiche dei compagni del Toho,
piuttosto che fan sfegatate a caccia di autografi... era già capitato una volta e, beh, non era stata una gran bella
esperienza.
- Piacere mio.- rispose, cortese - Come mai avete fatto intrusione nel campo?- domandò, dopo che anche l’altra atleta
ebbe compiuto il proprio gesto di presentazione.
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- Devo fare una sorpresa ad un amico...- la bionda rimase sul vago, non nascondendo un sorrisetto impaziente - E Ren
era curiosa di vedere la nazionale da vicino.- aggiunse, mentre l’amica annuiva convinta. Era davvero desiderosa di
vedere i calciatori della juniores all’opera - in allenamento, ma almeno da vicino. L’incontro con Karl e gli sviluppi che
aveva avuto l’avevano indotta ad interessarsi molto di più a quel mondo che fino ad allora aveva avuto occasione di
vedere soltanto in tv. Non era nemmeno mai stata una tifosa della squadra dell’istituto, sebbene simpatizzasse.
- Ah, ed ovviamente per fare il tifo per voi!- soggiunse la bionda dopo un attimo, portandosi le mani ai fianchi.
- Oh... per quello avrai una sostenitrice.- sbuffò Kojiro, alzando gli occhi al cielo.
- Eh? Ti riferisci a lei?- Eve indicò Ren con un pollice, chiudendo la mano a pugno e mantenendo l’altra sull’anca
sinistra. Il ragazzo assunse un’espressione paziente e remissiva, al ricordo di tutto ciò che il soggetto a cui in realtà si
riferiva aveva combinato dal momento in cui avevano messo piede all’aeroporto di Tokio.
- Non mi riferisco a lei.- rispose, scuotendo il capo bruno.
- Come...?- chiese di nuovo la velocista, tra il pensoso e lo stranito, mentre Takeshi ricevette l’eloquente occhiata del
compagno e sparì per un istante sul campo; quando tornò portava per un braccio una persona molto più che
conosciuta...
- Piantala di tirare! Insomma si può sapere cosa c’è?? Guarda che se non è importante ti spacco le ossa! Mi hai fatto
perdere tutti quei bellissimi superfusti in calzonc... Eveeee!!In un attimo Mizuki interruppe le maledizioni contro Sawada, accorgendosi della presenza dell’amica. Le fu subito al
collo, festeggiandola come se fosse di ritorno dal giro del mondo. Il suo classico balsamo di frutta emanava lo stesso
odore dolce di frutti tropicali, mentre scuoteva le vivaci trecce nere intervallate da lacci violetti come i riflessi
dell’intera chioma.
- Ma sei impazzita a saltare fuori così?!- esclamava, mentre la stritolava nella morsa dell’abbraccio fin troppo
entusiasta - Potevi avvisare, ti facevo trovare... un... qualche... beh, qualcosa avrei inventato! Aaah, Eve! Quanto
tempo!La bionda ebbe qualche difficoltà a liberarsi da tutto quel trasporto, ma quando alla fine poté tornare a respirare si
ritrovò sommersa da tutte le domande di rito e se non ci fosse stato il salvifico Takeshi, probabilmente Mizu avrebbe
dato nell’occhio finché anche Ken, tra i pali della lontana porta, si fosse accorto che a bordo campo c’era un
movimento anomalo... e addio sorpresa.
- Ci conviene muoverci però o Mikami ci farà la pelle!- sorrise appunto il ragazzo, mantenendosi sul diplomatico.
Tsubasa ci capiva meno di prima, certo aveva già conosciuto Mizuki Awashida, sapeva che era figlia del caporeporter,
però tutte quelle conoscenze lo avevano lasciato stranito. Nonostante questo, si limitava a sorridere, trasportato
dell’euforia dei suoi compagni e da quelle ragazze strampalate.
- Siete in intervallo?- chiese d’un tratto Ren, accortasi che il carico d’acqua e asciugamani che i tre ragazzi portavano,
probabilmente proveniva dagli spogliatoi.
- Sì, ma ormai ci restano solo pochi minuti.- si trovò a realizzare il capitano, volgendo lo sguardo al cielo terso e
prendendo a muovere i primi passi verso il terreno erboso.
Eve si sentì immediatamente trasportata nell’impazienza. E così si stavano dirigendo verso il reso della squadra...
verso Ken. Accidenti, qualche passo ancora e l’avrebbe rivisto... avrebbe rivisto il suo portiere.
Serrò meccanicamente le palpebre e prese un grande, seppur discreto sospiro, si sistemò i capelli dietro le orecchie,
ma qualche ciuffo ribelle della frangia rispuntò fuori a solleticarle la fronte ed il naso, poi si lisciò il viso con un tocco
veloce di entrambe mani.
- Beh, se manca così poco è meglio che torniate in campo.- sorrise di nuovo, sistemandosi una delle due polsiere.
- Già, certo! Così tu puoi andare a salutare il tuo ragazzo!- rise Mizuki, tutta presa a sistemarle l’intreccio di finissimi
fili di cotone che legavano alle spalle l’indumento bianco.
- Ken non è il mio ragazzo!- le fece la linguaccia, voltandosi di scatto ed interrompendo il premuroso lavoro
dell’improvvisata costumista, mentre il sole si rispecchiò totalmente sui loro giovani volti, una volta sull’erba scoperta.
Eve si ritrovò del tutto spiazzata, alla luce di quel pensiero che mai una volta le aveva sfiorato la mente, seppur così
ovvio: Ken, il suo ragazzo. Si sentì rimescolare lo stomaco.
Era strano ed al tempo stesso paurosamente piacevole, pensarlo suo.
Prima che potesse razionalizzare altro, si trovò a darsi l’ordine di mantenere la calma e sbrigarsi ad andare a salutarlo,
dal momento che l’intervallo era già quasi terminato, altrimenti non avrebbe resistito. Già si vedeva saltare in testa ad
un qualsiasi allenatore ed infrangere le poche regole che le erano rimaste da rispettare.
Ci volle uno sguardo solo perché si accorgesse che un gruppo di ragazzi era radunato nell’area di rigore alla sua
sinistra, reclamando acqua ed asciugamani in direzione di Tsubasa. Poi, perplessi, si accorsero di due presenze
estranee - lei e Ren - oltre all’immancabile Mizuki a cui avevano già fatto in tempo ad abituarsi, domandandosi chi mai
potessero essere.
La bionda scansò senza badarci troppo, o forse senza accorgersene neppure, gli sguardi incuriositi di quella piccola
rosa di calciatori; i suoi occhi si rivolsero immediatamente ad un’imponente figura voltata di spalle, i lunghi capelli
scuri sciolti sulla schiena e l’attenzione canalizzata a sfilarsi i guanti da portiere.
Un nodo dritto alla gola dal momento in cui si accorse della sua presenza tanto a lungo ricercata tra volti sconosciuti.
Dopo lunghi mesi, finalmente... attendeva soltanto che Wakashimazu si voltasse e rivolgesse a lei i suoi occhi neri.
Pochi passi e poi finalmente Ken si decise ad indirizzare lo sguardo laddove i suoi compagni erano già intenti a
congetturare da qualche secondo.
Ci volle un attimo, un attimo soltanto. I guanti gli scivolarono di mano, atterrando con un tonfo leggero giusto sul
dischetto bianco dell’area; le voci cessarono di esistere ed il volto serio di Eve, abbagliato dal sole estivo, gli fermò il
cuore.
Era venuta. Era venuta davvero, addirittura il primo giorno di raduno. Si sentiva così ingenuamente impreparato,
sebbene avesse quasi cominciato a contare i giorni che lo separavano dalla partenza. Ed ora lei era lì, era lì dinnanzi a
lui ed era certo di non stare sognando. Si sentiva come se in un respiro stesse assimilando tutta l’aria del mondo,
tanto da dargli alla testa, tanto da annebbiargli la vista.
Mosse i primi passi incontro al gruppo dal quale Eve si era distaccata di qualche buon metro, fino ad arrivare davanti ai
suoi occhi, davanti alle sue labbra distese in quel classico, ambiguo ed enigmatico sorriso che da tempo non aveva più
avuto occasione di vedere.
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Si scambiarono uno sguardo silenzioso, prima che lei potesse protendere le braccia verso le larghe spalle di Ken e lui,
quasi in contemporanea, cingerle i fianchi e sollevarla da terra per farla ricadere sul proprio petto e stringerla come già
era accaduto in passato, con la medesima intensità, con lo stesso trasporto.
- Ehi, batti la fiacca, eh portiere?- rise la bionda, il volto tuffato tra il collo e la spalla del ragazzo, che dal canto suo la
sosteneva per la vita e per la schiena con le braccia alternate. E d’un tratto fu di nuovo investita dal suo profumo, dalla
sua stretta decisa, da tutto il suo essere... e quasi il resto del mondo non aveva ragion d’essere, ora erano solo loro
due... dopo lungo tempo, di nuovo Ken ed Eve... di nuovo.
- Come stai, piccola Icaro?- le chiese, scompigliandole la testa con una mano e rendendosi conto che i suoi capelli di
grano erano cresciuti molto, dall’ultima volta.
- Non vedevo l’ora di rivedervi!- seguitò a sorridere lei, ritoccando terra con le punte dei piedi ed avvertendo la
costante presenza delle mani di Ken sulle proprie spalle - E tu, stai bene?- In formissima!- fu la risposta che le arrivò da un Wakashimazu ancora tra l’euforico e il colto di sorpresa; non
credeva che incontrarla di nuovo potesse renderlo così profondamente contento. A parte i capelli, Eve non era
cambiata di una virgola, ma i suoi occhi... fu allora che se ne accorse, era come se avessero acquisito una vena di blu
più scuro che contrastava con ciò che fino ad allora era stato abituato ad osservare, riflettendo le proprie iridi d’ebano
nello zaffiro più puro. Una vena di consapevolezza, di maturità forse fin troppo incombente.
Lei si discostò di qualche centimetro e si mise le braccia ai fianchi con aria di sfida.
- Bene! Voglio vedere se sei migliorato davvero, e quanto!- esclamò, assumendo un’espressione infantile e
canzonatoria. Ma prima che lui potesse replicare, furono interrotti da una voce petulante alle spalle.
- Ehi, Wakashimazu! Perché non ci presenti la tua amica! E’ così cariiiina!- Piantala di sbavare, Ishizaki!- una ragazza dai capelli scuri si avvicinò al gruppetto, che intanto si era di nuovo riunito
in area.
- Uffa, manager! Perché te la prendi sempre con me?!- si lamentò quello, distorcendo la bocca in una smorfia seccata.
Lei non ci fece caso e si rivolse ad Eve con aria amichevole. Indossava una maglietta bianca ed un paio di pantaloni al
ginocchio e pareva davvero compiaciuta di essere dove stava... forse anche più di Mizuki.
- Ciao, io sono Sanae Nakazawa: accompagnatrice ufficiale, nonché mascotte della squadra!- le tese la mano. Una
presentazione piuttosto fiera ed ufficiale, la ragazza era evidentemente orgogliosa di essere stata insignita di tale
ruolo, anche se alla bionda parve immediatamente che se ne fosse fregiata da sola.
- Oh... io mi chiamo Eve Springer: membro della federazione nazionale di atletica giovanile. Va bene così?- le rispose,
sorridendo incerta e ricambiando la stretta. Sanae sorrise di rimando.
- Allora, com’è che conosci il nostro Wakashimazu?- esordì nuovamente, le mani incrociate al petto.
- Il... vostro Wakashimazu...?- la voce di Eve suonò tra il meravigliato e l’irritato - Beh... frequentiamo la stessa
scuola, tutto qui.- si limitò a rispondere, mentre Mizuki le trotterellava al fianco, estremamente allegra.
Ma da dove spuntava quella tizia? Il loro Wakashimazu!? Ma figuriamoci, Ken era solo suo!
Ci volle poco perché Eve realizzasse che ciò che stava considerando aveva dell’omicida e forse conveniva abbassare un
po’ i toni dei pensieri, dopotutto nessuno aveva detto nulla con malizia... giusto...?
- E come mai tutta questa confidenza?- domandò ancora la ragazza dai capelli scuri, con un sorrisetto sospettoso ed
un intento oramai del tutto scoperto.
- E tu come mai non...- fece per sbottare l’altra, mandando all’aria ogni buon proposito.
- Ehi, ehi!- Mizu aveva previsto la mossa e salvato la situazione in corner - Che pettegola sei, Nakazawa!- arricciò il
naso e si gettò una treccia dietro una spalla con fare altezzoso.
- Ma che dici? Era per fare conversazione!- si difese Sanae, sciogliendosi in un gentile sorriso e portandosi una mano
dinnanzi alla bocca per coprire una risata.
Tsubasa era rimasto a guardarla senza dire nulla, quasi in disparte. Era davvero cambiata moltissimo, non era più il
maschiaccio che aveva sempre voglia di litigare e nemmeno la ragazzina pacata e premurosa; oramai erano cresciuti...
ed anche se Sanae non aveva certo perso il suo caratterino, non poteva certo tacere quel senso di vivace
apprezzamento che nutriva costantemente per lei, per il suo essere diventata oramai donna.
Si scosse d’un tratto, per evitare di arrossire ed attirare l’attenzione, distratto dalla voce squillante di Sawada.
- Emh... sì, è vero. Eve fino a qualche mese fa frequentava l’istituto Toho... insieme a me, e a questa rompiscatole!s’intromise con il puro obiettivo di calmare gli animi.
- E chi sarebbe la rompiscatole!?- esclamò Mizuki, afferrandolo per il collo.
- Che... vi dicevo...?- rise Takeshi, tra il già mezzo soffocato e l’in lotta per la vita. L’uscita del ragazzo contagiò anche
gli altri presenti, che certo non mancarono di guardarli straniti, un attimo prima di scoppiare a ridere anche loro.
Si trovò a tirare le somme sull’allenamento a cui aveva avuto modo di assistere nel tardo pomeriggio: Ken era
diventato un fenomeno.
Taro Misaki aveva tirato una cannonata da vicinissimo, appena dentro l’area e Wakashimazu si era tuffato con
un’agilità superiore sulla sfera che sfrecciava verso di lui, stoppando il tiro con una facilità estrema.
Per non parlare del tiro di Oozora! Sembrava una saetta! Un fulmine che aveva attraversato il campo in un millesimo
di secondo... in poche parole: imparabile. O perlomeno finché Ken non l’ebbe respinto, ovvio.
Era diventato uno scudo umano; la porta inviolata per tutti i sessanta minuti della partita di allenamento. Se avesse
giocato così anche nelle gare ufficiali, sarebbe di sicuro divenuto il portiere migliore in circolazione. Altro che
Hernandez o Wakabayashi!
E Wakabayashi... era in gamba, dannatamente in gamba anche lui. Di una freddezza quasi sovrumana, non lasciava
trapelare nulla quando stava tra i pali... era quasi impensabile che divenisse un’altra persona, una volta fuori dal
campo. Che strano tipo... chissà poi se aveva capito che il ragazzo che gli aveva segnato quel gol, mesi addietro, altri
non era che lei stessa.
Eve se lo stava domandando da un po’, appoggiata alla cancellata alta dell’entrata esterna del campo.
Il vento caldo di quella sera era piuttosto forte, le scompigliava la frangia e le penetrava attraverso la chiusura della
felpa larghissima, aperta sul petto.
Molto probabilmente no, figurarsi. Certo era che si considerava molto più carina vestita da ragazza!
Sorrise. Oddio, l’influenza di Mizu alla larga si stava facendo sentire! Scosse il capo ed alzò il capo verso il cielo
all’imbrunire.
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Chissà che faccia avrebbe fatto Genzo, se l’avesse saputo.
Stava attendendo Ken al campo, dopo il consueto allenamento; finalmente dopo qualche giorno di impossibilità,
avevano trovato uno stralcio di tempo libero per tornare all’ostello assieme e trascorrere un po’ di ore in compagnia, in
onore dei vecchi tempi avrebbero parlato di tutto e di più, si sarebbero rifatti dei cinque mesi in cui non si erano visti
affatto.
Ad un tratto un’ombra le sfrecciò di fianco, rapidissima. I riflettori del campo erano ancora accesi, ma era quasi
impossibile che laggiù ci fosse ancora qualcuno.
Eve si voltò di scatto e, stranita, prese a seguire le orme di chi l’aveva preceduta tanto velocemente. Probabilmente
era stata solo una svista, uno scherzo del vento... e invece... Wakabayashi.
Scese fin sui gradini per vedere meglio. Non aveva preso una cantonata, anzi, era proprio lui. Se ne stava immobile a
bordo campo come se stesse aspettando qualcuno, ma sul campo muto non era rimasto nessuno, se non un silenzioso
pallone che era sfuggito ai raccattapalle, durante l’usuale manutenzione post esercizio.
Le palpebre serrate e le mani profondamente affondate nelle tasche dei pantaloni neri, Genzo respirava con ritmo
cadenzato e sospeso, come stesse dormendo.
Ma che stava facendo? Vuoi vedere che era veramente squilibrato...?
Ad un tratto il ragazzo aprì gli occhi e si fece avanti in direzione della sfera solitaria, calciandola lontano, dove nessuno
dei due poté più seguirla. Eve rimase a guardarlo, finché il portiere non si voltò e riprese il suo respirare placido, poi si
avviò a raggiungere i compagni nello spogliatoio.
- Quest’anno avremo la migliore tifoseria!- rise Ishizaki.
- Che tifoseria?- intervenne Tsubasa, stranito.
- Ma dico sei cieco!? Non hai visto quante ragazze ci hanno portato i nostri del Toho!?- ribatté il difensore, le mani ai
fianchi ed un sospiro. Possibile che nessuno avesse pensato alle ragazze, o tutti facevano i finti tonti??
Kojiro alzò un sopracciglio, gettando l’asciugamano sul proprio borsone.
- Guarda che noi non abbiamo portato nessuno, sono venute da sole.- disse, massaggiandosi una spalla e mantenendo
un tono imparziale.
- Beh, fatto sta che sono veramente carine!- gongolò di nuovo Ryo, prendendo a mimare una scena d’amore con sé
stesso. Matsuyama si infilò una maglietta pulita, poi si ravviò i capelli con una mano.
- Non ti agitare tanto, scommetto che sono già quasi accasate... vero Ken?- fece, strizzando l’occhio al portiere.
- Ehi, ehi, le parole ‘Yoshiko Fujisawa’ ti dicono niente?- ribatté Wakashimazu con una risata, tirandogli contro una
borraccia vuota. Hikaru si trovò a sorridere di rimando tra sé ed alzare gli occhi con aria sognante... era proprio
partito!
- Beh, d’accordo, d’accordo... se allora escludiamo quella Eve, restano le altre due.- Ishizaki pianificava alla perfezione
uno schema di cui nemmeno lui conosceva bene l’utilità finale.
- Non starai parlando di Mizuki, vero!?- Takeshi sgranò gli occhi, frenando a mezz’aria l’intento di indossare la camicia
- Ma se è una rompiscatole cronica! E poi non è mica questa gran bellezza...Hyuga si lasciò sfuggire un sorrisetto, mentre Kazuki, dall’altro lato della stanza, intervenne con sguardo sornione.
- Già, già, ma chi disprezza compra, non te l’ha mai detto nessuno?- Ehi! Che vuoi dire??- sbottò di nuovo il più giovane, aggrottando le sopracciglia.
- Avanti, Takeshi! Ce ne siamo accorti tutti, manchi solo tu!- rise di nuovo Sorimachi - Non credo tu rimanga
indifferente quando Awashida sbatte i suoi occhioni neri sull’intera formazione!- Tsk! Ma figuriamoci!- Sawada si voltò dall’altra parte, abbottonandosi la camicia e nascondendo il volto ai compagni E poi, comunque sono nocciola...- aggiunse, mormorando tra sé.
Kojiro e Ken si scambiarono uno sguardo d’intesa, proprio mentre Genzo Wakabayashi faceva la sua entrata nello
spogliatoio, tra le risate e le esclamazioni allegre dei compagni.
- A proposito di affari di cuore, avete sentito di Schneider?- fece Jito, ammiccante - Pare abbia un’amichetta
giapponese nella squadra di atletica!Gli occhi di Wakashimazu ebbero un fremito improvviso.
- Hiroshi, sembri proprio una suocera pettegola!- rise Taro, richiudendo la cerniera del proprio borsone e chinandosi
per allacciarsi le scarpe. L’altro rise di rimando.
- E’ un vero scoop! E’ sulla bocca di tutti, giù alla federazione!- ribatté, portandosi una mano dietro la nuca.
Un’amichetta giapponese? Nella squadra di atletica...? Per un attimo il terreno sotto i piedi di Ken divenne sabbia.
- Eccomi!- esclamò, correndo verso la figura femminile che lo stava attendendo fuori dall’impianto agonistico.
- Ce ne hai messo di tempo!- sorrise Eve, passandosi sotto l’altro braccio la casacca che si era tolta da un po’, per
rimanere a godere della brezza serale con indosso una canotta leggera che le lasciava scoperto il ventre e si chiudeva
con due ganci in stile salopette poco sotto le clavicole.
- Perdonami, quando si è negli spogliatoi e si fa confusione il tempo vola.- replicò Ken, buttandosi l’ampia borsa
sportiva dietro le spalle e sorreggendola con una sola mano appoggiata ad una di esse.
Eve rimase a guardarlo per qualche istante, il volto squadrato illuminato dalla lontana luce artificiale che ancora
proveniva dal campo. Nonostante Wakashimazu fosse lo stesso di sempre, la ragazza si trovò a considerare
nell’immediato che fosse davvero, estremamente carino... la lontananza doveva avere avuto uno strano effetto su
entrambi.
L’hotel in cui alloggiava la nazionale era piuttosto vicino, così i giocatori potevano permettersi di farvi ritorno a piedi
dopo l’allenamento, senza usufruire del servizio navetta gratuito che era stato loro proposto più volte.
Ken ed Eve presero a camminare l’uno accanto all’altra, nel silenzio caldo della sera.
- E così... hai conosciuto Schneider?- le chiese tutt’un tratto il portiere.
Doveva assolutamente levarsi quel dubbio dalla testa.
- Già.- si limitò a replicare lei, non intuendo minimamente la preoccupazione del ragazzo ed ancora ingenuamente
beandosi della sua compagnia. Voleva raccontargli un sacco di cose ed altrettante voleva sentirsene dire dalla sua voce
decisa ed accattivante che fin d’allora aveva cominciato a solleticarle i sensi.
- Che tipo è fuori dai campi di calcio?- domandò di nuovo Ken, cercando di risultare il più spontaneo possibile. La
ragazza alzò lo sguardo ai suoi occhi, voltando il capo leggermente.
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- Beh, un tipo normale... credo.A dire il vero era forse un po’ spettrale, quando se lo ritrovava a gironzolare per i corridoi dell’ostello così
all’improvviso, ma per quale ragione Ken le stava facendo delle domande su Karl?
- Perché me lo chiedi?- aggiunse poi, sistemandosi la felpa in vita ed annodando saldamente le maniche tra loro.
- Emh... curiosità.- fu la risposta di lui.
Classico. Curiosità. E cosa se no?
Gli pareva di aver appena detto una stupidaggine, ma questo non gli impedì di proseguire nella già prevedibile caduta.
Il dubbio era la sensazione peggiore del mondo e l’essere così tormentato dal fatto che potesse essere Eve la fiamma
del tedesco gli confondeva ogni pensiero razionale.
- Ti trovi bene con lui?- soggiunse, con voce più grave. Eve alzò un sopracciglio.
- Ma che razza di domanda è...?- riuscì finalmente a ribattere, tra l’infastidito e lo spiazzato.
- Beh, se ci sarà da progettare un matrimonio, bisognerà saperne sempre di più!- rise Ken, scuotendo il capo tentando
di far risultare la sua artefatta risata il più genuina possibile. Ma la bionda non lo seguì nell’ilarità, tutt’altro.
- Matrimonio!?- ripeté incredula, piantando i piedi per terra e sgranando gli occhi. Il senso di sconcerto si stava
lentamente tramutando in rabbia.
- Tra lui e la sua amichetta giapponese.- annuì il compagno, scansando l’intenso bruciore che gli procurava il
pronunciare quelle parole. Doveva capire, doveva sapere... se Eve era davvero diventata la ragazza di Schneider o
meno, se la lontananza gliel’aveva portata via... se poteva ancora permettersi di stringerla a sé senza freni ed
impedimenti, con tutto l’amore del mondo.
Se ne rese conto immediatamente, fin dall’inizio, che non esisteva un modo adatto per domandarglielo, per questo ci
aveva girato attorno, arrivando alla conclusione più sciocca e facendole finalmente capire ciò che voleva dire.
- Wakashimazu sei un idiota!- fu l’esclamazione di Eve, tra l’indignato e il furioso.
Ken si voltò verso di lei, le sue parole risuonarono come un violento schiaffo sul proprio volto.
- Chiariamo un paio di punti.- la voce della ragazza era divenuta un sibilo - Uno: l’amichetta giapponese di Karl è Ren,
hai presente?! La versione atletica ed impacciata di Mizuki! E due...- fece una breve pausa, poi alzò gli occhi ardenti
sul suo volto e li imprigionò in quelli neri del portiere - Se credi che io sia l’infervorata di turno che va a gettarsi tra le
braccia del primo prestante tedesco che mi capita sotto il naso, hai sbagliato di grosso! Sei stupido, oppure lo fai
apposta?!Non ti accorgi che ho aspettato il giorno del tuo arrivo contando i secondi?! Come fai a parlare con così tanta
leggerezza di una cosa del genere?! Mi prendi per una facile?!
Non mi vedi?! Maledizione, Ken, perché non riesci a vedermi...?
Gli ultimi pensieri le balenarono in mente senza che riuscisse a frenarli, ma appena in tempo perché non si
tramutassero in parole. Cominciò a camminare velocemente sul marciapiede, quasi correndo e quando gli passò vicino,
Ken fece in tempo ad afferrarla per un braccio.
Furono di nuovo occhi negli occhi per un brevissimo attimo.
Proprio di uno come te dovevo andare ad innamorarmi!?
- Torno da sola! Vattene pure con i tuoi compagni!- strattonò la presa e si liberò con forza.
- Eve, io...- fece per rincorrerla lui, ma la ragazza fu categorica.
- Prova a seguirmi e ti spezzo le gambe, partendo da...- lo squadrò senza trovare niente di più intelligente da dire ...quei quadricipiti ipersviluppati che ti ritrovi!!- tagliò corto poi, voltandosi e sparendo velocemente dietro l’angolo.
Se non altro essere una velocista le avrebbe permesso di dileguarsi alla velocità della luce, nel caso la minaccia non
avesse funzionato, mentre Ken poteva benissimo rimanere lì impalato dove stava, in compagnia del suo leggendario e
celebre tatto, accidenti!
CAPITOLO 11 – Doppia conquista
Quella mattina si era alzata a malavoglia, malgrado fosse alle porte l’importante evento che tutti attendevano.
Per tre giorni aveva scansato tutti i tentativi di Ken di contattarla - se mai ce ne fossero stati, dal momento che era
divenuta furtiva come un’ombra ed impegnata come una star a causa della scalata alle semifinali.
Le qualificazioni matematiche avevano giocato il loro ruolo, così come l’ultimo scontro ai quarti. Non aveva pensato a
nulla, se non ad impegnarsi per arrivare sino a quel giorno, sino alla fine. E così erano giustappunto tre giorni che non
lo vedeva, né gli parlava.
Sospirò pesantemente, lo stadio gremito lasciava trasparire una tensione che piano piano stava volando alle stelle.
Comportarsi da bambina non avrebbe di certo sistemato le cose, l’aveva compreso affacciandosi alla finestra la mattina
stessa.
Aveva visto Tsubasa in tenuta ginnica, seguito da quella Sanae. I due discutevano animatamente, lui rideva, mettendo
le mani avanti ed un paio di volte si era preso anche delle botte in testa, mentre lei faceva la finta arrabbiata. Poi
erano scoppiati a ridere nello stesso istante.
La prima impressione che ebbe fu che quei due non avessero tutte le rotelle a posto, ma in realtà realizzò in un attimo
che erano semplicemente fatti l’uno per l’altra. Aveva scosso il capo, considerando che, accidenti, proprio a certe scene
doveva assistere! E come se non bastasse, pensandoci su, la situazione con Ken le era parsa enormemente
ingigantita... si era forse comportata con troppo slancio, ma, diavolo, non poteva credere che Wakashimazu potesse
essere felice davvero, se lei si fosse messa con un altro.
Ed Eve non voleva nessun altro all’infuori di quello stupido di un portiere!
Sebbene certi pensieri erano sempre presenti nella sua mente, in quell’istante si sentiva come sciogliere davanti a
tutta quella gente, ma soprattutto tra quelle atlete muscolose che parevano dei colossi in confronto a lei.
Erano allineate nelle otto batterie di partenza, sebbene mancasse ancora una buona mezz’ora al riscaldamento.
Perché si sentiva così? Non aveva mai provato una sensazione simile, non così intensa, non così travolgente. E poi
erano le finali, no? Quelle medesime finali che lei stessa aveva sempre considerato un’opzione indifferente, una cosa
che se le fosse toccata avrebbe affrontato, ma che se non fosse stata scritta nel suo destino, avrebbe alzato le spalle e
sarebbe andata comunque avanti per la sua strada.
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Ken strinse la maglia e corse su per lo stadio. Kojiro e gli altri compagni del Toho lo avrebbero raggiunto poco prima
dell’inizio della gara di Eve, giusto il tempo di cambiarsi e chiamare un taxi, dopo l’allenamento quotidiano e la
comunicazione della formazione per la prima partita che avrebbero dovuto disputare.
Ma lui aveva fatto tutto in fretta e furia, compreso il saltare sulla prima auto di piazza disponibile e non attendere
nemmeno il resto, una volta arrivato a destinazione. Quale modo migliore per farsi perdonare?
Il sole gli empì gli occhi, che si affrettò subito a socchiudere, per focalizzare la figura snella che stava sistemando i
calzoncini elastici neri sulla linea di partenza. Era seria e concentrata, lontana dal resto del gruppo, ma con ancora
indosso la parte superiore della tuta della squadra giapponese.
Si fece largo tra la folla e si sporse dagli spalti bassi, gridando a gran voce il suo nome. La ragazza alzò lo sguardo,
avvertendo la propria attenzione richiamata alle spalle, impiegò qualche secondo ad individuare e distinguere la figura
di Wakashimazu che si sbracciava dall’inferriata e sventolava una maglietta scura.
Eve si lasciò sfuggire un sorriso, doveva ammettere che si sentiva stranamente tesa sapendo Ken a pochi chilometri da
lei e non poterci interagire minimamente, anche se per sua propria volontà. Trotterellò verso di lui con le mani infilate
nelle tasche della casacca rossa e bianca, realizzando a poco a poco che sul dorso della maglia che il portiere stringeva
con così tanta euforia vi era stampato un grande e candido numero uno.
- Ciao, titolare.- lo salutò, mentre lui si sporgeva di più verso il suo sorriso gentile.
- Sono corso qui appena avuta la notizia!- replicò il ragazzo, gettandosi su una spalla il trofeo. Eve non riuscì ad
evitare che un nodo le si formasse in gola. Lassù, seppure di qualche metro distante da lei, Ken le parve di nuovo
inesorabilmente lontano come un eroe, splendente come un campione... irraggiungibile, venerabile ed intangibile come
un nume.
- Come stai, Eve?- le domandò poi, spiazzandola.
- Io...?- fece lei in tutta risposta, alzando le spalle - Direi bene... non lo so.- Come sarebbe?! Dovresti essere entusiasta, nelle semifinali di ieri hai fatto un buon tempo!- di nuovo la voce serena
di Ken le arrivò come una freccia dritta al cuore.
- Che...?- fu l’unica cosa che riuscì a dire, realizzando lentamente ciò che il portiere le confermò subito dopo.
- Ehi, ehi, hai anche la faccia tosta di essere spiazzata?- la rimproverò, simulando un’aria accigliata - Ho visto tutte le
tue gare, Springer.Era lì. Ken era stato lì, ogni volta che lei era scesa in campo.
Il nodo alla gola era aumentato notevolmente di dimensioni...
Non disse nulla, si avvicinò di quel poco che bastava per tendergli un braccio e spalancare la mano, attendendo che
anche lui facesse lo stesso.
Con un’espressione che mutò in leggermente stupita, il portiere si sporse di nuovo e raggiunse le sue dita bianche, fino
ad intrecciarle alle proprie, senza aggiungere nessun’altra parola, solo distendendo le labbra in un nuovo sorriso.
- Io te l’avevo detto che sei il migliore.- sussurrò Eve, gli occhi semichiusi e le labbra aperte quel giusto che bastava
per pronunciare quelle poche parole. Era fiera di lui.
- E...- aggiunse, arricciando il naso - Perdonami se ti ho minacciato di morte per amputazione, l’altra sera.All’udire quell’ultima frase, Wakashimazu non poté fare a meno di scoppiare in una sonora risata.
- Tu sei matta!- scosse il capo, domando le risa - Ma tanto lo sapevo che non l’avresti mai fatto. Mi sarei offeso, sai?- Ma tu senti che sbruffone!- ribatté la bionda, rafforzando la stretta alla mano con lo scopo di spezzargli almeno una
falange.
- Presuntuosa!- replicò lui, apostrofandola altrettanto gentilmente.
Eve intese bene che quello era il suo modo per farsi perdonare, per cui si limitò a dargli un cenno del fatto che aveva
compreso, cacciando la lingua.
Originale modo di fare la pace.
- Ora tocca a te, vola, Icaro!Il volto squadrato del portiere era così lontano che avrebbe voluto arrampicarsi sulle inferriate e scavalcarle soltanto
per poterlo abbracciare un’ennesima volta e sentire le medesime parole sussurrate sulla pelle. Ed al diavolo la finale,
rimanere lì per un tempo indefinito.
Annuì una sola volta.
- Amh... Ken?- il volto di nuovo diretto verso quello del compagno - Volevo che sapessi che questa sarà l’ultima volta
che correrò.Lui ebbe un nuovo moto di stupore, ma ancor prima che potesse domandare spiegazioni, Eve lo anticipò, sperando che
dopo non avrebbe domandato più niente, non avesse tentato di persuaderla a fare il contrario... non avesse deluso le
sue aspettative al riguardo.
- Indipendentemente da come andrà questa gara, non voglio forzare l’atletica a trasformarsi una passione che ora non
è... e che non ha ragione di diventare tale.- lo disse sussurrando, tra il brusio incontrollato della folla. Ma Ken lo colse
e la sua espressione meravigliata mutò di nuovo, le labbra distese.
E come Eve si aspettava, Wakashimazu non aggiunse nulla. Niente critiche, niente commenti. Solo un sorriso.
Le strinse di nuovo la mano, finché le atlete non vennero richiamate a gran voce sulle piattaforme, una manciata di
secondi dopo.
La ragazza lasciò scivolare le proprie dita dalla presa energica del portiere, che divenne più rilassata al momento del
distacco. Gli rivolse un ultimo sguardo silenzioso, come un’isola nella moltitudine della folla, prima di tornare a voltarsi
e raggiungere la postazione.
Lui seguì la nuca bionda di Eve tornare in pista, decisa e muta; i lineamenti morbidi baciati dal sole della tarda mattina
e le mani di nervi e seta che già bramava di poter avvertire sul proprio petto ancora una volta.
Quando le atlete si piazzarono in posizione, il cronista - dall’alto della sua postazione - elencò il nome di ognuna, con
relativo piazzamento alle semifinali, potenzialità e commento.
Eve aveva già provveduto ad abbandonare la casacca tra le mani dell’allenatrice, che ora si era seduta poco più in là in
compagnia di Ren. La sua compagna era stata eliminata nella batteria precedente, questione di millesimi di secondo,
ma delle quattro semifinali, soltanto due atlete per ognuna avrebbero avuto accesso all’ultima gara e Ren si era
piazzata quarta.
Mihoko Rama si sfregava le mani con impazienza e nervosismo, stavolta era anch’ella in tenuta sportiva, sebbene non
avesse mancato di aggiungere qualche dettaglio immancabile come i pendenti e i tintinnanti bracciali di sempre.
80
Era arrivato il momento decisivo. Per entrambe.
Il chiacchierio insistente degli spettatori si insinuava nelle orecchie delle ragazze schierate in posizione, ma ognuna era
concentrata a suo modo ed aveva imparato a non udire nulla per quella manciata di secondi durante la quale si
sarebbe snodata la competizione.
Di fianco ad Eve un’atleta tailandese ed una tedesca, entrambe portavano sul volto i tratti tipici delle rispettive
nazionalità, solo lei pareva essere senza terra, sebbene avesse giurato di andare fino in fondo, dal momento in cui
aveva deciso di correre per il Giappone.
Il primo segnale. Tutte e otto si abbassarono e posizionarono gli scarpini sui sostegni metallici.
Le mani puntate a terra, il volto glaciale. Eve alzò solamente una volta lo sguardo - rapido, silente e carico - verso la
figura di Ken, che stringeva l’inferriata che lo separava dalla pista con una presa energica.
Le bastò.
Prese un gran respiro. E trattenne il fiato.
Gli occhi azzurri abbagliati dal sole oramai allo zenit, fissi verso il traguardo placido e senza voce.
La canna della pistola del direttore di gara venne alzata verso il cielo sgombro di Amburgo.
La bionda contrasse bicipiti ed addominali, pronta a ripetersi mentalmente la nenia che l’aveva accompagnata in ogni
gara.
Lo sparo. E mille urla alle stelle.
Eve espirò improvvisamente e con un moto repentino, tornando impetuosamente a far giungere aria ai polmoni.
Nel medesimo, intenso attimo traboccante di sfrenato ed irruente furore, tutte e otto le velociste scattarono in avanti
come pantere, agili, letali.
E fu gara.
Carica di esaltazione, la folla gridava ed incitava. Carica di speranza, la panchina di ogni nazione in gara sperava e
pregava.
Sotto gli occhi di tutti le ragazze fagocitavano la terra sotto i loro piedi che, pesanti come granito, calcavano e
sospingevano gli interi corpi verso la meta.
Il cuore a mille, la sensazione materiale e tangibile che l’intero mondo tremasse ad ogni passo, le braccia saettavano
ai fianchi per controbilanciare ogni singola mossa, Eve avvertì soltanto l’aria, il sole sparì, ogni cosa, tremendamente
veloce e vorticante sfrecciava intorno a lei, dandole la sensazione di non avere più alcun contatto materiale con la
realtà, di sfuggire al controllo di qualsiasi dio, di precipitare in un abisso ed allo stesso tempo di librarsi nell’immensità
della volta celeste dell’Europa, tersa e limpida.
Quadricipite. Sartorio. Vasto... Sartorio... Quadricipite...
La cantilena si confuse con parole mai sentite e dall’accezione sconosciuta, ogni cosa si aggrovigliò fluida ma
spaventosamente e vivacemente tinteggiata, nitida e distinta, come i colori sulla tavola di un espressionista e tutto
trascese immediatamente da qualsiasi logica e capacità di razionalizzare.
L’adrenalina aveva raggiunto livelli talmente alti da confondere i sensi e l’unica cosa che Eve fu in grado di fare per
non perdersi, fu rivolgere le intere sue attenzioni a sé stessa, canalizzare i sensi su un preciso punto di sé, i sensi
interi, ogni arteria, ogni cellula del sangue, ogni goccia di pianto che fino allora aveva versato e che ancora doveva
venire.
E ad un tratto fu investita, travolta, colpita, trafitta. Da tutto l’amore del mondo.
Il cuore fu come se smise di battere, troppo gonfio per contenerlo tutto, troppo ebbro per espletare le sue normali
funzioni ritmiche. Serrò le palpebre, premendole con dolore, sconvolta da tanta grandezza, da tanta gloria.
Il concentrare ogni fibra del proprio essere sul proprio nero intimo, aveva fatto esplodere ogni vena, ogni nervo ed ora
la luce totale le era scoppiata, deflagrata nel petto.
Era dunque quello il sentimento supremo? Si sentì mancare.
Era così, in una rara, impossibile unione di sensi che ci si ritrovava storditi, ubriachi d’amore? Il cuore boccheggiava,
spasmodico.
Ed apparteneva a lei, tutto quel rimescolare di luce, tutto quell’incandescente, accecante... ardore? Secondi, una
manciata di secondi e poi di nuovo le voci tornarono ad esistere, frastornanti come tempesta.
= SPRINGER!! 11.24!! L’ICARO GIAPPONESE BATTE LE SETTE CORSIE AGGIUDICANDOSI L’ORO ASSOLUTO!! =
Gli occhi di Eve si spalancarono d’un tratto, mentre meccanicamente le gambe presero a condurla lontano di qualche
passo ancora, ma con ritmo sempre meno incalzante.
Un boato la investì totalmente, giubilo assordante.
Quando tornò a percepire la consistenza del mondo fu soltanto nell’istante in cui due mani l’afferrarono per le spalle,
scuotendola violentemente in un famigliare scampanellio di perle.
La Rama la trasse a sé, la sua risata cristallina stava acquistando sempre più toni tangibili... ed il cuore di Eve ritornò
lentamente sul piano della realtà. I colori riacquisirono tinte canoniche e le forme si fecero più squadrate. Fu solo
allora che la ragazza si rese conto di avere il volto bagnato... bagnato di lacrime, sebbene la sua espressione era
placidamente distesa tra la quiete e la meraviglia.
Si lasciò cadere in ginocchio, ma prima che le sue giunture toccassero terra, mille mani erano già lì a sostenerla. Non
era più sola, un numero indefinito di persone gridava il suo nome, batteva le mani in un’onda d’emozione, stordendola
di nuovo, avvolgendola, strapazzandola, portandola in trionfo.
I suoi occhi ed il suo animo avvertirono l’immediato bisogno di una corrispondenza visiva con colui che fino ad allora
aveva vegliato su di lei in silenzio, ma costantemente. Si voltò laddove aveva lasciato Ken, che ora si stava
scambiando un orgoglioso abbraccio con Kojiro, arrivato assieme agli altri tre compagni da pochi minuti: Mizuki era
saltata in braccio a Takeshi, mentre Kazuki si sporgeva dalle inferriate, battendo sonoramente le mani al cielo con un
sorriso fiero.
Grazie.
La medaglia stretta al cuore, fino alla fine.
Dopo la cerimonia di premiazione era stata di nuovo accolta festosamente dall’intero team, aveva ricevuto mazzi di
fiori, applausi e grida. Poi era venuto il momento delle dichiarazioni che, tra microfoni e telecamere, parevano non
finire mai.
81
Dalla mattinata, oramai, erano trascorse diverse intense ore ed il riverbero del tramonto si era affievolito da un pezzo.
Lo stadio si era svuotato, soltanto gli ultimi atleti erano rimasti e la Rama aveva insistito per seguitare ad essere la
manager di Eve sin dopo il rientro in Giappone - che sarebbe avvenuto dopo qualche ora della domenica seguente ma ovviamente la ragazza aveva rifiutato categoricamente, confermando ciò che già le aveva comunicato al momento
dell’ultima convocazione da parte dell’allenatrice.
Dopo tanto insistere, seppure non avesse la minima aria di una che aveva gettato la spugna, Mihoko aveva concesso
la serata libera a tutte le sue protette - contrariamente a ciò che ci si poteva aspettare dal suo fin troppo autocratico
regime - e così, tra urletti di gioia e sospiri di sollievo, le ragazze si dispersero per Amburgo.
In quanto ad Eve, la bionda camminava in compagnia dei suoi amici lungo un marciapiede nerastro ai margini del
campo internazionale in cui si erano disputate le gare.
Considerò che era davvero da un sacco di tempo che non lo faceva, sin dai giorni in cui tutti insieme si trovavano sulla
strada per il Toho o per il ritorno a casa e quando si riunivano per il pranzo o dopo le attività pomeridiane. Erano un
gran bel gruppo affiatato e, beh, non era mai stata meglio con nessun altro - mancava solo la principessa Aya perché
si sentisse totalmente a casa.
Mizu non aveva smesso un attimo di ridere e lanciare gridolini euforici, Kojiro aveva dipinto sul volto un distinto sorriso
fiero, Kazuki e Takeshi discutevano con un’aria serena e Ken... oh, beh, lui ora la portava in spalla.
Aveva protestato, ma nulla era servito contro l’insistenza del portiere e così alla fine non aveva saputo dirgli di no,
tanto più che stargli sulle spalle era un’occasione da non perdere per strappargli un altro attimo di intimità. Poteva
avvertire la sua schiena squadrata sotto il proprio seno e circondare le sue ampie spalle con le braccia, aggrappandosi
a lui come fosse una stretta, avvertendo di nuovo tutto il suo profumo...
- E ora che... - Takeshi bloccò la frase a metà, voltandosi verso la bionda -... Eve?- domandò poi, assumendo un’aria
interrogativa. Mizuki sorrise con fare materno.
- Ma guardala, sembra un pulcino!- Nh?- Ken voltò il capo e si trovò la propria guancia contro quella della ragazza, profondamente addormentata ed
appoggiata all’incavo del proprio collo. Non trattenne un morbido sorriso, ora sembrava così languidamente
tranquilla...
- Che dite la riportiamo al suo hotel, ora che dorme?- chiese Sawada, ricordandosi che Eve si era totalmente
abbandonata al sonno anche quando aveva guadagnato l’oro nipponico.
- Sì, certo, con tutti i giornalisti che sono appostati là fuori, sarà curioso chiedersi cosa ci faccia la campionessa
mondiale sulle spalle di Wakashimazu.- fece Kojiro, scettico.
- Già... e poi tutti gli atleti hanno avuto la serata libera! Teniamola un po’ con noi, quelli della federazione l’hanno
festeggiata per tutto il pomeriggio!- sbuffò l’altra, poi si arrotolò un dito tra una ciocca di capelli ricci e sorrise - Ho
un’idea! Potremo portarla da noi.Kazuki la guardò sospettoso, di sottecchi.
- Che dirà Mikami?- Eddai, non è mica il vostro babysitter! Qualche scappatella non fa male a nessuno e poi non è necessario che lo
sappia!- sorridendo di nuovo, questa volta maliziosamente, la ragazza proseguì - Noi entriamo, poi Ken la porta in
camera vostra.- Eh?- fece il portiere, sentendosi chiamato in causa - E... e perché proprio in camera nostra?- Perché la camera di Takeshi da sul cortile, è più facile che ci passi mister mi-faccio-i-fatti-vostri Mikami.- Parli come se dovessimo sequestrarla.- commentò Hyuga, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans, ma nessuno si
oppose alla trovata di Mizuki.
Anche Ken non disse più nulla; sarebbe stato insolito averla nella sua stanza d’albergo, ma dopotutto avevano già
dormito abbracciati... arrossì lievemente a quel pensiero e voltò lo sguardo verso il rigoglioso viale alberato.
- E dove vai, tu??- Mizuki strattonò il cannoniere per un braccio.
- A farmi una doccia, se non ti dispiace!- le rispose Kojiro, cercando di liberarsi. La ragazza si sistemò noncurante il
bavero della giacca bianca in cotone.
- La doccia te la puoi fare dopo.- replicò, seguitando a sistemarsi i bottoni color panna.
- Senti, tra gara ed allegri compagnoni festeggianti, sono più di cinque ore che non mi siedo!- protestò di nuovo il
capitano del Toho, le mani ai fianchi.
- Pfui! Che saranno mai, sei un campione del mondo e ti lamenti per questo? Ti siederai in camera di Takeshi!- decise
risoluta, storcendo il naso.
- Ma che... - Niente ma! Andiamo!- Mizu interruppe bruscamente la replica del compagno, afferrandogli un polso e conducendolo
di peso fuori dalla stanza, proprio mentre Ken adagiava Eve sul proprio letto - Rimani tu, vero?- aggiunse con aria da
manager, rivolgendogli un cenno noncurante con la mano.
- Che? Ma...- anche il tentativo di Wakashimazu di abbozzare una frase fu troncato sul nascere.
- Si sveglierà prima o poi, non vorrei che gironzolasse per l’hotel credendo di essere stata rapita sul serio, oppure
destandosi dal sonno e sentirsi come Gulliver in una landa sperduta!- La signorina Awashida è pregata di tornare tra i sani di mente!- fece Takeshi dal corridoio, con le mani a megafono e
la voce da altoparlante - Se mai c’è stata...- aggiunse, ridacchiando.
- Ehi, ma come ti permetti, ragazzino!- lo fulminò lei, gettandosi su di lui e riprendendo quella che pareva essere
diventata la sua attività preferita: tentare di strangolare Sawada.
- A dopo! Avvisaci quando si sveglia! Ciao-ciao!- aggiunse in coda e con tono più affabile, rivolta ad un Ken che ancora
cercava di realizzare cosa stava accadendo.
Poi la ragazza chiuse dolcemente la porta dietro di sé in un sogghigno piuttosto fiero, ritenendosi orgogliosa del
proprio operato e delle sue doti di attrice, commediante, pianificatrice, eccetera, eccetera.
Ora però sorgeva un altro problema: non poteva di certo portarsi dietro Kojiro in cerca di una doccia per tutto l’hotel.
- Allora, Jonathan Swift, spero che tu sappia quello che stai facendo!- esclamò Hyuga, realizzando l’intento della
compagna.
- Lo so, capitano! Fidati!- rispose quella, gongolante.
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I ragazzi raggiunsero le scale e scesero verso la stanza di Sawada e Sorimachi: Kojiro avrebbe utilizzato la doccia nella
loro camera e magari, alla faccia di Ayame, lei sarebbe anche riuscita a sbirciare qualcosa...!
Dall’altra parte dell’uscio, Wakashimazu si era seduto accanto al corpo immobile di Eve, sdraiata in quella posa buffa e
sensuale che tendeva ad assumere quando dormiva. In quel momento gli parve davvero prima un pulcino... e poi una
sirena, con il profumo intenso delle onde tra i capelli, la durezza degli scogli nell’indole e l’immensità del mare dentro
le iridi ora nascoste.
Avvicinò una mano al suo volto, sfiorandole le labbra con il palmo della mano ed avvertendo un brivido caldo lungo la
schiena al contatto con la morbidezza della sua bocca e con il tepore del suo respiro sulla pelle.
Dopo la gara e le celebrazioni le atlete avevano avuto modo di cambiarsi di nuovo ed ora Eve indossava dei semplici
pantaloni sportivi neri che le avvolgevano strettamente fianchi e cosce, mentre scendevano più morbidi sulle gambe,
un bustino che lasciava scoperte le clavicole al di sopra delle spalline larghe ed elastiche ed il paio di inseparabili
polsiere, stavolta però tutto dello stesso scuro colore dei pantaloni.
Le sfiorò una spalla, soffermandosi all’altezza dell’attacco del bicipite, scostandole con l’altra mano le ciocche ribelli che
le coprivano la fronte... e per la prima volta si chiese se mai Eve provasse lo stesso, intenso amore che lui sentiva nei
suoi confronti. E si trovò a sperarlo con tutto sé stesso, con uno slancio di nervi e volontà mai avvertito né provato,
sebbene starle vicino ascoltando solo il suono del suo modulato respiro fosse così a tratti sublime da avere il terrore di
rompere in mille pezzi una meraviglia di alabastro e cristallo, troppo preziosa e rara da mettere a repentaglio.
Eve ebbe un fremito nel sonno, aggrottando lievemente le sopracciglia.
Il portiere ritrasse di scatto il braccio, nel timore di averla destata, ma così facendo la ragazza si svegliò del tutto.
- Amh... - sbadigliò, faticando a tenere gli occhi aperti dal primo momento.
Se li strofinò con le dita, rendendosi conto poi di non essere sola ma in compagnia di colui che aveva fino a quel
momento sognato.
- Ciao, gattino.- disse solamente, venendo accolta dal sorriso speciale che Ken riservava solo a lei.
- Buongiorno, campionessa.- rispose, accomodandosi meglio sul materasso.
- Non chiamarmi così... almeno tu...- fu la replica della bionda, ancora mezzo addormentata. Certo, le faceva piacere
essere quella carica che si era guadagnata, ma desiderava che solo che per lui... per Ken... voleva essere solamente
Eve.
- Come vuoi, Eve.Le labbra di lei si distesero in un’espressione addolcita. Wakashimazu la spiazzava e non la deludeva mai al tempo
stesso. Era come se - un momento...
- Emh... posso sapere che posto è questo?- La mia camera d’albergo.- fu la replica naturale che le arrivò dal compagno.
La ragazza raggelò.
- La tua... cosa?!- si trovò a domandare con enfasi, concretizzando il fatto che forse - anzi, con tutta probabilità - si
era addormentata di nuovo e, maledicendo il proprio metabolismo ameboide, tentò di trovare qualcos’altro di più
intelligente da dire.
- No... no!- l’anticipò lui, percependo la sua preoccupazione e confermandole i dubbi - Ti sei semplicemente
addormentata mentre tornavamo e così Mizuki ha pensato di portarti qui, dal momento che al tuo albergo ci sarà un
mare di giornalisti. Volevamo tenerti un po’ per noi.- sorrise con un tono affabile che Eve considerò delizioso, accostato
alla sua profonda gradazione di voce maschile - Ora loro sono andati di sopra, non volevano disturbarti. Sono rimasto
qui nel caso in cui ti fossi svegliata e non avresti saputo dove ti trovavi, appunto.E soprattutto perché sembra che Mizuki abbia voluto fare da Cupido.
Non che gli servisse un Dio dell’Amore pronto a scagliare frecce a raffica - anzi, di solito era piuttosto infastidito ed
irritato da questo genere di cose - ma si trovò a considerare che, forse, per una volta Awashida aveva agito nel modo
giusto, lasciandogli Eve per qualche ora.
La bionda sbatté gli occhi ancora insonnoliti e sbadigliò di nuovo.
- Che ore sono?- chiese, drizzandosi sulle ginocchia.
- Più o meno le dieci.- le rispose, gettando un occhio all’orologio.
- Eh!? Ma se erano le sette o poco più!- esclamò, ricordando che l’ultima cosa che aveva fatto dopo i lunghi
festeggiamenti era stata il silurare una nuova, pressante proposta da parte della Rama e sgattaiolare via insieme al
gruppo di compagni.
- Mentre dormivi il tempo è passato.- sorrise lui, alzando un sopracciglio e curvando le labbra da un lato.
- Già...- si stiracchiò di nuovo, questa volta le ossa del collo ebbero modo di farsi sentire, prima a destra, poi a
sinistra, una volta che l’ebbe curvato.
- Vuoi tornare?- chiese lui, con velato rammarico. Eve lo notò.
- Mi vorresti tenere qui per sempre, eh!- scherzò, provocandolo con un lieve colpo al petto.
- Ammetto che mi era passato per la testa di legarti al letto e bloccarti qui.- rispose Ken con una risata - Ma poi
sarebbe venuto fuori qualcosa di ambiguo, oltre che illegale.- Ma sentitelo!- la ragazza gli lanciò un altro pugno leggero alla spalla sinistra, contagiata dalla risata del portiere.
Wakashimazu si alzò per qualche breve secondo, cercando di nuovo di sedersi meglio sul letto di modo che anche Eve
avesse il proprio spazio.
- No...- le sfuggì, scattando in avanti con entrambe le mani. Lui si bloccò e le rivolse uno sguardo interrogativo.
- Che c’è?- No, niente...- ribatté lei, rimettendosi a sedere in ginocchio sul materasso.
Era talmente bello stare accanto a lui sullo stesso letto, in un luogo così circoscritto come non capitava da tanto
tempo... e vicini a tal punto che quando lui si era leggermente alzato, temeva che se ne volesse andare.
Il ragazzo si sedette meglio, lasciando penzolare una gamba giù dalla sponda, l’altra piegata sotto la prima.
Rimasero in silenzio per pochi attimi.
- E’ passato tanto...- sospirò Eve, quasi volesse liberarsi da un peso con quell’affermazione, un peso che le aveva tolto
aria dal cuore per lunghi mesi.
- Già.- le fece eco - Però alla fine siamo di nuovo insieme.Si sentiva di nuovo strano, come se lei stesse per esordire in una nuova battuta ironica. Ormai le presagiva.
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- Ehi, eri tu quello nervosetto!- scherzò Eve, per l’appunto.
- Eh...?- gli occhi di Ken si fecero teneramente spaesati.
- Non cercare di fare il duro, eri tu o sbaglio quello che tirava pallonate sfonda-traversa circa sei mesi fa? Il Toho
avrebbe voluto il risarcimento danni, se non ti avessi fermato!- rise lei, arricciando involontariamente la bocca come
un gatto.
- Che cosa vorresti dire??- fece il finto arrabbiato, aspettandosi un altro pugno.
- Che sei dolce.- sussurrò invece Eve, allungando una mano verso il suo volto.
Una carezza. Semplice. E silenziosa.
- Grazie.- aggiunse in un soffio, la sua voce di perla pareva lontana mille miglia, ma allo stesso tempo così vicina da
poterla avvertire soffiata accanto all’orecchio, calda come lava, leggera come vento.
Wakashimazu accostò la propria mano alla sua, piccola ed armoniosa, dalle unghie traslucide ed accurate. Il tocco
delle dita della compagna sul proprio viso lo fece sentire d’un tratto parte di una cerchia elitaria di angeli cui Eve aveva
dato il permesso di accedere al suo cuore.
Sorrise, lasciando che rigogliosi i zaffiri della ragazza si specchiassero di nuovo nelle proprie iridi d’intenso nero ed il
cuore gli accelerasse rapidamente nel petto.
- Quando torneremo ti farò conoscere Dex.Aveva deciso di parlargliene.
Ancora prima che lui potesse porle una qualsiasi questione in merito, lo aveva già anticipato con un sorriso tra il
malinconico e il nostalgico.
- Mio padre è spirato qualche settimana fa.Ken serrò d’istinto la mandibola.
- Sono andata a vederlo per l’ultima volta in Olanda, prima che voi tutti arrivaste.- Eve alzò gli occhi al soffitto,
mantenendo lo sguardo fisso lassù per qualche secondo - Sai, è... strano. Quando la mia famiglia era a pezzi, divisa...
mi sentivo inutile e vinta da qualcosa che non avevo nemmeno provato a combattere.- una nuova pausa, un sospiro Aveva un... sarcoma al fegato.Il portiere le abbassò la mano, racchiudendola in entrambe le proprie e stringendola forte.
- Nonostante fosse così che doveva andare... nonostante la scelta di mio padre di non curarsi sia stata ponderata e
razionale... e nonostante questo abbia portato alla riunione dei cocci di quella famiglia che davo per persa... io... sento
che ogni cosa che faccio... qualunque cosa diventerò nella mia vita... io...- gli occhi erano quasi umidi, la gola bloccata
da un pesante groviglio di dolorose spine - Io... non lo so come faccio ad essere ancora in piedi.- riuscì finalmente a
dire, scuotendo il capo in un nuovo, mesto e rassegnato sorriso.
- Forse sono solo folle. Incosciente, inesperta... noncurante.- si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo da lassù e
prendendo a fissare un punto imprecisato del cuscino su cui Ken aveva già trascorso diverse notti.
- Sei forte.- la replica ferma di Wakashimazu la travolse come uno sparo in pieno petto - Ferma e matura. Dedita.
Razionale. E appassionata.Nessuno mai. Mai.
Parole così luminose, così... semplicemente trasparenti da essere quasi considerate eccessive per lei, troppo... grandi.
Eve tornò di scatto a fissare la brace ardente degli occhi di Ken, senza parole, senza pensieri, senza respiro.
- Grazie...- riuscì a dire soltanto, dopo un silenzioso ed invisibile singhiozzo che tuttavia l’interno del suo corpo percepì
come una detonazione assordante. I suoi occhi di cielo si riempirono - ancora spalancati - di gocce opalescenti e
liquide, che per tensione superficiale non lasciarono l’incavo delle palpebre, mantenendosi ad un passo dal traboccare.
- Ehi, non piangere. E’ l’ultima cosa che una come te deve fare.- le prese inaspettatamente il viso tra le mani, pur
mantenendo le dita strette a quelle della mano destra di Eve, non slegando la stretta - Ti sei rialzata sino ad ora, ad
ogni caduta. Continua a camminare, Eve.Il tocco di entrambe le mani, del suo volto, della sua voce e del suo cuore che quasi poteva percepire legato al proprio
in un intreccio di corde e capillari, furono ad un passo da permetterle di toccare l’empireo con un dito, se solo avesse
teso un braccio...
- E poi se piangi ti verranno gli occhi rossi, se ne accorgeranno tutti... una campionessa deve ridere, non piangere.- le
sorrise di nuovo, scostandosi di poco perché potesse appoggiare la propria fronte alla sua, mescendo di nuovo l’ebano
all’oro.
Lei deglutì silenziosamente come poco prima aveva singhiozzato, rimanendo preda del vortice e chiudendo gli occhi
per un attimo, sufficiente perché le mute gocce di pianto scivolassero via sugli zigomi.
- Grazie...- ripeté per la terza volta, incapace di dire nient’altro.
Li riaprì di nuovo con uno scatto, avvertendo le labbra di Ken su una guancia portarle via una lacrima, mentre l’altra
raggiungeva con lento incedere il copriletto bianco.
- Qualunque cosa deciderai di fare della tua vita, io sarò sempre sulle gradinate con un biglietto di prima fila.- disse,
tuffandole una mano tra i capelli sulla nuca e stringendola a sé, lasciando che il suo capo cadesse appoggiato al
proprio petto e che la stretta alla mano destra si mantenesse costante, energica.
Ed in quell’attimo, in quella esigua frazione di secondo, Eve si ritrovò investita dal medesimo devastante amore che
aveva sentito sgorgare dal proprio cuore, pochi istanti prima di tagliare il traguardo.
Ne rimase catturata totalmente, elevata e poi urtata, come in una bufera.
Talmente vigorosa da fare male, talmente forte da sanguinare, talmente viva da non esistere più.
E desiderare di rimanere sospesa in quell’attimo tra vita e morte per un tempo che non è più tempo, eterno ed
incalcolabile.
Aveva seguito le dita di Mikami che scorrevano sulla lista e passare i suoi occhi attenti sul contenuto della cartelletta
rossa che teneva tra le mani, per poi pronunciare i nomi dei giocatori che sarebbero stati schierati per il primo
incontro. C’erano tutti coloro che si aspettava... meno il suo.
La sua mente aveva immediatamente preso a considerare le ragioni più disparate, repentinamente e senza un filo
logico. Confuse, accavallate, sopraffatte dall’incredulità.
Eppure si era sempre allenato duramente, non aveva mai sottovalutato nulla... - o forse, a quanto pareva, tutto.
Genzo Wakabayashi si scostò dall’ingresso ed incrociò un paio di occhi scuri che già mille volte l’avevano guardato con
ardore e serenità.
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- Ehi, ciao. Pensavo fossi con Mikami.- fece Tsubasa, alzando un braccio in cenno di saluto.
- No.- rispose il portiere, calcandosi il berretto sugli occhi. Seguì una breve pausa di silenzio; i due rimasero in piedi
l’uno di fronte all’altro, attorniati dai rumori di sottofondo provenienti dalle stanze attigue dell’hotel e dalla hall.
- E... a proposito della prima partita...- fece per cominciare il numero dieci, ma l’altro lo interruppe immediatamente.
- Se l’è meritato Wakashimazu, a quanto pare.- tagliò corto.
Tsubasa era proprio identico a quando lo aveva incontrato per la prima volta. Lo aveva colpito il modo affezionato ed
intenso con il quale credeva nell’amicizia ed ai valori a cui ruota intorno. E poi era un campione.
Al di là delle doti innate, sapeva sorridere in ogni situazione e, per quanto si sforzasse di fare mente locale, non aveva
mai conosciuto nessuno di così appassionato e devoto ad un sogno.
Stranamente, irrimediabilmente... in quell’istante una strana sensazione di orgoglio ed egoismo lo invase. Fu come
proiettato al di fuori di sé stesso, per vedere nient’altro che un arrivista senza scopo. Bell’ossimoro.
Scosse il capo tra sé, mentre il capitano, con fare allegro, gli rivolgeva un secondo cenno di saluto per allontanarsi su
per le scale. Sapeva quando Genzo non aveva voglia di parlare e... beh, Genzo non aveva voglia di parlare, in quel
momento.
Stizzito e forse anche un po’ risentito del fatto che Mikami avesse scelto Ken e non lui, si lasciò sprofondare in una
delle poltrone in pelle, attendendo l’ora di cena senza troppo entusiasmo.
Era stato convinto fino all’ultimo che, dal momento che aveva garantito la propria presenza certa e la sua forma fisica
non avesse nulla che non andasse, l’allenatore avrebbe deciso di schierarlo in campo come portiere titolare, ed
invece... una bella doccia fredda. Un pugno allo stomaco. Un fulmine a ciel sereno. Qualcosa di piuttosto doloroso ed
inaspettato, insomma.
Aveva mantenuto l’autocontrollo fino alla fine, soprattutto forte del fatto di aver realizzato che Wakashimazu era
migliorato parecchio, era diventato un portento. E questa volta nessuno gli avrebbe dato il diritto di aprire bocca sulle
sue azioni, di guidarlo od incoraggiarlo: sapeva il fatto suo, c’era poco da fare. Tra l’altro stava per cominciare a
pensare di aver sottovalutato il mondiale... e forse di aver peccato di superbia. L’essere considerato uno dei migliori
portieri del mondo di certo non gli dava ragione di poter peccare d’indolenza.
Non aveva mai considerato Ken inferiore a sé, piuttosto un degno avversario - come aveva avuto modo di ritenere in
più d’una circostanza, a volte qualcuno da consigliare, in altre occasioni qualcuno da temere, ma pur sempre un
compagno...
Alzò il capo di poco, l’attenzione attratta da dei nuovi passi per le scale.
Dall’altra parte del salone, una ragazza bionda dalle spalle squadrate e ben definite, nude sopra la fascia nera che le
copriva seno e ventre, era appena entrata dal grande uscio girevole principale, sistemandosi la borsetta su una spalla
ed avvicinandosi al corrimano della parete antistante in un lieve frusciare dei pantaloni verde militare.
Voltò di nuovo il capo verso la scalinata, laddove era comparso un sorridente Ken Wakashimazu, vestito di tutto punto
con giacca e maglietta, jeans e capelli liberi come sempre oltre le spalle.
Wakabayashi aggrottò le sopracciglia... dov’è che aveva già visto la bionda? Era come se il solo tentare di ricordare
dove potesse averla già incontrata gli procurasse una sensazione di fastidio, disagio e seccatura.
- Eve!- la voce di Ken sovrastò ogni suo proposito di avvicinarsi e tentare di riconoscerla da vicino.
- Certo che la puntualità...- commentò lei, tuffando le mani nelle ampie tasche.
- Ma senti chi parla!- fu la risposta dell’altro, che prese a dirigersi di nuovo verso l’uscita da dove era comparsa la
ragazza, scambiandosi con questa rapide e concitate battute, finché non furono spariti oltre la porta girevole non
badando minimamente a lui e con tutta probabilità senza nemmeno accorgersi della sua silenziosa presenza.
Eve, si chiamava Eve.
Fece mente locale. Springer, campionessa mondiale di velocità nei campionati di atletica appena disputati. Era un
nome piuttosto particolare per un’atleta giapponese, o meglio, per un’atleta che gareggiasse per il Giappone. Un
dettaglio che si ricordavano tutti quanti più o meno bene - soprattutto coloro per i quali un successo nazionale era
sempre e comunque evento da ricordare e celebrare, indifferentemente dall’interesse e dall’esperienza in merito.
Eppure... era convinto dovesse esserci qualcos’altro...
La mattinata era corsa via velocemente, così come le ore che li separavano dall’inizio del campionato. Soltanto qualche
giro di lancette e poi l’arbitro avrebbe sancito l’inizio di Giappone-Uruguay.
Victorino avrebbe creato non pochi problemi, eppure... eppure Mikami aveva deciso di schierare Ken in porta. Ovvia
conseguenza: Genzo continuava a sentirsi in bilico tra l’irritato e l’incredulo.
Sferrò un calcio alla prima sfera che gli capitò sotto i piedi e si allontanò rapidamente dalla panchina. Lo stadio era già
gremito di gente, i ragazzi avevano già fatto le proprie classiche osservazioni e tra il nervosismo generale, ma anche la
voglia di dare il massimo, erano pronti al via.
Wakabayashi si voltò un’ultima volta verso il gruppo; il portiere dai capelli lunghi si stava sistemando la casacca sul
petto, laddove troneggiava un vistoso numero uno. Accidenti, per quanto potesse imprecare, proprio non riusciva ad
odiarlo. Non lo poteva odiare. Dopotutto si era impegnato a fondo ed ora stava raccogliendo i frutti del suo impegno.
Tutto secondo legge di natura, giusto? Già... ma a sue proprie spese.
Diresse di nuovo, repentinamente, lo sguardo altrove, ma la sua attenzione venne catturata da una figura conosciuta.
Di nuovo quegli occhi, gli occhi di quella ragazza che tanto gli aveva dato da pensare.
Se ne stava seduta tranquillamente con la schiena accostata al muretto basso, la frangia tirata indietro con un doppio
elastico che passava tutt’intorno al capo, la cui base poggiava sull’occipite, e la fronte immacolata baciata dal sole
estivo.
Era sola. Bene.
Ora poteva togliersi quel maledetto dubbio.
Dal canto suo, Eve stava cominciando a innervosirsi: Mizuki le aveva assicurato che sarebbe stata lì in un battibaleno,
giusto il tempo di indossare qualcosa di decente e raggiungerla alla partita.
Ovviamente la frase ‘indossare qualcosa di decente’, detta da Mizu significava ‘bigodini, maschera, trucco, crema e
manicure’. Il che le aveva già fatto scuotere il capo tra lo spazientito e il corrucciato ben tre volte.
Fece per alzarsi e dirigersi verso i posti che avrebbero dovuto in realtà occupare, quando una voce alle spalle la colse
di sorpresa.
- Eve, giusto?85
Lei si voltò lentamente, come se il tono appena udito le fosse già pericolosamente noto, sebbene considerò in un
battito di ciglia che non poteva averlo udito tanto spesso da esserle famigliare, ed anzi... più che cognizione, la colse la
strana sensazione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
- Come fai a sapere come mi chiamo?- domandò, specchiandosi negli occhi neri di Genzo.
Oh, no. Wakabayashi.
Adesso sì che erano cavoli, e se aveva intuito - o in qualche modo fosse risalito - all’identità del misterioso sfidante di
qualche mese addietro? Come aveva fatto?
Ma... e se fosse stato Karl...?
Mille diverse congetture presero a germogliare nella sua mente, inevitabilmente incalzanti.
- Sei della federazione di atletica. Ho sentito che parlavi con Ken.- le disse, seguitando a fissarla - In verità volevo
chiederti se... ci siamo già visti?Eve si giocò la sua performance migliore nella dissimulazione. Fece finta di aggiustarsi i jeans sotto le ginocchia,
soffermandosi sul risvolto.
- Eh?... Chi, noi due? Non credo. Impossibile... da quando sono qui non ho fatto altro che allenarmi in federazione.sorrise, sfoderando la sua aria più credibile.
- Oh.- fu la piatta risposta dell’altro - Strano, eppure mi pareva di averti già incontrata...La bionda serrò la mascella e si portò una mano al fianco, appoggiando il palmo sull’anca ossea sporgente.
- Davvero? Magari chissà, in un’altra vita.- sorrise di nuovo, decisamente poco genuina.
Intanto le ipotesi chiassose nella sua testa avevano raggiunto un numero tale da non lasciarle nemmeno lo spazio per
pensarne altre. Accidenti, di certo quel ragazzo era attento ai particolari... di qualsiasi sorta potessero essere, certo,
dopotutto non l’aveva nemmeno vista in faccia, quella volta.
Genzo abbassò lo sguardo, tenebroso e deciso come sempre, si coprì gli occhi con il cappello.
E fu allora che per qualche arcana e masochistica ragione, Eve fu spinta sino all’orlo del baratro, giusto per gettarvi giù
una pietra di dimensioni alquanto importanti e sentire che rumore facesse nel colpire il suolo.
- Come ci si sente ad essere il numero due?Il sibilo della ragazza fece alzare di nuovo il piglio di Wakabayashi, improvvisamente e con un’increspatura di rabbia
repentina. Ma quando incontrò le iridi azzurre di lei, si trovò quasi travolto da un inaspettato mutamento: erano
divenute gelide come quelle di una serpe, venate di perfidia.
- Vuoi prendermi in giro, ragazzina!?- replicò, fermo e seccato.
L’altra si lasciò invadere da un senso sinuoso di appagamento, come se si sentisse estremamente soddisfatta nel
procurare al ragazzo che le stava dinnanzi una qualsiasi sorta di turbamento, anche il più piccolo.
Certo era che l’espressione di Genzo in quel momento non aveva prezzo.
- Era solo una domanda. Che c’è, non sei sicuro di te stesso?- un nuovo sorriso, questa volta decisamente più naturale
e decisamente poco bendisposto. Wakabayashi le lanciò un nuovo, carico e intenso sguardo sprezzante; nonostante
tutto il proprio self control, di sicuro se fosse stata un ragazzo, le avrebbe messo le mani addosso.
- Ti va di fare la primadonna? Ti consiglio di tacere, non discuto con chi è preso da deliri d’onnipotenza, senza contare
che non mi conosci minimamente e non capisci ciò che provo.- fu convinto di aver vinto e concluso la scena con onore,
così fece per girare i tacchi e andarsene, quando da dietro lo raggiunsero due semplici e taglienti parole.
- Ken sì.Gli occhi scuri di Genzo si spalancarono irrimediabilmente e ci volle poco perché anche le nocche delle sue mani
imbiancassero sotto la stretta serrata dei pugni. Immobile, rimase per qualche istante ancora sconcertato e incollerito.
- Ti senti frustrato, non è così?- proseguì Eve, facendosi pericolosamente vicina - E’ come sentire lo stomaco
contorcersi e gridare, vero? Per Ken non è una sensazione nuova. Eppure è ancora in piedi. E stavolta più in alto di te.Se non si fosse aperto un abisso sotto i suoi piedi, Wakabayashi si sarebbe voltato per l’ultima volta e avrebbe
afferrato quella vipera per le spalle, scuotendola e gridandole in faccia di smetterla, di finirla di dire sciocchezze, di
piantarla di rivolgergli quello sguardo saccente.
L’avrebbe fatto... se non fosse stato tutto vero.
Se non si sentisse esattamente come Eve aveva appena descritto.
Se potesse non disprezzare Ken, ma sé stesso per provare ammirazione verso di lui.
Se non avesse perso di vista che giocare a calcio non era piattezza e disposizione di facoltà illimitate, ma una passione
vera alla quale si era totalmente affidato, l’unico modo che da sempre conosceva per riempire quel vuoto che portava
dentro. Un vuoto dato da una casa troppo grande, da una famiglia troppo assente... e da un bambino troppo solo.
Poi la bionda gli sfilò il berretto, se lo calcò sul capo ed incrociò le braccia al petto. Quasi nello stesso istante il portiere
si rivolse nuovamente al suo volto, stranito da un gesto simile, ma ancora preda dell’offesa di poco prima.
- Perché... l’hai fatto?- fece, riconoscendo lentamente in lei l’unico particolare che ricordava dello sfidante che era
riuscito a segnargli un goal su rigore: le labbra silenti e distese, poco sopra il mento rotondo. La visualizzò di nuovo, il
seno e le curve femminili ora fasciate in abiti consoni, allora celati da una larga tuta... ed il volto seminascosto.
Eve sospirò, sollevando lo sguardo e la visiera con un dito.
- Ero solo... curiosa.- alzò le spalle, rilanciandogli il berretto - Ma non sei male, contando che eri distratto, che ti ho
colto impreparato e che, beh, le mie gambe... insomma, sono una velocista.- Mi stai giustificando?! Non sei soddisfatta?!- sbottò lui, di nuovo sbalordito.
- Non legittimo, né scagiono nessuno. Solo riporto un dato di fatto.- fu la replica della bionda, che scosse il capo nella
sua espressione altera - E sì, sono soddisfatta. Niente buonismi, niente censure. Non mi piaci, e non mi vergogno a
peccare di immaturità, affermandolo senza nemmeno conoscerti, ma temo che se anche lo facessi, le cose non
cambierebbero.Le ultime parole di congedo, poi si voltò e raggiunse con tutta calma la tribuna, mentre Genzo rimase a fissare il
movimento cadenzato delle sue spalle di donna allontanarsi con andatura quasi sdegnosa.
E per un qualche motivo sconosciuto, rilassò la presa sul cappello e rilasciò anche l’altra mano, chiudendo gli occhi ed
espirando profondamente.
Sinceramente, era tutto talmente assurdo da indurlo a non sapere che pensare.
Probabilmente l’incontro con quella tizia avrebbe dovuto prepararlo all’epilogo che era poi realmente stato scritto da
Mikami, eppure, cieco, non l’aveva minimamente scorto. Preso dalla frustrazione, dalla rabbia e dall’insoddisfazione.
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Non sapeva nemmeno che razza di ruolo avesse quella Eve nella vita di Wakashimazu, tanto da spingerla ad un gesto
simile, ma da come si era comportata pareva essere una sorta di grosso felino con il brutto vizio - o bello? - di voler
difendere a tutti i costi ciò che sentiva suo, per non perderlo, disperatamente, attaccando.
Il volto di Wakashimazu si stagliava silente rivolto verso il campo, le labbra leggermente curvate in quello che Genzo
riconobbe come una sorta di sorrisetto orgoglioso, al suo ritorno verso la panchina.
Fece per avvicinarsi, quando Mikami interruppe la sua marcia e gli fece cenno di dover conferire. Così si allontanarono
quel poco che bastava perché nessuno potesse udire le loro parole.
- Preparati a scendere in campo.L’affermazione dell’allenatore per poco non gli fece perdere l’equilibrio.
- Che... cosa?- domandò, tra l’incredulo e l’irato, considerando il fatto che questo era proprio il colmo, dopo essere
stato quasi scartato.
- Quello che ho detto, oggi giocherai tu, Genzo.- confermò l’uomo, sistemandosi gli occhiali. Il portiere incrociò le
braccia al petto, voltandosi lievemente per tornare a gettare un occhio a Ken.
- Ma la formazione ufficiale, la stampa...- fece per cominciare.
- Sono sempre in tempo per un cambio dell’ultimo momento, semplice e senza pretese.Wakabayashi cominciava a pensare che tutta fosse una congiura al suo sistema nervoso, tanto più che Wakashimazu
sedeva ancora serenamente tranquillo al suo posto.
- E Wakashimazu lo sa?- alzò un sopracciglio, assumendo un tono ironico.
- A dire il vero è dopo aver parlato con lui che ho deciso questo.Genzo fece tanto d’occhi, stavolta. Di nuovo in bilico tra lo stupefatto e l’irritato si sentì come se fosse occorso il
benestare di Ken perché lui potesse giocare.
- Il cruccio di Ken Wakashimazu è sempre stato il fatto che, con anche qualche pretesa da parte mia, non ci sia mai
stato un confronto vero e proprio tra portieri, alla base delle decisioni riguardanti la formazione ufficiale. E, beh,
questa volta vi siete raffrontati a dovere ed ho avuto modo di scegliere.Mikami si schiarì la voce e seguitò a rivolgergli il proprio tipico sguardo severo, mentre lo stadio si gremiva
gradualmente d’altri tifosi.
- Genzo, non è quanti goal riesce a parare un portiere il fatto determinante per decretare la sua bravura. Un portiere
impara dai propri errori, ed è quello che il più delle volte fa Ken. Ogni volta che subisce rete, si arricchisce di una
lezione molto importante, di modo da non ricadere nello stesso sbaglio. Essere semplicemente imbattibile, per quanto
contraddittorio possa suonare, non è un vanto, è un dato di fatto. Io ti ho sempre ammirato e sostenuto, questo
nessuno può cambiarlo. Sei uno dei portieri più promettenti al mondo, se non il migliore.Wakabayashi scosse lievemente il capo. Flessibilità, era questa la dote di cui andava vaneggiando Mikami?
- Questo cos’ha a che fare con il fatto che dovrei giocare io Giappone-Uruguay?- andò dritto al punto, nascondendo
l’essere, dopotutto, lusingato dalle parole dell’allenatore. Voleva dare fiducia a Wakashimazu, allora... ecco svelato
l’arcano. Ai suoi miglioramenti, alla sua tenacia... e inaspettatamente si trovò a sorridere tra sé.
- Non importa, sono contento di scendere in campo.- annuì, voltandosi e sistemandosi il berretto sulla fronte.
Nel tornare indietro si imbatté in un volontario e ricercato sguardo lanciatogli dagli occhi neri del portiere dai lunghi
capelli corvini ancora seduto in panchina. Il suo sorriso era quasi sornione, ma senza l’ombra di alcuna malizia.
Non gli aveva mai sorriso così.
Ed in quel momento, dopo tutte le congetture e supposizioni che avevano occupato la sua mente fino ad allora, tutto il
risentimento cessò d’importargli, cessò di importare, perse tutto il suo diritto di sussistere.
Ken Wakashimazu avrebbe fatto il suo dovere, se si fosse trovato al suo posto. E Genzo Wakabayashi non sarebbe
stato certo da meno.
= Ruben Pablo scatta in avanti, con un passaggio lungo che finisce tra i piedi di Victorino, smarcato. L’attaccante
arriva prontamente in area di rigore e si prepara a calciare il suo tiro migliore!
Attenzione! Interviene Misaki, ma l’uruguaiano salta magistralmente portando tra i piedi la sfera, evitando il tackle in
scivolata! La sfera raggiunge di nuovo il suolo e rimbalza sulla linea di tiro di Victorino che spara una cannonata!! =
Perle di sudore sul viso latteo. Genzo socchiuse gli occhi e si lanciò con un solo pensiero in mente, non più devo
pararla ad ogni costo, ma siamo una squadra.
= Fantastica parata di Wakabayashi!! La palla si stoppa tra le sue mani e così termina un’azione degna di nota!! =
I suoi occhi scuri si rivolsero al mister, che ancora decantava il magnifico 2 a 0 riportato il giorno prima.
Vittoria a rete inviolata. Un ottimo inizio, in perfetto stile Wakabayashi.
Ora l’espressione di Genzo era fiera e serena, chi lo guardava pareva comprendere che avesse ritrovato quell’antica
voglia di vincere per la squadra, per la patria, per puro amore verso il calcio.
Solo quando si trovò con tutta la squadra, poté spiegare loro il motivo del cambiamento di ruolo che aveva operato
Mikami. Ovviamente con piccole bugie bianche, il fatto che l’allenatore volesse metterlo alla prova lo tenne per sé, così
come il fatto che Ken sapesse tutto - l’aveva letto nei suoi occhi - e ch’era degno e soddisfatto d’essere titolare.
I ragazzi uscirono chiacchierando dalla sala riunioni; si preparavano per l’incontro contro l’Italia. L’unico pericolo qui
aveva le sembianze di Gino Hernandez, grande estremo difensore, ma di sicuro se avessero lavorato di squadra e
fiducia come sempre, avrebbero superato anche quest’ostacolo.
Difatti si rischiò che la partita finisse in parità e si dovesse andare ai supplementari, ma una perfetta azione combinata
di Hyuga e Oozora portò la squadra alla vittoria ancora una volta.
L’ombra incombente era rappresentata dall’avanzata della squadra di casa: nel frattempo la Germania aveva battuto la
Francia per 3 a 2 e Schneider aveva trionfato di nuovo tra il clamore del pubblico teutonico.
Alla fine del primo tempo contro la Gran Bretagna, stavano ancora sullo zero a zero.
- Ragazzi dobbiamo mettercela tutta se vogliamo vincere il campionato!- il classico grido di Tsubasa. Incoraggiante,
come sempre.
Kojiro sorseggiava una bottiglia d’acqua e lo guardò discostandosela dalle labbra.
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- Tsubasa ha ragione, se non superiamo quel buffone di Montgomery non potremo batterci contro i tedeschi.- con aria
decisa fissò la panchina avversaria. Gli inglesi erano decisi e spavaldi, forse ancora non conoscevano il vero stoicismo
giapponese che, beh, gli avrebbero dimostrato di lì a pochi minuti.
Genzo si era tolto i guanti ed ora, sereno, aveva l’aria di chi aveva compiuto il proprio dovere. Si avvicinò a Ken a
passi lenti, mentre questo si alzava dalla panchina e si preparava a dare il proprio contributo al mondiale.
- Ora tocca a te, Wakashimazu.- sorrise Wakabayashi, con aria di sfida. Finalmente, giusto a metà campionato, Mikami
aveva deciso di operare la sostituzione definiva. Non l’avrebbe mai fatto, se non riponesse fede nei progressi del
karateka... e questa era una cosa nella quale anche Genzo stesso aveva cominciato a credere, libero da rabbia e
pregiudizi.
Il ragazzo annuì, stringendo la mano del SGGK, che lo aiutò a fare leva per superare l’alto gradino che lo separava dal
campo. Rimasero per diversi istanti a guardarsi in silenzio, una manciata di secondi, ma entrambi consapevoli di starsi
passando un testimone d’importanza sostanziale.
D’altro canto, dalla tribuna c’era qualcuno che aveva improvvisamente aguzzato lo sguardo.
- Finalmente si sono decisi a farlo entrare in campo!- la voce spazientita di Mizuki, sbuffando, si fece udire forte e
chiara. Accanto a lei, Eve era assorta, come in preda ad una comica e paradossale esperienza ascetica: stava fissando
Ken con sguardo rapito da diversi minuti. Era come se da lassù le sembrasse un campione lontano, intangibile... un
idolo, esattamente com’era accaduto quel giorno di tanto tempo addietro nella palestra di famiglia, mentre le elencava
i precetti del karate, illuminato di una pura luce che in realtà pareva rifulgere dalla sua stessa persona.
Quanto era bello, il suo Ken. Semplicemente, tangibilmente bello.
Di una bellezza fiera, selvaggia, ardente ed irriducibile. Un po’ come il suo orgoglio.
- Ehi, bella addormentata! Sveglia!- Mizu le scosse le spalle con una risata, riportandola sul piano terreno.
- Uh...? Sì? Cosa...?- Eve scattò in piedi, sgranando gli occhi e venendo raggiunta immediatamente dalla compagna,
che prese a sbracciarsi e a far sentire la propria voce acuta.
- Forza, Wakashimazu!! Fa’ vedere chi sei!- le urla dell’amica si alzavano nitide e distinte al cielo, accompagnate da
una risata cristallina di pura contentezza.
Ken si voltò giusto in tempo per vedere due sagome conosciute sugli spalti bassi: Mizuki si dimenava come una
cheerleader con tanto di tifo, mentre Eve, più pacata e signorilmente composta, portava disteso sul volto un sorriso
fiducioso.
Ricambiò l’attenzione, sorridendo di rimando e facendo cenno di saluto con una mano. Eve si portò un pugno chiuso al
petto e il suo volto si dipinse lievemente di vermiglio... stava guardando lei, proprio lei... oh, che stupida, ora si
emozionava come una scolaretta!
Eppure d’altra parte non poté trattenere un’espressione di limpido gaudio, nel sentirlo ancora vicino come poche ore
prima, stretta nel suo abbraccio.
Nel frattempo la partita era ripresa, con uno scatto Tsubasa in avanti il facile superamento della difesa; con un rapido
passaggio a Taro riuscì a liberarsi di Stone, sparando con facilità la palla in rete.
Ovvio goal, ovvio trionfo.
Montgomery era furioso. Era come se nel primo tempo quei maledetti giapponesi non avessero fatto altro che prenderli
in giro, mantenendo il pareggio solo per umiliarli nella ripresa.
Prese possesso di palla e si diresse, scartando la strenua resistenza di Matsuyama, verso la porta. Ora avrebbe fatto
vedere a quei nipponici di cosa era capace. Con un intervento poco delicato superò anche Jito, arrivando davanti a
Wakashimazu e preparandosi al tiro.
Fu un istante. La sfera, caricata con una potenza inaudita, raggiunse l’incrocio dei pali. Fu quasi sicuro, nella sua
baldanza, che fosse un facile goal, invece Ken si scostò leggermente sulla destra, ricevendo il pallone con la facilità di
una presa da baseball, con una sola mano.
La mandibola di Steve Montgomery capitombolò a diversi centimetri dalla mascella, la bocca aperta e gli occhi
sgranati. Era... era il suo calcio più potente... parato con una facilità estrema... da non credere.
Il rilancio lungo ed energico arrivò ai piedi di Sano che, con un dribbling magistrale, fece ricevere la palla ad Oozora, il
quale si ritrovò marcato da due difensori, così decise per la mossa più canonica: Hyuga, libero, ricevette la sfera con
facilità, stoppandola di petto ed esordendo nella sua micidiale avanzata. Ora non lo poteva fermare più nessuno; infatti
arrivò da solo di fronte alla rete e...
- Che partita, ragazzi!- sorrise Takeshi, massaggiandosi il collo.
- E chi se lo aspettava un 4 a 0! Li avete stracciati!- fece Sanae, le mani ai fianchi.
- Già, complimenti capitano, sei stato grande!- l’ennesimo gridolino di Mizuki giunse poco inaspettato.
- Ehi, guarda che non ha giocato solo lui!- Sawada aveva da ridire.
- Questo lo so, Takeshi... però è stato lui a segnare tre goal!- ribatté la ragazza, ravviandosi un boccolo perfetto dietro
una spalla, poi si sciolse in uno strano sorriso, prendendolo per il collo e strofinandogli le nocche sulla testa Comunque sei stato grandioso anche tu!Dal canto suo, il più giovane convocato del Toho si trovò immerso in un imprevisto stato di imbarazzo e meraviglia. Da
quando quei complimenti? Anzi, più in generale, da quando i complimenti...?
CAPITOLO 12 – Abbandono inspiegabile
Non sapeva se fosse venuta, la nazionale di atletica tornava in Giappone il giorno stesso ed era molto probabile che
Eve non avrebbe potuto assistere alla finale, malgrado Ken desiderasse ardentemente che lei fosse là a guardarlo
giocare quella partita così importante... la più importante della sua vita, una finale di mondiale in cui lui vestiva
finalmente il ruolo di portiere titolare.
Smaniava con l’anima intera che lei lo vedesse trionfare...
Sospirò e si infilò i guanti, rimasto solo in spogliatoio coi suoi pensieri, mentre i compagni erano già sul campo per il
riscaldamento.
Eve gli aveva assicurato giusto la sera prima che gli avrebbe fatto sapere entro la mattinata se avrebbe ottenuto il
permesso scritto ufficiale per restare ad Amburgo e per poi tornare da sola, una volta disputata la finale del
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campionato di calcio. Ma così non era stato; la mattina era trascorsa e così il pomeriggio intero. Ora - pochi minuti
prima delle otto - la partita stava per iniziare e lui versava in uno stato tra l’apprensivo ed il preoccupato.
Impossibilitato a passare di persona all’ostello dove alloggiavano le ragazze, aveva chiamato la reception per sentirsi
rispondere che le ospiti giapponesi avevano già sgomberato le stanze. Allora aveva iniziato a chiedersi perché Eve se
ne fosse andata senza dirgli nulla, senza...
- Speravo di trovarti.La mente di Ken fu d’un tratto tabula rasa. Si voltò repentinamente.
- Eve?!- riuscì a dire, incredulo.
La bionda stava appoggiata allo stipite della porta dello spogliatoio, appena richiusa alle proprie spalle, con indosso un
vestito nero, corto fin sopra alle ginocchia e di una fantasia floreale color porpora, dei pantacollant dello stesso colore
scuro ed un paio di sandali aperti con un minimo tacco.
- Non dovrei essere nello spogliatoio della nazionale, ma non ho ancora restituito il mio pass speciale.- sorrise, la
targhetta pinzata alla spallina sinistra del vestito, poco sopra il pizzo ricamato - Se mi avessero vista entrare senza, mi
avrebbero presa per una maniaca, eppure non mi chiamo Mizuki!- rise, facendosi avanti con allegria.
- Perché non mi hai chiamato?- le domandò, corrucciato non per offesa, ma per l’inquietudine derivata dal non averla
sentita e, come diretta conseguenza, dallo star cominciando ad ipotizzare che poteva anche essere accaduto qualcosa.
- Scusami, siamo state letteralmente sfrattate.- alzò le spalle - Così, ogni cosa per aria, ho lasciato definitivamente la
squadra e sono qui a tifare per te, mentre gli altri staranno già volando verso casa. Speravo di incontrarti di persona,
prima che cominci...Le labbra di Wakashimazu erano ancora semidischiuse per lo stupore, immobile e tutt’un tratto rasserenato. Eve era lì,
a pochi metri da lui... ed aveva rinunciato a tornare a casa solo per vederlo giocare.
- Ti senti bene?- di nuovo quel sorriso morbido sulle labbra lievemente lucenti, mentre si appressava di qualche altro
passo e gli passava una mano davanti agli occhi. Il portiere sbatté le palpebre un paio di volte, prima di respirare di
nuovo l’intenso odore di lei.
- Adesso sì.- il suo profondo tono maschile le solleticò i sensi, proprio come sempre, in una calda sensazione di
quotidianità e tenera abitudine.
Gli prese una mano quasi involontariamente ed allacciò il guanto verde, stringendo al polso. All’avvertire quel contatto
con la sua grande mano d’uomo, fu scossa da un brivido... le adorava, le mani di Ken...
Ma che stava facendo? Si sentiva come la mogliettina che sistema la cravatta al marito prima che questi vada incontro
ad una giornata di lavoro! Non sapeva se ritenersi imbarazzata, oppure - sebbene fosse ben lungi dal vedersi con
indosso un grembiule a sbalzi e sbuffi - deliziata.
Tuttavia non riusciva a spezzare quel contatto, aggiustandogli il guanto con fin troppa meticolosità. Era come se per il
suo cuore, tutto fosse teso come sull’orlo di un addio.
- Sta’ attento ai tiri di Schneider.- sorrise, alzando lievemente il capo biondo e sicura che quell’inutile raccomandazione
sarebbe suonata alle orecchie di Ken come una dichiarazione di fiducia.
Lui non pensò.
Fu guidato dall’istinto e da quell’inconfondibile profumo di sirena caratteristico della pelle della ragazza che aveva
incatenato il suo cuore al proprio. Era un singolare, avvolgente odore di terra, di veleno, di donna. Unico ed esclusivo,
solo di Eve. Materno, fatale, avvolgente.
Scostò la propria mano dalle sue e circondò il suo giovane corpo, il raso del vestito a solleticargli gli avambracci
scoperti. Poi chiuse gli occhi e posò velocemente le labbra sulla bocca della compagna, che spalancò gli occhi celesti,
immobile con le mani sul suo petto ed il cuore che aveva preso a martellare, a ribellarsi, a parere quasi dover uscirle
dal torace da un momento all’altro.
Con un palmo poggiato all’ampio costato di Wakashimazu, poté percepire un battito altrettanto repentino, mentre
socchiuse gli occhi e concretizzò nella propria mente che quello era... era un bacio.
Leggero, intenso, soave, ardente. Come musica, come sinfonia, l’armonioso movimento della bocca del ragazzo sulla
propria. Avvolgente, concreta, intensa la sua presenza a sorreggerla e sconvolgerla.
Ebbe un brivido lungo la colonna, attonita e rapita, dischiudendo lievemente le labbra e portando una mano tra i lunghi
capelli del portiere, raggiungendo la sua nuca e lasciando che diverse ciocche fluide si insinuassero scivolando tra le
proprie dita, mentre lui, chinato su di lei, le stringeva i fianchi con energica delicatezza - un tocco stabile che si
mantenne anche quando si discostarono lentamente.
Eve stava ancora tra le sue braccia; abbassò la testa senza proferire parola ed impedendogli di guardare nei suoi
occhi, quando Ken la lasciò andare lievemente, temendo una sua reazione improvvisa ed ostile - di certo non le aveva
domandato alcun permesso, ma il tocco soffice delle dita della ragazza a carezzargli i capelli lo rassicurò finché non
alzò di nuovo il volto e sorrise teneramente. Lui ricambiò il cenno d’intesa ancor prima di vederlo dipinto sul volto della
compagna, prendendole la mano libera a portandosela alle labbra di modo che potesse di nuovo essere riscaldata dal
bruciante calore di quelle labbra che fino a qualche istante prima erano state intrecciate alle proprie.
Gli carezzò una guancia quasi ruvida, sotto un’invisibile velatura di barba individuabile solo al tatto e soffermandosi
sullo zigomo squadrato.
- Che pazzo sei, avrei potuto ucciderti.- bisbigliò, con un riso malizioso.
- Ho corso il rischio.- fu la risposta che la spiazzò, facendola di nuovo capitombolare in un universo di nuvole ed eteree
volute. Si lasciò sfuggire un ulteriore sorrisetto divertito, poi si fece seria ed allacciò entrambe le mani alle sue.
- Adesso vai, prima che vengano a cercarti.- si raccomandò - Io me la svigno da dove sono venuta.Wakashimazu annuì, mantenendo lo sguardo nei suoi occhi di cielo finché poté.
- Grazie di essere qui.- sorrise un’ultima volta, prima di lasciare scivolare le proprie dita da quelle di Eve, con la
speranza di poterle stringere di nuovo il più presto possibile.
- Dovere. E Ken...?- lo trattenne in extremis; lui si voltò indietro, mostrandole di nuovo il proprio volto nobile e sereno
- Fai vedere di cosa sei capace a quei tedeschi!- gli strizzò l’occhio ed ebbe un nuovo cenno d’affetto ed intesa da parte
del portiere che, qualche attimo dopo, sparì oltre la soglia per raggiungere il campo.
Eve si trovò tutt’un tratto sola e finalmente la ruota del tempo fu libera di riprendere il suo corso.
Inspirò profondamente, incerta se rimanere ancora lì incantata e sognante per molto, sfiorandosi le labbra e
sussurrando il suo nome.
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Entrarono in campo, finalmente.
La tensione era alle stelle, degna di una finale che sarebbe stata giocata al massimo delle possibilità di ognuno.
Il sole faceva capolino dall’ultima nube passeggera, in alto nel cielo estivo e la star protagonista, immobile tra Tsubasa
e Misaki, attendeva di essere calciata per la prima volta.
L’arbitro fischiò, alzando la mano destra, cosicché il gioco poté finalmente prendere piede tra le urla degli innumerevoli
tifosi che popolavano lo stadio, con i volti dipinti, le voci smaniose, le bandiere della propria nazionalità agitate al
vento.
Fu frenetico sin dal primo minuto: la Golden Combi non esitò a scavalcare ogni ostacolo e raggiungere da subito l’area
di rigore. Ma lì ad attenderli c’era Müller, che inibì tra le sue possenti mani l’entusiasmo del calcio di Taro, diretto
all’angolo destro della porta e non mancò di rivolgere al centrocampista uno sguardo carico di sfida e superbia, prima
di rinviare verso Schester.
Il tedesco avanzò per qualche metro palla al piede, per poi effettuare un rapido passaggio verso il proprio capitano,
mentre Jito si buttò in scivolata, tentando di prendere inutilmente possesso.
Il Kaiser ricevette con facilità, stoppando di petto e fermando la sfera sotto il proprio piede destro. Al solo notare la
direzione che aveva preso il pallone, dal pubblico si levò un clamore esagerato, mentre il cielo si riflesse negli occhi di
ghiaccio del fuoriclasse, che si voltò in un attimo, fulminando l’estremo difensore nipponico con uno sguardo.
- A noi, Wakashimazu.- sussurrò tra i denti, prima di partire all’attacco.
Eve si scosse.
Quello sguardo di ferro le fece d’istinto serrare i pugni, mentre Schneider si stava avvicinando sempre di più,
scartando con facilità anche Ishizaki e Matsuyama.
Ed in un istante, la cannonata partì. Appena dentro l’area di rigore, slittò a tutta velocità sulla mano destra di
Wakashimazu, tuffatosi per parare.
L’aveva preso... aveva preso il bolide di Schneider! Il tedesco digrignò i denti, mentre la palla guizzava via come
animata dalle sue dita e si insaccava in rete con una potenza ancora enormemente elevata.
Tra l’esultanza generale, Ken cadde in ginocchio.
Davanti a lui, Karl non mancò di mostrargli un ghigno appagato. Era sempre il migliore, l’imperatore.
Ci volle poco perché il portiere che credeva sconfitto, si rialzasse con un’espressione furiosa e determinata.
- Schneider! Il prossimo sarà mio! Non ti lascerò passare!- gli gridò Ken, saette dai suoi occhi neri.
Il bomber si limitò a socchiudere gli occhi e voltarsi per tornare oltre la sua metà campo, mentre gli schiamazzi e le
urla del pubblico a favore della Germania si facevano più insistenti.
Mentre Mizuki stava per lasciarsi andare ad un pianto dirotto, Eve sospirò. Stava accadendo ciò che non doveva, non
voleva che accadesse... Ken Wakashimazu, il distaccato ed imperturbabile karateka, si stava trasformando di nuovo
nell’ansioso ed irrequieto portiere.
Un passaggio lungo di Sorimachi arrivò ai piedi di Oozora, che si apprestò a correre in porta con il fisso pensiero di
dover recuperare immediatamente la rete subita. Calciò il suo tiro più potente sotto la traversa, sfondando la difesa. E
mentre la palla seguitava nella sua corsa, era sostenuta dalle preghiere del capitano, che le gridava di entrare e fare il
suo dovere.
Anche questa volta Müller si slanciò sulla destra, ma il tiro del numero dieci cambiò tutt’un tratto direzione, affondando
inaspettatamente nella maglia bianca alle sue spalle.
Il sorriso di Tsubasa da speranzoso si fece raggiante, un’azione perfetta. I suoi compagni gli furono subito addosso,
lieti ed impazienti di festeggiare il successo.
Dopo il momentaneo tripudio dei giapponesi, il gioco riprese più agguerrito di prima. Serrato, frenetico.
Entrambe le difese non lasciarono un attimo di spazio all’attacco avversario, finché non si giunse al trentacinquesimo.
Fu durante quegli ultimi dieci minuti che Karl Heinz Schneider riuscì di nuovo ad impossessarsi della palla,
intercettando un passaggio quasi perfetto per Hyuga e cominciando di nuovo a correre verso Wakashimazu.
Nessun pensiero, nessuna parola. Solo una nuova scheggia verso il petto del portiere, che accolse il bolide e stoppò,
tentando di trattenere. Impresa piuttosto difficoltosa, dal momento che anche questa volta non riuscì ad arrestare la
corsa devastante del tiro di fuoco, lasciandosi sfuggire la sfera dalle mani e permettendo alla Germania di passare
nuovamente in vantaggio.
- Maledizione!!- imprecò, un pugno dritto al terreno erboso sottostante ed il secondo a massaggiarsi i pettorali.
Fischio dell’arbitro. Fine del primo tempo.
Stava andando tutto diversamente da come aveva sperato. Gli aveva fatto due goal, quello stupido Schneider!
Eppure la partita non era finita, si sarebbero scontrati di nuovo e gli avrebbe fatto vedere lui di cosa era capace! Gli
avrebbe fatto fare una tremenda figuraccia e d’ora in poi avrebbe parato tutti i suoi tiri!
- Wakashimazu! Si può sapere cosa diavolo stai facendo!?Ken si voltò per incontrare l’esile figura di Eve sporgersi dal parapetto soprastante. Aveva lasciato il suo posto ed era
corsa il più vicino possibile alla panchina giapponese, richiamando la sua attenzione con le mani a megafono davanti
alla bocca e... accidenti, era furiosa!
- Eve...- fece per cominciare a parlare, avvicinandosi quel tanto che bastava perché la comunicazione da parte della
ragazza non fosse un grido.
- Che cavolo fai!?- gli smorzò le parole in gola.
- Io... che... perché te la prendi tanto?- fu ciò che il portiere ribatté dopo qualche istante, sebbene già conscio della
risposta.
- Hai anche il coraggio di chiedermelo!?- sbottò lei, aggrottando le sopracciglia e portandosi le mani ai fianchi - Ora
rispondi a una semplice domanda! Chi è stato a dirmi che se si gioca per sé stessi non si ottiene nulla, eh?L’altro rimase zitto. Comprese in un attimo l’abisso in cui era caduto, la sciocchezza che aveva fatto... senza nemmeno
rendersene conto. La partita si era trasformata in un duello tra lui e Schneider e non se n’era per niente accorto.
Male, Ken. Male.
- E’ perché vuoi dimostrare qualcosa a qualcuno a tutti i costi?- gli occhi della bionda si erano fatti più distesi, non più
tesi a voler trafiggere quelli del compagno - Non ne hai bisogno, guarda dove sei arrivato. E tutto da solo, Ken.L’adorava quando pronunciava il suo nome.
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Wakashimazu si trovò a serrare le palpebre, nascondendo il volto dietro la lunga frangia scura. Mikami gli aveva dato
fiducia, schierando il suo pupillo ed il più promettente portiere del mondo per qualche incontro soltanto, agendo così in
suo proprio favore. Non poteva deluderlo proprio adesso.
Tutta la squadra gli aveva dato fiducia.
E se stava giocando la finale, era solo merito della propria forza di volontà.
- Devo minacciarti?- la voce di Eve aveva assunto quel tono infantile e provocatorio che era solita assumere quando
voleva far arrivare un messaggio dritto al bersaglio - Se hai intenzione di continuare la partita in questo modo, puoi
scordarti di rifarlo di nuovo, quello che hai fatto nello spogliatoio! Non mi faccio baciare dagli svampiti, io!Lo guardò con durezza un’ultima volta, prima di voltargli le spalle e risalire di corsa i gradini degli spalti, senza
attendere una sua risposta.
Era strano come gli parlasse col cuore per quei brevi attimi di paradiso, mettendo da parte il suo caratterino spinoso e
riassumendo quell’atteggiamento selvatico e puerile per dargli la giusta scossa.
Eve era così - forse fin troppo sconclusionata, eccentrica - e le sue reazioni spesso dipendevano dall’umore. Ma anche
questo era un lato di lei che da sempre guardava con tanto d’occhi, intenzionato a cogliere il tutto e l’assoluto, senza
farsi sfuggire nulla, per renderla parte di sé e portarla sempre dentro, dovunque andasse, qualunque fosse la distanza
che li separasse.
Alzò lo sguardo a lei, oramai riaccomodatasi al suo posto, ed incrociò i suoi occhi di ghiaccio. Per certi versi,
somigliavano fin troppo a quelli di Schneider - se non fosse stato per la tonalità di blu più intenso di quelli di lei.
Fino a qualche manciata di minuti prima Eve stava tra le sue braccia e ora... ora lo fissava severamente da sopra
parapetto dello stadio, tra le urla confuse, i cori e le voci di altre centinaia di persone.
Beh, non c’è che dire, era stato un perfetto idiota.
Aveva creduto d’essere un grande campione, sopravvalutato i propri progressi ed aveva finito per sottovalutare
l’avversario. E poi il Kaiser non era solo. C’era tutta la squadra con lui ed avrebbe dovuto batterli tutti. Tutti quanti.
D’altra parte... nemmeno lui era solo. Altri dieci ragazzi, dieci suoi amici giocavano davanti alla sua area.
Di questo non aveva tenuto conto, aveva accantonato il concetto senza nemmeno sfiorarlo mai, tutto preso dalla
competizione con Genzo, dal desiderio smanioso di migliorare a tutti i costi.
Quando mosse i primi passi nella direzione opposta, era deciso a tornare in campo con un unico scopo.
Quando Schneider si ripresentò in area palla al piede, si aspettava di vedere sul volto del portiere nipponico
un’espressione di rabbia frammista a frustrazione ed invece... invece stava sorridendo con aria altezzosa.
Ma a cosa diavolo stava pensando!? Mano a mano che si avvicinava, scoprì che quel sorriso era più enigmatico di
quello dell’imperturbabile Wakabayashi. Il che lo inquietò alquanto.
Quel Ken Wakashimazu aveva tutta l’intenzione di non voler fare più passare un solo pallone oltre le proprie spalle. E
dietro quegli occhi neri c’era qualcosa che lo turbava, non più la freddezza di Genzo - che se non altro rendeva l’azione
tattica e programmata - ma un guizzante intrico di pensieri e parole mute che lo confusero.
Non riuscì a comprendere da dove avesse potuto prendere corpo quella strana... sicurezza... e così, dopo un
inaspettato tentennamento, tirò ugualmente in porta. Già nel momento in cui la sfera lasciava il suo piede, Schneider
avvertì d’aver sbagliato qualcosa.
Ed infatti il suo Fire Shot morì tra le mani del portiere.
Rapido ed indolore.
Un gioco da ragazzi.
Quasi grottesco e decisamente inverosimile; a tratti favolistico, di quei finali romanzeschi e prevedibili. Ma se da una
parte poteva nascere questo giudizio, dall’altra lo spirito del karateka di ferro ardeva alto come fuoco libero ed aveva
disposto che era così che doveva andare.
E per l’ultimo secondo l’intero Giappone trattenne il fiato, prima che la sfera si conficcasse tra i pali.
Hyuga. Quarto goal.
Ed un’esultanza festosa dell’agguerrita minoranza di tifosi.
L’imperatore era furibondo, i suoi capelli d’oro oramai erano madidi di sudore e nella sua mente un obiettivo fisso che
ancora non era riuscito a realizzare: sfondare la difesa di Wakashimazu.
Fu proprio durante l’ultima manciata di secondi che Kaltz gli servì un pallone perfetto, scartando i difensori e
concentrando l’azione ai suoi piedi.
Schneider ricevette perfetto e non attese un secondo in più per voltarsi e dirigersi verso lo specchio della porta. Questa
volta il suo tiro avrebbe devastato qualsiasi intento. Fermamente convinto di ciò, fece per caricare, ma il portiere uscì
repentinamente dall’area ed incrociò la traiettoria della sfera con un nuovo calcio.
I due furono faccia a faccia per un lungo, teso attimo.
Le iridi di Karl si specchiarono nel nero vigoroso e caparbio di quelle dell’estremo difensore, lo stesso intenso e
soffocante colore del vortice in cui stava per essere inevitabilmente risucchiato.
Una rapida occhiata ed il pallone scivolò fuori dalla portata di entrambi, saettando da destra verso l’alto a causa
dell’elevata pressione che le veniva impressa ad entrambi i lati.
Ken perse l’equilibrio e si ritrovò ad appoggiare una mano per terra, preciso come in una caduta da arte marziale,
mentre l’arbitro fischiava la fine dell’incontro.
4 a 2 per il Giappone.
E la coppa del mondo juniores sarebbe stata di nuovo stretta tra le mani del pago e raggiante capitano.
Tra l’incredulità e la delusione della squadra di casa, l’intero team nipponico si riversò in campo diretto verso il fautore
della strenua difesa del secondo tempo. Wakashimazu, ora seduto a terra e sospirante di sollievo, fu presto raggiunto
da un entusiasmato Matsuyama, che gli afferrò un braccio. Dall’altra parte Makoto Soda si era buttato su di lui senza
freno, scuotendolo festoso ed un accalorato Takeshi gli scompigliava da dietro la lunga chioma.
Il capocannoniere Kojiro Hyuga si fece avanti, scartando i compagni in tripudio proprio come aveva fatto con gli
avversari e raggiunse il compagno per tendergli una mano, fiero. Ken alzò il volto appena in tempo per incrociare il
sorriso di stima dell’amico e fece leva sulle gambe per afferrare la stretta che gli veniva offerta.
Appena in piedi, si trovò al centro di un’attenzione inaspettata.
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- Sei stato straordinario, capitano Hyuga!!- Mizuki intanto gridava a pieni polmoni dagli spalti, prima di lanciarsi giù
per le scalinate e tentare di raggiungere il padre accanto alla panchina.
Eve sorrise, ancora seduta al suo posto con le braccia incrociate al petto, mentre tutto lo stadio si era alzato in piedi,
esultante. Schiuse le labbra e le distese in un sorriso rasserenato.
Aveva capito, Ken era riuscito ad aprire il suo spirito ed a dimostrare una sicurezza piena delle proprie facoltà. Era
fiera di lui, voleva gridare, urlare di gioia e correre a stringere quel campione tra le braccia... non lasciarlo più.
Invece si limitò a ridimensionare il sorriso, che si fece lieve, poi si alzò e, come un’ombra, lasciò l’arena.
L’aereo sarebbe partito la sera stessa e doveva ancora passare a prendere le valigie alla hall dell’ostello, dove le aveva
depositate poco dopo aver liberato la stanza.
- Hai fatto una serie di parate grandiose!- l’adrenalina di Mizuki non aveva smesso un attimo di salire anche dopo il
termine dell’incontro ed a quel punto Tsubasa, in piedi accanto a lei, cominciava a temere che se non si fosse quietata
un attimo, prima o poi avrebbe collassato.
- Grazie.- Ken si portò una mano dietro la nuca e ricambiò il sorriso, inaspettatamente confuso.
- Waaah! E’ così carino quando s’imbarazza!- la ragazza dai capelli ricci saltellava battendo le mani, scombussolandogli
i pensieri.
- Avanti, Wakashimazu! Non fare il modesto, sei stato fenomenale!- Sawada gli tirò una gomitata sul petto,
accompagnata da una strizzata d’occhio.
- Sì, dopo il primo tempo hai giocato benissimo!- gli fece di nuovo eco Mizu - Hai parato tutti i bolidi di Schneider!Lo stavano coprendo di complimenti, forse anche al di sopra del dovuto, ma chi patteggiava per la squadra di casa ne
aveva dopotutto tutto il diritto.
- Ehi, mi serviva solo un attimo per ingranare. Schneider non è un avversario facile.- si difese lui, con la prima scusa
che gli capitò a tiro.
Ma nonostante tutto era stato in gamba, finalmente aveva dimostrato ciò che sapeva fare al mondo. All’intero mondo.
E si sentiva al settimo cielo, al suo posto nel mondo e più felice che mai, semplicemente e unicamente. Gli mancava
soltanto il poter stringere Eve tra le braccia per completare un quadro di perfezione.
Si guardò intorno in cerca della sua figura fasciata nell’abito scuro e porporino. Nella totale confusione non la vide
dov’era stata seduta poco prima e nemmeno nelle vicinanze. Ma era mille volte probabile che si sbagliasse, che il caos
creatosi per la vittoria e le urla pressanti gli stordissero i sensi fino a rendere quasi improbabile il fine d’individuarla;
così si rivolse alla prima persona utile, colei che le era stata seduta accanto durante l’intero incontro.
- Mizuki, dov’è Eve?- le domandò, scostandosi la frangia dalla fronte ed alzandosi una manica della casacca che gli era
scivolata di nuovo al polso.
- Nh? Io non lo so... o forse... ma come, non te l’ha detto?- fece la voce acuta della compagna, di rimando scrutando
in ogni direzione.
Ken avvertì incombente il presagio di qualcosa che non gli sarebbe piaciuto affatto.
- Detto cosa?- chiese nuovamente, il cuore schermato da ogni eventuale, temuta pugnalata.
- So che stasera prenderà il primo volo per Tokio. Torna... torna a casa.Ma la lama riuscì facilmente a penetrare la sua difesa paradossalmente di burro, tranciando di netto la resistenza fisica
di ossa e muscoli che incontrò sul suo cammino.
- Cosa... e perché!?- tra lo sconcerto e l’agitato, la sua voce d’uomo riuscì a farsi sentire alta tra le grida.
- Questo non te lo so dire.- riprese Mizuki, la cui allegria pareva essere scemata a poco a poco ed ora anche lei aveva
assunto un’espressione contrariata e dispiaciuta - Quando me l’ha comunicato ho provato a convincerla a restare e poi
a partire con noi, ma è stato tutto inutile. Credevo si trattenesse almeno per salutarci, non credevo che sarebbe
scappata via così presto... - aggiunse con rammarico.
Di nuovo mille domande sgomitarono per farsi largo nella mente di Wakashimazu, accompagnate da una strana
sensazione di disagio.
Perché era partita? Perché non gliel’aveva detto, che aveva il volo la sera stessa?
Perché... non lo aveva aspettato?
- Complimenti a tutti.- uno Schneider dignitoso e signorile si era avvicinato al gruppo di giapponesi compattamente
riunito, seguito da Margas, Schester e Kaltz e stava porgendo loro i suoi sentiti complimenti.
Pareva aver lasciato da parte la rabbia, il rancore e tutto il resto, riconoscendo di essere stato battuto da una squadra
di veri campioni e dimostrando la maturità degna di un guerriero di sangue blu.
- Wakashimazu?Misugi alzò un sopracciglio.
- Wakashimazu...?Un’occhiata perplessa corse tra gli sguardi interrogativi di Genzo e Jun.
- Wakashimazu!!Stavolta la voce di Wakabayashi si fece udire forte e chiara.
- Cosa!? Che c’è!!?- Ken fu violentemente scosso dai propri pensieri e si voltò appena in tempo per incontrare le facce
di Wakabayashi e Misugi in attesa di una risposta.
- Sono ore che ti chiamiamo, sei sul pianeta Terra?- fece l’altro portiere, infastidito.
- Non ti scaldare, Wakabayashi!- fece lui di rimando, scuotendo il capo e voltandosi verso di loro, dalla terrazza alla
hall.
- Volevamo chiederti se ti andava di venire a fare due passi, prima della conferenza di questa sera.- sorrise il libero,
sistemandosi la raffinata camicia al collo.
- Andate senza di me.- fu la risposta che gli arrivò da Ken, che si voltò di nuovo e si rimise meglio a sedere sulla
poltroncina all’aperto. Dal cielo ormai scuro facevano capolino le prime stelle, in un tripudio di luce che la regina Luna
Nuova concedeva benevola ai propri sudditi.
- Sicuro?- Jun non aveva smesso di mostrargli il suo sorriso disponibile.
- Sicuro.Misugi si allontanò così elegantemente com’era solito muoversi, mentre Wakabayashi rimase per qualche istante a
pochi passi da Ken, prima di rivolgersi all’amico.
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- Va’ pure, ti raggiungo tra poco.- gli diede una voce, facendosi un poco avanti ed appoggiandosi alla ringhiera giusto
dinnanzi a Wakashimazu. L’altro non disse nulla, chiuse gli occhi e rimase seduto godendosi il vento fresco della sera
per l’ultima volta.
- Partiamo tra due giorni. – cominciò Genzo. Non gli arrivò nessuna risposta, piuttosto un silenzio non pensante, non
leggero... semplicemente silenzio, si insinuò tra i due, avvolti da un vento tiepido che soffiava leggero, scompigliando
la corta frangia del primo e le lunghe ciocche del secondo.
- Ken, non che tutt’un tratto mi interessi, ma si può sapere che c’è?- fece d’un tratto Wakabayashi, voltandosi ma
rimanendo appoggiato alla ringhiera con la schiena.
- Non c’è niente.- fu la replica del compagno, che seguitò a fissare il cielo scuro senza il minimo desiderio d’incontrare
gli occhi del SGGK.
- Se posso dire la mia, si vede benissimo che qualcosa non va: è da quando abbiamo vinto la finale che sei piombato
in uno stato catatonico. Sai, di solito ci si ubriaca, si festeggia... ordinaria amministrazione. E invece tu... è una
questione personale?- domandò con noncuranza, gettando il capo all’indietro e attendendo che la voce pacata di Ken
raggiungesse di nuovo le proprie orecchie.
- Non ho niente contro di te. Abbiamo giocato bene.- gli rispose, di lì a poco - E comunque, anche se fosse, perché lo
dovrei dire a te, Wakabayashi?Genzo si tirò su di nuovo, curvando le labbra in un sorrisetto compiaciuto.
- Ah, lo vedi allora che qualcosa c’è?- rise, portandosi una mano alla fronte.
Era sereno, dopotutto. Avevano giocato bene entrambi, era vero. Ed entrambi avevano meritato il trionfo.
Ma Wakashimazu sbuffò, scuotendo il capo quasi irritato.
- Hai vinto il campionato del mondo da titolare, non sei contento?- di nuovo il tono fermo del compagno a destare la
quiete sopita della sera - E per di più avrai una marea di ragazze ai tuoi piedi, cosa vuoi di più?- Non mi interessa avere milioni di ragazze.- secco e deciso, accompagnato da una smorfia di disappunto.
E Genzo Wakabayashi lo notò immediatamente, era così palese che si chinò verso l’altro portiere con un sorrisetto
malizioso.
- Ken, Ken, il karateka d’acciaio, sei innamorato?- ridacchiò, ad un paio di centimetri dal suo naso. Wakashimazu
scattò in piedi, tra l’impacciato e l’indispettito.
- Piantala! Non ho detto niente del genere!- esclamò, portando le mani avanti e poi incrociando le braccia al petto,
sperando ed aspettando che il lieve rossore sul suo volto fosse invisibile in penombra e che sparisse presto.
- Già, certo. E allora sarebbe fuori luogo che il fatto ti infastidisca tanto.- ovviamente, non faceva una piega - Dai retta
a me, l’amore è un tormento!Il portiere del Toho scosse il capo e si sciolse in un sorriso involontario.
- Non fare l’uomo vissuto, Genzo, la parte ti riesce male.Wakabayashi gli scoccò un’occhiata fintamente risentita, ricambiando poi il sorriso con aria serena.
- Allora, mi puoi dire chi è?- fece immediatamente dopo, sul suo volto squadrato di nuovo un’aria seria.
- Di’ un po’, perché t’interessi tanto?- Ken era decisamente stranito e restio a vedersi farne parola con la persona più
improbabile di tutto il pianeta. Eppure...
- Siamo amici o sbaglio?- le parole di Genzo gli giunsero dritte in volto come una folata di vento gelido. Improvvise e
travolgenti.
Amici...?
Wakabayashi che parlava d’amicizia... il mondo era veramente cambiato. O meglio, forse cieco com’era stato fino ad
allora, concentrato sull’eterna sfida per non essere di nuovo il numero due, non si era accorto mai che dall’altra parte
poteva essere da sempre sussistito un sentimento di benevolenza... o meglio, di maturità. Quella medesima maturità
che lui stesso aveva abbandonato in virtù di filmati mentali su Genzo che rotolava dalle scale, che inciampava nei
tappeti, che picchiava il grugno e si rompeva anche qualche dente... in prefetto stile sketch comico.
Perlomeno aveva riso di gusto tra sé per qualche istante di gaudio personale - e soprattutto virtuale.
- Allora, che c’è che non va?- il compagno lo riportò alla realtà, le mani ai fianchi.
- E’ scappata via. Di nuovo.- fece in un sospiro, ripiombando seduto nella poltrona scura con un tonfo sordo di chi cade
sul morbido - Prima che potessi... dire e fare qualsiasi cosa.- Secondo me dovresti parlare chiaro e non stare a riempirti la testa di troppe paranoie.Quanto lo odiava quando parlava da saccente a quel modo.
Ken si trovò a sospirare di nuovo. Poteva prendersela con Genzo quanto voleva... ma la verità era che aveva ragione
lui. Dannatamente ragione lui.
- Cosa credi, che non ci abbia pensato?- rispose, alzando gli occhi nei suoi con un movimento lento del volto - A volte
mi chiedo se... ho solo il terrore di rovinare tutto.- aggiunse l’ultima frase come se quel fulcro unico fosse la reale
causa delle proprie insicurezze - E’ tornata in Giappone subito dopo l’incontro, senza dirmi niente.Si strinse nella casacca leggera, infilandosi le mani in tasca e superando il volto di Wakabayashi con lo sguardo,
rivolgendolo piuttosto ed ancora una volta al lontano ed indistinto paesaggio avvolto nelle ombre.
- Eve...?- sussurrò l’altro, quasi a sé stesso. Ci volle poco perché intuisse che la fantomatica causa del malessere di
Wakashimazu fosse quella ragazza che più di una volta aveva visto in sua compagnia e che, accidenti, era la stessa
che gli aveva giocato quel tiro poco pulito.
- Che?- soggiunse Ken, incerto se aver udito o no il nome della compagna.
- Eve.- confermò Genzo, alzando un sopracciglio e schiarendosi la voce.
- Tu come fai a sapere... - fece per cominciare il karateka, ma lasciò immediatamente cadere la frase quando le labbra
di Wakabayashi si schiusero di nuovo.
- Quella ragazza è una vipera.- lo interruppe - E, prima che tu mi prenda a pugni per averla apostrofata così, sappi che
un mese fa circa ha avuto la geniale trovata di voler testare le mie capacità. E’ venuta al campo con Schneider, penso
sia stato lui a dirle dove trovarmi e... beh, è riuscita a farmi goal. Il pallone mi è scivolato di mano.- scosse il capo,
con un sorrisetto di circostanza - Poi ho avuto l’occasione di parlarle e devo dire che è stata piuttosto dispettosa. Credo
di aver inquadrato il tipo.L’ha fatto per te, Ken.
Wakashimazu era senza parole. La bocca semiaperta e gli occhi quasi spalancati.
- Eve ha... ha fatto cosa...?- riuscì a domandare infine, rimettendo in piedi i pensieri.
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- Ehi.- Genzo gli sorrise, portandogli una mano sulla spalla - Tienila d’occhio, o andrà a far fuori i tuoi nemici con un
tirapugni, la prossima volta.- Già...- si limitò soltanto a dire in un sussurro più rivolto a sé stesso, che a confermare la frase.
L’altro lo superò facendo leva sulla sua spalla ancora per un attimo, poi gli diede l’ultima voce oramai dall’interno della
hall.
- Beh, ora è meglio che vada, Misugi da solo col buio si perderà di sicuro!- una risata nitida e trasparente - Riprenditi
in tempo per il gala, karateka d’acciaio!- Il... il gala...?- Ken risultò piuttosto disorientato.
- Ah, siamo proprio a posto!- Wakabayashi si portò di nuovo una grande mano da portiere sulla fronte - Se ti
dimentichi anche di questo, allora avrai bisogno di un po’ di vitamine per il tuo rientro in Giappone!- Che...? No che non me n’ero dimenticato.- mentì il compagno, scuotendo il capo e riprendendo possesso della sua
espressione stoica ed imperturbabile.
- Già, beh, allora ci si vede!- fece infine Genzo, rivolgendogli l’ultimo cenno di saluto oramai voltato di spalle e diretto
verso l’uscita dell’hotel, mentre Ken sospirava di nuovo e si trovava a considerare che c’era anche la serata di gala a
cui partecipare, prima del definitivo ritorno a casa. E che gli sarebbe piaciuto un mondo poter essere il cavaliere di
Eve.
Ma forse doveva decidersi a crescere.
- Ehi!Una voce femminile attirò l’attenzione di Takeshi, che arrestò il suo camminare spedito verso l’uscita e si concesse una
sosta nell’elegante sala lettura della hall, dove Mizuki si stiracchiava, scompostamente seduta sul divano di pelle
bianco.
- Ehi, chi si vede!- la salutò con lo stesso sorriso cordiale che le aveva rivolto la prima volta che si erano incrociati nei
corridoi della scuola - Fatto la pennichella?- Mh... sì...- rispose la ragazza, sbadigliando e ravviandosi i capelli ricci dalla fronte.
Nello sgranchirsi braccia e gambe, il numero di Vogue che portava sulle ginocchia scivolò a terra. Lui si chinò a
raccoglierlo, porgendoglielo con una mano prima di sedersi sulla poltrona accanto.
- Da quando leggi questo? E’ roba per signore, sai. Signore vere, intendo.- buttò lì, con un’espressione maliziosa.
- Ma che dici, cafone?!- Mizu saltò su immediatamente, rivelandosi sempre la solita Mizu, anche se intorpidita dal
sonno.
- Okay, okay, scusa. Non ricominciamo, va bene?- Sawada si pentì immediatamente della propria uscita canzonatoria,
così tentò di cambiare discorso - Comunque... dove sono tutti gli altri?- Alcuni gironzolano come te, altri riposano, altri ancora sono nelle loro stanze e... ah, uno è depresso.- fece lei,
portandosi un dito alle labbra, curvandole pensierosa.
- E’ ancora per Eve?- il centrocampista ci mise poco a fare due più due.
- E per chi se no? Ah, se non ci fossi stata io!- Mizuki assunse quell’aria da donna vissuta che tendeva a dipingere sul
proprio volto quando combinava qualcosa di inusuale. Lui alzò un sopracciglio in tutta risposta - doveva forse
preoccuparsi...?
- Che significa ‘se non ci fossi stata io’?- domandò, incerto se cominciare a pensare al peggio oppure prendere
quell’affermazione soltanto come uno dei soliti deliri di Awashida, a cui era decisamente abituato.
La ragazza estrasse da un taschino della camicetta viola un piccolo specchio e cominciò a guardarsi le ciglia,
controllando che non le si fosse rovinato il trucco mentre si era appisolata.
- Lascia correre, lo vedrai alla serata di gala di questa sera.- affermò, risoluta.
Dal canto suo, Takeshi decise di accettare il consiglio della compagna in favore di ciò che gli frullava in testa da
qualche giorno e che, nonostante si sentisse piuttosto impacciato, non poteva astenersi dall’esprimere.
- Emh, sì, a proposito di serata di gala...- prese un gran respiro, poi si decise di nuovo a parlare - Ascolta, Mizuki...
che dici, ti va di venirci con me?Lei rimase per qualche attimo come intontita con gli occhi sgranati ed ancora riflessi nello specchietto davanti al suo
naso, poi voltò lentamente il capo verso il ragazzo e sbatté incredula le palpebre.
- Che... che c’è? Ho detto qualcosa di male...?- quello si strinse nelle spalle, fissando l’immobilità sconcertata di Mizu,
che si riprese solo dopo un altro istante.
- Senti un po’, Sawada... non è che non ti sei trovato nessuno e io devo fare da ruota di scorta, nh?- esordì tutta
concitata, tornando alla realtà portandosi una mano al fianco.
- Ma guarda un po’! Se non ti va di venire dimmelo subito!- Takeshi si sentì quasi meglio a quella reazione, che
decisamente preferiva ad un’inaspettata fissità.
- Non è questo, ho solo chiesto un’informazione!- ma Mizuki non accennava a volergli dare tregua.
- Alla faccia dell’informazione!- replicò lui, quasi risentito.
- Beh, che c’è?!- il gesticolare della ragazza era accompagnato dal classico tintinnio di ninnoli e bracciali - Non dirmi
che hai paura di sentirti rivolgere una semplice domanda!- Non è così, e tu lo sai!- Ah, certo. Me lo spieghi tu, come faccio a saperlo? Dimostramelo, caro!- E come faccio!?- Ecco, lo sapevo!- Ma lo sai che sei proprio insopportabile!?- Tsk! Senti chi parla!- Io parlo quanto mi pare!- E allora perché io non posso fare altrettanto?!- Antipatica!- Scemo!E chi ci pensava più al gala della federazione calcistica?
Uno di quei ritrovi per i giocatori, allenatori e funzionari vari che mirava a brindare principalmente alla buona riuscita
del campionato. Un commiato fraterno, una licenza concorde, un arrivederci amichevole.
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Si sarebbe tenuto nella sala conferenze dell’hotel in cui alloggiavano i francesi ed ovviamente avrebbero partecipato
tutte le squadre del torneo internazionale di calcio; sarebbe stato un successone assicurato, a quanto riportavano le
bocche di tutti, anche perché solo la ristretta cerchia di giornalisti autorizzati era in possesso del permesso di
partecipazione, di modo da affidare esclusivamente alle mani ed alle macchine da scrivere più esperte il resoconto
dell’impresa mondiale.
Tutti i suoi compagni erano in procinto di prepararsi e scendere in pista. Smoking, completi, cravatte, gemelli... non
sembravano a tratti nemmeno più loro!
Kojiro si affacciò alla porta del bagno, allacciandosi l’elegante giacca scura con la quale, si vedeva, non doveva sentirsi
molto a suo agio.
- Ehi, ci sei?- gli diede una rapida voce.
- Quasi.- fece Ken in risposta, raccogliendosi i capelli in un codino dietro la nuca e fermandolo con un sottile elastico
nero.
- Beh, io comincio a scendere, ti aspettiamo giù.- sorrise il capitano, mentre i suoi passi risuonavano sempre più
lontani, a mano a mano che si distanziava dall’uscio richiusosi alle spalle.
Wakashimazu si appoggiò con le mani al signorile lavandino, le maniche della camicia ancora slacciate.
Quella mattina lo avevano festeggiato come se fosse stato un principe... dopotutto era tornato ad essere il suo
compleanno ed un altro anno era volato via talmente rapido da non permettergli nemmeno di rendersene conto. Il che
succedeva fin troppo spesso per i suoi gusti, tanto da fargli cominciare a chiedersi se per caso non ci fosse qualcosa
che non andasse nella propria capacità di cognizione del tempo... ed immediatamente dopo darsi per l’ennesima volta
dello sciocco per stare prendendo a fare dell’insensata, distruttiva autoironia.
Il fatto era che sentiva di aver già trascorso troppo tempo in Europa e desiderava tornare disperatamente a casa.
A casa da Eve.
E, come accadeva irrimediabilmente da due giorni a quella parte, quando si trovava a pensare a lei lo coglieva un
senso di inadeguatezza.
E per una strana, masochistica ragione, si era trovato a considerare ogni possibile motivo a cui potesse fare capo
sparizione così repentina. Da un’eventuale offesa, da un’altrettanto eventuale delusione... ma non c’era nessuno a
rispondergli, né a confermare o smentire i suoi dubbi.
Aveva addirittura tentato per l’ultima volta di cercarla all’ostello, ma gli avevano detto che gli atleti erano partiti tutti.
Ovvio e palese, era già accaduto con la telefonata del mattino prima, eppure tra interviste, conferenze, tour e
ringraziamenti, non gli era stato possibile svicolare nemmeno per una mezz’ora.
Si voltò, gettando un occhio al di là della porta del bagno, fino a raggiungere con lo sguardo quella principale della
stanza. Stupido, sperava di vederla comparire all’improvviso com’era accaduto il giorno della finale.
Stavolta, però, Eve non c’era. E non sarebbe venuta.
Patetico e paranoico. Che grand’uomo, eh, karateka d’acciaio?
La nazionale giapponese juniores fece il suo ingresso nella grande sala illuminata e allestita con ricercatezza per
l’occasione. Accanto ad un lungo tendaggio di velluto rosso poterono notare il raffinato francesino El Cid Pierre ed
alcuni suoi compagni, integrati a dovere nell’ambiente tra la miriade di persone che affollavano il salone.
Sanae Nakazawa, fasciata in un dolce tubino bianco, si avvicinò al capitano e gli prese il braccio, dapprima fissando a
terra ed arrossendo, poi rivolgendogli un solare sorriso, ricambiato.
Al di sotto del superbo lampadario principale, tutto catene e lapislazzuli, Schneider si guardava attorno alla precisa
ricerca di qualcuno. Rivolse un’occhiata all’orologio a pendolo all’entrata - in legno e rifinito di quello che a prima vista
poteva sembrare oro, o perlomeno un’imitazione piuttosto preziosa.
La musica leggera e l’atmosfera fatta di una babele di chiacchiere e tintinnanti calici contribuiva a creare un ambiente
caldo ed elegante, proprio come il sorriso di Tsubasa, quando Karl li notò e si diresse verso di loro.
- Buonasera, ragazzi. State passando una bella serata?- domandò, i limpidi occhi azzurri si soffermarono rapidamente
su ogni invitato nipponico.
- In verità siamo appena arrivati, tra ritardi e ritardatari...- rispose Taro, con una serena occhiata complice rivolta a
Wakashimazu.
Il portiere alzò semplicemente un sopracciglio senza aggiungere una parola, poi distolse lo sguardo e prese a fissare
altrove, mentre il tedesco rivolse a lui la propria attenzione per un istante e con aria interrogativa, prima di tornare a
parlare.
- Beh, allora vi auguro di divertirvi.- Ti ringrazio e buon divertimento anche a te.- la cordialità tipica del capitano Oozora salutò il cannoniere di Amburgo,
di modo che l’intera squadra giapponese potesse mettersi a proprio agio, disperdendosi in breve tempo per la sala.
- E’ meglio che raggiunga Takeshi. E... ti supplico, non combinare guai! Ci vediamo tra un po’!- Mizuki le sorrise e si
apprestò ad allontanarsi non appena ebbero fatto il loro ingresso nell’atrio.
Eve la seguì andare via con lo sguardo, trovandosi a considerare che quel vestito nero le stava molto bene: i guanti le
arrivavano fino a metà avambraccio ed i bracciali di perle bianche andavano alla perfezione con il colore del fermaglio
che portava tra i capelli neri dalle sfumature violacee, ora lisci. Portava un trucco bianco e leggero anche intorno agli
occhi ma quel rossetto un po’ troppo color mattone stonava con le tinte dell’abito e degli accessori. La gonna non era
molto lunga, le arrivava al polpaccio e l’intero abito scuro terminava con un paio di scarpe in tinta lucida, aperte e col
tacco.
Il signor Awashida aveva preso parte alla serata, di modo da poterle accompagnare lui in taxi e garantire il loro arrivo
qualche minuto dopo la nazionale.
Ah, se non fosse stato per Mizu... certamente a quell’ora se ne sarebbe stata sprofondata nel sedile di un aereo a
pensare quali livelli potesse raggiungere la stupidità umana. La sua in particolare.
L’amica l’aveva raggiunta il giorno prima all’aeroporto, giusto in tempo al terminal delle partenze. Mentre lei era in
tappa all’ostello per recuperare i bagagli, Mizuki si era fiondata direttamente lì, con la speranza di poterla intercettare.
E difatti così era stato. L’aveva scossa per le spalle con espressione supplichevole e stizzita, dicendole di aver letto la
delusione sul volto di Ken quando gli aveva comunicato della sua partenza... e che era stata una sciocca a non
comunicarglielo prima, anzi, a non comunicarglielo affatto.
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In realtà Eve aveva tutta l’intenzione di assistere alla partita e di congedarsi al termine di essa, con la promessa di
ritrovarsi qualche giorno dopo, finalmente a casa. Solo che la seconda proposizione le era risultata alquanto difficile da
realizzare, una volta che Wakashimazu fu attorniato da tutto quel giubilo.
Le era parso che il saggio nume dai lunghi capelli d’ebano fosse finalmente al suo posto, nel suo universo completo,
amato e festeggiato per aver portato a termine il suo compito da coloro che convivevano nella sua medesima realtà.
L’aveva sentito lontano, come se ancora fossero separati da migliaia di chilometri. Per un attimo l’intera terra aveva
tremato, il terrore di contare meno di tante belle parole l’aveva quasi sradicata dalle proprie certezze... e per non
rimanere uccisa, aveva sentito il bisogno di scappare via. Di nuovo.
E c’era mancato poco che compisse un altro dei suoi atti insensati.
Per fortuna era giunta alla conclusione di non poter tornare in Giappone. Non senza di lui, non sapendolo così vicino e
poi fuggendo come una bambina, con solo quel bacio nel cuore, di cui ancora non comprendeva il significato.
Voleva rischiare d’essere egoista, restando. Voleva godere della compagnia di Ken finché poteva, nonostante lui fosse
nel suo mondo, desiderava rischiare d’essere un’intrusa in esso e non rinunciarvi più, quasi a tratti incredula di aver
anche solo potuto ferirlo, con il suo colpo di testa.
Era infatti così poco abituata al fatto che le persone potessero curarsi di lei, che quando Mizuki le aveva riportato la
reazione del compagno, quasi aveva fisicamente vacillato e tutto il tempo, tutto lo spazio fossero involuti a quel giorno
in cui Ken le aveva detto che il suo era un bel nome, a quel giorno in cui l’aveva travolta con la sua luce.
Era da quando aveva rivolto a lei - proprio a lei, a nessun altro - uno dei suoi sorrisi speciali, che Eve si era sentita
risplendere su tutti. Da quando si era voluto prendere cura di lei, stupida scavezzacollo, che la piccola irresponsabile
sregolata si era ricordata di avere un cuore.
Perché non aveva chiesto mai, perché era sempre stato lì, ombroso eppure semplice... perché era infinitamente
gentile, perché sapeva fare un mare di cose, perché era forte, protettivo, determinato. Era perché c'era tutto questo,
dietro la sua espressione fredda, inalterabile, cupa e stoica che Eve si sentiva ardere e scintillare quando gli era
accanto e morire spegnendosi come un cero solitario alla tragica idea di vederlo scivolare via dalle proprie mani.
Dall’altro lato della sala, Mizu era riuscita ad individuare Sawada, il quale sembrava scambiare opinioni piuttosto
allegre con una ragazza dall’accento francese. Inutile dire che gli fu subito al fianco, tirandogli rabbiosamente un
orecchio.
- Ma guarda un po’! Non ti si può lasciare solo due minuti e tu subito ci provi con qualcuno!Il ragazzo ne risultò decisamente disorientato. Ma chi era quella ragazza? Il tono era famigliare... ed anche i modi da
suocera.
- Ma... Mizuki?- riuscì a collegare, incredulo.
- No, sono la tizia del ramen in scatola della pubblicità!- le mani ai fianchi, impettita - Certo, Mizuki!!Per poco Takeshi non cadde a gambe all’aria... se fosse rimasta zitta ed immobile non l’avrebbe riconosciuta al primo
sguardo! Era così diversa dalla gal super-alla-moda a cui era abituato... con i capelli lisci poi! Ed in quell’abito che la
rendeva più bella che mai ai suoi occhi...
Rimase a fissarla per qualche attimo prima che lei, senza alcun preavviso, gli sorridesse.
- Allora, vuoi ancora essere il mio cavaliere?Mentre il più giovane talento del Toho si riprendeva dallo shock e porgeva il braccio alla compagna, il capitano, pochi
metri più in là, si slacciava il primo bottone della camicia, lasciando scoperto il collo abbronzato. Non era molto
avvezzo a tutta quella formalità... e assolutamente sentiva il bisogno di un drink.
Nel voltarsi verso il buffet si imbatté in una figura conosciuta... forse troppo inaspettatamente conosciuta.
- E tu che ci fai qui?- le si appressò subito, corrugando la fronte.
- Ciao anche a te.- Eve gli portò una mano davanti al volto in segno di dispettoso saluto.
- Emh... ciao.- si ricompose lui, rendendosi conto di essere stato forse un po’ brusco - Intendevo... non eri ripartita?Lei scosse il capo. Si aspettava quella domanda più o meno da tutti quelli che avrebbe incontrato, per cui si era
preparata una breve replica ad effetto.
- Storia lunga.- si strinse nelle spalle - Mizu mi ha ragguagliata all’aeroporto, ho passato la notte nella sua stanza e,
beh... diciamo che ho avuto un piccolo cambiamento di programma.- Fortuito direi!- Kojiro non domandò oltre. Non gli servivano dettagli per capire che c’era sotto qualcosa che
riguardava Ken, così si limitò a sorriderle, scuotendo il capo - E ti consiglio di non farlo mai più, non sai com’è faticoso
trascinare il tuo compagno di stanza in preda alla depressione!- Che...?- la bionda sbatté le palpebre dipinte di nero - Addirittura?- Certo, cosa credi! Il capellone fa il duro, ma è uno appassionato!- rise, alzando il braccio ed indicando col pollice
dietro di sé - Ad ogni modo, è a fare l’asociale sulla terrazza.Eve arricciò il naso, lasciandosi trasportare dalla risata del capitano.
- Ma guarda un po’ chi parla di asocialità!- ribatté, con una smorfia infantile.
- Aspetta di tornare a casa e poi pareggeremo i conti!- enfatizzò lui, con un’esclamazione d’intesa.
- Nh, la piccola Aya non sarebbe contenta di te!- la ragazza cacciò prontamente la lingua e sgattaiolò verso la loggia di
fronte, mentre Hyuga si trovò a sorridere al solo pensiero di Ayame, della quale sentiva molto la mancanza, ma
rincuorandosi del fatto che avrebbe potuto di nuovo stringerla tra le braccia in un paio di giorni.
Fu strappato dalle sue considerazione da un agguerrito Hiroshi Jito che, accanto a lui, caricava un piatto già stracolmo
di salatini e gli domandava a bocca piena chi fosse la tizia che si era appena defilata sul balcone.
Il capitano del Toho si spiaccicò una mano davanti agli occhi, allontanandosi simulando la migliore indifferenza di cui
era capace.
Il volto scuro rivolto alla città illuminata, dinnanzi ai suoi occhi.
Poco più in basso le conversazioni dei giocatori di diverse nazionalità si svolgevano in un’atmosfera di tranquilla
pacatezza anche nei giardini, in attesa del brindisi collettivo e del saluto finale.
Ken fece per voltarsi infastidito all’udire il tendaggio frusciare e la porta a vetri scorrere alle sue spalle, se non fosse
stato che...
- Portiere...?96
Una voce in un sorriso fece crollare tutti i suoi propositi, così rimase voltato con il viso semilluminato dalle luci di
Amburgo e mille brividi lungo la schiena, in un sussulto.
Quante volte aveva sentito pronunciare quella parola da quella stessa tiepida voce; ora la sentiva così vicina che
temette di rivolgersi a lei per paura che scomparisse.
- Devo chiamarti campione del mondo, per riuscire a farti voltare?- di nuovo un sorriso, l’avvertì il quel tono disteso
piacevolmente, disperatamente conosciuto. Mai acuto, quasi pacato, limpido.
Il ragazzo sgranò gli occhi, ancora fissando incredulo il giardino rischiarato da tenui plafoniere sotto di sé.
Non disse nulla, solo lentamente lasciò scivolare una mano dalla ringhiera in pietra e, mentre leggere come piuma le
sue dita sfioravano la roccia levigata, l’intero suo corpo si voltava per riflettersi nello sguardo azzurro della nuova
venuta.
- Ciao.- la voce di Eve lo carezzò come vento.
- Ciao...- sussurrò lui, avvertendo che il proprio cuore stava per imboccare la strada per le stelle.
Era lì... la sua Eve era lì sul serio. Nessuna visione, nessun miraggio.
Un lungo abito blu le fasciava i fianchi, sostenendole il seno e lasciandole scoperte le spalle; la leggera stoffa oltremare
arrivava fin quasi a terra, escludendo la gamba destra che, nuda da una spanna o poco più sopra al ginocchio, si
mostrava ad ogni passo, mentre ai piedi portava un paio di sandali con il tacco dello stesso colore.
E poi... poi i suoi zaffiri di cielo contornati da lievi sfumature di nero sulle palpebre, la bocca lucida e dipinta di un
tenue rosso. Aveva acconciato i capelli all’indietro, fermando le ciocche che solitamente le ricadevano sulla fronte con
un paio di forcine bianche.
- Sei... sei un angelo.- riuscì a dire, mentre Eve sorrise dolcemente e socchiuse gli occhi.
- Grazie.- chinò il capo e si avvicinò di qualche passo.
Ken sentì che se l’avesse anche solo sfiorata, avrebbe rischiato di contaminare la luce della dea che gli stava di fronte.
Ma fu lei a rompere il ghiaccio, spostandosi lievemente sulla destra e sedendosi sulla panchina di metallo verde.
- Scusami. Mi dispiace essermene andata in quel modo.- soffiò, il viso rivolto ad Amburgo di notte. Splendida e silente,
ancora brulicava di lontana vita.
Il compagno la raggiunse, investendola con quel suo intenso profumo che quasi le confuse i sensi, conducendola così
vicino al mandare all’aria ogni parola e gettarsi al suo collo, stringendosi al suo petto rigido.
- Non fa niente.- rispose Wakashimazu, in un sussurro.
La bionda alzò di scatto la testa e lo fissò seria, mentre la luce della sala si rifletteva nei suoi occhi neri. Adorava i suoi
occhi neri. Li amava da impazzire.
- Non è vero.- scosse il capo, in un lieve vibrare d’orecchini pendenti - Non mi mentire... non devi farlo. E’ inutile che
ogni volta che ti chiedo scusa tu mi risponda con un sorriso. Questo non lo sopporto. E’ l’unica cosa che non devi
fare... sorridermi.Le labbra distese della ragazza furono quasi costrette dalla sua stessa volontà ad esprimersi in quel dato istante: Eve
era sicura di non riuscire a ripetere una seconda volta ciò che stava dicendo. Poteva essere dura, sicura e fredda
quanto voleva, ma Ken... con Ken...
- Avevo tutta l’intenzione di salutarti prima di prendere l’aereo...- sospirò, curvando le lunghe ciglia nere - Ma eri così
distante, circondato da tutta quella gloria... che ho sentito d’essere catapultata in un altro mondo... di non fare parte
del tuo.Non appena Eve tacque, lui alzò gli occhi, certo di incontrare i suoi, poi le prese il mento con un dito - un dito soltanto
- e lo avvicinò al proprio, socchiudendo le palpebre e lasciando che le labbra della ragazza si posassero lievi sulle
proprie.
E di nuovo... morbide, umide, soffici... ed infinitamente cedevoli, si modellavano sotto la pressione della sua bocca, ad
ogni suo movimento.
Con la mano libera raggiunse il suo volto, sfiorandole una guancia e schiudendo le labbra di modo da sorseggiare
lentamente l’ambrosia dalla bocca della ragazza, che a sua volta si allentava leggermente, lasciando che lui potesse
sfiorare il suo labbro inferiore, mentre con le mani gli prendeva delicatamente il viso.
Da quel momento Eve fu incapace di razionalizzare ogni pensiero, solo si rese a poco a poco conto che quell’attimo,
quell’attimo che in un secondo era già passato... era la perfezione.
Tutto era al suo posto, immobile e gelato in un secondo infinitesimo di tempo.
E potevano anche passare mille anni, nessun compromesso sarebbe valso la grandezza di quell’istante, instabile ma
compiuto come una statua di sale e polvere.
Quando Ken si allontanò di quel poco che bastava per pronunciare qualche parola, anche Eve riaprì gli occhi, ancora
immersa in un mondo di zucchero e favola.
- Chi è stata a darmi un bello scossone, alla fine del primo tempo, nh?- il suo sorriso era disarmante - Eve, tu sei con
me anche se ci troviamo dalla parte opposta del mondo.Come una pugnalata alla gola, lei avvertì un pungente dolore al palato, quasi non potesse far altro se non scoppiare in
lacrime da un momento all’altro. E fu un attimo, lo comprese in pochi secondi... ciò che in mesi non era riuscita a
capire.
La sua vita non era ciò che si struggeva per avere, né ciò che lasciava correre o a cui si appassionava. Non erano le
risate o l’afflizione, il sale o il pepe, le fiamme o le nuvole, ma colui che in quel momento le stava accanto... colui a cui
stava ancora tenendo il volto tra le mani, colui che senza chiedere si era fatto largo tra le spine del suo cuore.
Sbatté più volte le palpebre per scacciare le lacrime appena affiorate ai suoi occhi, poi tornò a fissare il volto squadrato
e mascolino del compagno.
- Ma guardati, adesso sembra che ti si sia messo il rossetto!- rise, allontanando una solennità per la quale ancora non
era pronta e prendendo a sfiorare con le dita le labbra del portiere. L’impresa fu piuttosto difficile, dal momento che
anche Ken rise finché il rosso tenue non scomparve dalla sua bocca.
- Te l’hanno mai detto che col codino sembri quasi un tipo serio?- fece Eve con briosa dolcezza, ravviandogli una
ciocca dietro l’orecchio. Lui le prese la mano, chiudendola nell’incavo formato dall’unione delle proprie e
appoggiandosela su una gamba, mentre con gli occhi le scoccava un’occhiata divertita.
- Ken Wakashimazu non è la mia vera identità, in realtà sono... beh, al momento non mi viene in mente nessuno di
famoso col codino, ma comunque voleva essere ironico...97
Eve si trovò invasa da un senso di bizzarra stravaganza, di divertito piacere e realizzò che l’udire la voce di Ken,
avvertire il suo profumo, sentire la sua palpabile presenza, sfiorare la sua pelle, le sue labbra, i suoi capelli... che tutto
questo era ciò di cui aveva bisogno, realmente, impetuosamente... bisogno.
- Ma sentilo, a volte sei più sconclusionato di me!- rise di nuovo, cristallina - Mh... complimenti, signore, chiunque lei
sia, è un bel travestimento!Il compagno le fece presto eco, resistendo all’abituale e affettuosa tentazione di scompigliarle i capelli con una mano.
Fece per aggiungere qualcos’altro, ma fu interrotto da Takeshi, che fece capolino dalla pesante tenda della sala.
- Ehi!- sorrise appena in tempo perché i due si voltassero e, ancora tra le risa, potessero notare anche Mizuki spuntare
sulla terrazza.
- Ecco dov’eravate!- sorrise anche lei, le braccia incrociate al petto.
- Certo che non può dividervi nemmeno una guerra! Sempre a fare casino, anche ad una serata di gala!- Kojiro Hyuga
fu il terzo a apparire in coda agli amici ed ora stava ridendo con le mani ai fianchi.
- Senti, senti... c’è una riunione?- ci volle poco perché anche Kazuki si affacciasse alla porta-vetri.
- A quanto sembra il Toho trionfa ancora!- Eve non aveva smesso un attimo di ridere; per una qualche remota
ragione, la sensazione di compiuta contentezza le aveva fatto perdere il controllo della sua caratteristica aria di
ghiaccio ed ora si domandava cosa potesse volere di più, dal momento che, anche dall’altra parte del mondo, si
sentiva esattamente come a casa.
- Hyuga perché sei uscito qui fuori?- Misaki, non appena si fu liberato dell’impaccio del tendaggio, sgranò gli occhi nel
constatare che oltre a Kojiro erano presenti altre cinque persone.
- I’m singing in the rain... - un Ryo Ishizaki piuttosto alticcio e sorretto da Matsuyama si fece largo tra i presenti con
una sonora spallata a Taro, mentre tutti gli occhi si rivolsero straniti alla sua figura barcollante.
- Matsuyama?- fece Sorimachi, meravigliato.
- Aemh... - fu l’unica cosa che Hikaru riuscì a dire, dopo che Ryo gli ebbe pestato un piede per l’ennesima volta - Sì, il
nostro Ishizaki deve aver alzato un po’ il gomito!- Ma guardatelo!- rise Ken - Anche meglio di Kozo Kira!L’affermazione del portiere, oltre ad una nuova risata generale, ebbe l’effetto collaterale di far nascere spontanei nella
testa di Kojiro pensieri riguardanti Kira e Ishizaki spalla contro spalla in osteria a bere sakè, intonando gli inni
folcloristici di Okinawa e fischiando in direzione delle curve di un paio di ipotetiche cameriere in kimono.
CAPITOLO 13 – Io e te
- Sono stato bene.Eve si voltò verso il viso rilassato del compagno ed inaspettatamente si trovò a sorridere, mascherando l’imbarazzo.
Di fronte a lei quegli occhi neri erano tornati sereni e quieti; avevano abbandonato la vena di tristezza che qualche ora
prima vi aleggiava sconsolata.
La luce intensa della hall dell’hotel si rifletteva sugli zigomi alti di Ken, mentre la bionda metteva piede per prima
nell’ampia sala semideserta. Il concierge ed altri attendenti in divisa svolgevano il turno di notte, silenziosi ma
indaffarati finirono per non notarli neppure, tanto che i due raggiunsero le scale senza troppa difficoltà.
Non che fossero clandestini, ma Wakashimazu era rientrato un po’ prima del tempo, quando il resto della squadra era
ancora chi al gala e chi per locali a festeggiare la vittoria e l’ultima sera di permanenza.
- Ehi.- il portiere attirò l’attenzione della ragazza, che si voltò con aria interrogativa - Facciamo una corsa?- aggiunse
con aria furbesca.
- Su per le scale??- l’altra scosse il capo, le mani ai fianchi fasciati dall’abito scuro.
- Fino al pianerottolo!- annuì lui, strizzandole l’occhio - Ti do qualche secondo di vantaggio, comincia a salire!- Ancora con questi secondi di vantaggio!?- ci voleva poco per contrariare Eve - Quando lo capirai che ti posso batt...Ma Ken la interruppe semplicemente passandole rapidamente davanti e superandola.
- Tempo scaduto!- esclamò, esultante.
Lei fece in tempo ad aggrottare le sopracciglia che gli fu subito dietro.
- Ehi! Non vale!... Accidenti, le scarpe!!- prima di slogarsi una caviglia, prese ad armeggiare con la fibbia dei sandali e,
una volta liberatasi dall’impiccio, partì all’inseguimento del portiere su fino alla porta della sua stanza.
- Lo vedi che ti ho battuto?- a giudicare dalla risata spensierata, Wakashimazu non si stava minimamente
preoccupando d’essere a notte inoltrata nei corridoi di un albergo di lusso.
- Ma certo! Prova tu a correre con queste trappole!- e nemmeno Eve.
Gli mostrò i sandali blu col tacco, facendoli dondolare dinnanzi ai suoi occhi, bene in vista. Ken rise di nuovo e le si
avvicinò in un soffio, finché Eve non si sentì sollevare di nuovo da terra e si ritrovò irrimediabilmente sulla possente
spalla sinistra del ragazzo, che oramai la stava portando nella stanza, richiudendo dietro di sé la porta.
- Oh, ma allora è un vizio!- si sentiva più o meno come doveva sentirsi un sacco di patate sulle spalle di un contadino.
Paragone infelice, lo ammise immediatamente tra sé.
- Ti piace tanto sollevarmi da terra!?- si lamentò scherzosamente, poggiando il mento su una mano.
Lui non rispose, si limitò a seguitare a sorridere ambiguamente finché, quando i piedi nudi di Eve poterono toccare di
nuovo il pavimento, la ragazza fu scossa da un intenso brivido nell’avvertire le mani di Ken sui propri fianchi, scorrere
lentamente, calde ed avvolgenti.
Appoggiò le scarpe a terra e si sedette sul letto, massaggiandosi lievemente una mano nel tentativo di distrarre i suoi
pensieri da un nuovo, eventuale imbarazzo.
- Ehi, portiere.- Nh?- Ken le rivolse uno sguardo morbido, in attesa.
- Buon compleanno.- sulle labbra di nuvola di Eve si disegnò un sorriso placido, come dipinto ad acquerello su un
fondo di rosea carne lievemente sfumata.
- Grazie...- l’unica cosa che lui fu capace di fare, fu sorridere tra l’impacciato ed il lusingato, portandosi una mano
dietro la nuca. Non credeva se ne ricordasse... dal momento che, di nuovo, se ne stava dimenticando anche lui.
- Dimmi un po’, credevi che me ne fossi dimenticata, eh?- lo pizzicò, socchiudendo gli occhi lievemente ombreggiati di
nero.
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- No, veramente... sono io quello che se lo stava scordando...- ammise, incredulo anche dinnanzi a sé stesso, dal
momento che la mattina stessa aveva ricevuto gli auguri anche dai compagni di squadra.
- Ma che razza di testa hai?- Eve scoppiò a ridere, portandosi una mano davanti alla bocca e venendo scossa dalle
spalle al petto. Adorabile.
Quando si quietò non gli diede il tempo di intavolare un nuovo discorso, o perlomeno una replica, perché sospirò e
soffiò lievemente.
- Non pensavo... non credevo di poter essere tanto importante per qualcuno.- un lieve movimento del capo, poi di
nuovo un sospiro a fior di labbra - Tanto importante che una mia azione potesse arrivare a deludere, turbare... stare
a... cuore. Mi dispiace.- Non m’importa più.- inaspettato come una secchiata d’acqua gelida, ma caldo e rasserenante come un’immediata
coperta sulle spalle - Quello che conta è che adesso non te ne vada via.E di nuovo quel sorriso speciale che riservava soltanto a lei, quello di cui si era dannatamente, perdutamente
innamorata.
La raggiunse e le si accovacciò dinnanzi, mentre Eve, ancora seduta sul bordo del letto, alzò lo sguardo nei suoi occhi,
riflettendosi nel nero precipizio in cui mille volte all’infinito si sarebbe gettata.
- Ammetto che... desideravo un sacco avere per cavaliere uno strano ragazzo col codino.- sorrise, distendendo i nervi
e scacciando quel groppo alla gola che cominciava a farle male di nuovo.
- Ed io desideravo un sacco che il cielo mi restituisse la mia Eva.- fece per abbracciarla, quando lei gli prese le mani
tra le proprie, fermandolo ed avvicinandosi per circondare il suo corpo atletico con le braccia nude e lasciando che il
suo capo le poggiasse tra la spalla e il florido petto.
Ken le aveva regalato tanti abbracci... per una volta voleva essere lei a stringerlo. Con tutta la forza, con tutta sé
stessa. La sua Eva.
Lui si abbandonò lentamente sulla serica pelle di latte di Eve, lasciando che lei gli portasse una mano tra i capelli e
l’altra a cingergli le spalle. La sentiva così vicina, così intensamente viva, bruciante, febbrile come sangue; eterea,
limpida, impalpabile come anima.
- Non vedo l’ora che tutto torni come prima.- sussurrò lei, procurandogli un leggero brivido alla fronte, tra la frangia di
ciocche scure - Mi è mancato tutto così tanto...C’erano stati due baci.
E mille interminabili abbracci, che ogni volta si erano fatti più lunghi e carichi.
Per quanto potesse pensarsi pronto, doveva ammettere che la situazione era cambiata parecchio da quando erano
partiti. Da quando Eve era partita.
Ora era tutto di nuovo in gioco, tutto di nuovo famigliare, calorosamente abitudinario.
Ken diede un occhio all’orologio che portava al polso sinistro.
Erano rientrati da una settimana soltanto, giusto il tempo di tornare ad ambientarsi e sbrigare le formalità sportive in
relazione a dichiarazioni ed interviste, che l’anno scolastico era ripartito inesorabile.
A proposito di tempo: di nuovo giusto quello necessario per dare alle cose lo stretto indispensabile per rientrare
nell’adorabile routine e poi, aveva deciso, si sarebbe fatto avanti, avrebbe colto la prima occasione utile per dire ad
Eve quelle due semplici parole che da diversi mesi sentiva rimbombare forte nella propria testa.
Desiderava farlo in ogni momento, addirittura era stato lì per dirle ti amo l’ultima sera in albergo, ma poi aveva
considerato che forse, dopo tutte le emozioni, per lei sarebbe stato meglio abituarsi al nuovo nucleo famigliare prima
di richiedere la sua attenzione in qualcosa d’altro.
Nel frattempo, sperava che nulla o nessuno potesse mettersi sulla sua strada.
Alla sua destra, Kojiro si massaggiò un occhio, accompagnando il gesto ad uno sbadiglio.
Per lui tutto aveva assunto tinte nuove e sgargianti. Era divenuto l’idolo delle folle, ma per fortuna almeno a scuola
c’era chi si tratteneva dal saltargli addosso ogni minuto, sebbene ci si aspettasse il contrario.
Dopo aver vinto il mondiale ed appena tornato a casa, la prima cosa che aveva fatto era stata correre da Ayame e,
senza parole, senza espressioni, baciarla come mai l’aveva baciata prima. Gli era mancata come l’aria.
- Sveglia!- esclamò una voce dall’esterno, tanto che il capitano del Toho ne fu scosso.
- Nh... sì?- rispose, agitando il capo nel tentativo di scacciare il sonno.
- Che c’è? Stamattina stai dormendo in piedi!- Ken gli sorrideva, spavaldo con le mani incrociate al petto.
- No, è che il rientro a scuola non è mai piacevole...- buttò lì l’altro, considerando che quando l’amico assumeva
quell’aria sfrontata era come ritornare indietro di anni ed ovviamente, gli sovvenivano piacevoli ricordi d’infanzia.
I due presero a fissare quasi contemporaneamente in fondo alla strada, dove due figure si avvicinavano di corsa molto
rapidamente e, dopo qualche secondo, poterono distinguere tra la folla di studenti Eve in compagnia di un ragazzo
biondo rallentare e riprendere fiato, per camminare poi in direzione del cancello.
- Chi è quello?- fece Kojiro, con un cenno del capo.
- Non lo so, immagino sia suo fratello.- rispose il portiere, ricordando ciò che lei gli aveva raccontato in proposito e
notando la forte somiglianza tra la coppia di individui troppo fenotipicamente contrastanti dal resto degli studenti.
- Fratello...?- mormorò stupito il capitano, finché Eve non fu abbastanza vicina da riconoscerli, ma inaspettatamente
agitare la mano in direzione opposta alla loro. Non riuscì a scorgere chi stesse salutando tra la folla, ma bastò che il
cannoniere aguzzasse lo sguardo per essere colto da un’illuminazione... doveva essere decisamente Ayame.
- Su, Romeo! Meglio che li raggiungiamo!- esclamò Ken, avvertendo immediatamente il cambio di colorito sul volto del
capitano ed accompagnando l’esclamazione con una risata amichevole.
- Ehi! Stai attento a quello che dici, Wakashimazu!- ma Kojiro era ben lungi dall’essere accondiscendente.
- Andiamo, non dirmi che te la sei presa!- il portiere alzò le spalle, scuotendo il capo e mantenendo un lieve sorrisetto.
- Non mi sembri nella posizione di poter prendere in giro qualcuno. Me soprattutto, dal momento che non ero io quello
solo e sconsolato sulla terrazza dell’hotel dei francesi!- frecciata voluta, Ken incassò bene, anzi pareva che nulla
potesse togliergli l’allegria.
- Ma questo che c’entra ora?- rise, la mano dietro la nuca. Un’occhiata di Hyuga bastò a fargli passare la fantasia.
- Centra, centra! Dammi retta, karate kid.- ma un suo nuovo intervento, questa volta più rilassato, lasciò il portiere
nello stato di gaia spensieratezza nel quale si trovava dal momento in cui aveva aperto gli occhi, quella mattina.
- Va bene, d’accordo! Time out!- asserì, facendo segno con le mani.
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Kojiro sorrise soddisfatto, mentre al suo fianco Ken procedeva ridendo sotto i baffi al solo pensiero di sapere quel
vecchio orso burbero talmente preso da una ragazza da irritarsi per un minimo commento. Beh, c’era da dire che
ormai anche Kojiro aveva capito che lui era perso di Eve... e non è che si fosse tanto impegnato a nasconderlo,
soprattutto agli occhi di un amico che frequentava dalle elementari.
- Ragazzi! Ragazzi! Aspettatemi!- una voce acuta e disperata interruppe l’idillio.
- Heilà, Takeshi! In anticipo stamattina?- rise il numero dieci, voltandosi.
- Attento a non far piovere!- gli fece eco il portiere.
- Ma che simpatici! Vi ci mettete subito già il primo giorno?- Takeshi mise il broncio, ancora teneramente infantile per
resistergli.
- Sawada!!- tuonò ad un tratto una voce, ben lungi dall’essere intenerita.
- Oh-oh...- il nuovo venuto sembrava alquanto spaventato - Ragazzi io vi saluto... ci vediamo più tardi!Detto questo sgattaiolò in mezzo alla folla lungo il viale, prima che una ragazza dai capelli ricci si facesse largo tra
Kojiro e Ken e chiedesse arrabbiata:
- Dov’è Takeshi!?- Tu l’hai visto?- fece Wakashimazu, con aria indifferente. Kojiro si limitò a scuotere la testa bruna perché Mizuki
ripartisse alla ricerca del compagno più giovane, decisamente contrariata ed immersa in una nuvola di ninnoli rosa
trasparenti lungo le ciocche a metà schiena.
I due si scambiarono uno sguardo piuttosto eloquente che perdurò per un paio di istanti, prima di scoppiare a ridere e
tenersi la pancia. Sicuramente Takeshi doveva averne combinata una delle sue e Awashida non era certo esempio di
pietà o pacatezza... l’avevano detto loro che prima o poi quei due si sarebbero trovati talmente in sintonia da arrivare
addirittura ad inseguirsi!
- Ciao a tutti! Come mai così allegri?- il tono lieve di Aya li sorprese alle spalle, cosicché i due si voltarono di nuovo per
incontrare l’esile figura della ragazza, elegantemente fasciata nel gilet blu dell’uniforme della scuola.
- Buongiorno, ragazzi!- esclamò Eve con entusiasmo, spuntando da dietro l’amica ed afferrando una mano di Ken ed
una di Kojiro, stringendole forte.
- Ciao!- fece il capitano, rivolgendo un immediato cenno d’intesa alla ragazza dai capelli lunghi.
- Buongiorno, Icaro!- rispose l’altro, con il medesimo trasporto e rispondendo alla stretta con energia.
La bionda portava le maniche della camicia arrotolate a metà avambraccio ed i classici calzettoni fino al ginocchio, che
cadevano larghi e morbidi sopra le scarpe.
- Vi ho visti in tv, siete stati magnifici!- disse Ayame, sistemandosi le pieghe impeccabili della gonna nera.
- Grazie, abbiamo giocato con tutto l’impegno possibile!- rispose Kojiro, sorridendole con aria serena.
- Sì, ho seguito ogni partita!- la ragazza si portò le mani al petto, contenta.
Lui le portò una mano sulla spalla, lasciando che Aya gli si appressasse di qualche passo, quando ad un tratto spuntò
da chissà dove un affannato Takeshi. Di nuovo.
- Aiuto!- supplicò, con sguardo martire.
- Salve Takeshi!- lo salutò Eve con vivacità - Scappi da Mizuki?- aggiunse, centrando subito la palese causa della fuga
del compagno, che dal canto suo contrasse il volto in un’espressione di patimento.
- No! Non pronunciare quel nome!- Che nome?... Mizuki??- Kazuki si avvicinò al gruppetto, appena arrivato ed intenzionato a far sentire a tutti la propria
carica.
- Noooooooooooo!!- pianse Sawada, afferrando il bavero della divisa dell’amico.
- Ciao, ragazzi!- Kazuki li salutò sorridendo divertito.
- Ciao, Kazuki!- replicò Kojiro, facendogli cenno con la mano che reggeva la cartella.
- Come va, Sorimachi?- esclamò Ken, mentre Ayame gli rispose con un allegro ‘Buongiorno!’.
- Ehi, sei arrivato alla fine!- Eve lo salutò di rimando - Temo che tu abbia appena causato un danno irreparabile... fece subito dopo, ridendo di gusto nel notare Mizuki che si faceva di nuovo stoicamente largo tra la contrariata folla,
arrivare ad afferrare Takeshi per un braccio ed urlargli in un orecchio:
- Si può sapere perché cavolo non sei venuto a prendermi?!- Perdono... me ne sono completamente dimenticato...- implorò lui, a tratti terrorizzato.
- Tsk! Ma certo! Non è per niente carino lasciare aspettare una ragazza! Per fortuna, conoscendoti l’ho intuito subito,
però accidenti! Quando imparerai a ricordarti degli altri!?- Avanti, Mizu-chan, fai la brava!... perdonamiiii...- Takeshi adottò la tecnica degli occhioni da cuccioletto
abbandonato, ma l’irremovibile Mizu pareva aver inghiottito una damigiana di limoni in più della razione giornaliera
consigliata.
- Non m’incanti, sai?! Ti dovrei prendere a pugni per quello che hai fatto!!- Su, non è così grave!- intervenne Kazuki, alzando le spalle in un nuovo sorriso.
- Tu sta’ zitto e lasciami picchiare Takeshi in santa pace!!- sbottò di nuovo, sistemandosi la spilletta viola appuntata al
lato destro del collo della camicia. Piccoli accorgimenti prima di partire nell’opera di distruzione.
- Si può sapere in che razza di scuola sono finito...?La scena gelò e gli sguardi dei ragazzi caddero sul giovane studente che aveva appena parlato.
- Emh, Ev, mi mettono in soggezione...- fece ancora, alzando un sopracciglio e scrutando i presenti con aria
guardinga.
La ragazza rise.
- Scusa! Anzi, scusali!- si scostò per introdurre a tutti la nuova presenza - Ragazzi, questo è il mio fratellino Dex! E...
niente paura, presto ci farai l’abitudine!- gli strizzò l’occhio, battendogli una mano sul petto.
- Ciao a tutti.- salutò lui, mentre ognuno si curvava in un educato inchino di presentazione - Il mio nome è Dexter,
piacere.Si aggirava dalle parti del campo da dieci minuti, ormai.
I calciatori erano sicuramente ancora negli spogliatoi, ma onestamente non era sicura di voler attendere la squadra
all’uscita.
A volte le bastava saperli lì dentro... esattamente come altre volte le bastava gridare e sbraitare, farsi notare ed
attirare l’attenzione di tutti... per non scoprirsi troppo con uno solo di loro.
100
Sospirò.
Dex, il fratello di Eve, era entrato nel team di baseball da soli due mesi e si era trovato bene da subito, soprattutto
forte del tifo delle ragazze, che parteggiavano spudoratamente per lui, bellissimo biondino, una rarità.
Si era sempre chiesta che faccia potesse avere il secondo fratello di Eve ed a dire il vero se lo immaginava più
bruttino, un po’ più... europeo. Invece, anche se aveva due anni meno di loro, doveva ammettere che era davvero
carino! Occhi chiari, capelli biondi addirittura più della sorella, denti d’avorio, alto e ben muscolato... e quando
sorrideva gli si formavano due adorabili fossette ai lati della bocca. Era praticamente ovvio che le ragazzine
impazzissero per lui.
Un pensiero dietro l’altro, si trovò a considerare che erano passati mesi, ormai, dal ritorno, dal mondiale, dalla fine e
dall’inizio di tutto, di un nuovo ciclo.
L’inverno stava per lasciare di nuovo posto alla primavera e tutto durante quella gelida stagione era gelato.
Sentimenti, situazioni. Ogni cosa.
Kojiro ed Ayame mandavano avanti la loro relazione serenamente, così diversi... eppure così legati. La squadra andava
bene, il Toho non aveva perso il suo prestigio. Eve e Ken sembravano sempre la solita coppia affiatata ed ambigua di
amici e non amici. Le lezioni progredivano monotone e fin troppo seriose per i suoi gusti, senza un piccolo apporto di
colore o un pizzico di pepe.
L’inverno catturava i sogni e li lasciava congelati fino alla primavera, ne era convinta.
Così com’era sempre più convinta di amare la persona sbagliata, colui che forse in coda avrebbe inserito nella sua lista
dell’ultimo uomo sulla terra. E si sentiva in colpa per questo, avvertiva un senso misto di rabbia e frustrazione per non
riuscire a controllare i propri sentimenti... temere di scoprirsi prima o poi, di essere sempre lì per scoppiare.
Per questo ogni loro conversazione finiva in un litigio, non poteva certo rischiare. Non poteva scoprirsi, non con lui, che
di certo non capiva e non avrebbe capito mai...
Le veniva quasi da piangere. Se gli avesse rivelato i propri sentimenti, di sicuro le sarebbe scoppiato a ridere in faccia,
l’avrebbe preso per uno scherzo dei suoi, una delle classiche prese in giro.
Aveva provato per lunghi mesi a nasconderlo a sé stessa... ma avvertiva che il limite era vicino. Non poteva più non
ammettere che era da quel giorno... da quella volta in cui Takeshi le aveva rivolto il primo, disinvolto e cordiale
sorriso... che se n’era completamente innamorata.
- Che ci fai qui tutta sola?- una voce amica al proprio fianco.
Mizuki si voltò con gli occhi lucidi, senza accorgersene, mentre delle ciocche di capelli biondi si mossero lievemente
trasportate dal vento, davanti a lei.
Per quanti gingilli potesse indossare, per quante lozioni, artifizi potesse usare... Eve riusciva sempre e comunque a
leggerle dentro.
- Mizu, stai bene?- le chiese, notando i suoi occhi umidi.
- Oh... sì... sì, tutto bene!- sorrise, rendendosi conto di essere lì lì per piangere.
L’amica le lanciò uno sguardo interrogativo, poi appoggiò il grosso blocco da disegno sulla panchina e si sedette con
lei, stringendosi la sciarpa al collo e soffiandosi nelle mani per scacciare il freddo pungente.
Rimase a guardarla per qualche istante. I capelli le erano cresciuti di nuovo ed Eve li aveva sistemati di modo che una
leggera frangia le scendesse sugli occhi, mentre il resto le arrivasse appena sotto le spalle. La vide sistemarsi per la
seconda volta la sciarpa grigia all’interno dello spolverino nero ed appoggiare la schiena alla spalliera della panca.
- Aspetti i ragazzi?- le chiese.
Mizuki si scosse ed annuì.
- E tu sei appena uscita dal corso?- le chiese di rimando, alludendo al seminario di tecniche di acquerello che l’amica
aveva cominciato a frequentare dall’inizio del mese. Si trattava di uscire da scuola in tutta fretta per tre volte la
settimana, prendere il treno e tornare all’incirca sul fare della sera. Il più delle volte il rientro però coincideva con
l’uscita di Ken dagli allenamenti e così i due finivano per trovarsi e ritrovarsi, sempre insieme.
- Sì, ti ho vista qui tutta abbandonata e ho deciso di farti un po’ di compagnia. Se non sbaglio fra poco escono.- fu la
risposta della bionda, che diede un occhio all’orologio, sotto la pesante e spessa manica.
- Sì.- annuì Mizu, ancora stranamente poco espressiva.
- Bene, allora ce ne andremo a casa con loro!- sorrise l’ex velocista, decisa.
- No... io... meglio che vada ora...- l’altra fece per alzarsi tra l’allarmato e l’apprensivo. Certo non era pronta a
guardare in faccia nessuno, soprattutto dopo i pensieri malati che le erano balenati in testa fino a due minuti prima.
Ma la compagna capì chiaramente la natura del problema.
- Eh, no! Tu aspetti qui insieme a zia Eve, okay?- la prese per le spalle e la bloccò con una stretta risoluta.
Mizuki finì per dare le spalle al campo e guardare l’amica con aria stanca.
- Eve, io... mi sento un po’ affaticata, vorrei tornare...- Che differenza fa aspettare due minuti ancora? Eri qui da un po’, no?- decisamente quelle non erano parole da Mizu e
nemmeno il fatto di star attendendo qualcosa e poi svignarsela quando questo qualcosa stava per manifestarsi.
- Io... no, davvero non mi sento...- fece per iniziare di nuovo, lisciandosi una ciocca di capelli ricci dietro un orecchio,
ma Eve la colse di sorpresa.
- Salve, Toho!- esclamò ad un tratto, agitando la mano in direzione del gruppo che si avvicinava dal cancello, le borse
sulle spalle, chi i guanti ben calzati, chi il berretto calcato sulla fronte e chi stretto nel giubbotto.
- Ciao, hai compagnia questa sera?-sorrise Kazuki, che faceva da capofila. Mizuki si trovò a sussultare, tanto da
afferrare rapidamente la cartella marrone e correre via alla velocità della luce.
- Ehi, ma che le prende?- uno stranito Takeshi, alla destra di Sorimachi, scosse il capo nel tentativo di convincersi che
quella non era Awashida, ma una che le somigliava. Eve scosse la testa.
- Periodo no.- si limitò a dire, avvertendo l’essere repentinamente smarrito del compagno.
I ragazzi raggiunsero la strada in compagnia dell’ex atleta, fino a che, come sempre dopo il percorso attraverso i
quartieri in penombra ed ancora avvolti nella brina, rimasero solamente lei e Ken.
- Allora, campione, come va in questo periodo?- sorrise, prendendo un gran respiro e lasciando che l’aria dell’inverno
le refrigerasse ben bene i polmoni.
- Tutto bene, anche se gli allenamenti sono più frequenti non mi lamento, e tu? E’ un po’ che non abbiamo occasione
di parlare in tranquillità.- rispose lui, la borsa lungo un fianco ed una mano nella tasca posteriore dei jeans.
101
I loro passi risuonavano sul selciato quasi traslucido per la pioggia appena caduta, mentre il riverbero delle nuvole
ambrate sul far della sera si lasciava cullare e trasportare via dal vento che spirava da est.
- Io sto alla grande da mesi, ormai! Da quel fatidico giorno in cui abbiamo partecipato al gala, il tuo compleanno.- la
voce di Eve pareva così serena e senza ombre che Ken trasalì dentro di sé.
Quel giorno era così lontano, nonostante si ricordasse tutto come se fosse appena trascorso.
La bassa staccionata alla loro sinistra proiettava sagome lunghe e distese a terra, intervallando ogni passo al filtrare
ritmico del sole quasi orizzontale dietro i rilievi.
Era forse quel giorno che aveva avvertito Eve talmente vicina, tornare a sé, diventare una cosa sola, molto più che
amici.
Abbassò lo sguardo per un attimo alle proprie scarpe da ginnastica e, curvando il capo di poco, agli stivali della
compagna, neri e quasi traslucidi, puntellati di piccole gocce di pioggia già caduta, raccolta dalla strada. Cosa c’era
veramente tra di loro?
Finirono per ritrovarsi seduti sulle panchine del parco di fronte al quale erano soliti passare dopo la scuola, durante il
percorso verso casa.
- Ken...?- fece d’un tratto la bionda, il cui cuore aveva quasi raggiunto la gola con i suoi imperterriti battiti.
Era certamente felice... eppure era come se l’inverno avesse congelato ogni cosa anche per lei. Dopo due baci,
interminabili abbracci... era arrivata quasi a chiedersi se le palesi dimostrazioni d’affetto che aveva ricevuto da
Wakashimazu non fossero state altro che un miraggio... o l’effetto della tensione.
Dopotutto non sapeva cosa Ken pensasse di lei - o meglio, dell’intera situazione - ed ogni volta che erano da soli
moriva dalla voglia di saltargli al collo e sfiorare le sue labbra, avvertire le sue braccia intorno al proprio corpo,
cingerla con forza ancora una volta per paura che tutto svanisse, che tutto sbiadisse.
Il ragazzo le sorrise in attesa di una risposta.
- E’ quasi un mese che ormai non ci sediamo più qui.- si strinse nelle spalle nel tentativo di scacciare un brivido di
freddo.
- Già, tanti impegni.- fece lui, con rammarico - Ti ricordi la prima volta che ci siamo venuti?- E chi se la dimentica!- rise Eve, la mente strappata al presente e ricondotta con un baleno a più di un anno addietro E’ stato quando mi hai chiesto di accompagnarti alla festa di Kojiro!Anche Ken rise, scosso dal rumore dei ricordi.
- E’ cominciato tutto da lì...- sospirò poi, serrando le palpebre con un gesto breve e sereno.
- Tutto...?- chiese il portiere, più a sé stesso che al vento.
- Tutto.- ripeté la compagna, le labbra distese ed il volto indorato dal sole obliquo e carminio - La nostra amicizia,
intendo... e tutto il resto.Tutto il resto. Ken arrossì lievemente a quelle parole, ormai aveva smesso di pensarla come un’amica da tempo... fin
troppo tempo. Era trascorso più di un anno intero di amore inconfessato, mesi volati, lontananze superate; un anno di
inquietudini interiori e pensieri sconnessi, del tutto inebriato, del tutto sconclusionato... e tutto per lei.
Oh, Eve. Per Eve avrebbe catturato la luna.
Eppure da quando era ricominciata la scuola si erano comportati da perfetti amici, quasi come se niente fosse
accaduto. Wakashimazu aveva deciso di rispettare i tempi e dare la possibilità alle cose di ristabilirsi, nonostante però
non ci fosse giorno in cui non la pensasse, in cui non desiderasse appartenere a lei per sempre, avvinto alle sue
eleganti mani di artista e di donna; ed allora, sotto la luce quasi pallida di un tramonto di metà inverno, stavano di
nuovo soli a parlare, mentre le foglie secche per terra si smuovevano lievi, trasportate dal vento inconsistente.
Si avvicinò a lei come a volerla riscaldare e le cinse le spalle con le mani, facendole scorrere le dita sul collo coperto
dalla sciarpa, fino dietro la nuca. La ragazza si trovò ad appoggiare la guancia sul collo di lui, chiudendo gli occhi e
rimanendogli così vicino da poter avvertire la ruvida piacevolezza della pelle d’uomo, nel silenzio della luce del vespro.
Ecco, quella non era decisamente una scena che chi fosse passato avrebbe detto star intercorrendo tra due amici,
piuttosto un modo per entrambi di lasciar comprendere all’altro i propri sentimenti.
Eve fece per alzare la testa, quando i suoi occhi incontrarono le labbra di Ken farsi sempre più vicino, per poi finire a
sussurrare il suo nome sulla sua bocca. Ormai incapace di tirarsi indietro e di sfuggire ad un nuovo contatto tanto
cercato, la bionda lasciò che il compagno si avvicinasse quel tanto che bastasse perché l’accostamento dapprima lieve
scoppiasse in un nuovo bacio.
Si stavano baciando di nuovo. Di nuovo. E questa volta le avrebbe detto che era follemente innamorato di lei, non si
sarebbe lasciato sfuggire quell’occasione per dimostrare alla persona più importante del mondo che l’amore che
provava per lei era talmente grande da stordirlo.
Il tocco vellutato ed umido della bocca di Eve lo accompagnò per lunghi istanti ed il suo respiro bruciante sulle proprie
labbra fu come magma nella neve.
Si allontanarono lentamente, aprendo gli occhi e fissandosi in silenzio. La luce del sole illuminava la parte opposta di
ciascuno dei loro volti, immobili e marmorei come in un dipinto.
Prima che Ken potesse esprimere i suoi pensieri, Eve lo anticipò.
- Lo hai fatto di nuovo.- fece con tono grave e occhi opachi - Perché?- aggiunse poco dopo, rivolgendogli uno sguardo
carico. Ken l’aveva baciata un’altra volta e, inevitabilmente, oltre ad esserne deliziata, l’aveva colta un pressante nodo
al cuore.
Era sicura che anche se avesse voluto non sarebbe riuscita a dirgli niente, troppo terrorizzata per azzardare una
parola, per esprimere le proprie emozioni. Come poteva urlare a Ken che l’amava, se aveva paura di farlo?
Sarebbe accaduto di nuovo, l’incontro di nuovi baci, così apparentemente senza motivo, trascinandosi e gelandosi per
mesi? Maledisse la propria incapacità di pronunciarsi, convinta che mai e poi mai sarebbe giunta a sbrogliare il nodo e
che, soprattutto, avrebbe finito per farne soffrire Ken, che forse si aspettava qualcosa di più da lei.
E invece...
- Eve, io ti amo.I suoi occhi azzurri si spalancarono di scatto, la voce calda e rassicurante di Wakashimazu le carezzò il volto come
un’onda improvvisa.
Gliel’aveva detto. Semplicemente. Mentre Eve era rimasta stabile e fissa con le palpebre spalancate e rivolta ad un
punto indeterminato dei suoi occhi di nera ossidiana.
102
- Io... scusami se...- cominciò di nuovo, notando l’immobilità della bionda, che scosse di poco il capo, come a
riprendersi dalla momentanea assenza.
Questa volta fu lei ad interromperlo, gettando le braccia oltre il suo volto e raggiungendolo con un nuovo bacio.
Le due bocche si unirono e confusero, mentre Eve avvertì le stabili e larghe spalle di lui sotto le proprie braccia, tanto
da spingerla a stringersi al suo petto di modo da non lasciare nemmeno uno spiraglio d’aria a separare i loro mondi.
Lentamente ma con energia percepì il tocco delle mani di Ken sulla propria schiena che premevano il suo corpo contro
il proprio in un abbraccio quasi dolorosamente violento e finalmente carico della passione che meritava.
Aprì la bocca in un movimento quasi febbrile di ricerca, ma il contatto intenso che gli procurò la lingua di Eve
carezzando la sua gli fece ribollire il sangue nelle vene, finché l’inverno attorno a loro scomparve e si trasformò in un
caldo nucleo di sole, bruciante e arroventato.
Labbra contro labbra, petto contro petto, una mano di Eve scostò una ciocca di capelli dal volto di lui, gli occhi schiusi
lentamente sempre racchiusa nel suo abbraccio energico, poi si scostò di quel tanto che bastava per guardarlo negli
occhi di nuovo.
Non disse una parola, solo gli rivolse un sorriso eloquente, disteso ed ancora umido della sua bocca, impregnato del
suo sapore, mentre le mani scivolarono ancora una volta tra quelle del portiere.
- Se ti chiedo una cosa, prometti di non mandarmi al diavolo?- disse teneramente Ken, con sguardo sereno e
malizioso. La bionda gli scoccò un’occhiata in tralice, tentando di indovinare.
- Sentiamo un po’.- sorrise, facendo la finta sostenuta.
- Ti va di essere la ragazza di Wakashimazu?L’espressione tirata di Eve cadde e di nuovo si trattenne dal ricadere imbambolata con gli occhi spalancati come pochi
minuti prima. Inoltre Ken le aveva appena chiesto quello che mille volte aveva sognato d’essere, di diventare, con così
naturale freschezza e con quella punta di umorismo che la fece sorridere. Si coprì la bocca con le dita, in un sorrisetto
divertito, poi alzò di nuovo lo sguardo di cielo nei suoi occhi d’abisso e annuì.
- Da oggi in poi.- sussurrò.
Si richiuse la porta alle spalle, sul volto stampato un indelebile sorriso euforico, sentiva come se ogni cosa fosse
canalizzata su di sé, come se Ken le avesse fatto un incantesimo.
Scosse il capo, tentando di scendere dalle nuvole, ma era più forte di lei, sentiva che neanche con acqua e ammoniaca
sarebbero riusciti a toglierle quell’espressione dal viso.
E pensare che quel giorno sarebbe anche dovuta tornare a casa prima, dal momento che i corsi erano terminati in
anticipo. Se non avesse visto Mizuki seduta sulla panchina, non si sarebbe fermata e... ora non sarebbe così felice da
sentirsi al millesimo cielo!
E poi che sciocca, era quasi preoccupata dal fatto che Ken potesse non tenere a lei come desiderava che quando le
aveva detto ti amo aveva perso ogni difesa. Già... le aveva detto ti amo. Ed ora poteva considerarsi la sua ragazza,
oh, a questo ci avrebbe messo un po’ per abituarsi. Decisamente non riusciva a crederci.
- Ehi, Ev, che fai, ridi da sola?- Dex fece capolino dalla porta della cucina con un toast in bocca e l’aria sonnecchiante.
- Ah, se te lo dicessi non ci crederesti!- rispose lei, ancora ridendo e salendo le scale. Il fratello la raggiunse sul
pianerottolo ed alzò il capo per guardarla dal corrimano.
- Eh? Dirmi cosa?- Sto insieme a Ken! Sto insieme al mio portiere!- canticchiò lei, raggiungendo la porta della sua stanza e
definitivamente il mondo dei sogni di favola.
- Ma che le prende?- chiese la madre avvicinandosi a Dexter con un mestolo in mano.
- Credo che Ev si sia innamorata...- sospirò lui, con aria da uomo vissuto.
Narumi lo guardò brevemente con occhi dapprima sorpresi, poi addolciti. La lunga treccia nera poggiata su una spalla,
sorrise.
- Eve, tra dieci minuti è in tavola!- le mandò una voce dalle scale, prima di tornare in cucina battendosi il mestolo in
una mano con il medesimo sorriso premuroso - Innamorata, eh?Una rampa di scale più su, Eve si stringeva al cuscino, rotolandosi nel letto come una bambina.
Meraviglioso! Meraviglioso! Meraviglioso!
Adesso poteva realmente considerare Ken... suo.
“Eve, io ti amo.” le parole che le aveva detto quel pomeriggio le risuonavano in testa come se Wakashimazu le stesse
pronunciando in quello stesso istante, lì accanto a lei. Aveva impresso nella propria mente la sua calda voce dal tono
grave e sussurrato ed ogni volta che ci pensava veniva scossa da un brivido intenso.
Quella era dunque... felicità? Stava provando davvero una contentezza estrema, la gioia di continuare a vivere per
vedere il domani con lui...? Non era un sogno?
Era tutto così assurdo e lontano, ogni momento in cui si era passata le dita sulle vene dei polsi e le aveva fissate con
rabbiose, maledette e inutili lacrime, intenzionata a reciderle una volta per tutte, era intensamente nitido ma
dolorosamente distante.
In quell’attimo tutto era diverso, se si fosse vista ai tempi in cui il totale buio ottenebrava i suoi sensi, sicuramente
avrebbe infranto ogni specchio nel tentativo di scacciare una visione troppo perfetta e troppo felice per poter credere
di essere sé stessa.
Ken, dal canto suo non si sarebbe mai creduto capace di dire certe parole, aveva sprecato tante occasioni pianificate
da tempo, però quel pomeriggio si era sentito più imprevedibile che mai.
Non sapeva nemmeno se avrebbe visto Eve prima dell’indomani ed invece lei si era materializzata lì, davanti al
cancello, immersa nella luce del tramonto e fasciata nel cappotto nero, elegantemente in attesa di lui.
Aveva sentito le proprie labbra bruciare su quelle di lei, una sensazione nuova, forte, ancora più intensa della prima
volta in cui gli aveva regalato un bacio. La consapevolezza di sentirla sua l’aveva invaso a tal punto che era tutto così
tangibile e reale perché temesse che tutto potesse fare parte di un sogno meraviglioso.
Fino ad allora nessuno era penetrato così a fondo nel suo cuore schivo e selvatico, nessuno tranne Eve. Ed incredibile
come una ragazza come lei - ben lungi dal desiderarlo e quasi restia a farlo - avesse finito per occupare la posizione di
centro in tutte le sue emozioni.
103
- Ragazzi! Questo ha l’aria invitante!- Takeshi si era inginocchiato accanto ad uno scatolone ricolmo di pacchetti rosati
e dai fiocchi di mille colori, mentre Mizuki, accanto a lui, vi frugava dentro con attenzione.
- Dillo a me, guarda un po’ questo! E’ grandissimo!- ne estrasse uno di mole piuttosto importante, portandoselo alle
narici ed inspirando a pieni polmoni.
Kojiro si sistemò i pantaloni lunghi della divisa, scuotendo il capo.
- Capitano, sei sicuro che non ne vuoi aprire neanche uno?- si lagnò Sawada, lanciando un’occhiata al bomber, in piedi
accanto alla panchina.
- Ti ho detto che non ne voglio sapere!- sbottò lui, le braccia conserte.
Il sole del mattino filtrava da dietro il grande angolo nord dell’istituto Toho, lasciando che si delineasse la sua enorme
ombra squadrata su tutto il campo da calcio.
Eve sedeva sulla panca accanto alla quale era appoggiato Kojiro, con un sorriso delicato sulle labbra rosse. La pesante
lana del maglione verde della divisa risaltava con il bianco e blu del colletto, che richiamava il colore primario dello
stemma della scuola, mentre le maniche le ricadevano sopra le dita, un po’ più lunghe del normale.
Si chinò per sistemarsi i calzettoni al ginocchio che le coprivano anche le scarpe nere sopra la gonna della stessa
tonalità.
L’intervallo in genere durava di meno, ma a causa di una riunione di istituto del tutto improvvisata riguardo i giochi
interscolastici di primavera, i ragazzi si erano trovati immersi nel dolce far nulla sulla soglia del campo da calcio, dove
Kojiro Hyuga faceva da padrone, beandosi i raggi del sole antimeridiano.
Ayame era impegnata nel fascicolare i documenti relativi all’assemblea, ma il numero dieci pensava a lei da quando,
quella stessa mattina, gli aveva consegnato un delizioso e morbidissimo pacchetto di cioccolata di San Valentino, che
ovviamente si era premunito di mettere al sicuro e conservare per mangiarla insieme, una volta tornati a casa.
Figurarsi se era interessato al solito scatolone che le ammiratrici gli inviavano per quel giorno! L’aveva sempre
volentieri lasciato al resto della squadra, indifferentemente e non badandoci.
Ken arrivò a passi strascicati e stiracchiandosi ed Eve ne dedusse che si doveva essere addormentato durante l’ultima
lezione, non aveva sentito il campanello e aveva raggiunto solo allora il giardino della scuola. Non sembrava badare
molto nemmeno al fatto che nessuno l’avesse svegliato, dal momento che l’ultima volta aveva rischiato di rompere
l’osso del collo a Hideto Koike, che l’aveva colto alla sprovvista nel dormiveglia.
La bionda si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito.
- Ehi, ehi!- la voce allegra di una ragazza richiamò la sua attenzione dall’altra parte del cortile.
- Hina?- Eve si voltò giusto in tempo per veder giungere a passo veloce una delle sue ex compagne di squadra, tra le
mani un grosso scatolone di cartone, decisamente simile a quello in cui stavano frugando Mizu e Takeshi.
- Uff!- fece lei, poggiandolo a terra accanto all’altro e risistemandosi la fascia rossa che portava tra i capelli scuri Ciao! Questo è per te!- sorrise poi, indicando lo scatolone.
Mizuki le fu subito addosso, o meglio, subito addosso al contenitore di cartone, impegnandosi con le unghie a
rimuovere il nastro adesivo che lo chiudeva.
- Che cos’è?- rispose la compagna, piuttosto stranita, fissando il proprio nome scritto evidentemente con un pennarello
indelebile sul lato più ampio.
- E’ San Valentino, no?- rise Hina, le mani ai fianchi - E’ arrivata questa cioccolata per te, alla sede del club!Per poco Eve non cadde a gambe all’aria.
- Ma io non faccio più parte del club di atletica...- tentò di buttare lì, in un misto tra lo stupita ed il piacevolmente
lusingata.
- Beh, ma sei comunque la campionessa mondiale in carica e la squadra è il punto di riferimento degli ammiratori.l’altra si strinse nelle spalle - Ti ho cercata per tutto il cortile, per fortuna non ho dovuto correre tanto. Ah, se mi
sentisse la Rama mi ucciderebbe! Oh, a proposito, scappo via prima che mi trovi in giro e mi costringa a radunare le
altre per un allenamento extra!Detto questo si voltò e mosse i primi passi verso la recinzione. Mizu, nel frattempo, era finalmente riuscita ad avere
successo nell’opera in cui era intenta fino a quel momento ed i suoi occhi avevano assunto improvvisamente mille
diverse sfumature luccicanti alla vista di nuove, sgargianti scatole di cioccolato.
- Oh, Eve.- Hina tornò indietro d’un passo - E’ un peccato che tu abbia lasciato il team.La bionda alzò un sopracciglio, scuotendo il capo con un mezzo sorriso.
Tentò di dominarsi nel pensare per l’ennesima volta che detestava quel genere di commenti, ben lungi dall’essere
perfetta e composta, si ritrovò tuttavia a risponderle con un semplice saluto dall’aria tranquilla.
Takeshi si era buttato a pesce sulla novità e, con un urletto, richiamò l’attenzione della destinataria agitando un
pacchetto in carta blu.
- Ehi, guarda! Cioccolato bianco!Eve fu subito repentinamente sull’attenti, le antenne rizzate e i sensi in subbuglio.
- Che?!- fece, avvicinandosi estatica.
- Ehi, non vorrai portarti quella roba a casa, vero?- la voce categorica di Wakashimazu le stroncò i sogni sul nascere.
- Oh, andiamo, Ken, è solo cioccolata!- alzò le spalle, voltandosi verso di lui sulla ghiaia sottile del fuori campo.
- Non è solo cioccolata, sono regali di San Valentino. Non si accettano i regali di San Valentino se non si hanno
intenzioni serie.- disse lui, le mani ai fianchi.
Kojiro curvò le labbra da un lato in un sorriso sorpreso e divertito.
- Ma sentitelo!- Eve sbuffò, alzando gli occhi al cielo - Nessuno mi aveva mai regalato tanta roba per San Valentino!
Che ne possono sapere di quale pacchetto mi sono portata a casa?Il portiere le scoccò uno sguardo truce.
- Eddai, solo uno?- le mani intrecciate sotto il mento, semicoperte dalle maniche lunghissime; la ragazza assunse l’aria
di una golosa colpevole.
Ma Ken era seriamente intenzionato a non mollare. Dall’alto della sua statura sembrava non volersi e non doversi
smuovere più finché Eve non avesse ceduto.
- Oh, e va bene!- sbuffò di nuovo lei, alzando le spalle e separando le mani - Ma tu guarda che razza di guastafeste!Tramando che il ragazzo non se ne accorgesse, fece repentinamente cenno a Takeshi di lanciarle il pacchetto di
cioccolata bianca di soppiatto, di modo da riceverlo dritto tra le mani. Ed allora col cavolo che Ken sarebbe riuscito a
separarla dall’invenzione più geniale dell’umanità - dopo le caramelle ed il gelato alla frutta, naturalmente.
104
Sawada rise, lanciandole il piccolo dono con un tiro leggero e preciso.
Ma prima che la bionda potesse saltare ed afferrarlo, una mano di Wakashimazu era già intervenuta per fare piazza
pulita. Dopo i rigori di Kojiro, era senza dubbio capace di parare anche una pallina da golf.
- Aaah!- si lagnò Eve, con un lamento infantile - Malefico! Malefico, portiere!Fece appena in tempo a terminare la frase che, con sguardo fulmineo di volpe, due millisecondi dopo era già attenta a
puntare la scatola, tentando il colpo da scattista di cui era maestra.
Ma, di nuovo, prima che potesse anche solo provare a partire in velocità verso l’obiettivo, Ken la sollevò da terra,
inevitabilmente parando anche lei.
- Uaah! Tu sei cattivo, cattivo portiere senza cuore!Ovviamente Mizu e Takeshi avevano fatto piazza pulita. Quei due sembravano inseparabili quando si trattava di cibo,
litigate e quant’altro, anche se ultimamente Mizuki le sembrava un po’ strana.
Da quando l’aveva trovata fuori dal campo con gli occhi lucidi - che anche se aveva tentato di nascondere, Eve aveva
notato perfettamente - era diventata piuttosto scostante nei confronti di Sawada. Certo, non al punto da evitarlo o
trattarlo in malo modo, ma semplicemente si era fatta più fredda: nelle occasioni in cui tutti avrebbero scommesso
dieci a uno che si sarebbe infuriata e avrebbe dato vita ad una litigata di una giornata intera, Mizu li stupiva e lasciava
correre. Oppure quando Takeshi la punzecchiava, probabilmente stranito anch’egli dal suo comportamento nei propri
confronti, lei alzava le spalle e faceva finta di nulla.
- Ehi.- Ken allungò una mano a farle il solletico ad un fianco, riportandola alla realtà ed Eve si voltò assottigliando lo
sguardo e mantenendo un’andatura sostenuta.
- Ce l’ho ancora con te, karate keeper. Non credere di passarla liscia.- fece, prontamente.
Casa sua distava ormai un solo isolato ed il cielo sereno si specchiava sulle rade pozzanghere che a mano a mano
superavano, camminando l’uno di fianco all’altra.
Un gatto tigrato attraversò velocemente la strada con sguardo attento.
- Io lo dicevo anche per il tuo bene, da quando hai smesso di correre devi cercare di mantenere un peso forma che con
tutta quella cioccolata...- E’ un modo non troppo carino per dirmi che sono ingrassata?- lo riprese lei, arricciando il naso e facendo tanto
d’occhi. Ken mise le mani avanti.
- Beh, err... sei solo passata ad una taglia quarantatre, sei ancora fin troppo snella tra le altre ragazze.- il portiere alzò
le spalle, scuotendo il capo dai lunghi capelli scuri e sistemandosi meglio la cartella che gli penzolava da una spalla - E
poi, ehi, io adoro le tue forme!Dritto al cuore, come sapeva fare lui.
- La tua sincerità mi urta a volte, sai?- commentò la bionda, facendo roteare gli occhi e nascondendo un lieve rossore
d’imbarazzo sul volto.
Wakashimazu sorrise sornione, poi si fermò qualche passo indietro e si puntò un indice al mento, facendo decisamente
il finto pensoso.
- Beh, quindi se il fatto di aver raggiunto un ottimo peso forma in linea con la tua corporatura ti causa questo
complesso dell’ingrassare, credo che non potrò consegnarti una cosa che...- Ma sentilo, sei tu che hai detto che sono ingrassata!- Eve si voltò contrariata, le mani incrociate al petto sopra lo
spolverino nero che le scendeva sino alle ginocchia, lasciando scoperte le gambe.
- Io ho detto che hai riempito le tue forme!- di difese lui, prendendo a ridacchiare e ad assumere un atteggiamento di
colpevole difesa.
- E basta con queste ‘tue forme’, mi metti in imbarazzo!- la bionda gli voltò di nuovo le spalle, mantenendo le braccia
conserte e stringendosele al petto - Ehi, un momento, hai detto ‘consegnarti una cosa’?Ma prima che si potesse voltare, Ken le stava facendo penzolare davanti agli occhi un pacchetto dalla carta rossa,
sorretto da due dita sopra la sua testa.
Eve di nuovo si trovò a sgranare gli occhi, accogliendo tra le mani la piccola scatola e riconoscendone l’involucro
stampato di una pasticceria del centro. Si liberò del coperchio quadrato e delle cordicelle che lo tenevano unito al resto
del pacchetto, scoprendo ciò che la fece voltare di scatto verso il ragazzo, gli occhi ricolmi di stupore e compiacimento.
- Ken, è... è cioccolato bianco!- gli saltò al collo ancora stringendo il dono in una mano, sfregando una guancia contro
quella del portiere, che l’accolse tra le sue braccia tra l’intenerito e il colto alla sprovvista.
Come faceva a ricordarsi che le piaceva proprio quel tipo particolare? Se non si sbagliava gliel’aveva detto di sfuggita
in una delle loro prime conversazioni! Si allontanò di scatto, considerando repentinamente una mancanza.
- Eh... ma... che stupida! Io non ti ho comprato niente!- si sentì sempre la solita smemorata insensibile.
Ma Wakashimazu ebbe uno scoppio di risa cristallino.
- E che importa? A me basti tu!- ribatté, sollevandole il mento con un dito e posando un leggero bacio a fior di labbra
sulla sua bocca di vellutata seta.
- Ah, tu non sei malefico, sei il portiere migliore del mondo!- rilanciò la compagna, stringendosi a lui e riprendendo a
carezzarlo energicamente guancia a guancia.
- Ma tu senti che ruffiana!- rise, tuffandole una mano tra i capelli ed un’altra a cingerle la vita longilinea sotto la
cintura del cappotto.
La ragazza prese a sfiorargli il collo con la bocca, procurandogli un senso di brivido e giocosa eccitazione, facendo le
fusa come una bambina che ha appena ricevuto mille balocchi per Natale.
- Eve!- Ken non riuscì a soffocare un’altra risata - Basta, Eve, prima che ci arrestino per atti osceni!-
CAPITOLO 14 – Amarezze
- Sei in ritardo!Ken sgranò gli occhi neri e si guardò intorno, finché il suo sguardo stupito incontrò la figura agile di Eve saltare a piè
pari gli ultimi due gradini di casa e toccare il suolo con leggerezza.
Troppo strano, che ci faceva già in piedi?
- Sei già sveglia?- le domandò con aria interrogativa, portandosi una mano ad abbassare di qualche centimetro la
cerniera del giubbotto scuro.
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- Certo, che ti aspettavi? Se vuoi torno in casa, però!- gli rivolse uno sguardo imbronciato, che però non durò a lungo,
dal momento che, nel vedere l’espressione stupita di lui, prese a sorridere - Andiamo?Wakashimazu annuì e fece per prenderle la mano, quando una voce fin troppo acuta per le sette del mattino che
erano, interruppe i suoi propositi.
- Eve, ferma lì! Dove pensi di andare?- Narumi fece capolino dalla finestra del piano inferiore.
- Emh... a scuola?- rispose la figlia, voltandosi indietro in un volteggiare circolare della lunghissima sciarpa bordeaux
che ancora non aveva avvolto al collo.
- Senza questa? Prendi!- la donna le lanciò la cartella, convinta di farla arrivare direttamente tra le sue mani, ma
doveva aver fatto male i conti, dal momento che ritrasse immediatamente la mano, a tratti sgomenta.
La ragazza seguì il volo dell’oggetto e si stava rassegnando a vedere la sua cartella marrone finire dritto dritto
nell’aiuola sottostante, in un trionfo di steli appena sbocciati, quando un’ombra le passò davanti fulminea e l’afferrò al
volo.
- Oh...- sua madre trasse un sospiro di sollievo, riprendendosi e passandosi una mano sulla fronte - Grazie tante! Ho
sempre avuto una mira pessima!Ken sfoderò il suo sorriso più rassicurante, mentre al suo fianco Eve scoppiò in una risata fragorosa.
- Magnifico! Adesso sei anche un supereroe!- il volto di sua madre si era dipinto di un tratto talmente atterrito nel
terrore di vedere i propri bei fiori spiaccicati sotto il peso della scienza, che non riusciva a trattenersi dal piegarsi in
due, appoggiandosi alla staccionata.
- Speriamo che questo supereroe protegga anche la tua testa!- ribatté Narumi, cacciando la lingua in un’espressione
puerile - Ma come si fa ad andare a scuola senza cartella!- aggiunse poi, le mani ai fianchi rotondi fasciati dalla
vestaglia color crema.
Ecco che aveva assunto il ruolo di sorella capricciosa, pronta a stuzzicare Eve con ironia. Era un lato di lei dato forse
dal divario d’età fin troppo esiguo che la separava dalla figlia, ma che quest’ultima non considerava certo un problema
né un cruccio, piuttosto era pronta a risponderle a tono ed ingaggiare un battibecco mai troppo serio.
Ken salutò la donna, che rientrò in casa rivolgendo loro un cenno della mano, mentre Eve afferrò la cartella dalle
braccia di lui senza smettere di ridere.
- Hai visto che espressione terrorizzata!? Accidenti che ridere! Mi vengono le lacrime!Vedere la compagna così spensierata finì per contagiare il portiere, che prese a ridere anche lui, portandosi un braccio
dietro la nuca.
- Ma come si fa a dimenticarsi della cartella?- riuscì a dire tra uno scoppio di risa e l’altro. Eve si asciugò gli occhi con
qualche sorrisetto a singhiozzo che le scuoteva ancora le spalle.
- Che c’è, lo sai che sono smemorata...- si giustificò lei, alzando le mani in segno di resa.
- Oh, beh, e questo è niente!- rise di nuovo Wakashimazu, circondandole la testa con un braccio come a giocare ed
avvicinando le proprie labbra alla punta del suo naso, posandovici un bacio leggero - Stamattina ho cominciato proprio
bene, grazie.Eve si sentì arrossire a quella vicinanza improvvisa. Imbarazzata come una scolaretta. Eh, già... ma ora era il suo
ragazzo!
- Vieni qua!- esclamò di rimando, prendendogli il viso tra le mani ed sfiorando ancora una volta la sua bocca con la
propria, chiudendo gli occhi e lasciando che lui le carezzasse i fianchi. Poi si scostò sorridendo e fece qualche passo in
avanti di corsa; quando si voltò un improvviso alito di vento mattutino le soffiò tra i capelli chiari e le sollevò di un
poco la gonna nera della divisa, insieme ai lembi del cappotto dello stesso colore.
Il sole si era fatto di una luminosità più intensa, cominciando a levarsi all’orizzonte e delineando la sua sagoma in
controluce agli occhi del portiere, rimasto indietro ma con lo sguardo fisso su di lei.
Così bella, finalmente felice. Quel sorriso gli riempì gli occhi, gli colmò i sensi, saturandoli completamente.
Ken si sentì tutt’un tratto catapultato dentro un mondo a tinte sgargianti e sfumate, dove gli bastava guardarla e starle
accanto per sentirsi finalmente completo.
Le occorrevano gli appunti di storia entro il giorno dopo o sarebbe stata la fine.
Nishimura aveva dimostrato più pugno di ferro di quanto la classe potesse immaginare, stabilendo per l’indomani
un’interrogazione a tappeto. Bella mossa, per Eve era follia pura.
Si era attardata di qualche minuto soltanto, ma al suo ritorno l’aula si era completamente svuotata. Condannando a
morte la segreteria studenti ed i suoi furbissimi orari, prese a guardarsi intorno nella speranza che ci fosse ancora
qualcuno dei suoi compagni nei paraggi. Accidenti, pareva che la sfortuna fosse... ehi, un attimo!
Ren! Oh, salvezza!
- Ren!- la chiamò, raggiungendola sulla soglia - Ho bisogno di un favore grande così!Dairou si voltò, nei suoi occhi scuri una sottile linea di amarezza. Eve ritrasse di un poco le spalle, quasi sentendosi
fuori luogo a quella vista. A pensarci bene, non aveva scambiato una parola con lei dall’inizio dell’anno scolastico...
- Ehi, stai bene?- le chiese, scuotendo il capo e facendosi più vicino. Lo sguardo dell’ex compagna si fece duro,
lanciandole saette attraverso l’ambiente sgombro dei banchi ordinatamente accostati alle relative sedie.
- Che ti serve, eh?- la sua voce era un grido d’arpia.
- Gli appunti di storia.- Eve alzò un sopracciglio, la sua aria si fece inevitabilmente altera e contrariata a causa
dell’attacco improvviso e immotivato.
- Mi dispiace, trovati qualcun altro, non ho intenzione di passarti nulla!- Ren voltò lo sguardo dall’altra parte e richiuse
la propria cartella, caricandosela su entrambe le spalle ed uscendo a passi risoluti dall’aula.
- Ma senti un po’!- fece la bionda, tra lo stranito e l’irato - Se te la devi prendere con qualcuno per sfogare le tue
paturnie, comprati un uomo! Era solo un favore, non intendevo mica mangiarti, troverò qualcun altro comunque!Alzò le braccia in segno di rassegnata superiorità, rivolse gli occhi al cielo e scosse di nuovo il capo, conscia di divenire
piuttosto feroce e sboccata quando l’attaccavano e di non dare assoluta soddisfazione all’avversario.
- Ma tu guarda se devo cercarmele tutte io!- esclamò tra sé, cominciando a pensare che invece di sfogliarsi tutto il
libro in una notte, poteva benissimo esentarsi dal farlo e contare sulla fortuna per l’indomani.
Ad un tratto la raggiunse un singhiozzo e poi un rumore soffocato.
Eve si affacciò di corsa alla porta della classe, notando che Ren era ferma a metà corridoio, ovviamente piangendo. Le
sue spalle facevano freneticamente su e giù e si era portata una mano alla bocca.
106
La bionda si chiese se per caso non avesse esagerato con il suo inevitabile atteggiamento da teppista, che già più di
una volta l’aveva cacciata nei guai od aveva ferito qualcuno.
- Che ti prende, Ren?- le chiese con calma, superando la soglia e muovendosi a passo cadenzato verso di lei,
attraversando l’androne indorato dai raggi del sole del pomeriggio, obliquo oltre i finestroni.
L’altra si voltò, scoprendo il suo volto rotondo colmo di lacrime.
- E’... è soltanto colpa tua!- gridò di nuovo, prima di correre via. Eve ci mise poco ad aggrottare le sopracciglia e
scattare immediatamente dietro di lei, raggiungendola in pochi secondo ed afferrandole un braccio.
- Non metterti in competizione con me, sono fuori allenamento ma rimango sempre la numero uno!- rise, cercando di
puntare su una falsa arroganza per sdrammatizzare - E allora, di che cosa avrei colpa?- le domandò con naturalezza,
tentando di catturare lo sguardo di Ren.
Quest’ultima tentò di divincolarsi, ma la presa dell’altra era molto forte, così si arrese e cadde in ginocchio,
abbandonandosi.
- Tu... tu me l’hai portato via...- sussurrò, tra i singhiozzi.
- Eh? Portato via?! Ehi, ragazzina, guarda che se ti riferisci a Ken, io non lascerò che...- Eve scattò in piedi scontrosa, il
primo ed unico pensiero rivolto al suo portiere, per il quale già aveva previamente sguainato una spada lunga due
metri.
- Non sto parlando di lui...- la interruppe Ren, la voce stava abbandonando i tremiti e facendosi più decisa. Forse si era
decisa a parlare chiaro.
- Ah, sì? Allora di’, a chi ti riferisci?- le chiese di nuovo, stranita e tentando di fare mente locale. Da quando era
arrivata al Toho di certo non si era impegnata con nessuno che non fosse Wakashimazu, il che la portò a considerare
che probabilmente Ren stesse alludendo a qualche altro conoscente comune che non sapeva di avere e che era stata
vittima di un malinteso, oppure - cosa da non escludere - che fosse del tutto impazzita.
La ragazza alzò lo sguardo e gli occhi gementi verso di lei, pronunciando finalmente un nome che potesse fare luce
sulla faccenda.
- Parlo di Karl Heinz...Eve ebbe un attimo di vuoto.
Chi?
Oh. Già, il tedesco.
- Ma che c’entra quello?- si sentì confusa, stranita e soprattutto incapace di fare due più due. Non riusciva a capire che
genere di colpa Ren le stesse imputando, dal momento che con Schneider erano sempre andati d’amore e d’accordo.
Non avevano addirittura instaurato una relazione intercontinentale - con tutti i pro, ma soprattutto i contro del caso?
Che c’entrava lei in tutto questo?
- Non fare la finta tonta, sai! Me l’ha detto!- di nuovo quel tono accusatorio ma disperato.
- Oh, detto cosa?!- Eve le fece il verso, roteando gli occhi al limite della sopportazione - Parla chiaro!Ren si accigliò e strinse i pugni.
- Ma com’è possibile che tu sia così cinica! Hai approfittato di lui, mi ha detto tutto!La bionda fu sul punto di scoppiare a ridere, colpita dall’assurdità di una tale affermazione. Okay, era assodato: Ren
era del tutto sciroccata.
- Che cosa!? Io avrei... che cosa avrei fatto?- domandò di nuovo, incredula e ilare - Sentiamo, l’ho violentato, legato,
imbavagliato, forse?Di certo non stava dimostrando di darle molto retta con i suoi interventi sarcastici, ma davvero non riusciva a dare un
peso serio ad una questione grottesca come quella.
- Ma no! Come fai a non capire!- Ren cominciava a nutrire dei seri dubbi sul fatto che Eve fosse al corrente di ciò che
era successo - Lui... io... ricordi quando sei stata per quella settimana in Olanda?L’altra annuì, chinandosi a terra verso di lei e rimanendo in ascolto. Il sole si rifletteva sui due minuscoli orecchini
gemelli a cerchio che portava all’orecchio destro, seminascosti dalle ciocche di capelli biondi, ma abbastanza scoperti
da dare un bagliore tenue d’argento.
- Beh, durante quel periodo io e Karl Heinz stavamo... insieme. Non ricordi? Ne abbiamo parlato anche con Suzue ed
Eiko negli spogliatoi...Eve non intervenne, attenta al racconto ed improvvisamente seria. Forse la questione non era poi così da
sottovalutare. Cominciò a credere che quel tipo aveva combinato qualcosa di losco, facendo soffrire Ren e, cosa più
importante, molto probabilmente tirandola in mezzo a un affare del tutto estraneo, affibbiandole la colpa.
- E poi il giorno della partenza della squadra mi ha detto tutto.- le iridi scure dell’ex compagna furono per un attimo
oscurate dalla frangia squadrata - Ha detto che gli dispiaceva, ma io per lui ero solo un’amica. Ha detto che tutto il
tempo che abbiamo passato assieme era stato bello, ma non aveva intenzione di spingersi così oltre. Ha detto...singhiozzò nuovamente, prese un gran respiro ed infine sbottò - Ha detto che era interessato a te, che vi eravate
baciati e... e... ieri mi ha telefonato come se nulla fosse successo, informandomi che arriverà dopodomani per un
congresso con la sua squadra... e che gli sarebbe piaciuto rivedermi, rivederci.Si trattenne fino all’ultima parola, poi scoppiò a piangere più forte di prima, così che i suoi lamenti rimbombarono nel
corridoio solitario.
- Capisci?! Ma come può essere così insensibile, richiamarmi dopo che mi ha spezzato il cuore! E tu perché non mi hai
mai detto nulla!?- Ren scuoteva il capo violentemente, spazzando via le lacrime con il dorso della mano, ma
inevitabilmente nei suoi occhi desolati altre prendevano immediatamente il posto delle precedenti.
L’altra si rialzò e stavolta strinse anch’ella i pugni.
- Ma tutto questo è assurdo!- fece tra i denti, fissando il termine dell’ampio andito con sguardo furioso e stralunato Che diavolo significa ‘vi siete baciati’!?Il fatto di screditare la sua reputazione e raccontare il falso sul suo conto era una cosa che Eve non aveva mai potuto
sopportare, le prudevano le mani. Soprattutto da parte di colui che aveva giudicato come un tipo a posto.
Ren placò adagio il proprio pianto, per guardarla preoccupata. Gli occhi dell’ex-compagna di squadra così contratti e la
sua espressione di marmo le diedero un brivido lungo la colonna... le faceva a tratti paura.
- A... allora tu non ne sapevi nulla...- mormorò, le mani al petto.
107
- Come avrei potuto, dimmi un po’!- Eve abbassò lo sguardo duro su di lei, la fronte aggrottata - Sono stata in Olanda
per giorni e poi ho avuto troppi allenamenti per restare sola con lui per più di un quarto d’ora! E non permetterti di dar
credito a un’idiozia del genere, io ho pensato sempre e solo a Ken! Che vuoi che m’importi di Schneider?!Si sentiva pugnalata allo stomaco e macchiata nell’intimo e nell’onore se ripensava che in Olanda era morto suo padre
e che nel frattempo uno stupido tedesco stava pianificando di coinvolgerla come capro espiatorio in una faccenda
insulsa come quella.
Tanto più che c’era stata anche una discussione con Wakashimazu al riguardo e pensare di dover di nuovo tirare in
ballo una questione del genere con lui, ora che le cose andavano così bene, la infastidiva non poco - soprattutto forte
del fatto che non voleva assolutamente impensierirlo con fandonie di quel calibro.
Ora era davvero infuriata.
- Eve...- Ren si asciugò le lacrime e si alzò con aria colpevole e mortificata - Scusami... io... non dovevo reagire così...
non so perché mi abbia detto questa bugia, forse per scaricarmi più facilmente... è... è che... nonostante la
lontananza... nonostante lui tenga di più a te che a me... io lo amo... e non posso fare altro che soffrire.- rassegnata,
abbandonò le braccia lungo i fianchi.
Lo amo. Soffrire.
Parole che furono come un colpo dritto alla testa. Il presente ed il passato di Eve si fusero e la ragazza comprese tutto
d’un tratto come doveva sentirsi la povera Ren: usata e vuota, ma ugualmente ed irreparabilmente innamorata.
Ecco perché le si era accanita contro senza voler sentire ragioni all’inizio, cercando uno spiraglio di speranza, una
prova, un’illusione che il suo Karl fosse sincero.
- Avanti, tirati su. Ci penserò io.- cercando di darle un po’ di conforto in un abbraccio, pur non essendo brava in quel
genere di cose, capì che doveva risolvere la situazione da sola.
Avrebbe parlato a Schneider, oh, se gli avrebbe parlato chiaro!
- Ciao gattino!- gli passò di fretta davanti ed uscì dal cancello.
Come sempre uno dei due attendeva alternatamene l’altro all’uscita, dopo i corsi e dopo gli allenamenti. Erano quasi le
sei e quella sera era stato Ken a sbrigarsi per primo. Lì attorno non c’era più nessuno studente, ormai.
- Ehi, ehi! Aspettami!- la ghermì per i fianchi giusto in tempo e la tirò dolcemente indietro, appoggiando il proprio
petto alla sua schiena. Eve sorrise sentendosi arrossire di nuovo nell’avvertire la bocca del portiere sul proprio collo e
le sue braccia stringersi alla propria vita.
- Dove corri così di fretta?- fece lui, con sguardo vivace.
- Amh... avrei dovuto essere a casa un’ora fa, però c’è stato un piccolo incidente di percorso e se voglio essere pronta
per stasera devo stare nei tempi.- rispose lei, beandosi di quel contatto.
Wakashimazu non aveva smesso di stringerla, in un contatto che non voleva perdere. Stava talmente bene con lei tra
le braccia, come a racchiudere, proteggere, custodire un ardente nucleo di viva fiamma.
Lei si voltò lentamente.
- Ken, veramente... ci metto sempre ore per prepararmi... non vorrei farti aspettare, e poi... emh... Ken... Ken...- non
riuscì più a continuare, vedendosi le labbra del ragazzo sempre più vicine ed il suo viso squadrato che adorava
specchiarsi placido nei propri occhi già socchiusi.
Gli poggiò un dito sulle labbra e sorrise maliziosamente. Wakashimazu rise brevemente.
- Dimmi un po’, dove vuoi andare stasera?- disse poi, mentre si allontanava di qualche centimetro.
La bionda avvertì come un senso di inesorabile distacco nel momento in cui li separavano quei pochi millimetri e sentì
di dover avere un nuovo contatto, malgrado fosse stata lei a fare la capricciosa, qualche istante prima. Stupida,
desiderava appassionatamente sentirsi di nuovo circondata da quelle braccia robuste e percepire la tonicità dei suoi
pettorali.
Si strinse nelle spalle, allontanandosi di un passo e mettendo il broncio.
- Se mi dai un bacio te lo dico.- a ricattare non se la cavava male.
- Tutti quelli che vuoi...- sorrise lui, mentre si riavvicinava e la riprendeva tra le braccia.
Con un sospiro lei si sentì legata al suo cuore e riscaldata dal tepore del sentimento che li legava.
Ken aveva chiuso gli occhi e portato una mano alla guancia destra di Eve, accompagnando il bacio con una carezza.
Era stato talmente facile decidere di stare insieme, che ora non gli sembrava vero. Eve era la donna della sua vita,
poteva mettere sul fuoco tutte le mani che voleva. Ah, era decisamente cotto...
- Emh, scusate... ragazzi...I due dischiusero le palpebre nello stesso istante e rimasero alcuni secondi a guardarsi stupiti dall’aver udito quella
voce famigliare... poi si voltarono ed incontrarono uno sguardo piuttosto interessato intento a fissarli.
- Eheh... scusate se vi ho interrotti...Il portiere arrossì notevolmente e la ragazza voltò lo sguardo da un'altra parte, nascondendo l’imbarazzo in una finta
indifferenza.
- Ma tu da dove sbuchi fuori, eh Takeshi?- gli chiese, scuotendo il capo e portandosi le mani ai fianchi.
Il ragazzo fece cenno agli amici, che diressero i propri sguardi oltre alle sue spalle, dove Kojiro era appoggiato alla
colonna quadra che sosteneva una metà dell’inferriata.
- Proprio davanti al cancello?- sorrise, con un cenno di saluto.
- Ma... che... ci vuoi fare!- rispose la bionda, cavandosi d’impiccio.
- Uscivamo anche noi proprio ora.- aggiunse Sawada, con un allegra esclamazione.
- Ciao ragazzi!- Koike, con il pallone sotto braccio, passò di fianco al gruppetto di corsa insieme a Kazuki,
allontanandosi con un cenno di saluto.
- Ciao! Ci vediamo lunedì!- era stato ancora Takeshi a parlare, agitando il braccio mentre anche gli altri li salutarono e
lasciarono che voltassero l’angolo.
- Andiamo?- disse di nuovo Eve, cominciando a muoversi verso la strada, quasi impaziente.
I tre ragazzi la seguirono in silenzio, mentre il più giovane del gruppetto gongolava tra il divertito e il malizioso.
- Aspettavate un altro anno per dirci che state insieme?- rise, finalmente esprimendosi.
- Eh?- fu la risposta spiazzata della bionda, che sbatté i suoi occhi azzurri in direzione dell’interlocutore.
- C’è una legge che dice di venirvelo a dire?- Ken alzò un sopracciglio, poggiando una mano sulla testa dell’amico e
premendo scherzosamente.
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- No, però...- Takeshi non sapeva come rispondere ed il portiere sorrise compiaciuto - Beh, potevate avvisare!Kojiro catturò lo sguardo di Wakashimazu ed i due scoppiarono simultaneamente a ridere.
- Avvisare?- fu la risposta di Ken, che scosse il capo ed afferrò la mano di Eve che fino ad allora dondolava cadenzata
al suo fianco, seguendo il ritmo dei passi.
- Dopotutto sono fatti loro.- si espresse il capitano, con la sua aria severa e pensosa. Il più giovane si difese, tentando
la strada della solidarietà.
- Ma... ma noi siamo i loro più grandi amici! Non è così? Eh? Eh? Eh?... Eve? Ken?- Che presuntuoso!- Eve si fece trasportare dalla spensieratezza aleggiante, con un sorrisetto ambiguo confuse
Takeshi, che si guardò intorno in cerca di sostegno, ma incontrò solo gli occhi sorridenti del suo capitano, che si stava
ammazzando dal ridere.
- Dovresti vedere la tua faccia!- fece, incapace di trattenersi - Sei uno spasso!Kojiro che rideva di gusto? Kojiro che si lasciava alle spalle la sua maschera impassibile?
Beh, era il caso di approfittarne! Così Sawada si arrese e si lasciò contagiare dalle risa dei compagni.
- Ciao!- lo salutò con il suo tono sereno e cristallino, carezzevole ma sicuro, nel momento in cui apparve sulla soglia.
Eve si affrettò a richiudere la porta, andandogli incontro, mentre i tacchi delle scarpe cozzavano elegantemente sui
sassi del viale lastricato e Ken... rimase come incantato per un lungo, silenzioso attimo, assistendo alla discesa della
bionda in minigonna e camicetta nera, le cui gambe scoperte si muovevano atletiche verso l’auto.
Le si avvicinò giusto in tempo per prendere al volo il bacio che lei gli scoccò rapido sulle labbra, mentre si sistemava
sul sedile anteriore. Non aveva smesso un istante di sorridergli.
- Beh, che c’è? Non mi saluti?- fece lei, un finto, adorabile broncio le curvava le labbra verso il mento.
- Eh? No, no... cioè sì... emh, ciao.- riuscì a dire Wakashimazu, scuotendo il capo e riavendosi dalla visione
improvvisamente inaspettata, mentre Eve si lasciò prendere da una risata lusingata.
- Non so se sei più buffo oppure teneramente sopra le nuvole!- esclamò, stringendogli una guancia tra due dita.
Il portiere si lasciò trasportare dall’allegria della compagna, poi mise in moto.
- Allora, dove vuoi andare?- gli chiese, alzando gli occhi pensosa - Il mio stomaco fa i capricci...- Vedrai, conosco un posticino fantastico!- sorrise lui, strizzandole l’occhio.
Eve si soffermò a guardarlo mentre, alla guida dell’auto nera, Ken teneva ferma una mano sul volante e l’altra
sportivamente adagiata al cambio. Portava ancora i capelli raccolti in un codino... cosa che inevitabilmente finì per
ricordarle quella sera in cui aveva finalmente compreso quanto tenesse a lui.
Le luci di neon e lampioni gli sfrecciavano rapide sul volto mascolino dall’espressione decisa e quasi accigliata, segno
ch’era concentrato nella guida. La cosa causò un rimescolamento improvviso nel cuore di Eve, che si trovò a
considerare di adorare da morire quell’aria professionale che il suo portiere tendeva ad assumere quando convogliava
le proprie attenzioni nel realizzare qualcosa. Sia nel karate, che nel calcio... che nell’abbracciarla.
La portò in un ristorante italiano davvero molto carino e trascorsero una serata piacevolissima persino per la fame
insaziabile di Eve che, quando ci si metteva, era anche peggio di Shingo Aoi. Wakashimazu fu davvero gentile ed il
trovarsi allo stesso tavolo con lui, ufficialmente in veste di ‘sua ragazza’ la fece sentire inaspettatamente a proprio
agio, nonostante l’emozione ed il batticuore che la colse nei primi attimi.
- E’ stata un’ottima serata, davvero.- fece lei, sorridendogli lievemente, le labbra appena dipinte di un velo di lucido
color perla.
- Ottima.- confermò Ken, scostandole un ciuffo di capelli che era sfuggito al fermaglio - Grazie.- Che dici, sono io a doverti ringraziare, sei un gran bel cavaliere.- rise Eve, mentre si beava del tocco della mano del
compagno a sfiorarle la fronte. Poi riaprì gli occhi velati di lieve azzurro a fissare i suoi, neri e penetranti. Forse era il
momento di parlargli chiaro della faccenda di Ren e Karl... dopotutto, niente segreti era il punto fondamentale,
giusto...?
- Domani andrete al convegno?- gli chiese, evidentemente riferendosi al congresso di accoglienza della squadra
campione del mondo nei confronti della nazionale teutonica, ospite in ritiro e per la promozione di nuovi acquisti.
Ken annuì, gli zigomi alti e definiti come marmo bianco appena levigato.
- Penso di starci per poche ore e poi riuscire a svignarmela tranquillamente.- rise, spezzando la staticità statuaria che
palpitava silente sotto la sua maschera impassibile.
- Ci sarò anch’io.- annunciò Eve, annuendo nella speranza di non causare alcun fastidio con la propria affermazione.
- Cosa?- chiese lui, non cogliendo assolutamente cosa ci potesse e dovesse andare a fare una ex velocista ad un
congresso di soli calciatori.
- Vedi... - la bionda notò immediatamente l’espressione interrogativa del portiere, così si affrettò a spiegare - E’
successa una cosa...Si decise e vuotò il sacco, tanto che quand’ebbe finito di raccontargli l’intera storia, gli portò una mano sul polso e
rimase in attesa.
- Volevo solo che lo sapessi. Niente segreti.- sorrise dolcemente, il profumo intenso di Ken le scioglieva il cuore.
- Ci posso pensare io, se vuoi.- l’affermazione del compagno era stata calcolata da Eve, che non si lasciò cogliere alla
sprovvista, anzi, rise di nuovo.
- Oh, no. Questo assolutamente lo escludo! Conoscendoti finirà che lo ucciderai, quel tedesco!- Ma no... al massimo qualche ingessatura...E per fortuna anche Ken sembrava sereno, non se l’era presa.
La bionda tirò un sospiro di sollievo.
- Non conviene entrare.- disse Ren, intrecciando le dita delle mani.
- Già.- le fece eco Eve, che incrociò le braccia al petto e rimase accanto alla ex compagna di squadra, tra la folla di
giornalisti e curiosi. Si spostarono nei pressi dell’albergo dove i ragazzi della nazionale tedesca avrebbero alloggiato
per quel paio di giorni di sosta e decisero di attendere sotto il sole debole del pomeriggio il loro ritorno, che sarebbe
avvenuto entro un paio d’ore.
- E così... ora tu stai con Wakashimazu...?- chiese timidamente Dairou, stringendosi nella camicetta bianca a coste.
Eve si voltò verso di lei con un sorriso tiepido, ma sereno. Annuì.
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Era cambiata, Ren. Si era chiusa in sé stessa, dopo aver ricevuto quella delusione da Karl... talmente tanto da non
sembrare più nemmeno lei. Rassomigliava quasi ad Ayame negli atteggiamenti, era divenuta più impacciata, più
timorosa: non era mai stata così, almeno da quando Eve la conosceva. Allegra e sempre pronta ad adocchiare bei
ragazzi, ecco come se la ricordava in Europa. Eppure quel tedesco era stato capace di renderla schiva e chiusa.
Ma l’avrebbe sentita, oh, se l’avrebbe sentita! Gliene avrebbe dette quattro non appena si fosse presentata l’occasione!
Eve era decisa a mettere in chiaro ogni cosa, non poteva certo lasciare che quello si credesse il re del mondo, facendo
soffrire una ragazza ed andando a raccontare falsità sul fatto che ne aveva baciata un’altra! Soprattutto trattandosi di
lei!
Le due non parlarono molto durante l’arco di tempo che le separava dal rientro della squadra, il sole semplicemente si
rifletteva sull’intenso bianco piumino della bionda, che fissava le nobili fronde di un altissimo sempreverde e non
badava al vento non proprio mite, ma ancora quasi invernale, che le scompigliava i capelli, facendola parere tuttavia
quasi impalpabile e lontana agli occhi di Ren.
Quest’ultima fece per parlare, ma il suo intento fu sopraffatto dai flash delle macchine fotografiche di alcuni giornalisti
che accompagnavano la nazionale all’albergo. Eccoli tornare.
- Sono arrivati. Aspetta qui e non farti vedere.- Eve le strizzò l’occhio - Andrà tutto bene!A Ren parve che la bionda avesse aggiunto l’ultima frase per rincuorarla, piuttosto che credendoci veramente. Senza
cattive intenzioni, né malizia, certo... ma la vide allontanarsi in una breve corsa, candida e lucente, di nuovo e sempre
inesorabilmente più distante.
Ken si sfilò la cravatta ed aprì di netto i primi tre bottoni della camicia, quasi staccandoli via.
Allo sguardo di un perplesso Matsuyama replicò con un’ulteriore efficace occhiata, tanto che Hikaru comprese
all’istante che avvicinarsi avrebbe segnato la sua condanna a minimo due settimane d’infermeria.
Wakashimazu era piuttosto contrariato. Era stato alquanto difficile nascondere di fronte ad Eve quel gran moto di
rabbia che aveva sentito nascere e crescere verso Schneider la sera prima. Il fatto che raccontasse in giro di aver
baciato la sua ragazza gli mandava in fumo il cervello e, certo, sebbene durante il soggiorno in Europa non si potevano
dire ancora ufficialmente insieme, Ken le credeva fermamente e sapeva che non c’era stato nulla tra lei e Karl.
Altrimenti perché la scenata quella sera al campo, prima della finale di atletica?
Teneva talmente tanto ad Eve che anche il pensiero di un semplice ed innocente bacio lo mandava in bestia. Conscio di
starsi lasciando prendere dalla sconsideratezza e dal suo solito, infantile senso del possesso, era ben fermo e convinto
che nessuno gliel’avrebbe portata via, soprattutto quel borioso tedesco!
Oramai erano più di due ore che non la vedeva, il convegno era terminato da un pezzo ed i suoi compagni stavano
preparandosi per il rientro nelle rispettive città. Ma lui no, doveva vedere Eve, sapeva che era stata nei dintorni e
nonostante non si fossero accordati per un eventuale incontro, lei gli aveva confermato che se ci fosse riuscita,
avrebbe fatto un salto fuori dal salone. Ma Ken non l’aveva vista ed ora era preoccupato, forse Schneider... no, non
doveva nemmeno azzardarsi a pensarlo!
Karl Heinz voltò lo sguardo indietro in direzione dell’uscita, giusto in tempo per notare una figura conosciuta: i jeans
blu scuro e la maglia bianca sotto la giacca aperta dello stesso colore le fasciavano il seno, l’addome ed i fianchi,
disegnandole quel fisico che aveva tanto desiderato stringere e possedere nei mesi estivi, potendo solo apprezzarlo
prevalentemente in tenuta ginnica.
Quando alzò gli occhi sul suo volto, incrociò uno sguardo che non si sarebbe mai immaginato di vedere: rabbioso e
sdegnato. Eve lo stava fissando dall’alto al basso con l’aria a tratti presuntuosa di una sfrontata arrogante; i suoi occhi
blu alteri ed aggressivi, la bocca distesa e il labbro superiore appena increspato, un sopracciglio alzato - Schneider
dovette ammettere che pareva sapere il fatto suo, quasi fosse nata con quell’espressione.
Inaspettatamente la bionda si voltò e lasciò che la squadra al completo entrasse nella hall dell’hotel, finalmente libera
da giornalisti e ricercatori folli di autografi, allontanati poco prima dalla sicurezza.
Perfetto, ora Karl sapeva della sua presenza, che era lì per un incontro con lui; di sicuro aveva inteso che l’avrebbe
atteso e di lì a poco - una mezz’ora al massimo - sarebbe uscito di nuovo, giusto il tempo di lasciare che i reporter ed i
curiosi fossero stati congedati tutti.
- Eve!- chiamò il suo nome, finalmente raggiungendola accanto al tronco verdeggiante di una fila di alberi che nella
bella stagione adombravano il viale antistante l’albergo.
Indossava un paio di pantaloni chiari ed una camicia color sabbia, le cui maniche erano state risvoltate agli
avambracci. Si era evidentemente cambiato ed ora le sorrideva, andandole incontro.
La ragazza non rispose, rimase voltata verso la panchina più vicina, considerando che il tedesco si era probabilmente
messo in testa di fare addirittura colpo! Assurdo, prima del racconto di Ren non l’avrebbe mai pensato, eppure ora
ogni cosa le pareva sospetta.
- Allora Ren ti ha avvertita.- cercò di sembrare il più naturale possibile, senza lasciar trasparire la preoccupazione per
lo sguardo astioso che gli aveva rivolto poco prima e per il comportamento distante di quel momento. Eve gli stava
voltando le spalle, decisamente c’era qualcosa che non andava.
- Emh... Eve, tutto bene?- le si fece vicino, poggiandole una mano sulla spalla e lasciando che il biondo intenso dei
capelli di entrambi accogliesse e si alterasse sotto i raggi del sole alto nel cielo, che creava dei caldi riflessi dorati sul
capo di Karl e delle onde più fluide e morbide su quello di lei.
- Heuchler!- la voce di Eve gli giunse forte e chiara, mentre lei si voltava e gli arpionava lo sguardo con le proprie lame
azzurre, acuminate e volitive.
Ipocrita...? Gli aveva appena dato dell’ipocrita. Per... quale motivo? Cosa...?
- Eh!? Si può sapere che ti prende...?- fece appena in tempo a domandarlo, che lei gli puntò un dito al petto,
incontrando la resistenza di un compatto pettorale.
- E me lo chiedi, anche!? Non ti rendi conto di quello che hai combinato?- proferì la seconda frase con più calma,
immaginando di non dover essere troppo signorile con una smorfia da tragedia greca sul volto. Karl rimase per qualche
attimo in silenzio, con lo sguardo smarrito e interrogativo - eppur sempre principesco - sul volto della ragazza.
- Non mi pare di aver fatto nulla di male.- aggiunse poi, scuotendo il capo in un tripudio di classe e decoro.
- Ah no? Allora, facciamo un piccolo gioco di ruolo.- il viso di Eve non aveva espressione ora, si limitava a fare in modo
che le parole lasciassero le sue labbra appena dipinte con sguardo fermo - Sei con la tua squadra in Giappone e
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conosci una ragazza che si dimostra gentile e disponibile. Dal vostro arrivo questa ragazza inizia a frequentare uno dei
tuoi amici, ma senza impegno, né coinvolgimento o secondi fini di nessun tipo... facciamo Schester, nh? Ti va
Schester?- senza attendere risposta, si portò una mano al fianco e proseguì - Un bel giorno lui parte, se ne va per fatti
suoi per una settimana, settimana durante la quale tu e la ragazza fate amicizia, tanto da scoprire di essere più che
amici nel giro di pochi giorni. Poi Schester fa il suo ritorno e lei ti dice che in realtà le piace lui più di te e che, per
dimostrarlo, è pronta a giurare che si sono addirittura baciati. Ovviamente, cosa non vera. Ma tu ne sei innamorato e
non reggi ad una simile notizia, ti senti male, distrutto. Allora decidi di dimenticare subito tutto quanto e tornartene a
casa senza nemmeno salutarla. Schester rimane in Giappone per sostenere la ragazza di cui è veramente innamorato,
facciamo... una calciatrice, nh? Ti va, guardacaso, una calciatrice che gioca in porta?- di nuovo una mano al fianco,
stavolta la sinistra - Mentre tu sei in Germania disperato e piangi per tutta un’estate, Schester si mette con
quest’atleta, che guarda caso è tedesca! Così possono tornarsene felici ed innamorati a casa loro, mentre tu pensi
ancora a quella ragazza giapponese... la stessa simpaticona che l’inverno successivo ti chiama al telefono, dicendoti di
avvertire Schester, che ha voglia di rivederlo e di presentarsi all’albergo dove alloggerà in vista di un convegno nel tuo
paese! Come reagiresti tu?Karl era senza parole, tra lo stupito ed il disorientato. Si guardarono a lungo, aveva decisamente afferrato al primo
colpo che la simpaticona in questione voleva essere il suo alter ego in quel breve, esplicativo, gioco di ruolo.
- Immagino avvertirei Schester di presentarsi all’appuntamento con la giapponese, perché lei gli spieghi tutto.- fu la
sua sentenza, mentre serrava solennemente per un istante gli occhi di cielo e dischiudeva gravemente la bocca.
- Allora spiega, Schneider!- Eve aveva tutta l’aria di voler prendere a pugni qualcuno.
La invitò a sedersi sulla panchina, accanto a lui.
Le fronde novelle dei primi rami sbocciati erano ancora troppo giovani per creare quel delizioso effetto d’ombra e luce
chiaroscurale sui volti dei passanti, ma a realizzare l’atmosfera di leggero miraggio onirico e lontano ci pensava la voce
di Karl, mai stata più profonda ed avvolgente.
- Vedi, la storia del bacio non è falsa.La bionda aggrottò in un lampo le sopracciglia; presa dalla rovente sensazione di stare per perdere la pazienza da un
momento all’altro, decise di frenare l’impulso più primitivo in favore di una caritatevole seduta d’ascolto del teste, che
dal canto suo pareva ben gravemente e seriamente concentrato.
- Ti sei sentita male una volta, ricordi? Ti ho accompagnata in infermeria e siamo rimasti soli.- il suo sguardo posato e
sostenuto aveva un nonsoché di volutamente sensuale - Ti ho baciata sul serio. Non dico invenzioni... un bacio, nulla
di più.Lei aveva disteso la fronte fino ad allora corrugata, spalancando gli occhi a mano a mano che le veniva svelata la
verità. Se lo ricordava bene quel giorno, la Rama le aveva comunicato che ad aiutarla era stato Schneider, nel delirio
della sua ramanzina. Pazzesco, e lei che l’aveva anche ringraziato!
- Chi ti ha dato il permesso di farlo!?- proruppe poco dopo, trattenendosi dall’alzarsi in piedi e colpirlo.
- Mein Herz.- ma Karl la stupì di nuovo, facendo in modo che i suoi nervi si rilassassero ancora ed improvvisamente.
- Il tuo... cuore.- sussurrò, fissando un punto imprecisato al suolo, tra la terra ed i sassi tondi e fin troppo
precisamente smussati per essere naturali.
Ben consapevole, ma dopotutto noncurante, conoscendosi, del fatto che ad urtarla fosse stato più l’essere messa in
mezzo ad una faccenda simile che il comportamento di Schneider nei confronti di Ren - cosa di cui non riusciva a
sentirsi pienamente partecipe - Eve avvertì la propria rabbia svanire in una nuvola di fumo, con il refolo leggero che la
riportò alla realtà.
- Già. Capii tempo fa che le tue attenzioni erano tutte concentrate su Ken Wakashimazu e non so davvero se sia la
verità se ora ti dico che mi fa piacere che tu sia tornata felice ed innamorata a casa con lui.- riprese, ripetendo
volutamente le parole che la bionda aveva pronunciato pochi minuti addietro, nel suo esporgli i fatti con
un’immedesimazione a ruoli invertiti - Ma volevo darti un altro bacio. Uno soltanto. E vorrei che questa volta tu ne sia
consapevole.Si avvicinò lentamente e pericolosamente alle sue labbra, accompagnato da un vivo profumo d’uomo, così diverso
dall’odore del Giappone, così diverso dall’odore di Ken.
Gli occhi limpidi di nuovo semichiusi e seminascosti dalla frangia che gli copriva la fronte, fece per poggiarle una mano
sul volto ed accompagnarlo a sé, ma la ragazza incrociò le sue dita con entrambe le mani, andando poi ad appoggiarne
una sul suo petto, stendendo il braccio e distanziandosi di diversi centimetri.
- Karl, io sto con Ken.- scosse dolcemente il capo, con lo sguardo dispiaciuto di chi non è più adirato, né stizzito, ma
semplicemente di chi vuole indurre qualcun altro ad una completa, dolorosa, ma corretta rinuncia.
- Toglile le mani di dosso!Uno strappo improvviso nel debole mondo di carta che Schneider aveva con tanta fatica piegato a suo favore come un
origami ed un furibondo Wakashimazu fece la sua comparsa da chissà dove, diretto contro il cannoniere tedesco per
sbatterlo letteralmente giù dalla panchina di legno senza troppa fatica.
- Ken...?- Eve riuscì a cogliere solo uno stralcio del pugno che gli stava rifilando e poi Karl di nuovo per terra con una
mano sulla guancia destra.
Lo voleva vedere a terra, sanguinante ed implorante! Maledizione, si era permesso di baciare Eve!
Non ragionava più, alla vista di quella scena era diventato tutt’uno con la nera ed intossicante collera che da diverso
tempo gli aveva abbrancato la gola... ed anche se aveva udito forte e chiaro le parole di lei, mentre rifiutava Schneider
dicendogli che stava con lui, non poteva assolutamente vederlo così vicino al suo volto di donna, non riusciva
nemmeno lontanamente a concepirlo!
Pugni, solo pugni e nient’altro, devastanti sulla faccia di Karl, sul suo petto, dritti nel suo stomaco. Non aveva
nemmeno pensato di utilizzare qualche tecnica di karate, era come se non volesse o addirittura ne fosse dimentico,
stordito com’era dal pressante impeto di violenza.
- Wakashimazu, ma sei impazzito?!- Eve gridò, intervenendo appena in tempo per salvare il naso di Karl da una
inevitabile e catastrofica rottura, afferrando il braccio del portiere e tirandolo verso di sé.
- Lasciami!- si strattonò ed in un attimo fu di nuovo sul tedesco, che si proteggeva il volto con entrambe le mani,
prima di fare leva su un ginocchio ed approfittare della distrazione del rivale per colpirlo senza mirare.
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Ken ringhiò, soffiando tra i denti e ripulendosi la bocca con il dorso di una mano, ma prima che potesse di nuovo
contrattaccare, la ragazza gli aveva di nuovo stretto il braccio con quanta forza possedeva, tirandolo indietro e
facendolo cadere scompostamente sul prato, a gambe aperte dinnanzi a lei.
La bile alle stelle, si era tolta il piumino e, con le guance scure di sdegno, si era avvicinata di qualche rapido passo.
- Idiota! Ma cosa diavolo pensi di fare!?Lo schiaffo gli arrivò dritto in faccia, arrossando lo zigomo già livido.
- Ti avevo detto che ci avrei pensato io! E’ così che mantieni le promesse? E’ questa la tua fiducia?!Poi si voltò verso Karl, senza precipitarsi a soccorrerlo, anzi facendosi più vicina al portiere che aveva appena colpito in
viso con indignazione.
- Ecco, questo è lo stupido con cui sto. Mi dispiace, ma nemmeno adesso ti potrei baciare, piuttosto spero di aver
chiarito! Parla con Ren!- poche parole come congedo e niente di più, fece piuttosto per aiutare Ken a rialzarsi, lo
sostenne per qualche secondo sotto il proprio braccio, ma il ragazzo si allontanò da lei non appena poté.
- Avanti, non fare il bambino, vieni qui!- esclamò, tra lo spazientito e l’esasperato.
- Non ho bisogno del tuo aiuto! So camminare da solo, se non lo sai!- le gridò lui di rimando, massaggiandosi una
tempia. Stava perdendo sangue, ma non quanto Karl. E ciò era decisamente macabra fonte di gaudio.
- Oh, ma certo, signor spacchiamo-la-faccia-alla-gente! Come vuoi!- sentenziò la bionda, riafferrando la giacca laddove
era finita nell’atto di liberarsene e prendendo a camminare nervosamente lungo il viale, lasciando il tedesco lungo e
disteso a terra a sorreggersi con un solo braccio ed aria dolorosamente ammaccata.
Per lunghi istanti camminarono in silenzio, diretti da qualche parte verso il loro quartiere, dapprima quasi
convulsamente e nervosamente, poi la marcia si fece più calma, seppur elettrica era l’aria che tirava.
Nessuno dei due badava ai particolari che li accompagnavano durante il tragitto, nessuno parlava e nessuno era
disposto a distendere la propria espressione infuriata, finché non giunsero dinnanzi al portone di Eve, dove lei si fermò,
mentre lui seguitò a camminare.
- E adesso dove pensi di andare?!- fece, cavando le mani dalle tasche della casacca bianca ed incrociandole al petto.
- A casa.- rispose il portiere, con calma surreale e senza voltarsi. La cravatta spuntava da una tasca della giacca scura
che reggeva con una sola mano, penzolante dietro la schiena.
- Ah, certo!- Eve fece roteare gli occhi - Ci sono quattro isolati e stai sanguinando!Se n’era accorta, allora. Aveva fatto di tutto per non farglielo notare, in uno stupido tentativo senza senso, voltandosi
dall’altra parte o rimanendo indietro. Eh già, stava perdendo sangue dal lato di un sopracciglio, ma questo certo non
era sufficiente a farlo smettere di avanzare.
- Wakashimazu!- tuonò la ragazza, stringendo i pugni e slacciando gli avambracci, tendendoli e contraendo i muscoli
delle braccia lungo il corpo.
Ma niente. Corse rapida davanti a lui e gli prese la mano libera, strattonandolo.
- Muoviti, fammi disinfettare quel taglio.- intimò categorica.
- Lo so fare da solo, sapessi quante ferite mi sono disinfettato da quando ho cominciato col karate!- fu la replica
glaciale di Ken, che certo non fu gradita alla compagna, profondamente infastidita da quel tono da uomo vissuto.
- E sai quante altre dovrai disinfettarne, se continui così?!- stava veramente minacciando di picchiare il proprio
ragazzo...? - Adesso vieni con me e già che ci siamo mi spieghi un paio di cosette!- Non ho niente da dire, me ne torno a casa.- ma lui era fermo e risoluto, caratteristica che solitamente Eve riteneva
irresistibile e che, scioccamente, si trovò a riconsiderare tale anche in una situazione del genere.
- Ti devo tramortire per portarti dentro?! Ma lo sai che sei proprio testardo!- sbuffò, la presa ancora stabile alla sua
mano per impedirgli di strattonarsi o divincolarsi e correre lontano da lei.
- Eve, lasciami! Lo so fare anche da solo, ti ho detto!- Ken la fulminò con lo sguardo, nero e terribile.
- Ti ho detto che voglio farlo io!- ma Eve non si arrese, compresse più forte la stretta e sostenne i suoi occhi scuri
annebbiati dall’ira. Doveva essere tremendo, Ken, quando si arrabbiava davvero... e senza dubbio in grado di mandare
all’ospedale qualcuno con pochi colpi ben assestati, oltre che di far sprofondare sotto terra quello stesso qualcuno con
un solo, acuto sguardo.
- Certo che anche tu non sei una campionessa di malleabilità!- commentò, la fronte corrugata.
- E allora che vuoi fare?!- niente compromessi - Io non ti mollo finché non vieni con me, se vuoi passare la vita in
mezzo alla strada per me va bene, ma non ti lascio tornare a casa tua come niente fosse!Che razza di caratterino! Ma d’altra parte... forse era meglio chiarire subito alcune cose, prima di lasciar trascorrere
troppo tempo e con esso tutte le eventualità negative del caso. Forse, calmandosi insieme - ragionò l’orgogliosissimo
Ken - avrebbero potuto giungere ad una pacifica conclusione, o se non altro, non ad un apatico ‘arrivederci a domani’.
Sospirò, riprendendo quel po’ di calma che bastava per lasciarsi trascinare in casa. Lo fece accomodare senza troppi
convenevoli sul divano del salotto e, mentre recuperava alcool e garze, il portiere si trovò immerso nel silenzio tipico di
un ambiente vuoto: Narumi era al lavoro e Dexter agli allenamenti del club di baseball, in cui aveva confermato andare
forte anche nell’ultima partita, stracciando gli avversari con diversi home run.
Quando Eve tornò accanto al sofà dai larghi cuscini scuri, appoggiò la scatola dei medicinali sul basso tavolino in legno
e premette senza preavviso un voluminoso batuffolo di cotone imbevuto di alcool disinfettante sulla ferita del
compagno che, stoicamente senza reagire, dimostrò coraggio e prodezza nel fare di tutto per non gemere al bruciore.
Solo dopo qualche istante di sadica tortura, la bionda si decise di prodigarsi per non fargli troppo male, tamponando
con più grazia e delicatezza.
- Dimmi se ti fa male, è inutile che fai così o rischio di distruggerti definitivamente la tempia.- sospirò, ravviandosi la
frangia dal viso.
Lui seguitò a non parlare, tanto che il ticchettio della pendola in un angolo della sala risuonava quasi minacciosa ed
Eve scosse il capo, lanciando uno sguardo di compatimento al soffitto.
- Sei proprio un campione di superbia, te l’ha mai detto nessuno?- commentò, una mano alla cintura scura, sulla fibbia
metallica.
- Non sei meno ostinata di me.- la voce di Ken era quasi impassibile, come il suo volto di pietra.
- Ah! Senti chi parla, il campione di onestà!- la ragazza alzò un sopracciglio, assumendo di nuovo ed involontariamente
quell’aria provocatoria e altezzosa che più volte aveva attirato l’attenzione degli altri, tanto da etichettarla come tipo
non troppo raccomandabile.
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- Ehi, ehi!- Ken si scostò, infastidito, la guardò negli occhi con un braccio appoggiato allo schienale del divano - Vacci
piano con gli insulti, mi fa già male la testa!- Oh, sentitelo, il signorino ha male alla testa!- l’altra si diede ad una sua stizzita imitazione, tenendosi le tempie - E’
solo la verità, pensavo che avessi fiducia in me!- E ce l’ho infatti!- Wakashimazu era pronto a ribattere a tono, per la prima volta si accorse di quanto ostile potesse
essere soltanto la punta dell’iceberg che era la personalità spigolosa di Eve e che quando si arrabbiava sul serio, beh,
era meglio munirsi di un kit antiatomica.
- Ah, sì? E cosa diavolo sei venuto a fare, ti avevo detto che ci avrei pensato io!- prima o poi il discorso sarebbe saltato
fuori con tutte le sue varianti a seguito e senza alcuna possibilità di svicolare. Ovvio, dopo una scazzottata di quel
calibro!
Ken aggrottò le sopracciglia, non badando al dolore che gli attraversò la testa nel farlo; testardo almeno quanto lei,
era una bella gara.
- Erano due ore che ti cercavo! Pensavo che ti fosse successo qualcosa, che Karl avesse...- Ad ogni modo non dovevi immischiarti, mi ha semplicemente detto la verità, se la vedrà con Ren.- tagliò corto la
bionda, stroncandogli il discorso sul nascere. Ma lui - in qualità di mister autocompiacimento in persona - era ben
deciso a non mollare, nemmeno davanti a miss azzarda-una-parola-e-ti-spezzo-le-ossa che, aggressiva com’era,
probabilmente avrebbe di lì a poco anche dimostrato di meritare la fascia di cui era insignita.
- Già, allora è vero che ti ha baciata.Eve sgranò gli occhi, tornando a fissarlo con uno scatto del capo.
- Ti sei messo anche ad origliare!- Beh, potrei addurre che passavo di lì.- ora il portiere aveva alzato le spalle, certamente sarcastico e con una punta di
boria.
- Non fare il presuntuoso con me, tesoro! Posso cavare le viscere a tipi più grossi di te!Per un attimo Wakashimazu fissò Eve con la certezza che quella della sua ragazza non fosse soltanto una mera
minaccia, ma con il timore che già in passato avesse tentato di aprire il ventre a qualcuno a suon di ‘lotta di strada’,
come l’aveva chiamata lei una volta.
- Ascolta.- si alzò e la prese per le spalle, disposto finalmente a deporre l’ascia di guerra - Io non so cosa ci sia tra quel
tedesco e Dairou e nemmeno m’importa. Ero solo preoccupato, pensavo fosse successo qualcosa...Ma Eve stringeva la sua con entrambe le mani, ben in alto sopra la testa e pronta a colpire.
- Sentimi bene, adesso basta! Non tirare in ballo scuse inutili e risiediti. Di’ la verità, non ti fidavi di me e così sei
passato per dare un’occhiata, magari nella speranza di poter rifilare una bella scarica di pugni a Schneider. Questo
significa che l’altra sera fingevi, quando ti ho raccontato tutto! Era una finta calma, una finta accondiscendenza, la tua.
Questo mi fa davvero saltare i nervi! Hai finto, hai finto con me! Ma quando mai ho deciso di parlartene!- sbuffò come
a dover scacciare un po’ di rabbia per evitare di urlare e lo fece risedere a forza - Forse abbiamo corso troppo, Ken,
non lo so...- soffiò le ultime parole con tono di rassegnazione e acuto dispiacere, sentendosi sciocca e chiedendosi se
davvero non era lei stessa una persona inadeguata al resto del mondo... dopotutto avevano atteso più di un anno
prima di rivelarsi i rispettivi sentimenti, per cos’altro dovevano indugiare?
Ed a Ken arrivò un pesante colpo dritto al petto, tanto forte da fracassargli le costole e penetrare pesante ed
acuminato nel suo cuore. I pensieri, tutti quanti i pensieri nella sua mente si dileguarono come ombre vacue per
lasciare posto ad uno sconfinato nulla.
Cosa... che... non dovevamo, cosa...?
Cos’aveva appena detto, Eve? L’aveva udita realmente?
Idiota, non riusciva nemmeno a pensarsi senza lei, ed ora quel corso troppo gli rimbombava in testa come una
condanna.
Ma che stava dicendo? Che le era saltato in testa? La storia che le aveva raccontato era più vera che mai, era solo
preoccupato che Schneider avesse alzato le mani, certo non era questione di non aver fiducia in lei! Anzi, le dava tutta
la fiducia del mondo ed ora lo stesso mondo gli si stava chiudendo sulla testa, crollandogli addosso come una logora
costruzione di pietre troppo mal posizionate per sperare di rimanere in piedi.
Si sentiva bruciare dentro, laddove il dardo avvelenato aveva colpito ed un moto convulso lo spinse a desiderare di
afferrarla e stringerla, implorarla di non lasciarlo solo, di tornare a promettergli di essere per sempre Ken e Eve.
E tutt’un tratto si sentì come un vulcano sul punto di vomitare la sua linfa incandescente con uno scoppio deflagrante:
non poteva stare immobile sotto quel batuffolo di cotone e lasciare che bruciasse più il suo cuore che la ferita, ma
Eve... l’aveva detto veramente, nonostante si fosse trovata immediatamente a portarsi una mano a tapparsi la bocca,
dandosi mille volte della sciocca, ma lontano dagli occhi del portiere, già voltati verso il pavimento.
Si maledisse in silenzio, con tutto l’ardore che possedeva. Certo non voleva lasciarsi sfuggire un’idiozia che
minimamente non pensava, ma data soltanto dal terrore di poter perdere Ken per un motivo così futile e lontano anni
luce dagli interessi di entrambi... eppure aveva finito per dire una gigantesca assurdità... ora Ken l’avrebbe odiata.
Il salotto silenzioso si sarebbe detto morto se la pendola non avesse seguitato a macinare il tempo come un mulino
inarrestabile, forte del suo corso d’acqua perenne. Dalle tende color sabbia e terra filtravano i raggi del tenue sole, che
pareva sbirciare indiscreto ciò che accadeva all’interno dell’ambiente domestico; il grande lampadario ed i piccoli
paralumi sui tavoli in legno scuro erano muti e bui.
Il taglio sul sopracciglio di Wakashimazu era a posto da un po’, tanto che il tocco di Eve si faceva sempre più leggero,
mentre l’assenza quasi totale di rumori non li aveva abbandonati e scorreva aleggiando lieve nella stanza.
Forse era vero che era soltanto preoccupato, dopotutto le erano occorse due ore intere per poter avere l’occasione di
parlare con Karl, non una mezz’ora come aveva stabilito e previsto. Si sentiva tremendamente in colpa per il suo
essere stata impulsiva e avventata, di solito non si lasciava mai prendere da nessun tipo di emozione, ma... già, si
trattava di Ken. E quando c’era in ballo Ken, ogni cosa veniva traslata e riplasmata secondo l’incubo di perderlo, il
batticuore di vederlo, il semplice sentirsi completa standogli di fronte e tendendogli le mani.
Era passato diverso tempo da quando era comparso Schneider e Wakashimazu era arrivato proprio nel momento
sbagliato. Accidenti, se la stava cavando piuttosto bene, era riuscita a capire la verità dalla versione di Karl e ora... oh,
basta! Non si sarebbe più immischiata negli affari degli altri: se ancora qualcun altro avesse fatto il suo nome, si
sarebbe premunita di assoldare un assassino prezzolato, perlomeno non si sarebbe sporcata le mani, dopotutto stava
rischiando Ken e non poteva permetterselo. Non voleva permetterselo.
113
I suoi pensieri di colpevolezza furono interrotti da una visione inaspettata.
Ma... quelle sono...
Lacrime.
Il portiere si era passato il dorso di una mano sugli occhi, rapido e silenzioso, intento a reprimere quell’assurda ed
insana pressione che gli urlava dentro di sfogarsi e gridare, ma il prezzo da pagare per non dar voce al nodo che gli
aveva stretto il cuore era lo sgorgare tacito di perle lucide dagli occhi.
Eve cessò d’un tratto di tamponargli la ferita con il cotone e rimase immobile nel tentativo di scrutare al di là della
nuca china di Ken, sotto la sua frangia di capelli nerissimi, ma non colse nulla, lui se ne stava silenzioso con gli
avambracci appoggiati alle ginocchia e le mani immobili tra le gambe aperte.
D’un tratto colse anche lei un desiderio travolgente di stringerlo a sé, addossarsi a lui con la pelle e le unghie, sentire il
suo volto strofinarsi al proprio, fino a che non si fosse arrossato, fino a fare male. Ma l’unica cosa che riuscì a fare fu
rimanere lì, stabile e zitta come uno stupido burattino, mentre avvertì farsi strada sul proprio volto gocce di pianto
trasparenti e furtive.
Infantile e incapace di mantenere intatto ciò che possedeva, inesorabilmente capace di rovinare ogni cosa.
Wakashimazu si smosse appena quando una silenziosa lacrima si infranse contro il suo avambraccio, caduta dall’alto,
si frantumò in mille pezzi.
I suoi occhi neri si schiusero lievemente, incredulo ed allo stesso tempo cosciente che ciò che l’aveva appena sfiorato
stava scivolando via dalla sua pelle e lontano dalla sua vista, lasciando soltanto un minuscolo alone umido.
Si voltò in silenzio; Eve era ancora in piedi accanto a lui ed aveva il volto chino, invisibile dietro l’ombra dei capelli
biondi. Le prese una mano abbandonata al fianco e sentì ch’era quasi gelida, come se in lei fosse in atto un torpido
processo di cristallizzazione. Non parlava, forse troppo dispiaciuta, o troppo ostacolata da sé stessa per chiedere scusa
o qualunque altra parola.
Le bastò rispondere al tocco della mano di Ken, stringendo forte le sue dita, perché lui si alzasse in un lampo e
spalancasse le braccia per accoglierla con veemenza al suo petto, serrandola a sé come la prima volta.
La ragazza strinse gli occhi e si aggrappò alla sua schiena con entrambe le mani, premendosi alla camicia e lasciando
che questa assorbisse il suo muto pianto.
Si accalcò sul suo petto, di nuovo come a volerglielo aprire con il proprio stesso corpo e premergli il cuore tra le mani.
La richiesta non pronunciata di stringerla ancora più forte era sostenuta dal suo strenuo accalcarglisi addosso,
scomparire tra le sue braccia, sfregare il volto nell’incavo del suo collo, in punta di piedi, così piccola e stupida in
confronto a lui...
Non le importava se faceva male, l’unica cosa che la riguardava in quell’istante, che la riguardava davvero, oltre tutto,
sopra ogni cosa, era il tentare di raggiungere il punto limite, quello oltre il quale sarebbe stato impossibile andare,
perché fusi in una cosa sola, scoperti, messi a nudo senza vergogna. Ed allora avrebbero anche potuto colpirsi a
morte, ma l’atto stesso non sarebbe stato rilevante quanto il fatto che avrebbero mantenuto le loro dita intrecciate per
sempre.
- Non intendevo dire quello che ho detto... Ken... e scusa se ti ho colpito... solo, io...- Eve strinse i pugni con più
veemenza, dimenticandosi di sé e divenendo solo parole - Sei la cosa più bella che sia capitata nella mia vita... più di
quanto osassi chiedere... e ho paura, sono terrorizzata al pensiero che tu possa sparire, che tu sia un sogno, che tu
non sia vero... così finisce che mi comporto da stupida e dico cose stupide, io...- Sei solo un sacco orgogliosa.- dalla voce di lui si poteva cogliere che sulle sue labbra si era disegnato un sorriso - Ci
facciamo una buona concorrenza.Le portò una mano sul capo, carezzandole i capelli e discostandole la frangia dalla fronte sudata, di modo che
potessero tornare a guardarsi negli occhi.
- E non pensare non sia lo stesso per me, hai tutta la mia fiducia, sono io a perdere la testa quando si tratta di te.- si
chinò su di lei, guancia a guancia a portarle via le ultime lacrime - Sei la mia Eva, te l’ho detto, e per questo sei unica
e sola. Se ti perdessi non ti potrei sostituire mai.Per un attimo Eve avvertì un altro, travolgente impulso a piangere. Erano parole che mai aveva udito da nessuno,
nemmeno volendosele inventare sarebbe riuscita a sentirsi così speciale...
- Ken, è vero, Karl mi ha baciata, ma io non lo sapevo. Ero svenuta e...- fece per cominciare, tentando di scacciare
quel nuovo impulso a sfogarsi come una bambina.
- Lo so.- sussurrò il portiere, interrompendola e poggiandole le labbra sulla bocca, leggero - Ho sentito, non devi
spiegarti di più.La bionda chiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì ringraziò mentalmente il compagno per non aver più
avanzato minacce, sebbene in cuor suo poteva benissimo continuare a odiare Schneider, aveva assunto l’aria matura e
consapevole che lo caratterizzava.
Le stava sorridendo.
- Non potevo vederti tra le sue braccia.- aggiunse, stringendosi nelle spalle e seguitando a tenere Eve tra le proprie Tutto qui.Lei rispose a quel gesto affabile, ricambiando il sorriso e portandogli le mani al volto, racchiudendolo tra le dita.
- Non starò tra le braccia di nessun’altro, dovresti saperlo, perché io amo solo te, piccolo portiere invasato.- mormorò
alzandosi di nuovo in punta di piedi per raggiungere la sua bocca.
Ken per poco non perse l’equilibrio.
- Accidenti che tono serio! E poi l’invasato sarei io?- rise, strapazzandole i capelli, poi si bloccò d’un tratto - Un
momento... hai detto...- Che ti amo.- fece di nuovo lei, facendo scivolare una mano dietro la sua nuca e baciandogli il collo caldo e profumato
di colonia.
CAPITOLO 15 – Notte
A quanto pareva la sfuriata di Eve aveva sortito i suoi effetti, o forse era stata l’assassina entrata in scena di Ken a far
si che Karl si convincesse a chiarire con Ren. A chiarire ogni cosa.
Fatto sta che Eve era ben decisa a mantener fede alla promessa che aveva fatto a sé stessa, ovvero di riprendere ad
essere totalmente indifferente ai problemi sentimentali altrui in virtù del quieto vivere.
114
Era ben decisa a svicolare da ogni eventuale ricaduta, ma quando il giorno seguente il tedesco si era presentato
all’uscita principale dell’istituto Toho, per poco non le era venuto un colpo. Ma Schneider non aveva l’aria baldanzosa di
chi cerca vendetta, piuttosto aveva riacquistato la sua espressione gelida e signorile, la stessa con la quale le aveva
comunicato di aver messo a posto le cose con Dairou... e di essere passato nell’unico posto in cui era sicuro di
trovarla, seppure in compagnia del portiere dalle spalle da cingolato che l’aveva ridotto ad un colabrodo.
I due si erano porti le rispettive scuse - anche se nessuno dei due sembrava molto convinto - ma l’importante era che
le cose, da quel momento, avessero preso una piega decisamente rilassata.
Qualche giorno dopo, di ritorno dalla lezione di ginnastica, Mizuki non si poteva certo dire l’incarnato dell’allegria. A
dire il vero erano diversi giorni - se non settimane - che se ne stava sulle sue a limarsi distrattamente le unghie con
espressione assente o imbronciata.
Alla sua destra, Eve si ravviò un ciuffo dalla fronte con un soffio e si portò le mani nelle tasche del giubbino bianco,
tenuto aperto sopra la maglietta color porpora a maniche corte che le fasciava spalle e seno.
- Come... come va con Ken?- le chiese ad un tratto, rompendo l’insolita rigidezza del proprio volto ed il silenzio
altrettanto inconsueto che si era venuto a creare. Raramente, anzi mai stando a quanto ricordava Mizu, era rimasta
muta ed immobile in compagnia dell’amica e la cosa la rendeva piuttosto fastidiosamente impacciata.
- A meraviglia.- si stiracchiò la bionda, superando il cancello scuro dell’istituto e prendendo a camminare per il
marciapiede - Forse dopo faccio un salto da lui, al dojo.- poi si fece pensierosa, portandosi un dito sulle labbra che,
cedevoli, si deformarono lievemente - Però non so se è il caso... i suoi sono in viaggio ad Hokkaido per una mostra di
maestri, bokuto, eccetera dedicata al karate ed al kendo, credo. Beh, fatto sta che hanno lasciato la palestra in mano
sua.- i suoi occhi azzurri rotearono verso il cielo limpido del medesimo colore - Forse starà tenendo le lezioni...Rimase con sguardo pensoso sul da farsi, mentre a passi lenti procedeva sotto il sole del pomeriggio.
- E’ bello, dico, realizzare un sogno?- Mizuki stavolta stava sorridendo con non troppa convinzione, avvolta nel turbinio
rosa della blusa leggera.
Eve sgranò gli occhi e si voltò repentinamente verso la compagna, per incontrare la sua massa di capelli ricci dai
riflessi violacei coprirle il volto stanco ed a tratti mesto.
Attese che il silenzio agisse affinché l’altra alzasse di nuovo il capo, poi ricambiò il sorriso, schiudendo le labbra.
- Sono contenta.- ed il suo volto parve così lontano ed intangibile che Mizuki rimase per qualche attimo immersa in un
incanto smorzato, come appannato. Poi si scosse, schiarendosi la voce e fingendo di armeggiare con il laccio violetto di
perline che portava appeso ad una fibbia della cartella.
- Mizu, sono giorni che sei giù e non fai altro che scappare quando te lo chiedo. Che c’è?- Eve non aveva interrotto la
sua marcia, si limitava ad attendere una risposta dall’amica che, con tanta malinconia nella voce, le aveva appena
chiesto cosa si prova a realizzare un sogno.
- Oh... nulla. Sono i classici momenti no.- un’alzata di spalle, niente più.
In realtà la Mizuki che non si faceva mai seria aveva dovuto arrestare il suo sorriso perenne, la gal tutta moda e
bigodini era stata costretta ad occupare la testa con tutt’altro genere di pensieri, la ragazza impetuosa e sempre in
pista era stata costretta a frenare la sua corsa e guardare in faccia alla realtà: era cresciuta. E sentiva il bisogno di un
legame stabile, di qualcuno che la proteggesse e le stesse al fianco. Come Ken con Eve.
- E’ per quel ragazzo che non eri sicura ti piacesse veramente?- un flash, la voce dell’altra la riportò indietro di oltre un
anno ed il tempo fino ad allora imprigionato nel gelo rilasciò improvvisamente sensazioni ed argomenti
apparentemente dimenticati. Si voltò di scatto verso di lei incredula.
- Avanti, non ci vuole molto per capirlo!- l’espressione di Eve si fece rassicurante, mentre le poggiava una mano sulla
spalla. Si risparmiò dal dirle che in realtà l’avevano capito tutti quanti, forse perfino Takeshi stesso.
- Eve... io... lui... è così difficile!- Mizu si lasciò andare, addossandosi al muro di mattoni che costeggiava la strada. Un
refolo leggero le si insinuò tra i capelli, tanto che fu costretta a fermarli con una mano perché non si spettinassero
ulteriormente. Davanti a lei, accolta in una cornice verde di alberi tornati a fiorire, la bionda era ancora in piedi, sulle
labbra distese un’aria che trovò confortante.
- E perché dovrebbe?- ribatté serena, scuotendo di un poco la testa dai ciuffi di grano lisci e ribelli.
- Ah, mi sento una stupida.- la compagna si portò un dito alla tempia, facendo un eloquente cenno - E’ oltre un anno
che va avanti; all’inizio pensavo fosse solo una cotta, sai, quelle che ti prendono quando rimani fulminata da
qualcuno.- sospiro, stringendosi le braccia ed appoggiandosi la cartella tra i piedi - Poi c’è stato tutto quel trambusto
dei mondiali, quel periodo è... stato bello. E’ stato bellissimo, pensavo non fosse vero. Eppure, sai, già allora ero
terrorizzata dal non sapere come comportarmi, una volta tornati a casa. Desideravo tanto che tutto potesse tornare
come prima, ma presto mi sono resa conto di non riuscire a comportarmi con la spensieratezza di un tempo con lui...
perché ormai Takeshi era diventato qualcuno di importante.Questa volta Mizu lasciò che il leggero soffio di vento le scarmigliasse la lunga chioma senza fare nulla per impedirlo.
- Allora ho cominciato a tirare in ballo tutte le scuse più idiote, come ad esempio il fatto che sia più giovane di me e
sciocchezze del genere. Ma anche se sapevo che era una strategia del tutto distruttiva, non potevo non continuare a
pensarla in questo modo, era l’unica maniera che conoscevo a cui aggrapparmi per non cadere. Sono spaventata, Eve,
non mi sono mai sentita così atterrita da nulla. Il fatto ch’io possa dichiararmi e lui possa prenderla come uno dei miei
soliti colpi di testa, come una delle mie solite provocazioni infantili... mi fa impazzire. Ah, che imbecille, non posso fare
a meno di pensare a lui, a quanto sarebbe bello poter smettere di essere così immatura... è come una fissa e so bene
che non mi passerà mai se non gli dico ciò che provo. Temo che anche Kojiro l’abbia capito, non fa altro che andarsene
quando siamo io, lui e Takeshi. Per lasciarci soli. E io, come una stupida, muoio dal terrore di rovinare tutto e non
faccio altro che fare del male a me stessa.E finalmente si era scoperta per ciò che era, dietro la maschera di ombretto e lucidalabbra, la stessa maschera che era
servita fino ad allora a creare un fantoccio di aggressività e irruenza, atta a nascondere una natura incerta ed insicura.
Ora che avrebbe detto, Eve? L’avrebbe lasciata lì come meritava, con le sue paranoie ed i suoi insensati, giganteschi
timori?
- Sai che facciamo? Andiamo da Ken.- furono invece le parole che udì, accompagnate dallo stesso sorriso incoraggiante
che i suoi occhi avevano incontrato poco prima.
- Eh...?- Mizu si fece perplessa, sgranando i grandi occhi nocciola - Che ci andiamo a fare, da Ken?- Niente domande, miss Awashida, seguimi e basta!- la bionda la afferrò per una mano, prendendo a muovere i primi
passi di corsa verso il viale principale.
115
Inutile dire che sperava vivamente nella puntualità di Hyuga, che ogni giorno a quell’ora passava con Sawada davanti
al dojo per fare ritorno a casa. Se non erano in ritardo, potevano ancora fare in tempo a raggiungerlo.
- Aspettami! Eve, non correre così!Il capitano del Toho si stiracchiò, ravviandosi i lunghi capelli dietro la nuca. Al suo fianco Takeshi abbassò lo sguardo e
sbuffò leggermente. Udivano da qualche minuto le voci degli allievi del signor Wakashimazu provare delle mosse di
karate con tono deciso e perentorio. Il che significava che Ken non sarebbe uscito dalla palestra nemmeno per un
saluto veloce prima del termine della lezione: li stava allenando lui quel giorno ed a quanto pareva ci stava dando
dentro con vigorosa energia.
Così Kojiro si massaggiò una spalla e mosse i primi passi verso casa. Le ragazze erano uscite mezz’ora dopo di loro a
causa della lezione di ginnastica che si protraeva sempre un poco oltre l’orario, per questo era andato avanti con
Sawada.
Ayame si stava impegnando parecchio per il comitato scolastico, pareva davvero fatta per le questioni burocratiche tutte cose che a lui andavano piuttosto strette, ma d’altronde quello non rappresentava altro che un ulteriore segno
dell’essere complementari. Non sperava quindi di incontrarla dopo le lezioni; anche se gli sarebbe piaciuto poter
tornare a casa insieme e nonostante avesse già in programma di passare a casa sua la sera stessa, Aya non sarebbe
tornata con Eve.
Ed a proposito di Eve, l’aveva detto lui che prima o poi lei e Wakashimazu si sarebbero messi insieme. Quante volte? E
da quanto tempo lo sospettava? Erano due teste calde ed insieme stavano perfettamente in sintonia, soprattutto per le
questioni da risolvere a suon di pugni.
Se dal canto suo Kojiro si lasciò andare ad un sorrisetto divertito al solo pensiero, accanto a lui Takeshi aveva l’aria di
chi è seriamente preoccupato per qualcosa, come quando si arrivava ai tempi supplementari ed ancora non c’era stata
alcuna rete.
- Takeshi!- la voce limpida di Eve giunse alle sue orecchie come una sveglia, improvvisa e brusca, facendogli rischiare
un infarto. Sawada si voltò di soprassalto.
- Ehi! Ragazze!- fece di rimando, notando anche Mizuki, pochi passi più indietro.
- Ah, che corsa, non sono mai stata una brava maratoneta!- la bionda raggiunse i due qualche metro più in là del
cancello del dojo che avevano appena superato con l’intento di far ritorno casa, piegandosi sulle ginocchia ed
appoggiandovi le mani per riprendere fiato.
Poi si scosse e riprese a respirare normalmente.
- Temevamo che foste già passati di qui.- esordì poco dopo, scostandosi i capelli dietro le orecchie e lasciando scoperte
entrambe le coppie di orecchini circolari.
- Ce la siamo presa comoda.- rispose Kojiro, sfregandosi una mano sulla camicia bianca della divisa - Voi che ci fate da
queste parti?- Speravo di distrarre Ken dalle sue mire di conquista del mondo a colpi di arti marziali.- Eve alzò le spalle con
espressione maliziosa, strappando un sorriso al cannoniere.
- Oh, beh, temo ne avrà per un po’. Sta reclutando adepti.- le indicò il portone in legno della palestra con il pollice e la
mano chiusa a pugno.
- Aspetterò.- con una nuova alzata di spalle, la ragazza si portò una mano ad un fianco.
Gli alti pali della luce gettavano ombre svettanti sull’asfalto scuro, collegati dalle linee bislunghe dei tronconi della
corrente, mollemente appesi come corde per saltare. Mizu disegnava con un piede la figura di un cerchio sulla sagoma
di un fusibile appeso a metri di distanza.
- E’ meglio che vada, devo andare a prendere e portare a casa Naoko e poi passare da Aya. Diceva di volere una mano
per i cestini dell’hanami di domani mattina.- annunciò Hyuga, facendosi pensoso.
Eve alzò un sopracciglio, ben convinta che Ayame non necessitasse di alcun aiuto per cucinare i piatti che avrebbe
gustato insieme a Kojiro al pic nic di primavera dell’indomani, ma che il capitano fosse semplicemente ansioso di starle
accanto, così teneramente premuroso.
- Allora io mi accamperò nel giardino del dojo finché il dittatore non deciderà di uscirne.- rise la bionda, cominciando
ad avviarsi con il compagno.
Mizuki - ben consapevole di dover intraprendere la direzione opposta e che Takeshi avrebbe dovuto dirigersi per la
medesima strada - lanciò un’occhiata eloquente all’amica, la quale l’accolse arricciando il naso. Non poteva lasciarla
sola, oh, no... non con Sawada! Accidenti, e... adesso?
- A domani!- Eve si congedò con un saluto, mentre Kojiro fece loro cenno con una mano e dopo questo si voltarono,
avviandosi in controluce verso la prima curva.
- Ho sentito dell’incidente con Schneider.- Hyuga aveva inarcato le labbra, compiaciuto.
- Oh, quello...? E’ stato una specie di imprevisto.- la compagna s’infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans.
Seguì una breve pausa, poi Kojiro scoppiò inaspettatamente a ridere, tanto che lei si trovò a voltarsi con sguardo
meravigliato.
- Scusa tanto, con tutto il rispetto, ma...- riuscì ad esprimersi tra le risa - Dev’essere stata una scena da oscar!Eve alzò gli occhi al cielo con un sospiro ed un sorriso ambiguo.
- Sì, beh, più o meno.- commentò, scuotendo il capo.
- Più o meno?- il bomber non era dello stesso avviso - Dev’essere stato... insomma, Wakashimazu non ci va certo
leggero! Ah, quanto avrei pagato per vedere la faccia di quel tedesco!- Sbaglio o ti stai facendo prendere dall’euforia?- gli batté una mano su una spalla - Allegra la vita, capitano! Sai,
dopotutto Ken ha soltanto giusto rischiato di ammazzare qualcuno...- Ah, andiamo, non l’avrebbe mai... o sì?- Direi di sì.La conferma che gli diede Eve proiettò entrambi in un muto silenzio, durante il quale si scambiarono uno sguardo
grave, poi quasi contemporaneamente gettarono il capo all’indietro, lasciandosi andare ad una calorosa risata.
Alle loro spalle Mizuki aveva sgranato gli occhi, tra l’incredulo ed il colto alla sprovvista.
- Che gli prende, a quei due?- Takeshi aveva inarcato le sopracciglia, mentre lei gli rispose con un cenno del capo.
Il silenzio si insinuò prepotente tra i loro volti, nelle loro bocche.
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- Andiamo?- sorrise poi Sawada, mostrandole il proprio viso sereno. Mizu si fece forza, tentando di ricambiare. Certo
non poteva alzare i tacchi e correre via a gambe levate, anche se, doveva ammetterlo, era l’unica possibilità che aveva
per svicolare. E per fuggire un’ennesima volta.
Fecero in tempo a muovere solo qualche passo, che Takeshi sospirò di nuovo e non si trattenne.
- Mi dispiace, ti chiedo scusa.- Oh...? E per cosa?- la ragazza rimase per qualche attimo come intontita. Lui scosse il capo.
- Non lo so, immagino per qualcosa che ho fatto. E per non essermene reso conto. Ho notato il tuo distacco nei miei
confronti e penso forse di averti offesa. Ti chiedo scusa perché non sono riuscito a capire qual è stato il motivo di un
così repentino allontanamento... e probabilmente pecco di insensibilità.Era così addolorato, così intensamente dispiaciuto che Mizu non poté non deglutire amaro.
Mentre una bicicletta li superava rapida, si trovò a considerare che aveva causato un altro dei suoi stupidi danni.
- Io non... Takeshi sei tu che mi devi scusare, ti sto facendo sentire in colpa per qualcosa che non hai fatto. Ti sto
davvero facendo sentire distratto ed insensibile... quando quella distratta ed insensibile sono io.- si portò una mano
alla fronte, sopra le palpebre sfumate di violetto.
Ah, che sciocca. L’ultima cosa che desiderava... aveva fatto tutto con le sue mani!
- Che...? Che significa?- Sawada si fermò, tentando di catturare il suo sguardo con i propri occhi scuri e luminosi - Stai
dicendo che non è colpa mia? Che c’è dell’altro? Forse... forse stai poco bene? Hai dei problemi a scuola, o... o a
casa?La ragazza sorrise lievemente, intenerita.
- No, sto bene. Beh, si fa per dire... il fatto è che ho quest’inevitabile vizio di mostrarmi vezzosa, smorfiosa... e
perdermi tutte le cose belle.Già... a lei era forse mai interessato veramente il prestante e aggressivo capitano del Toho? O il superbo e ombroso
portiere?
Voleva soltanto mettersi in luce, mostrare di esserci, di essere all’altezza del mondo, scegliendo il top dei top.
Di essere bella, con creme e lozioni.
Di essere alla pari con la società, seguendo l’ultima moda.
Di essere forte, con l’alterigia di una bisbetica.
Ma alla fine ciò che l’aveva colpita ed affondata era stata la gentilezza di un ragazzo che non era un asso, un
fenomeno naturale, ma una persona semplice, uno come tanti, che andava avanti con la forza di volontà e si faceva
valere per quello che era.
La cosa di cui aveva veramente paura, dalla quale era atterrita realmente... era che lui non capisse, non sapesse chi in
realtà lei fosse, avendo costruito intorno a sé un personaggio falso e con mille inutili desideri che non le
appartenevano.
Invidiava Ayame, per essere dolce, signorile, aggraziata e per nulla artefatta. Ed invidiava Eve, per essere ancora in
piedi, nonostante tutto.
Sognava di cancellarsi e reinventarsi, pronta finalmente a mostrarsi a lui per quello che era, a mettersi alla prova per
non perderlo... ma, alzando gli occhi nei suoi, comprese in un istante che Takeshi se ne stava già lì, le stava accanto,
premuroso, con tutta la sua generosità, pronto a prendersi cura di lei.
- Mi dispiace.- i suoi occhi si inumidirono - Sono una stupida. Per quanto mi sia sforzata di nascondermi dietro ad ogni
espediente possibile... Takeshi... tu mi piaci, mi piaci un sacco e io non faccio altro che ricacciare indietro la mia voglia
di essere normale...Lui si mosse lievemente verso di lei, scostandole un ciuffo di capelli dalle spalle e rimanendo a giocare con un boccolo
birichino che era sfuggito all’intera ciocca. Superò lo stupore e si impegnò ad alzarle il capo per guardarla negli occhi e
scuotere il capo.
- Ma tu sei normale.- sorrise, il volto indorato dal sole calante.
Per Mizu fu la cosa più semplice e naturale che avesse udito mai, tanto che la stordì.
- E non lo saresti senza i tuoi capelli dai riflessi viola, o il trucco impeccabile, o...- rise - ...i tuoi mille accessori colorati.
Non credere che io non ti trovi autentica, perché per me sei più vera che mai.Le lacrime che il compagno le aveva appena asciugato si videro ben presto sostituite da altre gocce di pianto, che
scivolarono sul suo volto arrossato dagli occhi di nuovo spalancati. Si ritrovò con le mani appoggiate al petto di lui,
stringendo forte la casacca della sua divisa come a voler rendere tangibili le parole che aveva appena pronunciato.
- Mizuki?- la voce di Takeshi la raggiunse ancora una volta, come una carezza.
Lei si asciugò le guance con le dita, in attesa.
- Ti andrebbe di venire con me all’hanami di domani mattina?Le labbra della ragazza si distesero, non più increspate, e le due sagome alla luce di quel tramonto di fine marzo si
fusero in un’unica ombra.
A-accidenti! Ma che... che razza di... accidenti!
Eve non riusciva a cogliere i suoi stessi pensieri, imbambolata come avesse appena ricevuto una bastonata in testa.
Si era avvicinata alla porta scorrevole della palestra, all’interno della quale un sacco di ragazzi robusti erano intenti a
sferrare pugni energici e diretti ad un nemico invisibile, ma ciò che più la colpì fu l’insegnante: portava i capelli sciolti e
una fascia bianca sulla fronte imperlata di sudore, apriva la bocca a intervalli regolari emettendo suoni decisi e vigorosi
che scandivano in battere dei colpi. Quegli stessi pugni saldi e dinamici facevano in modo che, ogni volta che Ken
distendeva le braccia, il kimono gli si aprisse leggermente sul torace, scoprendo pettorali che la bionda avrebbe detto
di marmo o qualcosa del genere, da mozzare il fiato.
Era così intento ed assorbito dal suo allenamento da non accorgersi minimamente di ciò che accadeva al di fuori del
dojo. Serio, risoluto, possente, praticamente perfetto.
- Allarga le gambe, Hatagami!- Ah-eh... emh, sissignore!- un ragazzo impacciato dai capelli castani si mosse come se fosse intralciato da un rovo ai
piedi e ci mise un po’ per posizionare le gambe nel modo in cui gli aveva ordinato Ken.
- Andiamo, Wakashimazu! Facci uno sconto! Sei più severo di tuo padre!- si lamentò un altro dinnanzi a lui, ma di
poco spostato sulla destra, un tizio dalla cintura marrone.
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- Senti un po’, questa è una disciplina seria! Se vuoi lavorare di meno vai a divertirti con Street Fighter in sala giochi!Ken pareva un serissimo professionista, inflessibile ed intransigente. Da sposare.
Il sovversivo fece immediatamente silenzio e tornò ad eseguire l’esercizio, rimettendosi in pari con il ritmo.
Però, quanta passione ci metteva! E poi diceva di non amare il karate, come no, ne era praticamente coinvolto! Che
sciocco... eppure le pareva tanto ammaliante e accattivante in quella veste.
Passò qualche minuto e finalmente la lezione si poté dire giunta al termine; gli allievi raggiunsero lo spogliatoio e
lasciarono uno per uno il dojo, salutando il maestro e transitando inevitabilmente accanto alla ragazza che sostava
accanto al basso cancello in legno di castagno.
- Uffa! Sono a pezzi, Ken è davvero peggio di suo padre!- fece uno di loro, massaggiandosi il collo.
- Tutta salute!- rispose un altro, passandosi una mano sui jeans e caricandosi sulla spalla il kimono retto dalla cintura
nera.
- Che!? Quello finirà per farci ammazzare!- Se regge lui ce la possiamo fare anche noi, no? Vedrai che diventeremo forti quanto Ken!- Non ci spererei...Eve si lasciò sfuggire un sorrisetto compiaciuto e fiero. Eh, sì, potevano sperare quanto volevano, quelle matricole
femminucce, ma il suo Ken era proprio unico!
Salì sulla pedana scura di assi e fece capolino nell’anticamera dell’ampio ambiente, scostando ulteriormente l’uscio dai
pannelli cartacei.
- Ehilà, maestro zen!- sorrise, restando sulla soglia e notando che Wakashimazu era rimasto solo. Il ragazzo stava
sistemando delle tavole di legno rosso e si voltò stranito ma felice di sentire una voce così amabilmente famigliare,
tanto che mollò le tavole dove stavano per correrle incontro.
- Ehi, piccola squilibrata! Come mai qui?- la sollevò per i fianchi, facendole fare un mezzo giro sopra la propria testa.
Eve alzò un sopracciglio e curvò le labbra da un lato.
- Ma che accoglienza!- fece la finta arrabbiata, riappoggiando entrambi i piedi per terra - Mh, passavo di qua, ma se
vuoi me ne vado...- E rinunceresti ad un incontro?- la provocò lui, togliendosi la fascia dalla fronte ed asciugandosi il sudore dal volto.
- Incontro...?- ripeté lei, tentata. Si avvicinò lentamente al suo collo, appoggiando le mani sul tessuto pesante del
kimono candido, che si aprì leggermente sul petto, sfuggendo alla cintura d’ebano e lasciandolo scoperto. Poi intrufolò
le mani nell’apertura e le poggiò sui suoi fianchi coperti solo di pelle, tanto che il portiere trasalì.
- Rimani per cena?- le domandò, posandole le dita sulle spalle.
- Mh? Se proprio ci tieni, ma ti avverto che in cucina sono una frana!- Eve gli afferrò le anche con le mani intere,
stuzzicandolo come fosse creta.
Ken rise.
- Non importa! Ordineremo qualcosa!Poi la bionda si sporse sul suo petto e soffiò con le labbra a ventosa sullo sterno, procurandogli un vellutato solletico.
- Okay, può andare. Ora però fatti una doccia, ordinerò io.- gli rispose, alzandosi in punta di piedi ed attendendo che
lui si chinasse per posargli un lieve bacio sulla bocca.
- D’accordo, capo!- Wakashimazu sorrise e le aprì la porta del cortile interno, facendola accomodare in casa - Se vuoi
chiamare tua madre per avvertirla, fai pure.- aggiunse, affacciandosi poi dalle scale.
Le pareti color crema dell’anticamera emanavano un tenue senso di accoglienza e cordialità ed Eve si trovò a pensare
a quante volte era stata a casa di Ken, seppur senza mai provare quella sensazione di calore che le avvolgeva il petto
e l’accompagnava per le mani nell’ambiente domestico.
Si affrettò a prenotare in un ristorante ad asporto poco lontano e subito dopo ad avvisare sua madre. Narumi le
comunicò che sarebbe stata impegnata per il turno di notte, che Dex sarebbe uscito a breve ed ovviamente non si
risparmiò l’immancabile raccomandazione di non cacciarsi nei suoi soliti pasticci.
La ragazza fece appena in tempo ad alzare gli occhi al cielo ed a riagganciare, che il telefono squillò di nuovo.
Si guardò intorno in cerca di un segno del padrone di casa, ma Wakashimazu pareva ancora essere sotto la doccia.
Salì a passi rapidi e veloci le scale per bussare alla porta del bagno, dandogli un avvertimento.
- Potresti rispondere tu, per favore? Un attimo solo ed esco!- Ken s’infilò in fretta l’accappatoio e le diede una voce da
oltre la soglia, così la bionda si volse celere al cordless del piano di sopra, giusto oltre le sue spalle e proprio mentre
rispondeva, il portiere uscì.
- Sì?- fece, avvicinandosi il ricevitore grigio metallico all’orecchio.
- Signora Wakashimazu?- una voce femminile la colse impreparata al dì là della cornetta.
Eve si trovò immancabilmente spiazzata, come travolta da una locomotiva.
- Si... signora Wakashimazu...? Io...?- ripeté, tentando di concretizzare il concetto.
Ken, che stava sopraggiungendo, si arrestò a metà corridoio, udendola pronunciare quelle parole in risposta
all’interlocutore.
- Chi è?- le chiese, togliendosi l’asciugamano dai lunghi capelli bagnati. Lei si voltò per vederlo muovere di nuovo
qualche passo e venirle incontro, alzando le spalle.
- Credo sia... è per tua madre.- si corresse, passandogli il telefono e sbattendo più volte le palpebre nel tentativo di
riaversi da un così sciocco malinteso.
Mentre lui se la sbrigava al telefono con una probabile amica o collega di sua madre, avvisandola che i genitori non
avrebbero fatto rientro prima della sera successiva, Eve lo guardava senza poter fare a meno di sorridere.
Signora Wakashimazu. Che bell’equivoco si era venuto a creare nella sua testa! Totalmente nuovo, un pensiero caldo e
confortevole quasi come la casa di Ken.
E per la prima volta le balenò in testa come avrebbe potuto essere un’eventuale ufficializzare quel per sempre che da
tempo si era promessa e gli aveva promesso. Era un’idea che la faceva sentire grande, adulta, con un enorme
desiderio di stringere all’infinito la mano di Ken e camminare insieme, insieme davvero.
Fortuna - o sfortuna - volle che quel concetto idilliaco fosse interrotto da un nuovo ragionamento un po’ più
materialista che s’insinuò nella mente di Eve. Aveva fissato il proprio sguardo su di lui, sui suoi occhi di fosca e
perlacea ossidiana pensierosi e le sue labbra così pericolosamente vicino al ricevitore da sfiorarlo. E poi i capelli ancora
umidi che gli ricadevano un po’ sulle spalle ed un po’ lungo la schiena, creando gocciolanti volute, la indussero a
considerare solamente che il suo portiere fosse dannatamente... bello.
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La prese un desiderio bruciante di ricacciarlo in bagno e strappargli di dosso quello stupido accappatoio! Ma...
andiamo, che stava immaginando proprio ora...?!
Arrossì e si voltò verso le scale, scuotendo la testa per riprendere una minima parvenza da donna seria... certo che
però nemmeno lui la aiutava molto, uscendosene prima con il kimono semiaperto e adesso con quell’accappatoio e i
capelli bagnati!
Wakashimazu riattaccò e si voltò per sorriderle.
- Allora, che si mangia?Bevve l’ultimo sorso di birra e riappoggiò il bicchiere sul tavolo, accanto al cartone del cibo ad asporto.
- Farò finta che hai cucinato tu.- fece, strizzandole l’occhio.
- Ah! Guarda che ho fatto la mia parte!- si difese Eve, mimando di comporre il numero del ristorante.
- Oh, beh, per me è uguale, l’importante è che non mi propini mai...- Asparagi, sì, sì.- la bionda rise, sbuffando ed appoggiando il capo sulle mani ed i gomiti al tavolo.
- Mi conosci come le tue tasche, ormai!- le fece eco Ken, scuotendo il capo ed alzando le braccia in segno di resa.
- Non ci giurerei, nelle mie tasche perdo un sacco di cose!La risata del portiere venne sopraffatta da un improvviso sbadiglio.
- Stanco?- gli domandò la bionda, ancora guardandolo da sopra le proprie mani. Wakashimazu si protese verso di lei,
intrecciando le dita alle sue.
- Un po’. Fare l’insegnante è esaltante, ma non ti nascondo che è anche un sacco sfibrante.- ammise, massaggiandosi
un occhio. Eve sorrise, ravviandogli la frangia dal volto ed alzandosi per farsi più vicina.
- Allora è meglio che me ne torni a casa, ti lascio andare a dormire.Ken diede un occhio all’orologio sulla parete antistante: le dieci e quaranta. Il tempo era volato via, con le ali ai piedi.
Aveva davvero corso veloce, tra allenamenti e dojo si era affaticato non poco, ma d’altra parte c’era quel desiderio
pressante che non voleva che Eve se ne andasse, vagheggiava di poter trascorrere con lei più tempo possibile.
- No, aspet...- lo colse un altro sbadiglio ed Eve rise dolcemente.
- Bellissimo! Ti ci vorrebbe un disegno su questo sbadiglio!- il suo sguardo limpido lo pietrificò in un istante, mentre la
ragazza curvava le labbra e si impegnava ad arruffargli i capelli.
- Perché non lo fai?- la invitò sorridendo e saltando in piedi - Ho un intero blocco totalmente bianco su in camera! Lo
consacrerò a te, regina! Vieni!La bionda si lasciò condurre con rinnovata allegria su per le scale, accompagnandosi al corrimano di elegante legno
mogano e sui gradini di moquette grigia.
Ken cominciò a frugare nello scrittoio alla ricerca del fantomatico quaderno vergine. Nell’impresa ne estrasse una
caterva di schemi di gioco, appunti e tabelle di pronostici per i campionati del Toho.
Eve non trattenne un nuovo sorriso intenerito ed infine ecco spuntare un blocco ad anelli rilegato in verde chiaro.
- Ecco qua!- il portiere sfoggiò un’espressione raggiante - Ora ogni volta che verrai da me e ti sentirai di disegnare,
questo è tuo. Ma la prima creazione te la chiedo io, allora, nh?Lei si avvicinò alla scrivania con un sospiro docile e Wakashimazu fece per alzarsi dalla sedia per lasciarle il posto, ma
la ragazza lo trattenne giù per le spalle e gli si sedette in braccio.
- Ce la faccio lo stesso, sai?- cacciò la lingua si accomodò meglio su quel paio di quadricipiti che faceva invidia ad una
poltrona. Poi prese una matita accanto alla foto del mondiale estivo, che stava placida ma raggiante in un angolo del
tavolo. Se la fece scorrere tra le dita e poco dopo cominciò a tracciare delle linee curve sulla prima pagina integra del
suo nuovo regalo, che aveva giusto aperto e posizionato semi obliquo sotto il proprio braccio destro.
Ken quasi inconsciamente le strinse le braccia in vita ed appoggiò una guancia sulla schiena, chiudendo gli occhi.
L’unico suono che poteva udire era quello della punta di grafite che abbozzava lenta ma decisa sul foglio bianco. Solo
pochi istanti dopo si rese conto di percepire anche un suono tenue ma cadenzato da sotto la leggera maglia in cotone
alla quale era addossato: il suo cuore, la sua Eve.
Si rese conto solamente dopo qualche attimo di starla stringendo con pressione crescente, ma lei non dava segno di
fastidio, continuava a tracciare linee sul foglio, intenta.
Le sue labbra fino ad allora semi schiuse si trovarono lievemente a sorridere al pensiero di poco prima, quando l’amica
di sua madre l’aveva apostrofata con un distratto ‘signora Wakashimazu’. Aveva trovato l’espressione di Eve adorabile
all’ennesima potenza: gli aveva sorriso, nascondendo l’imbarazzo di un pensiero troppo improvviso.
D’altra parte la bionda avvertiva le mani del ragazzo sui propri fianchi, la stringeva con il suo classico tocco forte e
tenue, armonioso e appassionato. Avrebbe voluto prolungare quel contatto che la faceva sentire tanto speciale il più a
lungo possibile, quindi si soffermò a rifinire i particolari di quel piccolo chibi Ken che sbadigliava candido.
- Finito!- manifestò dopo un po’, incapace di vincere oltre sul tempo. Ma non le giunse nessuna risposta, così Eve si
voltò adagio accertandosi di ciò che supponeva: mister karateka d’acciaio si era addormentato.
Gli accolse dolcemente il viso tra le mani e con un dito gli sfiorò la bocca.
Piccolo Ken... pareva un bambino. Ed il sorriso lieve ed impercettibile che riposava sulle sue labbra era sereno, in pace
con il mondo.
Si alzò lasciando che le mani del portiere scivolassero lungo le proprie gambe e poi cadessero come senza vita sulle
sue. Cercò di sistemarlo più comodo possibile sulla poltroncina scura su cui si erano accomodati insieme e poi scostò
dal letto una coperta leggera, dispiegandola ed appoggiandogliela sulle ginocchia.
- Buonanotte.- sussurrò piano, sfiorando le sue labbra con il tocco impalpabile di un petalo di un fiore.
Era certa di volersi lasciare la stanza alle spalle e spegnere la luce, ma ben presto scoprì di non riuscire ad andarsene,
di non essere in grado di schiodarsi dalla visione assopita e mansueta di Ken, come a non volersene privare più.
Rimase lì dove stava, in piedi a fissarlo e bramando di poter trascorrere la notte con lui, addormentata tra le sue
braccia come tante volte già era accaduto.
Quasi senza accorgersene si risedette sulle sue gambe, raggomitolandosi nel suo grembo e poggiando la testa al suo
collo, chiudendo infine gli occhi. L’assenza di rumori era rotta soltanto dal respiro cadenzato del compagno,
deliziosamente appisolato.
Eve aveva svuotato la testa da ogni pensiero e, come la prima volta in cui lui l’aveva abbracciata - sotto le stelle ed in
preda ad un tremendo giramento di testa - si rese conto di essere uno, che Ken l’avrebbe salvata da ogni cosa. Che
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l’avrebbe protetta, fatta sentire a casa anche a miglia di distanza... che era l’unico uomo che desiderava ed al quale
aveva dato il permesso di scrutare nel proprio cuore.
Ora che stavano così vicini, ebbe l’impressione di poter sentire le sue mani sui propri fianchi e le sue gambe robuste
aprirsi per permetterle di stare più comoda... eh, no... un attimo, ma...
- Ti ho svegliato, oh, scusa! Dormivi così bene!- si rammaricò nel vederlo con gli occhi aperti, probabilmente
desiderava dormire.
- Scusa tu, non volevo addormentarmi, che incivile, con l’ospite ancora in casa!- Wakashimazu rise, battendosi una
mano sulla fronte.
Lei gli prese di nuovo il volto tra le mani e lo avvicinò al proprio.
- Non importa.- sussurrò, carezzando le sue labbra.
Ken l’abbracciò di nuovo e ricambiò il bacio, portandole una mano dietro la nuca e lasciando che il calore del collo di
Eve gli invadesse il palmo e le dita.
Con l’altra mano cercò quella di lei, facendola scivolare lungo il braccio, sicuro che alla fine avrebbe trovato una stretta
ricambiata; la spinse ancor più verso di sé, tanto da poter avvertire la morbida plasticità del suo seno addossarsi al
proprio petto.
L’intenso turbine del sapore e del profumo di Eve lo invase quando lei aprì la bocca quel tanto che bastava per lasciare
che le loro lingue si intrecciassero ed una bruciante sensazione diede come fuoco al vortice, mentre il suo corpo si
muoveva dolcemente cercando sollievo contro quello della ragazza.
Lei percorse con la mano libera la fila di bottoni della camicia sportiva del portiere ed involontariamente la poggiò
sull’ultimo della breve serie, che inevitabilmente poggiava sulla cerniera dei pantaloni. Ken sussultò ed il suo respiro si
spezzò a metà, mentre le sue mani presero a percorrere più intimamente le curve dei fianchi della ragazza, che
lentamente si allontanò dalle sue ginocchia alzandosi in piedi, seguita all’istante da lui e dal prolungato contatto con la
sua bocca e le sue dita, ancora intrecciate alle proprie.
Ken si appoggiò al muro, spingendo l’interruttore della luce ed in un attimo fu il buio.
- Tu vuoi...?- fu li principio di una domanda ben precisa, articolata tra i sospiri, mentre i suoi occhi di brace si
abituavano alla semi oscurità data dal lampione sulla strada.
- Io voglio te.- Eve gli gettò le braccia al collo in un attimo, inarcando la schiena e lasciando che il portiere le
percorresse il dorso con entrambe le mani.
Lei riabbassò le dita sulla cerniera dei pantaloni, solleticandogli il basso ventre poco sotto l’ombelico. Un tocco che
diede a Wakashimazu lo stimolo a risalire verso le spalle della ragazza ed infilare le mani ai lati del suo torace,
raggiungendo le spalline del reggiseno ed abbassandole con una carezza attraverso la maglietta.
Eve percorse con il palmo spalancato le braccia di lui, impossessandosi di ogni curva che i muscoli sviluppati creavano
l’uno con l’altro, fino ad arrivare alle spalle coperte. Si crucciò del fatto che Ken stesse indossando ancora la camicia
dalle maniche arrotolate agli avambracci, così si impegnò a slacciargli con flemma i bottoni.
In pochi secondi l’indumento stava raggiungendo il pavimento; lui poté avvertire la leggera stoffa scivolargli sulla pelle
e procurargli un sottile brivido, mentre si stava occupando di abbassare la cerniera della felpa della bionda e sentiva
dentro come se qualcosa di sconosciuto ma pressante stesse tentando di spingere la propria anima contro quella di
Eve, inesorabilmente.
Mosse qualche passo indietro, finendo per sedersi sul materasso e trascinare la compagna con sé, mentre avvertiva le
sue dita affusolate e bianche spaziargli sul petto e premere sugli addominali scolpiti.
- Eve...- non si trattenne, con voce ansimante pronunciò il suo nome e depositò un bacio sulla spalla di lei, trovandola
ancora coperta dalla maglia color porpora.
La ragazza lo comprese subito, così si scostò di un poco, non dandogli la soddisfazione di spogliarla da sé, perché un
istante dopo la t-shirt finì a terra insieme alla camicia del portiere, il quale curvò le labbra in un sorriso malizioso in
risposta all’iniziativa che lei aveva appena preso.
Ora poté tornare a baciarle entrambe le spalle, inspirando a fondo il suo profumo e mordendole leggermente.
La sua bocca fu guidata quasi inconsciamente verso le labbra di carne e nuvola di Eve, che lo accolsero già umide e
consapevoli, per scoppiare in un nuovo bacio, stavolta più carico.
La bionda spaziò con le mani sulla sua schiena liscia, credendo di impazzire quando si rese conto che la sua bocca
stava slacciandosi dalla propria per raggiungerle il petto, sfiorandole con la lingua l’apice dei seni ed avvertendo una
debole pressione che la invitava a distendersi per fare in modo che lui si potesse accomodare sopra il proprio corpo
fremente.
Così Eve si adagiò con la schiena al materasso ed il compagno la privò anche dei jeans, riuscendo a coricarsi sopra di
lei ed avvertendo come una scossa rovente a contatto con le sue gambe nude e toniche, che si erano dischiuse per
permettersi di distendersi tra di esse, carezzandogli i fianchi.
- Ti amo.- le aveva preso una mano, portandosela alle labbra e depositando un bacio per ogni dito, per poi voltargliela
e solleticarle il palmo. Eve sorrise lievemente, portandogli l’altra mano tra i lunghissimi capelli neri e perdendosi in
essi, gli sfiorò la nuca e la fronte, inebriandosi del suo intenso odore d’uomo.
- Anche io.- fu la sua risposta, considerando che in quella crescente frenesia Ken si era fermato per dirle che l’amava.
Non nascose un altro sorriso intenerito e quando raggiunse la sua bocca socchiuse le labbra, lasciando che la lingua di
lui iniziasse una dolce lotta con la propria.
Poi inarcò di nuovo la schiena ed il portiere ne approfittò per slacciarle il reggiseno e sfiorarle nuovamente il ventre ed
il collo con le dita. Eve si lasciò sfuggire un sospiro profondo e penetrante al solo tocco della mano di lui a percorrerle i
tendini tesi dell’interno coscia.
Scorse un sorriso malandrino sulle labbra di Wakashimazu, che si chinò di nuovo su di lei con le sue spalle squadrate a
toglierle il reggiseno con la bocca, accarezzandole di nuovo il petto con la lingua.
Si trovò ad alzare un sopracciglio, ma prima che potesse anche solo formulare una battuta sarcastica, avvertì la stessa
bocca che le mordeva il bacino sotto l’ombelico, fino a raggiungerle il basso ventre e sospirò di nuovo, le palpebre
leggermente spalancate.
Affondò di nuovo le dita tra le ciocche d’opale di Ken, accarezzandolo febbrilmente anche sul collo quando le mani di lui
risalirono fino al seno, chiudendosi su di esso con una lieve pressione.
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Le loro bocche s’incontrarono di nuovo, Eve gli afferrò le spalle con una forza tale che al portiere parve avvertire le sue
unghie attraversargli la pelle. Le accarezzò il volto e si adagiò una seconda volta sopra di lei, stavolta sentendo i seni
calcarsi sotto il proprio massiccio torace.
La ragazza gli passò le braccia sotto le spalle per raggiungere i suoi jeans, che dopo pochi istanti finirono sul
pavimento insieme ai boxer.
Con una mossa rapida e decisa la abbrancò per la schiena, sollevandola con uno scatto e liberandola dagli slip per
trovarsi finalmente pelle contro pelle, carne contro carne.
- Eve...- fece di nuovo, con lieve lamento all’avvertire la lingua di lei lambirgli un orecchio e mordergli lievemente il
lobo. Poi il suo fiato ardente gli empì l’udito, materialmente.
- Ripetilo.- gli intimò, premendo le labbra contro il suo collo. Le procurava un immenso piacere udire la voce roca e
profonda di lui pronunciare il proprio nome con il tono alterato dall’eccitazione.
Attraverso la gola del compagno transitarono sospiri gravi, tanto che Ken si trovò ad alzare il capo verso l’alto e
serrare gli occhi, socchiudendo le labbra e godendosi il corpo di lei, sinuoso come un serpente sopra di sé.
- Eve...- sospirò di nuovo, notando che ora la ragazza aveva spalancato le braccia come a chiamarlo a sé, a divenire
una cosa sola.
Sotto il tocco inebriante di lui, Eve fu scossa da un tremito così travolgente da spingerla ad aggrapparsi al suo fisico
virile, alle sue spalle, alle sue braccia.
In un attimo Ken si spinse fin dentro la sua anima, e la trovò torrida, rovente come una stella.
Si trattenne dal gridare, depositandole un bacio confuso sul seno e stringendolo a sé, forte, come se gli appartenesse
da sempre. Poggiò la fronte sulla sua spalla eburnea di perla e calcò forte il capo su di lei finché non riuscì a bilanciare
i movimenti del bacino con quelli pulsanti del proprio cuore irrorato di sangue ed adrenalina.
E per il terrore che gli scivolasse via dalle mani spalancò gli occhi, incontrando di nuovo la sua pelle bianca e semi
illuminata dal chiarore tenue di luce riflessa. Eve era lì, avvolgente come l’abbraccio della terra, incandescente come
lava, impetuosa come un flutto.
Era reale, era tangibile e concreta. Ed era sua.
Con un movimento bramoso e convulso intrecciò le proprie mani alle sue accanto ai fianchi, per rimanere una notte
intera Ken ed Eve.
CAPITOLO 16 – E tutto il mondo fuori
Le aveva circondato la vita con un braccio e con l’altro le stava accarezzando una spalla.
Era appoggiato con il capo sul suo petto, tra sterno e clavicola, e la stava guardando mentre dormiva.
Il suo volto era sereno quando i raggi del mattino illuminarono Tokio.
E lei era bellissima, come sempre.
Sentiva il suo calore accanto al proprio viso, mentre il seno di Eve si alzava ed abbassava regolarmente, velato dal
lenzuolo che lasciava solo intravedere le due morbide forme.
La sua pelle profumata d’ambrosia saturava ancora i sensi di Ken, intorpiditi dal sonno ed appena affacciatisi di nuovo
alla realtà. Carezzandole la spalla, seguì con le dita la curva tornita e silente che descriveva l’articolazione, per
scendere lungo il braccio inerme e dalla carnagione bianca come neve.
Avrebbe volentieri rifatto l’amore con lei all’infinito. Per innumerevoli volte si sarebbe perso nei suoi occhi di zaffiro
sino a smarrire la ragione, finché ogni cosa al mondo non avesse perso significato.
E si accorse che quel momento - quel preciso istante, muto e tenue come il sole dell’aurora sorto da poco - era la
perfezione.
Che avrebbero potuto promettergli oro, titoli, potere, ma ogni offerta sarebbe caduta al suolo e si sarebbe frantumata
in mille rozzi cocci, perché mai e poi mai avrebbe ceduto Eve.
Lui e lei, e tutto il mondo fuori. Ed allora sarebbe anche potuto sopraggiungere ogni sorta di avvenimento, ma era
sicuro di essere in grado di superare qualsiasi cosa, finché le proprie dita restavano intrecciate a quelle della mano
lattea della sua donna.
Racchiuse quel pensiero, quell’attimo di empireo nei propri occhi e nelle proprie mani, che ora avevano raggiunto il
volto della compagna come a volerla rendere partecipe di tanta luce.
- Che... ore sono?- gli occhi della ragazza si erano aperti, investiti dai raggi del mattino. Se li coprì repentinamente con
le braccia, strofinandoseli e sbadigliando.
Ken sorrise, poi si mise a sedere per permetterle di stiracchiarsi, non senza trovarla adorabile come una bambina,
mentre tirava un lungo sospiro e poi un nuovo sbadiglio, stropicciandosi le palpebre con le dita.
Solo dopo qualche istante rivolse il proprio sguardo azzurro a lui, ancora a petto nudo con il bacino coperto dal
lenzuolo spiegazzato. I lunghi capelli corvini gli poggiavano dietro le spalle, sebbene qualche ciocca raminga se ne
stava placida e silenziosa oltre il suo torace, a raggiungergli i pettorali marcati.
Fu sicura di doversi abituare in qualche istante a quella visione da favola per non cadere vittima di un infarto
improvviso. Scosse il capo tra sé, poi il portiere parlò.
- Le sei e qualcosa.- riportò il dato che la sveglia galeotta di qualche tempo prima gli comunicava dal comodino.
Eve si alzò di scatto, tentando di razionalizzare un orario tanto improbabile e così facendo il lenzuolo le scivolò di
dosso, lasciandola a busto scoperto.
- Oh, cavolo...- si affrettò a recuperare almeno il copriletto nel tentativo di ricoprirsi, ma le mani di Ken furono più
veloci, chiudendosi a coppa sul suo seno.
- Va meglio, così?- con il volto a pochi millimetri dal suo naso, Wakashimazu curvò la bocca da un lato, nel sorriso
malandrino che poche ore prima aveva sfoggiato nello sfilarle il reggiseno con le labbra.
La bionda assunse uno strano colorito vermiglio, poi tentò di liberarsi dal tocco scherzoso - ma non troppo - del
compagno.
- Ah, piantala, turpe, impudico, licenzioso portiere!- lo scacciò, scoppiando in una risata divertita. Lui la seguì a ruota,
schermandosi il volto dai leggeri colpi che la compagna aveva preso amabilmente ad inferirgli.
La afferrò per un polso, ma Eve fu più veloce, alzandosi sulle ginocchia e spostandosi rapidamente alle sue spalle,
addossandosi con tutto il proprio peso alla sua schiena.
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Ken trasalì di nuovo, avvertendo ben tangibile il suo seno premersi e deformarsi contro le proprie scapole, mentre lei,
ben consapevole di aver sortito l’effetto desiderato, sorrideva maliziosa.
- Buongiorno.- sussurrò sulle sue labbra, una volta che si fu voltato ed ebbe incontrato il volto di Eve contratto in una
compiaciuta espressione infantile.
- Ciao, gattino.- rispose lei, accarezzandogli i capelli e raccogliendoli in un codino scomposto con entrambe le mani, poi
si sporse ed intrecciò le sue labbra alle proprie.
- Ci vorrebbe una doccia...- accennò lui, alzando un sopracciglio e lo sguardo verso il soffitto.
- Una doccia...?- ripeté Eve, affondando nuovamente le mani tra i capelli neri di lui, arruffandoli come tanto amava
fare - Ah, ma lo vedi che allora sei davvero turpe, impu...Ma Ken la interruppe, caricandosela dov’era sulle spalle e stringendole le braccia accanto al proprio volto divertito.
- Mi stai dicendo forse che non ti va di essere turpe, impudica e licenziosa con me?- la incalzò con un’espressione
stuzzicante.
Lei cacciò la lingua, poi gli circondò la vita con le gambe, aggrappandosi ben salda e dando un colpo di bacino.
- Nossignore, mi va eccome, signore!- Credo di avere fame.- annunciò Eve, una volta gettata un’occhiata all’orologio a muro della cucina.
Ken si sistemò la maglia scura e si portò una mano ad un fianco, sorridendo. Era stata una doccia piuttosto lunga, dal
momento che le lancette segnavano già quasi le dieci.
- Andiamo a vedere i ciliegi?- chiese poi, con occhi speranzosi - Vedrai che ci sarà anche qualcosa da mangiare!La bionda gli tirò una pantofola dal divano, ridendo di gusto.
- Tu pensi di mangiare a ufo da qualche conoscente incontrato lì per caso?- fece, incrociando le gambe sul sofà e
assottigliando lo sguardo. Wakashimazu le si avvicinò - dopo aver piuttosto ovviamente afferrato al volo la ciabatta e le accompagnò una gamba di nuovo al suolo.
- Prego, principessa.- gliela fece calzare di nuovo, accovacciandosi poi sul tappeto ed appoggiando il mento sulle sue
ginocchia.
- Mh, adesso che ci penso... Kojiro ed Ayame dovrebbero essere sulla buona strada per l’hanami, a quest’ora.- Questo sì che si chiama caso del destino!- scherzò il portiere, cingendole scherzosamente il bacino con le mani.
- Direi che però non possiamo interromperli, voglio dire, che facciamo? Piombiamo lì e tronchiamo la favola?- Eve era
pensosa, la vetrina di piatti e tazze di porcellana dinnanzi a lei rifletteva il suo sguardo assorto.
- No, ci organizziamo.- replicò Ken, con un’alzata di spalle - Mi vuoi dire che non sai mettere insieme due tartine?Eve si sfilò di nuovo la pantofola, stavolta per colpire il compagno dritto in fronte.
- Non provocarmi, tesoro.- lo ammonì con una seconda botta in testa.
Ma Wakashimazu rise, disarmandola ed afferrandola per un braccio. In pochi passi lasciarono il piccolo divano e
raggiunsero la credenza, la quale in un momento sfornò pane, salse e condimenti per tutti i gusti.
Nonostante non potessero cuocere riso, pollo e pesce in poco tempo e sperare anche di poter arrivare puntuali per
pranzo, si concessero un’insalata fresca e si impegnarono a farcire secondo fantasia il pane per i tramezzini,
tagliandolo in piccoli pezzi.
La ragazza si pulì le mani con lo strofinaccio e richiuse la prima serie di stuzzichini, soddisfatta. Doveva ammettere che
Ken aveva avuto un’idea proprio carina, sebbene non fosse da lei partecipare ai romantici pic nic di primavera. Ma
dopotutto l’hanami rappresentava un’ottima occasione per trovarsi di nuovo insieme e godersi una mattinata di riposo,
divertendosi con l’intero gruppo di amici che avrebbero trovato già ai giardini.
- Oh, caro, lo sai che sei proprio un tipo romantico?- sorrise poi, tentando l’imitazione di un ruolo da telenovela.
- Mh...h?- fu la risposta bofonchiata che le arrivò dal portiere, con un pezzo di tartina in bocca e l’altro già giù per
l’esofago. Eve spalancò la bocca e lo colpì poco gentilmente con pugno su un braccio.
- Sì ma non te li devi mangiare tutti adesso! Ecco perché mi pareva diminuissero!Ken deglutì, soffocando una risata e tentando di non soffocare da sé.
- Scusami, ma anch’io ho una fame!- si giustificò, con l’aria bonaria di chi non sta facendo nulla di sbagliato.
- Scusami un cavolo! Vieni qua e risputa tutto!- lo afferrò per il collo, una banale scusa come un’altra per averlo di
nuovo inesorabilmente vicino.
- No... ehi, Eve, andiamo... non vorrai rovinarti la mattinata, inaugurando la giornata all’insegna di tartine vomitate,
vero?- ribatté lui, ridendo e cercando di dissuaderla con un metodo non proprio raffinato.
- Scommettiamo?- ripeté la bionda, aggrappandoglisi al torace ed avvertendo le sue mani sulle anche.
- Oh, dai, non essere così dura con me... faccio tutto quello che vuoi.Eve assunse un’espressione strafottente.
- Mi sembra che tutto quello che ho voluto tu l’abbia appena fatto nella doccia.- E non ti interessa replicare?- sussurrò Wakashimazu, con la sua aria accattivante che la mandava in estasi - Mi
perdoni?Le posò un leggero bacio sulla bocca, poi si soffermò a succhiarle il labbro inferiore, mentre lei gli sfiorava di nuovo gli
addominali con le dita, sotto la maglietta.
La bionda approfittò di quell’attimo in cui i loro volti si allontanarono lievemente per ripiegare le labbra indentro e
riassumere un piglio meditabondo. In un istante spalancò di nuovo gli occhi azzurri e gli rivolse uno sguardo sinistro,
prima di rimettersi a urlare.
- Ti sei mangiato la mia prima tartina con le olive!- strillò, mentre si scostava e le mani di Ken finivano di nuovo
inevitabilmente all’altezza del proprio seno - E la vuoi smettere di palpeggiarmi?!Il roseo riflesso dei petali di ciliegio appena sbocciati si disperdeva soave per tutto il parco, in netto contrasto con il
verde smeraldino dell’erba novella del prato, sul quale erano distese numerose coperte e tovaglie.
Diverse persone avevano già iniziato a pranzare, i cestini aperti ed il proprio piccolo spazio imbandito.
- Eve, sei ancora arrabbiata?- Ken trotterellò accanto alla ragazza, che reggeva il paniere in vimini ricolmo di sandwich
e salatini.
- E me lo chiedi?! Potevi almeno domandarmi il permesso! Io non faccio tartine gratis!- quella arricciò il naso,
muovendo i primi passi verso il centro della riserva.
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- Ma tanto poi ce le saremmo mangiate lo stesso!- protestò il portiere, portandosi le mani dietro la nuca e beandosi dei
raggi del caldo sole di mezzogiorno che, tenui e rilassanti, si proiettavano verticali tra le fronde degli alberi signori
della primavera, creando deliziosi contrasti d’ombra e luce sui volti degli occupanti, illuminando i loro sorrisi e
rischiarando i loro brindisi.
- Già, ma sotto i petali di ciliegio... ah!- Eve fece gli occhi languidi, come in una perfetta recita nei panni della donzella
medievale - Come infrangere le speranze di una fanciulla romantica!Wakashimazu rise, facendo ben udire la propria spensierata voce maschile.
- Andiamo, tu non sei romantica!- Ripetilo e...- Salve ragazzi!- un tono più esile e docile li interruppe. I due si voltarono ed i loro occhi incontrarono quelli scuri e
splendenti di Ayame, che sorrideva dolcemente sotto la tesa di un elegante cappello bianco.
La camicia dello stesso colore contribuiva a renderla brillante come un gioiello e la corta gonna a pieghe, sopra un paio
di sandali candidi, le stringeva con morbidezza la vita snella.
- Ciao, Aya!- Eve colta di sorpresa, fu molto contenta di vedere l’amica che non aveva avuto occasione di incontrare da
tempo.
- Ehi.- Ken alzò una mano in cenno di saluto, accompagnandolo con un sorriso.
- Che succede? Non ditemi che stavate litigando di nuovo!- ripeté la nuova venuta, scuotendo il capo e coprendosi le
labbra con una mano, mascherando un raffinato riso.
- In verità stiamo litigando.- Eve non mancò di lanciare un’occhiata di fuoco al suo portiere.
- Che ha combinato stavolta, Wakashimazu?- fece Kojiro, avvicinandosi al terzetto con le mani affondate nelle tasche
dei pantaloni neri.
- Ma senti un po’! Perché partire sempre dal presupposto che sia stato io a combinare qualcosa?!- si lamentò Ken,
arricciando le labbra.
- Perché è vero!- esclamò la bionda, alzando gli occhi al cielo, poi assunse un’aria da cucciolo bastonato - Si è
mangiato le mie tartine...Ayame scoppiò a ridere, mostrando una fila di perfetti denti bianchi e distendendo le labbra lucide.
- Cosa?- si trovò a domandare tra le risa, tenendosi gentilmente la pancia e facendo dondolare il cestino del pranzo
che portava appeso ad un braccio.
- Okay, okay. Adesso basta con la commedia o vi facciamo internare. Volete venire con noi?- sorrise poi,
ricomponendosi e lisciandosi la lunga treccia di capelli castani che giaceva morbida sulla sua spalla sinistra.
Ken ed Eve si scambiarono uno sguardo di resa, deposero le armi ed annuirono. Poi la bionda si avvicinò a lui e lo
prese sottobraccio.
- Mi aspetto davvero che tu faccia quello che voglio, sai?- sussurrò, socchiudendo gli occhi.
Il compagno le sorrise, mettendole l’altra mano su uno zigomo e tirandole la guancia.
- Lo so.- fu la sua risposta, ben lungi dall’essere rammaricata.
Stavano per raggiungere il luogo che avevano scelto Kojiro ed Ayame, quando la ragazza si bloccò fissando un punto
ben preciso al di là di un’allegra famigliola e di un paio di coppie intente a gustarsi della frutta.
- Che c’è, Eve?- chiese Aya, mentre la bionda si voltava verso di lei per incontrare anche lo sguardo interrogativo di
Hyuga, che tentava di scrutare nella sua medesima direzione, così rivolse di nuovo gli occhi a ciò che le pareva di aver
scorto qualche secondo addietro; che strano, le pareva di aver visto...
- Ehi, ragazzi...- cominciò.
- Ma quello non è Takeshi?- Kojiro concluse la frase, cogliendo nel segno.
- Dove? Dove?- il portiere si avvicinò curioso al tronco di ciliegio al quale si era appoggiata Eve con una mano, mentre
con l’altra si faceva schermo agli occhi, oltre la frangia trattenuta da un finissimo cerchietto nero.
Finalmente anche lui scorse ciò che i suoi tre amici stavano già osservando più straniti che mai da qualche attimo.
Tentò di trattenersi, ma ahimé non fu capace di frenare una nuova, cristallina risata, talmente divertita da fargli venire
le lacrime agli occhi.
- Oh, Ken non è carino ridere così di lui!- lo rimproverò Ayame, con il suo tono premuroso - Vero, Koji...Fece per voltarsi verso il cannoniere, ma anche lui era partito in una risata interminabile. Eve rivolse loro un’occhiata
distratta: Wakashimazu era oramai in preda alle convulsioni, completamente addossato al ciliegio si teneva l’addome
con entrambe le mani, mentre Hyuga si era portato una mano sulla fronte e l’altra su un ginocchio, piegato quasi in
due.
Così si voltò nuovamente verso il motivo di tanta ilarità, mettendo bene a fuoco: nemmeno lei ce la fece a mantenere
un’aria diplomatica ed esplose in una risata fragorosa.
C’era di che scommettere, chi non avrebbe trovato comica una scena del genere? Una fin troppo familiare ragazza dai
lunghi capelli ricci vestita con un vaporoso vestito sui toni pesca stava facendo le fusa ad un ragazzo dai corti capelli
neri e grandi occhi del medesimo colore.
Lei, la grande Mizuki, colei che avrebbe dovuto adescare sia il celebre karate keeper Ken Wakashimazu, che il glorioso
capocannoniere della nazionale Kojiro Hyuga, accucciata come un micino a fare le fusa a quel ragazzino! E Takeshi
felicemente allettato, raccoglieva ogni forchettata che gli porgeva, sciogliendosi in un’espressione a dir poco
sofferente, ma sorridendo di buon grado. Awashida non doveva proprio essere una grande cuoca...
- Su, basta ridere! Non è carino!- ripeté Ayame, con un mezzo sorrisetto represso. Quando i tre si furono ripresi dallo
shock e dal conseguente attacco di risa, poterono riprendere fiato.
- Che ne dite se andiamo a fargli una visitina?- propose Ken, con un’aria poco raccomandabile.
- Conta su di me!- gli fece eco Kojiro, battendosi un pugno su una mano.
- No, asp...- inutile richiamarli, erano già partiti in quarta. Beh, di sicuro si sarebbero divertiti un mondo a prendere in
giro il loro compagno, Eve sospirò, riprendendo un colorito normale.
- Andiamo anche noi.- disse all’amica, che si chinò a raccogliere la tovaglia previamente stesa per sé e il suo capitano
e si preparò a seguirla sorridendo.
- Tutto bene? Sono giorni che non ci vediamo, la consulta scolastica mi tiene tanto occupata.- si rammaricò,
portandosi un dito sulle labbra, mentre la bionda le reggeva il cestino.
- Tutto bene.- annuì, sorridendole di rimando - E tu? Finiranno prima o poi, le riunioni del consiglio?123
- Oh, sì.- annuì l’altra, ripiegando il telo a quadretti rossi ed appoggiandoselo su un braccio - Domani abbiamo l’ultimo
incontro, stiamo cercando di migliorare i corsi pomeridiani, sai, i club sportivi vanno che è una meraviglia, ma ho
notato che per le ragazze meno attive ci sono poche possibilità di partecipare ad un’attività integrativa, quindi...riprese il cesto tra le braccia, ringraziando Eve con un cenno del capo - ...ho proposto un corso di ikebana ed uno di
cucina.Sembrava soddisfatta, con la sua aria compiaciuta e modesta pareva davvero deliziosamente appagata.
- Attenta o rischi di farti eleggere presidentessa!- rise la bionda, portandosi una mano all’anca scoperta ed
appoggiandola alla cintura marrone scuro che le stringeva i jeans piuttosto in basso.
- In verità credo mi abbiano giusto eletta aiuto responsabile un paio di giorni fa, devo ancora abituarmi all’idea!replicò Aya, raggiante ed esclamandolo docilmente.
La cosa più bella era stata incontrare per caso Ken ed Eve, quella mattina. Le mancava poter trascorrere qualche ora
in compagnia dei suoi amici ed il destino aveva voluto premiarla, ripagandola del tempo perduto - o almeno così le
piaceva pensare.
Kojiro e Ken, intanto, avevano raggiunto i due bersagli e si stavano scambiando un cenno d’intesa piuttosto
preoccupante.
- Ehi, signor Sawada!- il portiere gli tirò una pacca sulla spalla e Takeshi per poco non cadde lungo e disteso.
- Oh?! Ken? Ma sei matto?! Lo vuoi uccidere?!- saltò su Mizuki, lanciando un’occhiataccia al diretto interessato e
preoccupandosi di sorreggere il povero malcapitato.
- Niente paura, lo vedi, si è già ripreso!- sorrise il portiere, strizzando l’occhio.
- Credo ci sia abituato, ormai!- disse Kojiro, un’accorta frecciatina alle maniere non poco rudi della ragazza.
- Sa... salve ragazzi. A cosa devo la vostra visita?- balbettò il centrocampista, scuotendo il capo e ravviandosi il ciuffo
di capelli scuri.
- Nulla di particolare, siamo qui per vedere i ciliegi.- Wakashimazu aveva alzato le spalle ed infilato le mani nelle
tasche posteriori dei pantaloni.
- Tu, con... lui...?- la questione sorpresa di Mizu fu accompagnata da un’occhiata smarrita rivolta a Hyuga. Ken e
Kojiro si scambiarono di nuovo uno sguardo in contemporanea.
- Che...? No!- fecero all’unisono, mettendo le mani avanti e venendo scossi da un brivido all’inevitabile immaginarsi un
languido pic nic tra portiere e capitano, tutti pizzi e merletti ed intenti a tenersi la mano, imboccandosi a vicenda.
- Ciao ciao, ragazzi!- l’arrivo di Eve, fortunatamente, fece scoppiare la bolla di sapone che aleggiava sopra le loro teste
e che conteneva quel pensiero a dir poco raggelante.
- Mizuki! Takeshi!- il saluto di Aya giunse alle loro orecchie pochi secondi appresso.
- Ah, ecco!- la compagna alzò gli occhi sollevata, poi rispose al saluto con enfasi - Ciao, signorine!E così l’intero gruppo si sistemò assieme ai due, pronto a trascorrere un piacevole pomeriggio, come da tempo non
capitava.
Si richiuse la porta alle spalle e si apprestò a lasciare le scarpe da ginnastica oltre il basso gradino in legno, poi si sfilò
la leggera giacca bianca e l’appese provvisoriamente al corrimano della scala.
- Dove sei stata, tutta la notte?- una voce maschile perentoria la raggiunse immediatamente, facendola sobbalzare.
Eve dovette reggersi allo stipite della porta per sbirciare in salotto, dove il fratello era comodamente semi sdraiato sul
divano con una rivista tra le mani ed i talloni appoggiati al basso tavolino scuro.
- Ah, sei tu! Pensavo aveste assoldato un serial killer!- rise poi, raggiungendolo ed appoggiando la borsetta sul divano,
poco lontano da lui - Sai, uno di quelli che saltano fuori non appena varchi la soglia!- Ev, dove sei stata?- ripeté Dex, piegando un capo della rivista per farvi capolino da sopra e lanciare alla sorella
un’occhiata severa. Quella assottigliò lo sguardo, nonostante tutto beandosi della tenera apprensione di lui.
- Dal mio ragazzo.- rispose, cacciando la lingua con fare malizioso - E stamattina c’è stato l’hanami.Dexter rilassò le palpebre, curvando le labbra da un lato e calcandosi meglio sulla testa l’inseparabile cappellino da
baseball con la stampa stilizzata del volto di Luis Aparicio.
- Abbiamo vinto, sai?- esordì di nuovo, decisamente sollevato di sapere Eve con Ken.
- Un ottimo cinque a tre.- annuì la ragazza, addossandosi al bracciolo - Ed un’ottima partita.- gli strizzò l’occhio,
ovviamente riferendosi all’incontro di baseball che la squadra del Toho aveva sostenuto due pomeriggi prima ed alla
quale lei, altrettanto ovviamente, aveva avuto occasione di assistere dalla prima fila.
L’unica cosa di cui si dispiaceva era il non aver avuto occasione di incontrare il fratello da allora a causa dei
festeggiamenti che erano seguiti e del fatto che Dex aveva ben pensato di restare a letto a poltrire per ovviare alla
fatica compiuta, saltando un giorno di scuola da bravo studente modello. Ma nonostante tutto - e forse anche forte
della sua aura selvaggia ed apparentemente disinteressata - era molto popolare tra le ragazze, come Mizu le aveva
giusto ripetuto per la centesima volta, quella mattina.
- Grazie.- rispose lui, lievemente imbarazzato ma col volto ben coperto dalla visiera. Eve si sporse giusto quel poco che
bastava per alzargliela con un dito e sbirciare il suo lieve rossore, accompagnando il gesto con un sorrisetto addolcito.
- Sarà ora che cominci a farti la barba, sai, per le foto dell’annuario e l’ingaggio dei White Sox!- scherzò, pizzicandogli
un braccio.
- Come no!- ribatté il ragazzo, lanciandole rapidamente un piccolo oggetto che Eve si impegnò inaspettatamente ad
accogliere tra le mani, per evitare che cadesse a terra. Quando si fu stabilizzata di nuovo sul bracciolo, aprì il palmo e
ne scoprì una fedina d’argento, liscia, semplice.
- E questo...?- gli domandò, confusa, riconoscendo l’anello che fino a quel momento era stato infilato all’anulare destro
di suo fratello.
- Te lo sto regalando.- Dex alzò le spalle, afferrandole un polso e facendoglielo calzare al pollice sinistro - L’ho preso
vicino a casa di papà, qualche settimana dopo essercene andati di qui. Un sacco di anni fa.- il suo profilo mascolino era
limpido ed assorto, di una bellezza straniera e senza voce - E’ stato... un modo per non cadere. Vuol dire famiglia.
Voleva essere una promessa a rialzarmi, per ogni altra volta che sarei caduto.Il suo sguardo di cielo, intensamente azzurro, accoglieva la luce viva del sole pomeridiano che filtrava dalle imposte
spalancate, mentre le sue braccia scolpite e scoperte erano tese a racchiudere le mani della sorella tra le proprie.
Ed in quel momento si svelò per ciò che era: gli occhi di Eve colsero lacrime, travagli, pugni e sangue.
Granitico, stoico, disperato. Incrollabile e tenace, si era ripulito la bocca e la fronte, rialzandosi sulle proprie gambe.
124
Chiudendo gli occhi dinnanzi agli incubi di adolescente segnato dal peso della morte, li aveva da poco riaperti
rendendosi conto di aver lasciato indietro angosce ed affanni dei quali a quel punto non aveva più paura - non li
temeva più.
E davanti a sé il volto della sorella - così simile al proprio e così altrettanto consapevole - lo faceva sentire di nuovo
parte di qualcosa per cui sarebbe valsa sempre e per sempre la pena lottare.
- Adesso ci sei tu.- concluse, un sorriso in segno che, ormai, delle cicatrici del suo cuore non rimanevano altro che le
ombre.
La Rama l’avrebbe sentita una volta per tutte! Oh, se l’avrebbe sentita!
Giurò, era l’ultima volta che si faceva convocare nel suo ufficio, rimanendo incastrata a causa di pressioni trasversali.
Quella volta si sarebbe trattato di ritirare le ultime lettere arrivate in settimana da parte dei sostenitori, la maggior
parte la ringraziavano ancora per aver vinto l’oro giapponese e le riservavano frasi accorate riguardo la sua oramai più
che antica decisione di lasciare l’atletica.
Eve temeva si trattasse di uno stratagemma dell’ex allenatrice per tentare di ricondurla un’ennesima volta all’ovile, ma
stando a quanto diceva Kojiro - paradigmatico esempio di chi riceveva sempre migliaia di missive anche dai fans più
improbabili - la quantità di messaggi spediti era sempre elevata anche per chi dallo sport si era ritirato, o perlomeno
così sarebbe stato per un certo periodo di tempo durante il quale il carico sarebbe andato lentamente e sempre più
attenuandosi.
Così in quel momento si trovava a camminare lungo il viale alberato del cortile, diretta nuovamente verso l’ingresso e
proprio verso il termine delle lezioni, essendo stata ragguagliata all’ultimo momento dalla frizzantissima Hina - a dire il
vero un po’ meno frizzante di come la ricordava da quando le aveva consegnato lo scatolone di cioccolata a San
Valentino, ma certo non biasimabile dopo aver affrontato più di tre mesi di allenamenti con la rossa preparatrice
atletica.
Mentre una brezza tiepida le scompigliava la frangia e lei faticava ad infilarsi di nuovo tra i capelli le forcine che aveva
appena tolto e maledicendosi per aver avuto un’idea così balzana nel bel mezzo di una raffica di vento, le sue
imprecazioni mentali furono interrotte da una piacevole e conosciuta voce che la raggiunse alle spalle.
- Ehi!- fu contenta di incontrare l’atletica figura di Wakashimazu farsi sempre più vicina - Guai?- le domandò,
ritoccandosi le maniche della camicia della divisa che portava sempre arrotolate agli avambracci.
- Hai saputo che vado dalla Rama?- rispose lei, finalmente riuscendo nell’impresa di sistemarsi l’ultima molletta e
risultandone ancor più scarmigliata di prima. Tuttavia decise di non ritentarci, onde evitare ulteriori danni.
- Kojiro mi ha detto che vi siete incontrati poco fa.- annuì il ragazzo, soffiandosi la frangia sopra gli occhi.
- Credo stia andando a fare quattro tiri al campo, oggi è libero.- fece di nuovo Eve, fermandosi ed aggrappandosi al
colletto del compagno, sistemandogli i primi bottoni, che teneva perennemente aperti - Ah, ma guarda, e poi ti lamenti
se ti scambiano per un bullo di quartiere, ribelle che non sei altro!- aggiunse, ridacchiando e accennando allo stato
della camicia di Ken, oramai irrecuperabile.
Il portiere fece per replicare, quando un’improvvisa esclamazione fece quasi tremare la terra sotto i loro piedi.
- Wakashimazu!- tuonò un tono un po’ tremolante, ma che risultò tuttavia rigido e categorico alle orecchie dei due.
La bionda si voltò si scatto ed i suoi occhi furono in un attimo rivolti alla sagoma di un uomo non troppo alto, dagli
arruffati capelli castani ed un’aria che non seppe se classificare tra l’ebbro o il severo.
- Ken, lo conosci?- alzò un sopracciglio, ma il ragazzo pareva averlo già riconosciuto.
- Mister Kira!- esclamò.
- Mister Kira?- fece lei.
- Mister Kira.- annuì il diretto interessato.
Ad Eve parve per un attimo di far parte di un siparietto comico piuttosto malriuscito.
- Salve Wakashimazu, ci diamo da fare, mh?- un’uscita piuttosto infelice, Kozo Kira si guadagnò un’occhiataccia da
parte della bionda.
- Come sarebbe ‘ci diamo da fare’, ma con...- fortunatamente i riflessi felini del portiere riuscirono ad evitare un
turpiloquio, tappando in tempo la bocca alla ragazza ed accompagnando il gesto con un sorriso di circostanza.
- Buona, peperino!- l’uomo si fece avanti, alzando le mani in segno di spiritosa difesa - Ma dove te la sei trovata, ad
uno di quei match clandestini a scommesse, eh?- si rivolse a Ken, oramai a pochi passi da lui.
- Non dica così, mister. Eve è molto dolce, se vuole!- replicò il giovane, tentando di calmare lo spirito facinoroso della
compagna.
- Già, ma il problema delle donne è proprio sperare di prenderle nel momento in cui si fanno docili.- rise il nuovo
venuto, sul suo volto un’espressione accorta - Quindi si chiama Eve?- i suoi occhi scuri si riflessero in quelli oltremodo
insoliti della ragazza - E cos’è, tedesca?- No, sono biologicamente modificata!- fu la tentata risposta di lei, ma ciò che trapelò da dietro il palmo della mano di
Ken fu solo un sordo bofonchiare.
- Che dice?- il mister alzò lo sguardo negli occhi di Wakashimazu.
- Che è europea.- fece celermente quest’ultimo, serrando ancora di più la stretta.
- Oh, beh.- Kira fece spallucce con l’aria di chi se n’era accorto da un pezzo e che la sua non era stata altro che una
frase per far conversazione - Sai dov’è Kojiro?- chiese poi, tornando a parlare col portiere che, in tutta risposta, gli
fece cenno con il capo.
- Al campo, si allena come sempre.- Bene, sono qui per fargli una visitina.- informò, voltando i tacchi - Ci si vede, Wakashimazu! E... ciao-ciao Eve!Finché non si fu allontanato, Ken non diede cenno di volerla lasciare andare, tenendo ben stretta la sua bocca alla
propria mano. Poi, quando l’uomo fu abbastanza lontano, lasciò la presa - soprattutto forte del fatto che Eve pareva
aver adottato la strategia dell’aggrapparsi al suo robusto avambraccio ed aver cominciato a scalciare furiosa.
- Ma dico, volevi uccidermi?! Hai sentito, mi ha dato della teppista di strada!- la bionda poté finalmente riprendere
fiato, non senza esordire in un’esclamazione contrariata.
- Lascialo perdere, è sempre un po’ ubriaco, però infondo è stato il mio primo maestro.- si difese e lo difese,
rassettandole la casacca della divisa blu.
- Ah, ecco! Ora si spiega perché sei cresciuto così!- ribadì lei, portandosi le braccia al petto, alzando il mento ed
arricciando il naso, voltandogli infine le spalle.
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- Ah-ah.- Ken si cimentò in una breve risata sarcastica - Guarda che posso sempre richiamarlo.Ma Eve si era già voltata verso di lui e gli aveva circondato l’ampio torace con le braccia, prendendo a strofinare una
guancia contro i suoi pettorali.
- No no no no no! Faccio la brava!Eve uscì dall’istituto sbuffando.
Scosse il capo, non sapeva se ridere od alterarsi.
La Rama non si era smentita: dopo averle consegnato il pacchetto di lettere - che dal canto suo si era affrettata a
ficcare nella cartella per alzare i tacchi in maniera rapida ed indolore - l’aveva trattenuta, partendo in quarta con udite udite - preghiere esplicite per persuaderla a rientrare nel team di atletica.
Avrebbe scommesso un patrimonio che la volta successiva sarebbe arrivata ad offrirle dei soldi.
Scosse di nuovo il capo, uscendo dal parapetto e superando il cancello, mentre la luce carminia del sole delle cinque
annunciava un tramonto quasi prossimo.
Ken era tornato al dojo, l’aveva pregato di non aspettarla, dal momento che partiva certa e prevenuta sul fatto che
l’incontro nell’ufficio dell’ostinata ex-allenatrice sarebbe andato per le lunghe - e difatti così era stato. Mihoko aveva
cominciato ad addurre un sacco di scuse non troppo originali ed a utilizzare un sacco di espedienti come la necessità di
mantenere in auge il nome dell’istituto Toho, che da sempre sfornava grandi campioni, oppure il bisogno di superare i
record già precedentemente battuti, per riconfermarsi primatisti assoluti.
Beh, se lo diceva lei. Fatto stava che ad Eve era parsa tutta più o meno come la descrizione di una trovata
commerciale nemmeno molto furbescamente mascherata.
Così, nell’impossibilità di prendere la parola per congedarsi durante quelle rare pause che la donna aveva fatto per
respirare, la bionda aveva colto al volo l’occasione in cui quella si era voltata con le mani incrociate dietro la schiena ed
il volto alzato a scrutare oltre il cortile in una posa epica da grande mentore, per darsela letteralmente a gambe - cosa
in cui, tra l’altro, era ancora piuttosto brava.
Ora si stava giusto chiedendo se la Rama si fosse accorta della sua assenza, dal momento che aveva ben pensato di
non richiudere la porta alle proprie spalle per evitare di attirare l’attenzione e scatenare un rocambolesco
inseguimento, oppure era ancora lì che vaneggiava davanti al vetro della sua finestra.
- Eve!!- la ragazza sobbalzò, considerando che quella voce l’aveva già interrotta qualche tempo prima, quello stesso
pomeriggio. Le bastò voltarsi per veder concretizzarsi la propria ipotesi.
- Oh.- fece con rassegnazione, considerando ingiusto il fato nei suoi confronti, dal momento che era appena riuscita a
scansare una seccatura con tanta maestria.
- Non fare quel faccino triste! Un goccio di questo e tornerai a brillare!- Kozo Kira era comodamente seduto a gambe
incrociate su una panchina poco distante ed aveva giusto estratto una piccola fiaschetta metallica dalla tasca interna
della giacca.
- Metta via quella bottiglia!- Eve lo raggiunse, ricacciandogliela nella casacca - E poi lei mi sembra brillare già troppo!L’uomo rise, slacciando le gambe ed appoggiandosi coi gomiti alle cosce, lievemente chinato verso il basso.
- Un po’ di più non fa male a nessuno!- alzò le spalle, i suoi occhi scuri avevano preso a scrutare il volto della ragazza
con uno strano senso di famigliarità.
- Oh, beh, a parte al suo fegato.- ribatté lei, alzando il volto al cielo e facendo per tirare dritto per il viale.
- Aspetta.- la frenò, l’espressione rilassata ed il dorso ancora semi chinato verso le proprie ginocchia.
L’altra si voltò per incontrare di nuovo l’aria serena ma posata dell’ex allenatore del Meiwa. La barba incolta e le
palpebre lievemente serrate, sembrava quasi attendesse lei, dinnanzi alle autovetture che transitavano piuttosto
spedite ed il debole cantare di qualche uccello solitario tra i rami che li sovrastavano.
- Posso scambiare due parole con te?- fu la strana richiesta che giunse alle sue orecchie.
Eve si trovò dapprima a resistere all’impulso di guardarsi alle spalle per controllare che non ci fosse nessun altro dietro
di sé con cui potesse avercela il sedicente mister Kira ed infine decise di annuire, sebbene poco convinta, ma in virtù
del fatto che, dopotutto, quello era stato il primo maestro di Ken per quanto riguardava il calcio - e, se non per
interesse, almeno per rispetto avrebbe dovuto dargli un pochino di corda.
- E così, tu e Wakashimazu ve la intendete, eh?- esordì di nuovo quello, guadagnandosi una nuova occhiata in
cagnesco da parte dell’improvvisata interlocutrice, proprio mentre prendeva posto sulla panchina accanto a lui.
- Se la vuole mettere su questo piano, non la contraddico.- sospirò, la ragazza, considerando che avrebbe forse fatto
meglio a trattenersi, poiché al momento non c’era nessun aitante portiere a tapparle la bocca.
- Una volta era un ragazzino spocchioso che pensava che il karate fosse l’arte suprema su tutte.- si strinse nelle spalle
con quel suo fare dottorale, ma d’altra parte ben consapevole d’essere nel giusto.
- Chissà come mai me l’aspettavo...- Eve poggiò la cartella sulla panca in legno accanto a sé e si portò le mani dietro
la nuca, stiracchiandosi con un sorrisetto dispettoso.
- Beh, tu lo conosci meglio di me, immagino.- le lanciò un savio sguardo - Più intimamente, se capisci cosa intendo.- Sì, sì, non soffermiamoci.- tagliò corto lei con un gesto della mano, lasciando correre il fatto che Kira avesse appena
calcato l’accento sull’avverbio qualificativo. L’altro scoppiò a ridere, coprendosi la fronte e tirandosi su ad addossare le
spalle al poggiaschiena.
- Ah, devi scusarmi! Non sono mai stato molto attento ai doppi sensi!- scosse il capo, riuscendo a domare le risa Comunque non intendevo intendere quello che tu hai inteso.- La cosa mi rincuora.- fu la replica in tono piatto e decisamente per nulla convinta, ma piuttosto sarcastica che gli
arrivò dalla ragazza.
- Dicevo, sembri conoscerlo bene.- riprese l’uomo, ancora sotto l’effetto di qualche sporadica risatina a singhiozzo L’ho visto come vi guardavate.- E questo che significa!?- il tono di lei suonò leggermente contrariata, come a voler ben sottolineare di non essere il
genere di ragazza che si mangia con gli occhi il proprio compagno davanti a tutti. Ma Kira alzò di nuovo le spalle,
noncurante.
- Sembra condividiate un sacco di segreti.Ed Eve perse d’un tratto le parole.
Ogni cosa cadde in perfetta ed imprevista sincronia con un fiore bianco dall’albero che la guardava dall’altra parte della
strada. I petali ne sfiorarono l’asfalto con la delicatezza di un batuffolo di cotone, per poi venir trascinati via dalla
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corrente d’aria generata dalla prima auto di passaggio, distratta e metallica. Ed ognuno prese la sua strada,
sfaldandosi, divenendo un’entità indipendente dallo stelo che, rimasto nudo, si andò ad adagiare mesto al margine del
marciapiede.
- Che ho detto, ti sei offesa?- la riportò alla realtà, un attimo dopo che si fu disinvoltamente sfregato le mani sulla
stoffa dei pantaloni marroni.
- Eh...? No.- la bionda scosse il capo, prendendo un gran respiro - No, era una frase bellissima.- ammise, curvando le
labbra all’interno della bocca in un sorriso infantile per non risultare imbarazzato.
- Oh, beh, cento di questi anni, allora!- l’altro estrasse di nuovo la piccola bottiglia metallica e mandò giù un gran bel
sorso di sakè - Ah, comunque, tutto il resto è storia.- riprese, asciugandosi la bocca con una manica della giacca scura
- E’ diventato un ottimo portiere, sono stato fiero di lui, i mondiali dell’estate passata sono stati assolutamente un
trionfo. Chissà se potrei tornare ad allenare...- alzò gli occhi e si fece pensoso, come fosse rimasto tutt’un tratto solo,
cominciò a parlare con sé stesso - Anche se, dopotutto, ammetto di essere stato un buon preparatore atletico. I miei
pupilli mi hanno dato tante soddisfazioni... ed immagino quante ancora ne daranno, a questo vecchio ubriacone!- rise Ah, mi sono decisamente già prenotato il mio posto in paradiso!La sua risata scomposta, ma estremamente genuina, coinvolse la mente di Eve, che inaspettatamente si era fatta
docile dopo l’affermazione di poco prima. L’aveva presa come una lusinga, un complimento sincero e affettuoso,
sebbene fosse quasi certa che Kira l’avesse buttato là come una frase qualunque.
Curvò la bocca da un lato, alzando il volto al cielo e chiudendo gli occhi. La volta versava all’imbrunire e l’ovest era
pronto ad accogliere tra le braccia il globo luminoso che si era fatto via via sempre più carminio.
- Come mai questo silenzio, tu non credi nel paradiso, peperino? Non credi che dopo la morte ci aspettino le gioie
ricompensate?- la scosse di nuovo, esclamando col fare bonario di un alticcio oratore.
La ragazza dischiuse di nuovo le palpebre e si chinò distrattamente a riassettarsi i tipici calzettoni larghi e candidi
sopra il polpaccio.
- Non è importante quello in cui credo io.- fece spallucce, con noncuranza e schiettezza, realmente ed inconsciamente
non dando troppo peso ad una questione del genere.
Ma l’uomo aveva repentinamente mutato la sua espressione cordiale in una maschera di austerità e compostezza.
- Oh, sì che lo è. Se non mi interessasse il tuo parere non ti avrei mai posto la domanda. Non sono uno che parla a
vanvera, né uno che ascolta, se non gli va. Ma ti sto chiedendo di farti ascoltare.- il suo intervento la fece di nuovo
velocemente voltare verso di sé, a tratti incredula: Kozo Kira stava lì, seduto accanto a lei con un braccio appoggiato
allo schienale della panchina ed un sorriso incoraggiante sulle labbra.
Tentennò per un istante, domandandosi se stesse realmente facendo sul serio, ma poi fu come se ogni questione si
diradasse e nulla le importasse più. D’un tratto divenne soltanto parole, voce, dimentica d’essere di carne e ossa, un
involucro che avrebbe frenato il suo esprimersi più di qualunque altra cosa.
- Io credo...- due pedoni li superarono a passi svelti - Io credo che quando moriamo ci smembriamo pezzo per pezzo
nelle cose che lasciamo. Così ogni cosa che è stata nostra, avrà un pezzo di noi. Ce l’avrà per sempre, anche se col
tempo nessuno arriverà a saperlo più. E’ un modo per rimanere. Per non far sentire soli quelli che non ci vedranno
più.Si accorse di avere un nodo in gola, nel fissarsi saldamente ma indistintamente le pieghe della gonna nera della divisa.
Nicholas e suo padre erano negli oggetti, nelle fotografie - anche in quelle che non li raffiguravano, che erano
semplicemente paesaggi d’infanzia - erano nell’aria, nella polvere, nella terra. Erano in lei.
E sarebbero potuti trascorrere anni, passare le mode e scoppiare le guerre. Sarebbe potuto finire il mondo ed essere
riseminato a partire da un nuovo, rigoglioso giardino, ma nulla mai avrebbe potuto strapparle la memoria che aveva di
loro.
Le gite al mare, i pianti sotto al letto, le strigliate e quelle interminabili risate da farsi venire il mal di pancia.
Le mani nelle mani, la faccia ruvida di papà, la mamma che gli ordinava di farsi la barba.
Le palle di neve, i guai in cucina, le sbucciature alle ginocchia, i cerotti colorati.
Le promesse mai espresse, i racconti dell’Europa, l’essere stati una famiglia normale.
- Sei proprio fatta per stare con uno dei miei ragazzi.- niente smancerie, giri di parole, incanti da signorina.
Eve alzò di scatto la testa color del grano, spalancando gli occhi e lasciando che, sul marciapiede dinnanzi a lei, anche
lo stelo di quel fiore ribelle venisse trascinato via.
Il volto del suo interlocutore aveva mantenuto quell’aria ponderata che aveva assunto quando le aveva posto la prima
questione. Ora, lento e quasi andando dipingendosi da sé, un sorriso accennato ma equilibrato era disteso sulle sue
labbra sovrastate dal velo incolto della barba.
Lei non aggiunse nulla, si limitò a prendere un gran respiro e chiudere di nuovo gli occhi, come a ricacciare indietro le
lacrime di malinconia che le erano salite fino a quasi oltrepassare le palpebre ed a non dare a vedere che erano lì lì per
palesarsi.
- Beh, mi scuserai, ma ora devo proprio scappare. Ho un treno che aspetta proprio me.- Kira si alzò facendo leva sulle
ginocchia, poi si stiracchiò lievemente e tornò a fissare il volto bianco di Eve.
- Buon viaggio.- furono le sue parole, lievi e impalpabili come neve, accompagnate da un sorriso dai toni caldi sulla
sua bocca acquerellata dal sole della sera.
L’uomo annuì e le rivolse un ultimo cenno, prima di voltarle le spalle per prendere a camminare con serena flemma
verso la stazione, le mani affondate nelle tasche ed il volto appena rivolto insù a godersi il calore degli ultimi raggi. E
mentre spariva giù dalla discesa, Eve si trovò a considerare quanto le apparenze si mostrassero illusorie e quanto
quell’uomo fosse ben degno d’essere stato mentore delle tre stelle unite dal Meiwa e ancora brillanti nel Toho: Hyuga,
Wakashimazu e Sawada.
CAPITOLO 17 – La nuova manager
Per l’ennesima volta si stava recando al campo per gli allenamenti, sotto il sole tenue del pomeriggio e con il borsone
che gli pendeva da un braccio, mentre la cartella scura era caricata su una spalla.
Procedeva con flemma, la lunga chioma nera appena smossa dal vento e diverse paia di occhi rivolti unicamente a lui,
uno dei più grandi portieri del Giappone.
127
Oramai Ken si era abituato a ricevere sguardi interessati, affascinati, catturati e chi più ne ha più ne metta - e non solo
d’ammirazione, a volte tutt’altro - dai compagni d’istituto. Doveva ammettere che all’inizio si sentiva piuttosto
lusingato, sebbene con l’andare del tempo avesse preso a non farci nemmeno più tanto caso.
Aveva appena salutato Eve, la quale dal canto suo si era messa in testa di voler trovare un lavoretto per i mesi a
venire, qualcosa in cui impegnarsi a fondo e che l’avrebbe tenuta occupata in maniera altrettanto incalzante.
Sembrava tutto procedere per un verso decisamente tranquillo, ma ciò che Wakashimazu non sapeva era che quel
giorno lo attendeva una bizzarra sorpresa.
Non appena fu nello spogliatoio, attraversata la tettoia ed il costeggiare del campo, fu lieto di gettare il borsone sulla
panca in metallo e ravviarsi la frangia dalla fronte con entrambe le mani.
- Salve, ragazzi!- un saluto generale, prima di aprire il suo armadietto e riporvi all’interno la cartella.
- Ehi, Ken! Hai saputo la novità?- Kazuki sembrava particolarmente su di giri, tutto eccitato si era avvicinato al nuovo
venuto senza nemmeno darsi il tempo d’indossare i pantaloncini.
- Quale novità?- rispose il portiere, togliendosi velocemente la camicia della divisa e scoprendo un paio di scapole da
fare invidia a un carro armato.
- Da oggi abbiamo una manager tutta nostra!- saltò su Koike, euforico almeno quanto Sorimachi. L’espressione
stranita dell’estremo difensore non mutò, ma guardandosi attorno si accorse ben presto che lo spogliatoio intero era in
fermento.
- Che ce ne facciamo di una manager?- chiese di rimando, alzando un sopracciglio e voltandosi per estrarre
dall’armadietto la sua casacca da allenamento.
- Ma come, non sei contento?! Dicono che sia uno schianto! Pensa, ha perfino la nostra età!- Hideto non demorse,
stringendo i pugni e mostrandogli un paio di occhi colmi di stelline e gloriose aspettative.
- Ah, ecco!- buttò li Kojiro, facendo finalmente sentire la sua voce spazientita con un’alzata d’occhi al soffitto. Era già
pronto da un pezzo, ma se ne stava seduto con gli scarpini non ancora allacciati e le braccia incrociate al petto. Sul
volto quell’aria da tigre selvatica e furente che da tempo non aveva avuto occasione di esibire.
- Su capitano, non fare così, siamo tutti contenti di avere una ragazza che si occupa del nostro team e non più i soliti
responsabili fannulloni!- sospirò la voce di Imai, da dietro il pannello delle docce.
- Dite un po’, a voi interessa solo perché avete sentito dire che è una bella ragazza?- fece in tutta risposta il
cannoniere, spazientito.
- Non lo abbiamo sentito!- intervenne Kazuki, battagliero - Io l’ho vista! Ed è davvero carina!Ken si trovò a sospirare in un sorriso, ah, sempre i soliti! I suoi compagni non cambiavano mai, in quanto a chiacchiere
da spogliatoio!
Fu rapido ad infilarsi i pantaloni della divisa da calcio ed a sistemarsi l’allacciatura elastica sotto la maglietta.
- Basta con queste scemenze!- sbottò Hyuga - Avanti, tutti fuori!!Una sfilata di atleti in calzoncini gli passò davanti con espressione dimessa, mentre lui si occupava di sbattere
sonoramente la porta, una volta che tutti furono usciti. Ken si affrettò ad infilarsi le scarpe coi tacchetti ed afferrare i
guanti dall’ultimo ripiano dell’armadietto, per poi sgattaiolare fuori. Raggiunse il capitano in corridoio mentre gli altri
erano già partiti di gran lena verso il campo e farfugliò qualcosa, tentando di armeggiare con la chiusura della casacca
sulla spalla.
- Mh... pian... on... oro!Kojiro gli levò i guanti di bocca e gli permise di ripetere in modo comprensibile.
- Vacci piano con loro!- rise, mentre finalmente chiudeva i bottoni a clip sulla spalla destra.
- Devono pensare ad allenarsi!- fu la replica sdegnata del compagno - Tra poco ci sarà una partita importante, ed
anche se è un’amichevole non devono sottovalutare il valore che tutto questo ha per la squadra!Wakashimazu volse il capo verso la luminosa uscita sull’erba verde, sospirando nuovamente. Qualche giorno addietro
era arrivata una cordiale comunicazione da quelli della Nankatsu che, in occasione del temporaneo rientro in patria di
Tsubasa Oozora per far visita alla famiglia, avevano deciso di proporre un incontro in onore dei vecchi tempi contro
quelli ch’erano stati i loro più grandi rivali.
- Sei proprio inguaribile, ancora a pensare a Oozora!- abbozzò una risata distratta, considerando che in realtà Kojiro
non doveva il suo essere tanto su di giri per l’amichevole, quanto per l’arrivo di una nuova responsabile che avrebbe
avuto bisogno d’essere adeguatamente seguita ed istruita, prima di poter iniziare a seguire loro.
Il capitano alzò lo sguardo - pur mantenendo la testa fissa in avanti - verso quello del portiere, da quella manciata di
centimetri d’altezza che li separavano. Wakashimazu sospirò.
- Ad ogni modo, rilassati. Occupiamoci di questa new entry e cerchiamo di abbassare il livello di testosterone del resto
del gruppo.- rise di nuovo, alzando una mano con le dita spalancate, mentre Kojiro gli infilava poco gentilmente un
guanto e gli rendeva l’altro con un gesto canonico.
Quando giunsero finalmente sul campo, notarono che un curioso semicerchio si era giusto formato attorno
all’allenatore. Ken si portò le mani dietro la nuca e vi appoggiò la testa, muovendosi a passi quasi strascicati verso i
compagni. A dire il vero non era per nulla così curioso e non comprendeva una tale brama di conoscere e toccare con
mano questa fantomatica nuova manager. Anzi, addirittura non comprendeva il bisogno di una manager.
- Con comodo, voi due!- li rimproverò l’allenatore, non appena la coppia portiere-attaccante raggiunse la panchina Ora che i nostri ritardatari sono qui, posso presentarvi la nuova manager: Tomomi Mimura.- E’ un piacere fare da spalla ad una squadra illustre come la vostra!- sorrise la ragazza, sporgendosi con un piccolo
inchino.
Hyuga non mancò di squadrarla scettico da capo a piedi: il volto ovale dalla carnagione viva e rosea era lievemente
sfiorato dalle ciocche castano chiaro che sfuggivano alla coda di cavallo alta dietro la nuca, gli occhi scuri - ma non
penetranti come quelli di Ayame - brillavano dietro le lenti degli occhiali fini ed eleganti dalla montatura trasparente e
la bocca dischiusa in un dolce sorriso era leggermente dipinta di rosso.
Indossava una semplice maglia di cotone bianca ed i pantaloncini della tuta della scuola. Aveva un bel fisico, nulla di
volgare, anzi era semplice e affascinante, tanto che tutti la guardavano come se fosse una dea.
- Iniziamo ad allenarci?!- sbuffò immediatamente, distogliendo lo sguardo.
- Hyuga! Un po’ di educazione!- lo rimproverò di nuovo l’allenatore - Mimura è appena arrivata e mi sembra adeguato
abbia la possibilità di presentarsi.128
La ragazza rivolse un affabile sorriso all’uomo, per poi rivolgersi alla squadra, inquadrando tutti con i suoi occhi neri ed
esitando un poco su Wakashimazu ed Hyuga, appena apostrofati come ritardatari.
- Salve a tutti!- esordì poi, con voce squillante - E’ un piacere essere la manager di una squadra tanto importante! Oh,
emh, forse questo l’ho già detto!- rise, portandosi vivacemente una mano alla bocca - Dunque, io vengo da Okinawa,
mi sono trasferita qui da qualche settimana e, beh, per offrire già molto al team, ho avuto modo di studiare i più
importanti giocatori del mondo, soprattutto i francesi.La sua aria aveva assunto un non so che di sussiegoso e professionale che fece sgranare le pupille a molti dei presenti.
Ben consapevole di aver ottenuto l’effetto sperato, la ragazza proseguì, portandosi un indice al volto.
- In Francia ci sono un bel po’ di fuoriclasse!- asserì, annuendo tra sé e prendendo ad esporre il risultato della sua
sudata ricerca - Credo che conosciate tutti El Cid Pierre, è veramente fantastico, un fenomeno! A centrocampo, un
fantasista come lui farebbe invidia a...- Di El Cid non ce ne importa un bel niente!- Kojiro non era uno che amava perdere tempo - Hai deciso di farci da
manager? Bene, allora fa’ la manager e non la giornalista! Voialtri, muoviamoci!Detto questo prese a correre repentinamente seguito dai compagni che, sebbene un po’ titubanti, non avevano
tuttavia intenzione di disobbedire al capitano.
Tomomi, nel frattempo, si era portata una mano al petto a tratti intimorita. Non negò di essere rimasta alquanto
stordita dall’attacco appena subìto, ma, con la sua migliore espressione accondiscendente, riprese un’imperturbabile
aria conforme al ruolo che da allora in poi avrebbe ricoperto e prese compitamente posto sulla panchina accanto al
mister.
- Kojiro non è il massimo dell’accoglienza, scusalo.- fece quello, scuotendo il capo ed incrociando le braccia al petto.
- Non importa, io ho comunque intenzione di mettercela tutta.- ribadì la giovane, risoluta.
Mentre sbadigliava, avvertì inesorabile una mano intrufolarsi nella tasca dei suoi pantaloni.
- E-Eve, ma che fai...?- scattò a sedere sul divano, evidentemente arrossendo.
- Ti rubo le caramelle.- fu la schietta risposta di lei che, una volta ottenuto l’oggetto di tanta bramosa ricerca, si
impegnò a scartare ed a infilarsi in bocca un confetto colorato. Si strinse nelle spalle, per venire investita dalle mani
del portiere, che la ricondussero a distendersi sul divano, accanto a sé.
Il suo ampio torace la accoglieva tutta e la bionda si sentì irrimediabilmente accolta tra le braccia di Ken, che la
stringevano giù, sempre più vicino al suo cuore. Poggiò una mano a livello del suo collo, percorrendone il tendine più
marcato sino ad arrivare al mento e poi alla bocca, dove il portiere approfittò per depositare un bacio sulle sue dita.
Sotto il tocco leggero, le labbra di lui si deformavano seriche ed Eve si deliziò nello spalancare il palmo della mano ed
accogliere l’intera metà del suo volto in esso, carezzandolo dallo zigomo.
Era da diverso tempo che non aveva avuto occasione di incontrarla, dal momento che di mattina aveva cominciato a
recarsi a scuola sempre molto prima dell’orario effettivo per via degli allenamenti e finiva che l’intera squadra
terminasse tardi dopo le lezioni per il medesimo motivo. Per di più quella tipa, Tomomi, cominciava ad essere un po’
appiccicosa per i suoi gusti. Si era chiesto se fosse soltanto una sua impressione quella d’essere infastidito perché lei si
preoccupava di consegnare all’intero team le salviette direttamente negli spogliatoi, il più delle volte sorprendendoli
con solo i calzoncini addosso. Ed anche in questo caso avevano fortuna, il che la diceva lunga; cominciava a chiedersi
se lo facesse apposta per vederli in mutande o perché era sbadata di suo.
Ad ogni modo, Eve gli era mancata moltissimo. Se non per telefono, l’aveva intravista soltanto velocemente quella
mattina a pranzo, considerando che oramai era quasi una settimana che non parlava con la sua ragazza.
- Dexter ha un appuntamento.- la voce della bionda gli arrivò forte e chiara alle orecchie, con un tono quasi diffidente.
- Ah, sì?- le rispose lui, sostenendola per le spalle per fare in modo di fissare direttamente i suoi occhi oltremare
appena contornati di nero.
- Sì.- annuì la compagna, per nulla convinta e lasciando trapelare una tenera gelosia nei confronti del fratello.
Wakashimazu le portò una mano alla bocca, replicando su di lei la carezza che aveva appena ricevuto, scorrendo lungo
le sue labbra con un dito ed avvertendo tutta la loro morbida plasticità.
- Sarà il fascino dello sportivo!- fece, ravviandole una ciocca dietro un orecchio e sfiorandole la coppia di anelli al lobo.
Eve si fece maliziosa, scoccandogli un’occhiata di sottecchi.
- Oh, certo, dovresti ben saperlo tu. Hai un mucchio di adoratrici, capellone!- Io non ho un mucchio di adoratrici!- si difese lui, intrufolando l’altra mano sotto la maglia di lei e venendo a contatto
con la sua calda pelle di velluto.
- Come no, hai anche un fan club!- la ragazza cacciò la lingua con un’espressione sostenuta, ma Ken fu pronto a
risponderle, accompagnando la frase con un lieve bacio sulla punta del naso.
- Ah, piantala! Che vuoi che me ne importi, sei tu la seduttrice di portieri!Eve scoppiò all’istante in una risata cristallina, curvando il capo sul suo petto e poggiando la fronte sull’incavo bollente
del suo collo.
- E così... sarei un’adescatrice di portieri?- riuscì a dire tra i singhiozzi. L’altro la stuzzicò con un lieve solletico ai
fianchi, strofinando d’altro canto il volto sulla sua nuca.
- Sì che lo sei, e non tentare di nasconderlo!- D’accordo, d’accordo, va bene lo ammetto.- Eve si scosse immediatamente, il suo tono si fece più suadente ed il
volto pericolosamente vicino alle labbra di lui - Ti ho sedotto.Ed in un attimo la t-shirt di Ken finì sul pavimento.
Le labbra di lei si intrecciarono alle sue, di nuovo come in una ritmica danza di suoni e profumi penetranti, carichi,
stravolgenti. Il tocco della sua lingua avvinta alla propria si fece infuocato, mentre, sinuosa, l’avvertiva sopra di sé,
intrufolarsi tra le proprie gambe semiaperte.
Quando la ragazza prese a percorrere la curva del suo volto mascolino, sino ad arrivare al collo, Wakashimazu si
scosse, rabbrividendo ed emettendo un sospiro grave. Una volta raggiunta la sua clavicola, Eve vi affidò un nuovo
bacio, per poi adagiarvisi sopra con il volto. Spaziò con una mano sui pettorali del compagno, descrivendo
circonvoluzioni a livello del capezzolo con un dito ed inspirando più che poté l’intenso odore di lui, bruciante come
fiamma, frastornante come tuono. E prima ancora che potesse anche solo pensarlo, dalla sua gola emersero due
parole, lontane ma pulsanti come un cuore.
- Per sempre...- le sfuggì. Come fosse un desiderio, un pensiero inespresso, l’obiettivo ultimo di una vita.
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Se ne rese conto quando oramai la sua voce aveva riempito l’aria, ritraendo quasi spaventata la mano dal petto di lui,
ma Ken aveva udito bene ed era pronto ad accogliere le sue dita bianche tra le proprie, riaccostandosele al torace e
confermandolo sulle sue labbra, racchiudendole in un ulteriore bacio.
- Per sempre.Ed il mondo riprese ad esistere, racchiuso in quella lieve stretta, vibrante e fremente come dotata di vita propria. L’uno
nell’altra, non avrebbero chiesto più nulla, se non una mutua e costante presenza reciproca.
E tutt’un tratto entrambi si trovarono a considerare che quel tempo che tanto bramavano d’intrappolare era scivolato
via come sabbia da un pugno, che si era giunti ad un bivio e tutti stavano compiendo le rispettive scelte. Il termine
della scuola di lì a poco avrebbe sancito l’inizio di una nuova fase di vita, il principio di un nuovo ciclo, di una nuova
routine, di una nuova avventura.
- Sai...- cominciò lui, lasciando che la compagna riprendesse a disegnare forme invisibili sul proprio petto - Sto
valutando un sacco di offerte. Pensavo di fare pratica nella J League, così rimarrei in Giappone e potrei occuparmi del
dojo. Per ora i Fryugers di Yokohama mi sembrano quelli più interessanti, ma comunque l’abbozzo del mio piano è
questo. Certo, non sarà una gestione a tempo pieno, ma voglio dare una mano in palestra, pur continuando a coltivare
e dare massima importanza alla carriera di portiere.Eve si scosse, una frase del genere aveva incrinato la placidità dell’abbraccio, rendendolo più concreto. Ken le stava
parlando del futuro... e la cosa, doveva ammetterlo, la atterriva non poco.
- Non voglio lasciare indietro il karate.- riprese; dopotutto era ciò che l’aveva fatto diventare ciò che era, era stato la
base delle sue peculiarità ed aveva deciso che avrebbe seguitato a praticarlo per rafforzare le proprie azioni in porta.
Inoltre, in quei giorni di assenza del direttore della palestra - suo padre - aveva avuto modo di fare pratica con
l’amministrazione unica ed a dir la verità non gli era affatto dispiaciuto.
Lei si limitò a sorridere delicatamente, mantenendo gli occhi chiusi.
- E tu perché non diventi una seria professionista? Hai seguito molti corsi l’inverno passato e...- Per lo stesso discorso che è valso e vale per la corsa.- paziente e sussurrata, la voce di Eve lo raggiunse ancora una
volta - Non voglio che una passione si trasformi in qualcosa di troppo serio, in un lavoro. E se mai dovessi pubblicare
qualcosa, non sarà certo per un eventuale percorso professionalizzante.Sospirò pesantemente e si tirò di nuovo su, facendo leva sui gomiti, per tornare a fissare il volto del compagno,
contornato da un’infinità di fili corvini morbidamente distesi sui cuscini color cremisi.
- Potrei anche poter pensare ad una carriera universitaria, ma per ora ho intenzione di fare qualche piccola esperienza
di lavoro qua e là, sai, per valutare sulla mia pelle.- si strinse nelle spalle, arricciando le labbra. Quella frase illuminò
repentinamente una lampadina nella mente di Ken.
- Ho un’idea, mi daresti una mano?- fu la rapida questione che le arrivò, tanto da farle assumere un’espressione
meravigliata nell’incontrare i suoi occhi d’ossidiana colti da un’improvvisa animazione.
- Che intendi per una mano?- fece, cauta.
- Intendo una cosa, reggiti forte, tipo ‘palestra a gestione famigliare’, ovvero io e te.- semplice ed efficace, il concetto
tuttavia non arrivò direttamente netto com’era stato formulato agli occhi della bionda.
- Questa è bella, a gestione famigliare: io e te!- questa scosse il capo in una breve risata svagata.
- Che c’è, non pensi possa andare?- il volto di lui si contrasse in un adorabile broncio.
- Andiamo, ce l’hai già una famiglia con cui gestire la palestra, è tua e di tuo padre, che c’entro io?- di nuovo Eve agitò
il capo dorato, alzando un sopracciglio con scetticismo.
- Beh...- Wakashimazu aguzzò lo sguardo - Ho tempo da dedicare al dojo, almeno per ora. E voglio impiegarlo in modo
utile. Potresti cominciare dal darmi un aiuto con le iscrizioni, mi faresti da segretaria?Eve per poco non cadde dal divano.
- Eh? Segretaria, io??- esclamò, stavolta più incredula che mai.
- Sì, esatto. Che c’è di male, così facendo avremo anche più tempo per stare insieme! Resta solo da decidere l’orario e
lo stipendio...- Ehi, ehi, supercampione, frena, frena.- la ragazza si schiarì la voce, ancora faticava a visualizzare bene in mente la
trovata del compagno - Mi vorresti anche pagare...?- aggiunse sorpresa, il volto perfettamente riflesso in quello di lui.
Poi scosse il capo, socchiudendo gli occhi ed infine abbozzando un sorrisetto lusingato.
- Lo sai che se mai dovessi farlo, lo farei volentieri e poi... mi sembra un po’ strano lavorare per il mio ragazzo.- gli
scoccò ancora un ultimo sguardo, poi alzò gli occhi al cielo - Ah, diciamo che ti do un piccolo aiuto e basta, e poi lo sai
bene che inizio a lavorare tra poco, di stipendio mi basterà quello di assistente all’Hotel Ningyo. Però...- Però...?- la riprese Ken, con uno sguardo curioso e speranzoso, cingendole la vita con entrambe le mani.
- Però, se proprio vuoi sdebitarti, potresti farmi da istruttore personale di karate.- buttò lì, tra il sornione e
l’accondiscendente, ridistendendosi su di lui, questa volta con il mento puntato allo sterno.
- Ah!- scattò felice Ken - Ovviamente sarà un piacere, oltre che un onore! E ti ringrazio in anticipo, senza di te cosa
farei!Eve sorrise agitando una mano come a dirgli di smetterla all’istante di adularla, non occorreva nessuna frase
accessoria per convincerla, dal momento che aveva appena accettato.
Gli pizzicò la pelle, mentre il proprio sorriso si faceva in un attimo sempre più addolcito, consapevole.
- Devi volergli proprio tanto bene...- mormorò sulla sua cute chiara, provocandogli un lieve fremito.
- Nh?- Ken assunse un’aria interrogativa, portandole una mano al capo e tuffandola tra i suoi capelli di grano.
- A tuo padre, intendo.Alla placida replica della compagna, Wakashimazu rimase serenamente in silenzio.
Ed improvvisamente gli tornarono davanti agli occhi tutte le sfuriate, i litigi, le voci che facevano a gara per sovrastarsi
e sopraffarsi. I periodi di silenzio, il non guardarsi in faccia per intere settimane, la frustrazione di non essere
approvato nel voler percorrere la strada che si era scelto.
Nonostante l’accondiscendenza che suo padre aveva mostrato durante l’ultima finale negli anni lontani delle scuole
medie, in realtà aveva sempre sperato che Ken si stancasse del calcio e tornasse a praticare le arti marziali di modo da
poter prendere in mano il dojo, una volta che lui si fosse ritirato.
Questa consapevolezza da parte del figlio era sempre stata fonte di scontri: non poteva permettere di essere stato
vittima di temporanea remissività, che poi comunque aveva finito per rivelarsi per ciò che era.
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Ma nonostante questo, oramai a Ken pareva non importare più. Lui aveva scelto il calcio e, volente o nolente, suo
padre sarebbe stato a guardare. Sebbene per interi anni non avessero fatto altro che mordersi e combattersi a
vicenda, ora il portiere pareva aver assunto nei confronti della questione una distaccata maturità, una ponderata
coscienza che lo faceva agire più lucidamente.
L’aveva imparato stando vicino a Eve, a Kojiro. Crescendo.
Era perfettamente inutile comportarsi da marmocchi isterici, tentando di colpire laddove non avrebbe trovato altro che
un comportamento distruttivo e speculare al proprio. Giungendo a questa conclusione si era reso conto che la persona
che gli stava di fronte era pur sempre suo padre, colui che prima di tutti aveva fatto di lui un uomo. Ed andargli
incontro in qualche modo sarebbe stata la maniera corretta per fargli intendere che le proprie intenzioni non erano più
capricci da ragazzino, ma scelte di vita.
Sorrise, avvertendo di nuovo la mano di Eve frugare nella tasca destra dei suoi pantaloni.
Lei aveva capito, aveva compreso fin dal principio. La strinse a sé, mentre avvertiva infiammarglisi dentro un moto
d’intenso affetto verso di lei, quasi incapace dal trattenersi dall’urlare a pieni polmoni quel ‘per sempre’ che si erano
sussurrati poco prima, perché il mondo sapesse che Eve era sua, sua e di nessun altro. Esclusiva, senza pari, l’unica
che avrebbe amato mai.
- Era l’ultima.- si rammaricò, mostrando l’esito infausto della ricerca anche nella sua tasca sinistra.
- L’ultima cosa?- il portiere le sfiorò di nuovo la bocca con la propria, carezzandole il labbro superiore con il proprio
inferiore, in una soffice ed umida alternanza.
- L’ultima caramella.- replicò lei, col disappunto di una bambina.
- Ah, vieni qua!- le strapazzò i capelli e la abbrancò con un morso sulla spalla, prima di spogliarla della maglietta verde
smeraldo che ancora le copriva le spalle.
Si infilò in bocca un involtino di riso ed accompagnò il boccone con un sorso di spremuta d’ananas.
- Aaah! E’ una fortuna che abbia ripreso a fare caldo! Signori, l’estate si avvicina!- la voce di Mizuki era squillante e
argentina, e lei accattivante come sempre dietro il suo paio di giganteschi occhiali da sole dalla montatura verde acido.
Aya, al suo fianco, pareva stonare con tanto eccesso di boria e colori, sempre così impeccabile ed elegante nella sua
divisa scolastica senza una piega fuori posto. Si faceva aria con il coperchio della scatola del pranzo appena terminato,
nel tentativo di avere un po’ di refrigerio.
Sotto le fronde di uno dei grandi alberi nel giardino della scuola, si stavano godendo la pausa di mezzogiorno, mentre,
inguaribili, i giocatori del Toho avevano approfittato per improvvisare una partita nel campo antistante.
- Non vedo l’ora di potermi tuffare in piscina, rosolarmi al sole, fare scorta di accessori da mare, aww! Mi sento già
ribollire dall’impazienza all’idea!- Mizu si scostò una voluminosa ciocca di capelli ricci da una spalla, incrociando le
gambe sul prato e prendendo un grande respiro entusiasta. Poi si scosse, lanciando un’occhiata ad Eve, semidistesa
poco più in giù con gli occhi chiusi ed il viso rivolto al cielo, silenziosa e beata.
- Ops, già, scusami Eve!- esclamò, portandosi una mano alla bocca e lasciando che la bionda si voltasse indietro.
- E di che.- quella alzò le spalle - Io nemmeno amo friggermi al sole.Ayame ebbe un modo di concordia sul volto fresco e bianco, attendendo che un gruppo di chiassosi ragazzi del primo
anno transitasse lì accanto diretto poco più avanti sul campo per assistere alla partitella, prima di prendere la parola.
- Allora ti hanno davvero assunta al Ningyo?- domandò, declinando con una mano l’offerta di Mizuki che le tendeva il
succo di frutta.
L’altra annuì, sbadigliando e dischiudendo le palpebre con fare lento e flemmatico. Il suo profilo netto dai piccoli
particolari rotondi del naso e della curva delle labbra si stagliava quieto contro l’aria tersa, mentre il suono dei passi in
corsa sulla ghiaia e del pallone che roteava e veniva stoppato e ricalciato dai contendenti sullo spiazzo accompagnava
il chiacchierare delle ragazze.
- Qualche giorno fa è arrivata la lettera di conferma.- fece, voltandosi definitivamente, pur rimanendo appoggiata
all’erba con l’avambraccio. La corda sinuosa della spina dorsale si curvò a ‘esse’ con le gambe, mentre il suo volto
chiaro si rifletteva in quello della compagna.
- Mi limiterò al foyer, niente di così impegnativo, ma nemmeno di così noioso. Avrò il mio daffare.- spiegò, curvando le
labbra da un lato e ravviandosi la frangia ribelle che cadeva in diagonale da un lato della fronte.
Mizu rise, sistemandosi una vistosa collana di gigantesche perle di plastica sotto la camicetta.
- Non ti ci vedo proprio in divisa a lavorare all’accoglienza della hall di un albergo! Soprattutto al Ningyo, dicono sia un
lusso!- Non esageriamo.- Eve alzò un sopracciglio, rotolandosi di tre quarti sul prato - Comunque lo faccio solo per mettere
da parte bei soldini, ho intenzione di... ehi, ma non ditelo a nessuno!Le altre due si scambiarono uno sguardo in simultanea, poi annuirono, ansiose ed un po’ stupite.
- Vorrei organizzare una vacanza insieme a Ken.- la bionda si era rimessa sedere con le gambe incrociate, pur
mantenendosi di poco più in basso rispetto a loro. Fu Mizuki la prima ad esordire con un nuovo acceso cinguettio.
- E perché non dovremmo dirlo a nessuno, è una buona notizia! Già immagino il nostro portiere in costume da bagno,
aaah!- non si trattenne da un’esclamazione estasiata alla quale, repentinamente, Aya si occupò di replicare con un
sonoro ma signorile scapaccione sulla nuca a suon di coperchio della scatola del pranzo.
- Il mio portiere, signorinella!- Eve si era alzata e la stava raggiungendo con aria minacciosa, le mani ai fianchi - E
comunque ti ho chiesto di non urlarlo, Ken non lo sa ancora! Conosci la parola sorpresa?- Il tuo portiere, sì, sì.- ribadì l’amica, mentre si massaggiava la parte lesa e mostrava una mano chiusa a pugno alla
ragazza dai lunghi capelli castani che, nel frattempo, aveva assunto un’aria sorniona e indifferente.
- Ah, io vorrei fare il giro dei parchi di divertimento, quest’estate, mi piacerebbe un mondo!- annunciò poi, alzandosi
gli occhiali da sole sulla fronte e mostrando un paio di ciglia dipinte - Voi no?- Umh. Sarebbe troppo caotico.- ammise Ayame, anelando ad una tranquilla siesta in montagna, tutta riposo e relax.
- Oh, che noia! Tu sei troppo poco frizzante per i miei gusti, principessa!- la riprese all’istante Mizu, lasciando che i
suoi occhi si soffermassero sulle figure dei calciatori sul campo.
Diversi studenti si erano radunati in giardino, chi sulle panchine e chi, come loro, aveva scelto il prato in pendenza che
dava sull’area di gioco. Era una giornata perfetta per starsene a ciondolare all’aria aperta ed i più si rammaricavano di
dover rientrare all’istituto per le lezioni pomeridiane. Qualche ragazzo in piedi, inoltre, faceva gruppo con altri
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compagni, affollando il cortile di allegre chiacchiere e risate, mentre dietro di loro si stagliava immota la struttura
scolastica, con le sue immense finestre ed il chiarissimo colore delle pareti esterne.
Una nuvola passeggera e candida come neve appena caduta transitò velocemente giusto sopra l’ala est dell’istituto,
per poi superarne l’angolo squadrato e lasciare il cielo del distretto, incanalata dalla lieve brezza verso altri lidi.
Giusto quando Awashida fece per riprendere la parola, un acutissimo strillo saturò l’aria, tanto che le tre compagne
canalizzarono fulmineamente lo sguardo verso la fonte di tanta euforia.
Una ragazzina dai chiarissimi capelli castani si sbracciava come una cheerleader, mostrando un paio di occhi luminosi e
solari, racchiusi dalla montatura trasparente di un paio di occhiali squadrati.
Ken aveva assunto una corrucciata aria di circostanza, Takeshi incitava la squadra a non badarci ed a riprendere
l’incontro, mentre Kojiro pareva sul punto di spingerla giù da un burrone - se solo ne avesse avuto uno a portata di
mano. Il resto del gruppo era a tratti lusingato da tanto caloroso tifo, tanto che quello che ne risultò fu un netto
contrasto d’espressioni rispetto a quelle del trio di spicco.
- Ma quella chi cavolo è?- Mizuki arricciò il naso, facendo tanto d’occhi e scostando il contenitore del pranzo accanto a
sé, per alzarsi sulle ginocchia ed aguzzare lo sguardo.
Ayame sospirò, scuotendo il capo e roteando gli occhi.
- E’ la nuova manager del team. Kojiro non la sopporta.- commentò, mostrando anche lei una vena di disappunto Dice che è petulante e per nulla efficiente, non fa altro che elogiare i giocatori stranieri e l’unica attività che svolge è
quella di fare irruzione nel loro spogliatoio quando sono a corto di asciugamani.Inutile dire che Mizu fu colta da una scarica di elettroshock.
- Che cosa?!- si alzò repentinamente in piedi con sguardo assassino - Nessuno può vedere Takeshi in mutande, a parte
me! Adesso quella mi sente!Ma Aya fu svelta ad afferrarla per le spalle, trattenendola.
- No, no! Ferma, Mizu! Mizuki, non scalciare, lascia perdere!- la contenne per quanto poté, tentando di placare l’ira
funesta che si era impossessata di lei.
- Lascia perdere un cavolo, ma chi è quella smorfiosa?! Nemmeno io mi sono mai permessa di fare irruzione nello
spogliatoio maschile!- dichiarò a gran voce, guadagnandosi le occhiate sgomente e stralunate di almeno metà cortile.
- Ragazzi!!- Tomomi strillava con in mano il megafono, l’aria spensierata di chi è convinta di star portando avanti un
ottimo lavoro.
- Ti sentiamo, ti sentiamo!- fece uno spossato Sorimachi, avvicinandosi con gli altri alla panchina.
La ragazza si lisciò i capelli castani, chinandosi per sistemarsi i pantaloncini corti e considerando che anche per quel
giorno l’allenamento quotidiano era terminato.
- Bene!- cominciò - Vi state preparando davvero col rito giusto, l’amichevole con la Nankatsu sarà un gioco da ragazzi,
perciò vi voglio tutti in forma per allora! Per oggi basta allenamenti!Sorrise felice tra sé più che verso la squadra e fece cenno ai ragazzi di dirigersi verso gli spogliatoi.
- Tra poco vi porto gli asciugamani puliti!- esclamò con il medesimo tono acuto e giulivo di poco prima. Fece per
voltarsi e riporre la cartelletta sulla panchina, quando la voce di Wakashimazu la raggiunse, poco bendisposta.
- Senti, non fai prima a darceli subito gli asciugamani?- Ken non pareva molto per la quale.
- Già, sai com’è... eheh...- aggiunse Takeshi, mascherando l’imbarazzo portandosi una mano dietro la nuca.
- Oh? Ma che problema c’è, ragazzi?- chiese di rimando la ragazza, dapprima assumendo un’espressione meravigliata,
poi sciogliendosi di nuovo in un sorriso affabile.
- C’è che vogliamo gli asciugamani. Ora.- Kojiro tentò di esprimersi col tono più pacato che conosceva. Lei perse
all’istante la sua aria gioviale, lasciando spazio ad un nuovo, breve moto di stupore.
- Va... va bene, vado a prenderli, capitano. Aspettate qui.- rispose, scomparendo nel corridoio interno e lasciando che
il Toho rimanesse solo sul campo in balia del vento piuttosto insistente che era alzato quella sera. Ma i ragazzi di certo
non si sarebbero goduti la brezza, dal momento che parve scoppiare all’improvviso una faida intestina.
- Ma capitano! Perché!?- esclamò Furuta, pestando un piede.
- Accidenti a te, Ken! Non potevi stare zitto?- gli fece eco Hideto, scuotendo il capo e stringendo i pugni. In tutta
risposta il proprio volto si guadagnò un’occhiata raggelante saettare da quello del portiere, imperturbabile e ben
meritevole di non avere rivali quando si trattava di mettere bene in chiaro le cose.
- Chiudi il becco, Koike! Ti pare normale che mentre sei in mutande quella entri spalancando la porta, distribuendo
asciugamani come se fossero mazzi di rose? Mi sembra che qui tutti abbiamo superato i sedici anni da un pezzo.ribatté Wakashimazu, categorico, inflessibile.
Il risultato fu che il resto della squadra zittì finché la manager non fece ritorno con le salviette pulite, per distribuirle ai
ragazzi, i quali si avviarono negli spogliatoi, mogi ma incapaci di una nuova azione sovversiva.
Il divario con i mesi caldi si assottigliava sempre più, al punto che Dex stava cominciando a pensare se non fosse il
caso di andarsene in giro per l’istituto direttamente senza la camicia.
Sfregò le suole delle scarpe sul terriccio, per poi passarsi un avambraccio sulla fronte e disperdere il sudore. Fortuna
che portava i capelli quasi rasati a zero, figurarsi se avesse dovuto lottare con una chioma ribelle come quella del
ragazzo della sorella! Sarebbe impazzito, ci avrebbe scommesso cinque inning.
Si sistemò i polsini colorati ch’era solito portare, poi si accorse della presenza dell’oggetto dei suoi pensieri poco
lontano da sé, appoggiato con una mano alla rete che dava sul campo, quel giorno stranamente occupato da giocatrici
femminili.
Ken Wakashimazu era alto, anzi, statuario, dai lunghi capelli color petrolio e dalle spalle larghe, ampie come quel paio
di pettorali coperti dalla camicia della divisa scolastica. Sorrise tra sé, immaginando che se avesse domandato ad Eve,
questa avrebbe saputo dirgli alla perfezione quanto misurava la circonferenza del torace del portiere del Toho.
- Come butta?- gli si avvicinò facendo scoppiare un palloncino di chewingum, che emanò un intenso odore di
zuccherosa fragola.
- Ehi!- l’altro si voltò, mostrandogli il suo accattivante sorriso e facendogli cenno con una mano. Dex notò che era
anche sua abitudine il tenere slacciati i primi bottoni perché non premessero troppo fastidiosamente sul collo, anche se
- doveva ammetterlo - era ben più robusto del proprio.
- Chi è che gioca?- domandò poi, fermandosi accanto a lui e prendendo a scrutare l’imprevista partita.
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- Ah, lascio a te l’onere di trovare una definizione adatta.- il portiere gli fece l’occhiolino, rimanendo con una mano
appoggiato mollemente alla rete intrecciata in plastica e metallo.
Le voci fin troppo argentine delle ragazze risuonavano nel piano erboso, facendo un gran chiasso.
- Passami quel pallone!- Guarda che tu non stai in squadra con me!- Ma se abbiamo lo stesso numero?- Yasuka, sei un’oca!- Non lo vedi che la maglia è diversa?- Senti chi parla, quella che non sa la tabellina del due!!- Non mi pare di star seguendo matematica, ora!!- Ma la volete piantare!? Facciamo vedere che anche le ragazze del Toho sono capaci di giocare a calcio!Finalmente l’ultima battuta sembrava possedere quel tono inflessibile e ragionevole che si addiceva ad un capitano - o
perlomeno a qualcuno che conosceva le regole basilari del gioco.
- Ma Mizuki, ha cominciato lei!- la fantomatica Yasuka si lagnò, stringendosi nelle spalle e trattenendo i lucciconi agli
occhi.
- Direi che questa mi mancava...- commentò Dexter, alzando un sopracciglio e faticando a trattenere una sonora
risata.
- Mancava anche a me, eppure credevo di averne viste tante sul calcio.- gli fece eco Ken, raggiungendolo con un
nuovo, amichevole sorriso. Il suo volto squadrato aveva già raggiunto la maturità e, come un uomo, aveva uno
sguardo conscio, disincantato, seppure ancora molto cordiale. Il biondino trovò a considerarsi lusingato nell’essere lui il
destinatario di un sorriso benevolo da parte sua, dal momento che il Ken Wakashimazu che si mostrava al mondo agli
occhi di chi non lo conosceva era altero e distaccato, noncurante ed apparentemente sfrontato.
Lasciò le oche a spennarsi nell’aia, complimentandosi con sé stesso per il magistrale paragone che gli era appena
saltato in testa, poi si rivolse di nuovo al portiere, grattandosi distrattamente il mento.
- Mi auguro che Ev non sia in mezzo a quel disastro.- alzò le spalle, facendo scoppiare un altro palloncino al sapore di
fragola.
- In genere se ne tira fuori dal primo minuto.- rise l’altro, indicando con un cenno del volto la panchina coperta al di là
del campo, giusto dinnanzi a loro. Lo sguardo azzurro di Dex superò gli spalti semivuoti per soffermarsi sulla fila di
sedili destinati alle riserve ed all’allenatore, per quell’occasione occupata da solo un paio di altre ragazze frementi ed
una figura sprofondata in un angolo con le braccia conserte al petto ed un cappellino da baseball calato sulla faccia. A
giudicare dal respiro cadenzato del petto, pareva proprio fosse addormentata.
- Mia sorella la sa lunga.- stavolta rise di gusto, tenendosi la pancia con una mano.
- Direi che quello che la sa lunga in realtà sia tu.- replicò Wakashimazu, scoccandogli un’occhiata vivace. L’altro si
voltò con la schiena addossata all’intrico di maglie della rete, lasciando che questa lo sostenesse, poi si voltò
nuovamente verso di lui.
- Ovvero?- lo incalzò, la bocca curvata in un sorrisetto vispo e malizioso, quasi come il muso di un gatto.
- Le hai regalato un anello prima che potessi farlo io!- Ken si arpionò la frangia con le dita, mantenendo la stretta
salda sulla propria nuca per qualche secondo.
- Già.- annuì Dexter, pensoso ma soddisfatto del proprio involontario operato.
- Devo cominciare a pensare di non andarti a genio?- lo rimbeccò l’altro, liberando finalmente le ciocche di capelli che
gli ricaddero sopra gli occhi. Ma il biondo alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo in una nuova risata.
- Sono suo fratello, nessun ragazzo mi andrà mai a genio.- esclamò, divertito.
Ken rimase per qualche attimo a pensare quanto quei due si somigliassero. Avevano lo stesso profilo, anche s’era più
che ovvio che Dex possedesse lineamenti più mascolini come il taglio degli zigomi appena più marcato o la fronte più
spaziosa. Era un bel ragazzo, fisico asciutto ed appena scolpito, i capelli a spazzola e le iridi di una tonalità più tenue di
quelle di Eve, intensamente oltremare, vivamente terse, quasi trasparenti.
- Ma comunque, tu sei okay. Voglio dire, sei uno forte.- gli poggiò una mano sulla spalla, stringendo piuttosto
energicamente come a dargli un tacito benestare.
- Oh, beh, in questo caso grazie!- il portiere si trovò a replicare su due piedi ad una frase che gli era appena giunta più
inaspettata che mai, con tutto il suo essere lusinghiera.
Il più giovane gli strizzò l’occhio e si preparò a soffiare di nuovo nel chewingum, prima di rivolgergli un cenno di saluto
con due dita alla fronte.
- Ci si vede, keeper!- Ci si vede.- Ken replicò con il medesimo gesto, rimanendo a guardarlo allontanarsi con le mani affondate nelle tasche
dei pantaloni scuri e quella camminata caratteristica, lievemente indolente.
Si voltò di nuovo verso il campo per notare che la figura addormentata con il cappellino da baseball calcato sugli occhi
si era appena mossa nel sonno. Le gambe distese ed incrociate, il bacino un po’ più in basso della vera e propria
curvatura del sedile in plastica e le braccia ancora al petto.
- Eve...- sussurrò il suo nome, protendendo le dita oltre l’intreccio metallico quasi a volerla raggiungere. E d’un tratto
fu colto allo stomaco da uno strano, pulsante desiderio di abbandonare la propria forma e farsi rampicante come
un’edera, per attecchire alla sua pelle di latte e non abbandonarla mai, in un intreccio caotico di foglie, di verde, di
vita.
- Conosci Eve Springer?- alla sua destra, un’acuta voce s’insinuò nella sua mente ed incrinò il suo slancio silenzioso.
Ken trasalì e si voltò di scatto, incontrando gli occhi indagatori di Tomomi.
- E tu che ci fai qui?- le chiese, discostandosi di scatto con una mossa repentina ed automatica.
- Passo a prendere mia sorella.- la nuova venuta indicò una ragazza che fino a poco tempo prima era stata male
apostrofata da Mizuki, tale Yasuka, che insieme al gruppo ora si stava asciugando il volto a bordo campo, libera
finalmente dal termine dell’incontro. Wakashimazu dovette ammettere che le somigliava molto, non dovevano avere
più di un anno di differenza: stessi capelli lunghi e castani, addirittura stessi occhiali dalle lenti rettangolari ed il
medesimo, delicato taglio degli occhi. Tuttavia non aggiunse nulla, dal momento che non c’era proprio niente che gli
andasse di aggiungere.
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- Ehi, Wakashimazu, come fai a conoscere quel diavolo?- ripeté grave e quasi cupa la manager; pareva aver
riconosciuto la bionda poco prima di fare il suo nome, spalancando gli occhi e prendendo a fissarla mentre si
stiracchiava e con uno sbadiglio si alzava dalla panchina, battendosi elasticamente la schiena.
- Ammetto che Eve è un po’ vivace, ma definirla diavolo mi sembra un po’ fuori luogo, non credi?- fu la replica di lui, le
mani ai fianchi e le sopracciglia aggrottate. Si chiese che cosa mai potesse saperne, dal momento che si era trasferita
al Toho solo da qualche settimana e, soprattutto, avvertendo un pungente senso di biasimo risalirgli la gola.
- Scherzi?! Allora non la conosci!- Tomomi stralunò, serrando le dita sull’impugnatura della cartella. Le nocche le si
fecero bianche.
Ken batté rapidamente le palpebre, incerto se sentirsi irritato o sconcertato da un’affermazione simile.
- Sta con me.- seccato, la sua calda e graffiante voce artigliò l’aria ed il suo sguardo fosco si fece ancora più nero.
Gli occhi di lei si dilatarono per la sorpresa, mentre mille diverse considerazioni si accavallarono fulminee nella sua
mente, rincorrendosi tra loro come cavalli selvaggi, incapaci di stabilire un primato vero e proprio.
Com’era possibile che una come Eve potesse essere la ragazza di Wakashimazu? Si trovò spiazzata, ma subito dopo
ritenne più che attendibile l’ipotesi che lo stesse sfruttando per le sue doti e per la sua fama. E certamente Ken era
cotto di lei o qualcosa del genere, probabilmente fingeva di non vedere ciò che in realtà era quella insensibile e
diabolica ragazza. Magari ancora non lo sapeva, anche se l’opzione le sembrò inverosimile, dal momento che aveva
immediatamente notato che il portiere possedeva una sensibilità spiccata, non era uno stupido, insomma.
- Ah, sì? Beh, ti consiglio di lasciarla perdere immediatamente, non è una con cui si possa avere una relazione.- alla
fine Tomomi radunò il coraggio e fronteggiò l’espressione intransigente di lui.
- Prego?- ora l’altro pareva starsi trattenendo dal metterle le mani addosso, soltanto forte del fatto che era una
ragazza - oppure perché portava gli occhiali. Lei se ne accorse ed emise un sospiro rotto, distogliendo lo sguardo e
prendendo a fissare la ghiaia sotto di sé.
Tra i denti, un sopracciglio alzato, Ken mise di nuovo a dura prova i propri nervi nel tentativo di dominarsi.
CAPITOLO 18 – Il sangue di Eve
OKINAWA – QUALCHE ANNO PRIMA
L’aveva notata da un po’, quella ragazza. A dire il vero l’avevano notata in molti.
Non aveva l’espressione beffarda ed arrogante di chi vuole deliberatamente danneggiare il suo prossimo, al contrario,
non ne possedeva proprio alcuna. Il che la rendeva mille volte più sinistra, più ostile.
Inoltre la sua fama non era delle migliori, era spesso accaduto d’essere ripresa dal corpo insegnanti a causa di alcuni
incidenti capitati a scuola, anche se, tuttavia, rimproveri e punizioni non erano serviti a cambiare le cose.
Non c’era voluto molto perché il nome di Eve Springer finisse sulla bocca di tutti anche quella volta; pareva infatti che
stesse lì lì per scoppiare una nuova rissa in cui lei, piuttosto ovviamente, era presente.
Anche i meno informati sapevano che le dava di santa ragione, quasi non le importasse di farsi del male, anzi,
probabilmente ricercando proprio il dolore fisico. E questo, oltre che sinistra ed ostile, la faceva sembrare anche più
inquietante, a tratti nociva.
Tomomi venne brutalmente allontanata dalle proprie considerazioni dal grido di un suo compagno di classe, al dì la
della porta dell’aula.
- Ragazzi! Ragazzi, correte! Stavolta ci si è messo Tagawa!Ci volle poco perché l’intera classe abbandonasse ogni attività ricreativa e si lanciasse nel corridoio, per affacciarsi ai
grossi finestroni che davano sul cortile.
- Io non picchio le ragazze!- Osamu Tagawa era grande e grosso, il classico intimidatorio ammasso di muscoli con
l’orecchino al sopracciglio ed i capelli di un improbabile taglio a spazzola.
Sarebbe stato molto carino se solo non avesse ricoperto la carica di teppista numero uno dell’istituto. E, senza dubbio,
proprio perché conscio delle sue possibilità, si deliziava nel compiere le angherie più svariate e nell’importunare le
ragazze. Tuttavia, se da una parte era la generalizzazione fatta persona - colpiva in alto ed in basso senza farsi troppi
problemi nello sfidare la gerarchia o l’autorità - dall’altra era molto selettivo e si sceglieva le ragazze più piacenti.
C’erano quelle ardite, che gli correvano dietro con la brama d’affiancarlo in un moto di sfida contro il mondo e quelle
accondiscendenti, che accettavano reticenti la sua sfrontata corte piuttosto che essere sue nemiche.
In entrambi i casi erano delle sprovvedute che non avevano cognizione del pericolo che correvano a stare nella banda
di Tagawa, il quale esaminava bene ogni soggetto prima di decidere quale gli avrebbe fatto da zerbino e quale da
cameriera personale.
Eve gli stava dinnanzi con le mani incrociate al petto, sul nastro verde della divisa. Una smorfia si disegnò sul suo volto
pallido, il mento lievemente alzato in evidente segno di altezzosità.
- Oh, stai attento, potrei prendere la tua reticenza per vigliaccheria.- esordì in un sibilo.
- Vigliacco, a me?!- fece l’altro, visibilmente alterandosi.
I presenti si aspettavano una nuova, sardonica uscita da parte della bionda - che avrebbe avuto la sola utilità di fare
perdere definitivamente le staffe al teppista - ma invece Eve non rispose. Mantenne la sua espressione in bilico tra
l’altezzoso e l’indifferente, mentre gli lanciava uno sguardo seccato, dall’alto in basso.
- Beh, non rispondi!? Odio chi non risponde alle mie domande!- l’uscita di Osamu suonò come un ringhio, sdegnato.
- Sei noioso.- lei si limitò ad agitare lentamente una mano dinnanzi a sé, per poi voltarsi indietro e facendo per
andarsene - Levati dalle scatole.Tagawa serrò la mascella ed al suo gesto ogni spettatore comprese con espressione sgomenta che di lì a poco gli
sarebbero scoppiati i nervi. E sarebbe accaduto l’inevitabile.
- Ma come... come diavolo ti permetti?!- gridò, al limite. A tratti paonazzo e inasprito, strinse i pugni e mosse un passo
verso di lei, smuovendo la ghiaia del cortile. Eve si voltò indietro con una mano sulla bocca, falsamente stupita e
rammaricata.
- Oh, non immaginavo dovessi domandarle permesso. Mi scusi tanto signore, ma non è forse stato lei a dirmi che se
non ci stavo, me l’avrebbe fatta pagare? E allora, sto aspettando.Delle risatine sommesse si levarono timide ed a tratti timorose dalla folla, ma agli occhi di Tagawa pur sempre sintomo
di rivalsa da parte del resto degli studenti nei suoi confronti. Alcuni si limitavano a seguire allibiti la scena, infondo
nessuno gli aveva mai risposto a quel modo, e chi l’aveva fatto non era riuscito ad avere occasione per replicare.
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Era decisamente troppo per lui, nessuna l’aveva mai respinto e quella sciocca si era anche permessa di fargli fare
quella figura idiota davanti a tutta la scuola. Senza dubbio meritava una punizione esemplare.
- E va bene, come vuoi, ma poi non dirmi che non ti avevo avvertita!- le si avvicinò con pochi, fulminei passi di corsa
per colpirla allo stomaco.
La bionda non ebbe il tempo di anticiparlo; accusò il colpo chinandosi su sé stessa, boccheggiante e con gli occhi
spalancati al suolo. Prese qualche rapido respiro tentando di dominare il dolore, poi le sue pupille tornarono lucide,
rabbiose ed efferate.
- Figlio... di un cane!- lo urlò a denti stretti, prima di restituirgli un calcio dritto nella parte più preziosa e dolorosa che
un uomo possiede e, una volta che quello si fu piegato in due, approfittò della sua incapacità di reagire per sferrargli
un pugno dritto sui denti.
Tagawa - il respiro mozzo ed una scarica di lancinante spasmo ad irradiargli l’intero corpo dal basso ventre - cadde per
terra, tenendosi viso ed interno coscia, mentre lei gli assestava un nuovo calcio nella schiena, giusto al centro della
spina dorsale.
- Rifallo e sei morto, capito? Sei morto.- sibilò duramente accanto al suo orecchio, chinandosi ed afferrandogli la
mascella con un gesto rozzo e brutale. Poi, senza curarsi delle decine di occhi che la fissavano attoniti ed
impressionati, si rialzò e si spolverò la gonna della divisa, raccolse la cartella che le era caduta quando aveva accusato
il colpo all’addome e si diresse a passo lento verso il cancello antistante.
Osamu Tagawa era rimasto a terra, ansimante. Un rivolo di sangue gli era sfuggito dalle labbra per tingere la terra di
lievi gocce rosse e dense.
Si ravviò i capelli dietro la schiena e continuò a camminare.
Anche se era davvero stanca dopo un’intera giornata di scuola, stava recandosi a ritirare le schede per l’iscrizione al
club di atletica: quell’anno aveva deciso di iscriversi nonostante non fosse molto motivata. Le sarebbe piaciuto solo
intraprendere un corso sportivo, dove impegnarsi e dare il massimo, per arrivare a casa la sera sfinita, ma contenta.
Fu quando ragionava su questi concetti vacui che la vide. I suoi cortissimi capelli biondi riflettevano come uno specchio
i tenui colori del tramonto, rossastri e caldi come la fine di un’estate rovente, della quale ormai non era rimasto che il
ricordo.
Il corpo atletico si muoveva fasciato dai pantaloncini e dalla corta maglia rossa. Era velocissima. Un fulmine.
Correva come se avesse le ali ai piedi.
Tomomi non poté far altro che lasciare i suoi pensieri al vento e rimanere a guardarla come incantata. Eve Springer le
sembrò così diversa in quel momento, così differente da ogni volta che l’aveva colta nel bel mezzo di una lite o a
fissare il vuoto con la sua espressione assente ma grave.
E poi, beh, si chiamava Eve. Come la prima donna. Le mancava solo un serpente lungo l’avambraccio ed una chioma
fluente per completare l’opera.
Ma fortunatamente Mimura si scosse in tempo, incredula e a tratti meravigliata dai suoi stessi pensieri. Stava... forse
idolatrando una teppista?
La bionda, intanto, si era fermata a riprendere fiato ed ora stava bevendo da una borraccia, dinnanzi alla panchina che
le stava di fronte. Le perle di sudore le scivolavano sul collo, per poi essere repentinamente assorbite dall’asciugamano
candido che portava sulle spalle.
- Vuoi levarti dai piedi o devo pensarci io?- la sua voce la raggiunse forte e chiara, seppure fosse ancora voltata di
spalle, Eve si era irrimediabilmente accorta di lei.
Tomomi sussultò e si rese conto di essere stata proprio colta in flagrante mentre la fissava con le braccia al petto e
senza tentare di nasconderlo in alcun modo.
- Emh, no... cioè volevo dire... sì, insomma... scusami.- riuscì ad esprimersi alla fine, non riuscendo a riordinare in
tempo le proprie considerazioni. Si mosse per raggiunger la pista, stando bene attenta a non avvicinarsi troppo.
- Posso... posso allenarmi con te?- la timida domanda a fior di labbra fu soffiata, quasi timorosamente.
- No.- fu la risposta secca dell’altra. Ed il discorso cadde.
Ma Tomomi stava per farsi prendere da quell’esaltante smania di fare che più volte aveva distinto le sue azioni e,
volente o nolente, faceva parte del suo carattere.
- Eh...- cominciò - Andiamo, una corsetta veloce!- Non ho bisogno di mocciose tra i piedi.- Eve era ancora apparentemente paziente; poggiò la borraccia sulla panca e
si asciugò il volto, noncurante.
- Ma... ma non ti sarò d’impiccio, io... sono brava, sai?- un nuovo tentativo, stavolta era intenzionata di mostrarle ciò
di cui era capace. Eve ne sarebbe andata matta ed, entusiasta, l’avrebbe accettata. Sarebbero diventate grandi
amiche, l’avrebbe accompagnata dovunque, le avrebbe raccontato i suoi segreti e sarebbe venuta a conoscenza dei
suoi, perché di sicuro una come lei doveva ben nasconderne, di segreti!
- Non m’interessa.- il sogno di Mimura s’infranse in corsa contro un solido muro di mattoni. In mille pezzi, si affrettò a
raccogliere i cocci della visione che aveva appena avuto, sperando che non fosse troppo tardi per ricostituirla.
- Ma a me sì! Voglio correre con te, Eve!- insistette, aggrappandosi all’ultima spiaggia, picchiando un piede e
stringendo i pungi. Stavolta la bionda si voltò verso di lei con un sopracciglio alzato e le mostrò un’aria sdegnata ed
incredula, la guardò dall’alto al basso.
- Ma che razza di invasata sei?- le sue labbra si schiusero ed il suo tono impassibile raggiunse l’altra come una
pugnalata allo stomaco. Tomomi accusò il colpo ma, addolorata, si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
- Perché... sei così cattiva?- le uscì di bocca, rassegnata - Tu sei... sei così refrattaria... difficile... se hai qualche
problema... affidati a qualcuno... c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltare, ad ascoltarti.L’aveva osservata di sottecchi, decidendo di vuotare il sacco. Ed ora che gliel’aveva detto stava aspettando una sua
replica. Così tesa in trepidazione si chiese se forse non avesse fatto meglio a tenere la bocca chiusa per evitare di
essere presa a pugni. In un attimo si lasciò cogliere da un’ansia opprimente, poi Eve si voltò verso di lei, il viso
deformato in un sorriso astioso, in una smorfia ostile.
- Ma dico, sei completamente suonata? Che stai vaneggiando, mi stai dicendo di rivolgermi ad un consultorio? Stai
bene attenta o mi porto via il tuo bel nasino con questo.- le mostrò un pugno chiuso, l’altra mano appoggiata all’anca
destra, accanto al ventre appena scoperto dalla maglia della divisa sportiva.
Non era minacciosa, solo a tratti terribilmente agghiacciante con la sua perenne aria vuota, leggera.
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- Non... non ho paura di te, sto solo cercando di... starti vicino, non lo so, darti una mano!- mentì, tentando di
assumere una posizione stabile per le proprie ginocchia tremanti.
La bionda si voltò di nuovo e si mosse velocemente verso di lei, pochi rapidi passi e le abbrancò il collo con una morsa
schiacciante delle dita. Tomomi deglutì amaro, o perlomeno tentò di farlo, la faringe oppressa contro il palmo della
bionda.
- Ho detto di levarti dai piedi, o ti strappo il fegato e te lo faccio ingoiare.- sibilò tra i denti, così vicino da saturarle i
sensi con il suo intenso odore d’odio, d’intolleranza, di cieca furia.
Ci vollero pochi secondi perché l’altra spalancasse gli occhi e, atterrita da ciò che aveva scorto dietro le iridi azzurre
della compagna, tornasse sui suoi passi di corsa. La sua repentina e disperata fuga fuori dal campo fu accompagnata
da una risata tetra, folle, quasi insana: Eve aveva gettato il capo all’indietro ed ora i suoi occhi stavano fissando opachi
il vermiglio delle nuvole passeggere sopra la sua testa, le labbra piegate in un ghigno disperato.
Si trovò a pochi metri da loro, ma se ne accorse troppo tardi per cambiare strada.
Stava entrando a scuola, afflitta e con il pensiero rivolto al terribile incontro di qualche giorno prima, quando lo
sguardo spento di Eve si era trasformato in un terribile fendente arroventato.
Quando incontrò nuovamente gli occhi gelidi della bionda li vide distratti, rivolti ai tratti marcati del viso di Osamu
Tagawa, che le teneva il braccio e la conduceva con sé oltre il cancello.
Tomomi si fece incredula, domandandosi fulmineamente com’era possibile che quei due andassero d’amore e
d’accordo, se qualche settimana prima si erano presi a pugni davanti a tutto l’istituto. Lui sembrava aver riacquistato
l’aria boriosa ed altezzosa di sempre, forte di avere un vanto in più accanto a sé, mentre lei, condiscendente, stava
abbozzando un sorrisetto altero e sprezzante, quasi fosse lieta di avere il re dei bulli al suo seguito, al guinzaglio come
un barboncino da compagnia.
E, per una qualche masochistica ragione, Mimura si decise che doveva di nuovo tentare di parlare con lei. Sebbene non
l’avesse perdonata per le parole che le aveva rivolto durante il loro ultimo incontro, c’era qualcosa dentro sé che non
l’avrebbe fatta stare tranquilla, se prima non avesse risolto le cose - o perlomeno tentato di farlo.
Era d’altro canto ben conscia di essere piuttosto ossessiva, certe volte, ma era anche profondamente fiduciosa nel
mondo e convinta di poter agire per il bene di chi la circondava, impegnandosi e sfruttando la propria impetuosità per
qualcosa di costruttivo.
La cosa che non sapeva, era che Eve era ben lungi dall’accettare una qualsiasi proposta, costruttiva o meno che fosse,
e men che meno da lei.
Nonostante ciò, la sera stessa si fermò qualche minuto di più, decisa ad attendere la bionda che usciva dal campo,
dopo i consueti allenamenti. Aspettò a lungo ma non arrivò nessuno, così optò per andare a dare un’occhiata dentro e
controllare che lei fosse ancora lì.
Come pensava, la trovò.
Eve era piegata su sé stessa, la ginocchia scoperte aderivano al terreno ghiaioso che, indubbiamente, le avrebbe
lasciato evidenti segni sulla pelle. Ma in quel momento pareva non badarci. Il sole al tramonto faceva della sua figura
una sagoma scura in controluce e della sua ombra una bislunga macchia che si allargava sino al limitare della rete.
Tomomi si chiese confusa che stesse accadendo, ma non si avvicinò oltre, aguzzando lo sguardo e sistemandosi gli
occhiali sul naso.
Il campo era deserto ed Eve se ne stava accovacciata a terra con la mano destra stretta al braccio sinistro, gli occhi
chiusi, la bocca semiaperta. Sembrava comprimere al petto il nucleo ardente di una sfera infuocata che, presto o tardi,
sarebbe esplosa.
Il frusciare degli alberi retrostanti pareva muto e spersonalizzato; ogni atomo convergeva verso di lei, persino il sole
carminio sembrava volutamente essersi soffermato a temporeggiare per assistere a quello spettacolo senza voce, ben
deciso a non lasciare il posto al crepuscolo.
Forse stava male. Magari non riusciva a rialzarsi perché aveva avuto uno strappo, oppure aveva urtato da qualche
parte. La ragazza dai lunghi capelli castani si era finalmente decisa a muovere qualche passo in direzione del campo,
quando l’altra scostò le dita dal braccio e lasciò che copiose stille vermiglie gocciolassero sulla salvietta bianca ai suoi
piedi, deflorandone il candido ed uniforme biancore.
Mentre Tomomi trasaliva, l’espressione di Eve si mostrò contratta e increspata, una maschera di sudore e lacrime
contro gli ultimi raggi orizzontali. I suoi occhi offuscati mutarono raggio di curvatura e, da un punto imprecisato del
terreno, presero a fissare le dita sporche di quella mano che fino a qualche istante prima era stata pressata contro il
profondo taglio trasversale traboccante di sangue.
Lentamente si alzò in piedi, ma dal suo petto scosso, perfino i singhiozzi parevano muti.
Le lacrime le percorrevano il viso come acqua da una cascata, ma nell’aria non giungeva alcun suono. Nessun sospiro,
né l’ansimare grave di chi piange. Sembrava... morta.
L’altra fu come colta da uno spasimo improvviso. Si portò rapidamente una mano a sigillarsi le labbra, serrò occhi e
pugni. Incapace di razionalizzare altro, rimase lì impalata a fissare il buio delle sue palpebre chiuse, immersa in un
vortice di sgomento.
- Certe persone non si fanno mai gli affari propri.- una voce lontana la raggiunse come un fulmine, gelida ma rotta,
tanto da farla sussultare di nuovo, mentre spalancava gli occhi e si trovava quelli di Eve a fissarla duramente.
- I-io... E-Eve... stai sanguinando...- riuscì ad esprimersi, tentando di formulare una frase adatta. Ma in quel momento
non c’erano davvero frasi opportune da dire; il silenzio penetrava incontrastato ogni altro suono, gli occhi taglienti
della bionda erano terribilmente inquietanti, opachi come quelli di qualcuno che non possedeva coscienza, ragione
alcuna.
Tomomi mosse un istintivo passo indietro nell’accorgersi che ora Eve la stava raggiungendo a pochi metri dal limitare
dello spiazzo, ma finì per colpire vigorosamente la schiena contro la rete di maglie robuste, in un disorganico suono
metallico.
Proprio quando si accorse di non potersi muovere di un solo centimetro, un bagliore tenue scaturì da quella che scoprì
essere la lama di un coltello a serramanico, saldamente avvinto nella mano destra della compagna. Il filo rifletteva nei
suoi occhi la luce rossastra del sole calante dietro le basse fronde, tanto da indurla a sbattere più volte gli occhi per
vincere quell’intenso luccichio.
136
Per poco non la colse un improvviso infarto: Eve l’afferrò repentinamente per la gola e le piantò la lama dinnanzi agli
occhi, muovendola a comprendere che l’intensa colorazione rossastra della lama non era il riverbero dei raggi del sole,
ma nient’altro che sangue.
Le percorse il volto con la punta dell’arma, le dita avvinghiate alla carne della trachea, esercitò una crudele pressione
quando giunse a livello della tempia.
Tomomi aveva preso a tremare in preda al dolore che pareva volerle squarciare la gola ed al terrore che le rimescolava
senza pietà le viscere. Incapace di respirare, boccheggiava disperata e per la prima volta nella sua vita desiderò
ardentemente di trovarsi altrove, lontano, in salvo.
Invocò una spasmodica e mentale richiesta d’aiuto che nessuno sarebbe stato mai in grado di cogliere, soprattutto al
cospetto di quel diavolo dagli occhi azzurri ora sbarrati ed a tratti folli, a pochi centimetri dai suoi.
- Lo vedo che sanguino.- sibilò la voce insana e trasfigurata della bionda.
E d’un tratto Eve si fece grande, immensa, la sovrastò col fuoco, con il rancore, con le sue iridi deformate e stravolte
come pozze infinite di oblio.
- Vuoi morire?! Dimmelo, dimmi, vuoi morire?!- la sua voce come un urlo tagliente di mille, furiose, terribili erinni. La
sua maschera di ghiaccio in mille pezzi, la ragione lontano miglia e miglia dal suo volto, il bruciante rancore ad
ustionarle le vene.
Mimura non seppe mai dove trovò le forze per voltarsi e prendere a correre più veloce che poté, finché le gambe la
sostennero, forse mossa unicamente dal panico, il più lontano possibile da quella cruda ferocia...
- Faceva l’indifferente, a tratti superba. Non parlava con nessuno se non per dare ordini, per insultare o per umiliare. E
poi c’era quell’Osamu Tagawa che se l’era ingraziata per non essere preso in giro o perdere credibilità. Ma Eve lo
sapeva fin troppo bene e lo usava come una specie di schiavetto. Avevamo... paura di lei. Poi se ne andò, nessuno
seppe nulla, semplicemente un giorno smise di venire a scuola e scoprimmo che si era trasferita a Tokio.Ken rimase in silenzio, i suoi occhi neri si erano fatti severi e rigidi.
Non era incredulo, dopotutto sapeva della ferita al braccio.
Non era nemmeno deluso, infondo Eve aveva appena perso suo fratello e doveva essere devastata dal dolore.
Nessun biasimo, nessun’accusa, eppure desiderava ardentemente che Tomomi gli avesse appena raccontato una
menzogna. Non perché il corso degli eventi fosse costellato di errori, piuttosto perché lui non era stato là, accanto a
lei, in quel momento, in quel periodo. Non sapeva nemmeno bene di che utilità avrebbe potuto essere e di certo non si
illudeva che forse sarebbe stato in grado di aiutarla, ma provarci, perlomeno... starle accanto, tenderle la mano.
Fu lì per aprire bocca, quando una voce li interruppe. Alle proprie spalle, in quell’istante udirla fu come ricevere un
pugno in pieno stomaco.
- Ken! Che ci fai qui?- Eve sorrideva, una mano impegnata a discostarsi la frangia dalla fronte - Mi aspettavi?Era un sorriso pulito e sincero, cristallino, incorniciato da un’ordinata moltitudine di ciocche dorate, lisce e morbide
accanto al volto bianco.
Non appena Tomomi la vide, arretrò di qualche passo e, seppur spaventata, non riuscì a distogliere il proprio sguardo
a tratti incredulo da quel sorriso gentile. Fu colta dalla bizzarra supposizione che quella che aveva di fronte in realtà
non fosse per niente Eve Springer, ma soltanto una che le somigliava moltissimo.
- Ken? Che c’è?- la bionda lo scosse, passandogli le dita dinnanzi agli occhi ed attendendo che il portiere le accogliesse
tra le proprie mani e replicasse.
- Eh? Niente, sono solo un po’ stanco. Certo che ti aspettavo, andiamo!- fece due passi in avanti, stavolta afferrandole
affabilmente le spalle e conducendola via come ad evitare che il suo sguardo incrociasse quello di Tomomi.
Ma Eve l’aveva già notata.
- Non la saluti?- chiese, alzando un sopracciglio ed assumendo un’aria stranita.
- Eh?- rispose lui, distratto.
- Guarda che ho visto che ci stavi parlando fino a due minuti fa!- la ragazza cacciò la lingua, arricciando il naso in
un’espressione maliziosa ed infantile delle sue.
- Amh... ciao manager.- si limitò a dire Wakashimazu, mentre la diretta interessata accennò un debole gesto con la
mano, sforzandosi di sorridere smarrita: sembrava che Eve non si ricordasse di lei, o perlomeno non l’avesse
riconosciuta.
I due si allontanarono rapidamente, lasciandola in piedi dove stava, sola con i suoi pensieri.
Si alzò ed indossò la prima t-shirt che trovò ai piedi del materasso. Troppo larga, le ricadde sotto le natiche ed a
scoprirle una spalla.
Uscendo sul balcone, Eve lanciò un’occhiata indietro al proprio letto, dove Ken dormiva placido tra le lenzuola confuse
e spiegazzate, il torace scoperto e glabro si alzava ed abbassava ad intervalli regolari, mentre la folta chioma corvina
era distesa scompostamente sul cuscino.
Sospirò ed appoggiò le braccia al parapetto. Aveva decisamente bisogno di fermarsi un attimo a pensare.
Era stato piuttosto difficoltoso nascondere la sorpresa, quel pomeriggio, quando i suoi occhi avevano incontrato la
figura conosciuta di Tomomi Mimura.
L’aveva vista parlare con Ken dal limitare del campo, al termine della partita: se ne stavano là in piedi l’uno dinnanzi
all’altra e lei sembrava piuttosto concitata, tanto che si era domandata se non fosse un’illusione. Fortunatamente
aveva avuto il tempo di carburare e decidere di fingere un’ingenua giovialità, una muta noncuranza, dissimulare,
passare oltre ad una così inaspettata coincidenza del destino.
Ci era riuscita bene, ottimamente.
Eppure rivedere quella ragazza era stato come se il sangue del passato ritornasse sulle sue mani più viscoso e
indelebile che mai.
L’odio, il dolore, la cicatrice.
Ogni cosa era tornata a galla, dopo tanto tempo. Okinawa, la vecchia scuola, la vecchia, crudele Eve.
Fece in tempo a scuotere di nuovo il capo che un inaspettato calore la colse alla schiena ed un paio di braccia ben
tornite le cinsero la vita.
Ken.
137
Ken era sempre lì, compariva sempre quando un nero precipizio si apriva sotto i suoi piedi, fulgido, eroico. Ed il solo
pensare al suo nome, il solo pronunciarlo a fior di labbra la faceva stare meglio, come una preghiera salvifica e senza
voce.
- Tu sai chi è quella ragazza, la manager, vero?- il sussurro di Wakashimazu si infranse sul suo collo, mentre alcune
ciocche scure scivolarono sulla pelle scoperta della sua spalla, solleticandole la clavicola.
- Ti ha raccontato tutto...- fu la replica di Eve, che suonò come una lontana rassegnazione, più che una timorosa
domanda.
Lui fece un cenno con la testa. Eve lo percepì immediatamente.
Già, inevitabile. Da come Tomomi l’aveva guardata quel pomeriggio, senza dubbio si stava rammaricando di aver
aperto bocca riguardo qualcosa di compromettente e più grande di lei... e che forse avrebbe pagato per un’azione del
genere. Aveva nascosto lo sgomento con un’abbozzata noncuranza, ma decisamente doveva migliorare la tecnica.
- E’ strano...- No, è la verità.- lo interruppe, prima che il compagno potesse aggiungere altro - Immagino una come lei non sia
capace di mentire, l’hai vista meglio di me, è piena d’iniziativa, fin troppo spontanea... o almeno così la ricordo.Lui abbozzò un sorrisetto, ripensando inevitabilmente alle continue sfuriate di Kojiro.
- Non è cambiata.- commentò, strofinando le mani al ventre di lei.
- Beh, allora avrai capito da te che non è capace di ordire trame a danno altrui. E’ una di quelle che vengono subito
prese dal senso di colpa ed allora non tentano nemmeno... oppure di quelle troppo ingenue per poter anche solo
pensare d’essere capaci di una cosa del genere.Di nuovo Wakashimazu poggiò il volto alla spalla nuda della compagna, chinandosi e curvandosi su di lei. Qualche
grillo solitario si destreggiava in un assolo notturno, le luci dei lampioni lontani sulla strada accompagnavano il
passaggio di qualche auto solitaria.
- Eve, eri scossa...- si sentì in dovere di parlarne, mettere allo scoperto ciò che era accaduto. Per rassicurarla,
mostrarle che nulla era più così, che tutto era cambiato.
- Ken, ero pazza.- gli occhi della bionda si socchiusero lentamente, per poi tornare a fissare i meandri bui dei tetti
sovrastati dalla notte - Ero folle di dolore, non ero neanche più... una persona.Distese per un attimo le palpebre e le sue iridi tornarono ad essere opache e fosche, spente ed inespressive.
- E tutti erano così... lontani. Chi ancora larva, chi già crisalide, mentre io... schiacciata sul fondo vuoto di una strada
che non avrebbe mai condotto da nessuna parte.- il tono non incrinato, non rotto, ma placido ed impersonale, come
un’eco lontana - Non ero più niente, non avevo più nulla da perdere, c’ero solo io. Io ed il mio desiderio di annientare
ed annientarmi, farmi una bella dose mortale di annullamento, come l’overdose di mio fratello. Ed allora finalmente gli
avrei dato pace... se fossi riuscita a distruggermi dentro, sarebbe stato un po’ come espiare.Questa volta il portiere era rimasto immobile, in quieto ascolto, in attenta percezione, mentre il profumo della pelle
della compagna si incanalava inebriante dentro la propria gola, dolceamaro come la sua voce.
- Ora capisci perché mia madre si raccomanda sempre di non cacciarmi nei guai?- aggiunse con un sorriso assente Non è una petulante supplica di quelle che fanno tutte le madri. Io e lei, noi... abbiamo avuto un bel trascorso
turbolento a causa mia e, Ken, so quello che stai cercando di fare, ma ti assicuro...- si voltò verso di lui e gli cinse il
volto tra le mani - Se tu fossi stato accanto a me nel periodo in cui dovevo superare la cosa, se mi avessi aiutata a
farlo... credo che avrei finito con l’odiarti. Avrei finito per appoggiarmi a te totalmente, a dipendere da ogni tuo gesto
ed alla fine... non mi sarebbe rimasto nient’altro che odio.Gli zigomi di lui, semi illuminati dal chiarore tenue della luna, ebbero un moto spontaneo mentre si avvicinava alla
compagna e le posava un lieve bacio sulla fronte.
Le afferrò le mani e fece in modo di distendere i suoi palmi sul proprio torace, al terminare dello sterno. Tra ossa e
viscere, tra cuore e nervi.
- Senti? Tu sei qui.- il suo sorriso si fece disarmante - Ci sei da quando ho memoria, ci sei sempre stata, ho solo
dovuto trovarti. E ogni volta... che ti bacio, ogni volta che facciamo l’amore... ogni volta che mi abbracci, mi sento
felice davvero.- le scostò la frangia dagli occhi, poi le carezzò l’incavo tra seno e collo - Eve, non ti dirò che avrei
voluto evitarti tutto ciò che hai passato, perché non lo accetteresti. Però ti giuro, ti giuro che non ti lascerò andare
mai.Che non ti lascerò cadere.
Che ti sosterrò, che ti custodirò, che ti sposerò.
- Ken...- di nuovo il suo nome a fior di labbra, avvolgente e rassicurante come un miracolo; Eve lo strinse a sé
lasciando che lui racchiudesse le proprie morbide e muliebri forme in un abbraccio caldo e conciliatorio, carico e denso,
vivo come l’odore della terra.
La tiepida aria primaverile s’insinuava tra i suoi lunghissimi capelli, accompagnandolo lungo la strada.
Ken si sistemò il borsone su una spalla, mentre con una mano si massaggiava quella libera.
Finalmente il grande giorno dell’incontro con la Nankatsu era arrivato: la partita si sarebbe svolta nel tardo
pomeriggio, ma la partenza era stata fissata per metà mattina. Eve e le altre avrebbero raggiunto il distretto di
Fujisawa in tempo per assistere al match, con tutti gli altri spettatori.
Già, Eve... l’aveva lasciata che ancora dormiva, l’aveva baciata sulle labbra e le aveva coperto un braccio con il
lenzuolo, scostandosi da lei con la promessa di ritrovarsi presto, il giorno stesso.
La notte prima erano rimasti a lungo sul terrazzo in silenzio, immersi nel placido andirivieni di suoni e colori cupi dei
loro respiri consonanti e delle nuvole che oscuravano armoniosamente la luminosa luna dai chiaroscurali crateri.
Di nuovo Ken ed Eve, senza limiti o costrizioni, in un mondo che non esisteva all’infuori della stretta in cui erano
immersi, addossati l’uno alla pelle dell’altra, carne contro carne, anima contro anima.
- Salve a tutti.- il suo saluto risuonò per lo spiazzo sassoso, dove il Toho al completo stava sistemando le proprie
sacche atletiche nel vano di un bus.
- Era ora, Ken! Sono anni che ti aspettiamo!- Kojiro era evidentemente nervoso, il suo cipiglio scuro in netto contrasto
con il grigio cupo della giacca che portava sopra la tuta - Piuttosto, dov'è Takeshi?- E io che ne so, capitano.- Wakashimazu rise, avvicinandosi al pullman e chinandosi per depositare a terra il proprio
borsone - Sarà in ritardo come suo solito.138
- Ah, quell’idiota!- il bomber si picchiò il pugno destro sul palmo aperto dell’altra mano - Se scopro dov’è andato a
cacciarsi, io...- Arriverà, non farla troppo melodrammatica.- Kazuki fece capolino dalla porta del bus, rimanendo in bilico sugli ultimi
gradini.
Hyuga scosse il capo, lanciandogli un’occhiata in tralice e ricordandogli per l’ennesima volta che Sawada era il re dei
ritardi e che occorreva dargli una bella strigliata perché non sarebbe arrivato prima di un quarto d’ora, lo conosceva
bene lui, era ora di finirla!
- D’accordo, d’accordo.- Sorimachi si sporse ancora un po’, cavando il cellulare dalla tasca e rimanendo in bilico
aggrappato al largo maniglione di plastica che copriva i primi due sedili - Allora chiamo casa sua, se sta dormendo lo
sapremo in diretta.Ken riuscì a farsi spazio tra le sacche dei compagni ed infilò la sua, incastrandola a dovere. Poi si abbassò la cerniera
della casacca e si rivoltò le maniche, rimanendo appoggiato al vano, mentre tutte le attenzioni erano canalizzate al
compagno. Fu questione di secondi perché questo chiudesse la conversazione, scuotesse il capo ed annunciasse al
resto della squadra che la madre di Takeshi gli aveva appena comunicato che il ragazzo aveva già lasciato casa da un
bel po’.
- Come sarebbe a dire...? E dove cavolo è?!- saltò su Imai, scuotendo violentemente il capo - E come se non bastasse,
ci siamo persi anche la manager!- Ma chi se ne importa della manager, possiamo giocare anche senza, no?- Furuta, poco lontano, calciò via un ciottolo.
- Magari lei e Sawada sono in fuga d’amore!- Shimano la buttò sul ridere, portandosi le braccia al petto ed
appoggiandosi alla fiancata del pullman.
- Beh, non ci resta che aspettare un altro po’. Arriverà, Kojiro.- Kazuki tentò di frenare con la diplomazia l’ondata di
urla che sarebbe sicuramente scaturita di lì a poco dalla bocca del capitano per rimproverare i compagni a proposito di
quel genere di battute cretine.
La strategia di Sorimachi parve funzionare. I due si scambiarono un’occhiata eloquente, poi Hyuga si appoggiò con la
schiena al muretto, tentando di non implodere nel chiudere gli occhi e modulare il respiro.
Pochi passi più in là, Ken sbadigliò.
Ci avrebbe scommesso il suo paio di guanti più comodi che non appena Takeshi fosse arrivato, Kojiro l’avrebbe ridotto
ad un simpatico insaccato - completo di spago e tutto il resto - e l’avrebbe appeso a testa in giù al tetto del bus per
tutta la durata del viaggio.
Quando lo scoccare del decimo minuto dalla politica uscita di Kazuki si fece ben udire dall’orologio del capitano, questo
serrò la mascella, in un sonoro schianto di nervi.
- Adesso lo vado a prendere!- esclamò senza mezzi termini.
- E dove? A casa non c’è.- fortuna che il Toho vantava un portiere realista.
- Accidenti!- fu la secca risposta dell’altro, di fronte ai fatti evidenti - Abbiamo un pullman da prendere! Se non arriva
entro un millesimo di secondo, lo lasciamo qui!- Lasciarlo qui!?- Furuta fece tanto d’occhi, calciando di nuovo il primo sasso che gli capitò a tiro - Ma capitano,
Sawada è... Sawada!Kojiro grugnì, avvicinandosi di nuovo alla porta dell’autobus ed afferrando il telefono dalle mani di Sorimachi.
- Ma... e ora chi vuoi chiamare?- gli chiese quest’ultimo, scosso dai suoi pensieri.
- Casa mia. Può darsi che si sia fermato lì.- categorico, il capitano si trovò a considerare l’ultima opzione: solitamente
quando si trattava di recarsi agli allenamenti serali, Takeshi passava da casa sua e poi da Ken, di modo da arrivare
insieme al campo. Succedeva così anche in occasione delle trasferte o delle partite fuori casa.
Quella mattina Hyuga era uscito presto, ed a dirla tutta non aveva atteso nessuno dei due, forse proprio a causa del
fremente desiderio che tutto fosse perfetto per quel giorno... e invece quel deficiente si permetteva anche di arrivare
in ritardo!
Premette il tasto di fine chiamata. Niente, non era passato nemmeno a casa sua.
- Ma si può sapere dove cavolo è!?- chiese nervosamente Shimano, in un moto di stizza.
- E’ inutile che mi urli nelle orecchie, non risolvi niente!- fu la replica aggressiva di Kawabe, che lo spintonò lontano da
sé giusto in tempo per far notare a Ken che gli animi si stavano riscaldando. Così, prima che scoppiasse una faida
interna, il portiere decise di intervenire, strappando il cellulare di mano a Kojiro.
- Dai qua, magari è da me.- e compose il numero di casa.
Una piacevole, piacevolissima voce femminile dall’altra parte lo fece cadere in uno strano stato di calore e tenerezza,
come se il fatto di chiamare casa ed udire la voce di Eve lo facesse sentire parte di una famiglia speciale.
- Ehilà! Salve gattino!- fu la risposta allegra di lei, mentre si alzava sulle punte dei piedi per infilare il plico di
documenti che aveva appena esaminato sul ripiano più alto - Che c’è? Hai dimenticato qualcosa?- No, no...- si scosse lui - Anzi, Takeshi.- Hai dimenticato Takeshi...?- la bionda riuscì ad afferrare pochi centimetri più in là il raccoglitore ad anelli che
conteneva le richieste di iscrizione per l’anno corrente di almeno un centinaio di aspiranti karateka.
- Già, non si trova più. Volevo sapere se era passato di lì.- Ken tentò di esprimersi sopra il rumore di scartoffie e
fascicoli, segno che Eve si stava dando parecchio daffare.
- Negativo, capo.- sorrise lei, incastrando il telefono tra spalla e orecchio e, con entrambe le mani libere, separando un
primo pacco cartigli d’interesse burocratico da un secondo che le premeva sistemare.
- Va bene, allora...- il compagno fu interrotto da un tono maschile che si inserì rapido in secondo piano. Tono che
conosceva molto bene.
- Chi è?- fece, severo non per rigore, ma per il suo naturale modo d’essere.
Eve si voltò verso il nuovo venuto, non riuscendo a trattenere un sorriso divertito.
- Suo figlio. Pare si siano persi un giocatore.- la sua voce serena fu accompagnata da un innocente stringersi nelle
spalle, mentre l’uomo le si avvicinò e le chiese di passargli la cornetta.
- Eve? Sei ancora lì? Ev...- il portiere tentò di distinguere i suoni di sottofondo, richiamando l’attenzione della propria
ragazza.
- Ken?- la voce di suo padre, così improvvisamente vicina, lo fece sussultare.
- Papà...- riuscì a dire, inaspettatamente col fiato in gola.
139
Non si capacitò del perché, o forse lo comprese nell’immediato, troppo repentinamente perché potesse razionalizzare
che erano secoli che suo padre non lo chiamava per nome.
E d’un tratto gli tornò alla mente il suo volto maturo ed inflessibile, nobile e monolitico.
Lo stesso volto che mille volte l’aveva fissato con rigidità e pacatezza durante il kumite.
Lo stesso volto che si era trovato a fronteggiare nelle infiammate battaglie che avevano combattuto.
Lo stesso volto che con estrema semplicità aveva accolto Eve come segretaria, pochi giorni prima.
- Torna vincitore.- furono le uniche parole che udì, prima l’uomo lasciasse il ricevitore in mano alla bionda con un
benevolo e protettivo sorriso rivolto ai suoi occhi azzurri.
Ci volle qualche buon istante perché anche la ragazza si capacitasse di ciò che il padre di Ken aveva appena detto e
subitamente venisse colta da una morsa di malinconica tenerezza al cuore nel considerare che sentirsi rivolgere certe
parole da un padre doveva essere bellissimo.
Attese che il signor Wakashimazu fosse tornato dagli allievi, prima di schiarirsi la voce e tornare a parlare al telefono.
- Ehi, ehi! Sentito il tuo papino? Io mi aggrego!- rise di nuovo, sperando che la comunicazione non si fosse interrotta.
- O-okay. Ci vediamo questo pomeriggio.- in realtà Ken non sapeva se essere sconvolto o lusingato.
- Certo, a dopo!- la voce della bionda lo raggiunse solare per l’ultima volta.
- Ciao...- ma Eve aveva già riattaccato e lui rimase in piedi con il telefonino in mano a fissare il vuoto, finché Hyuga
non lo riportò alla realtà.
- E allora?Il portiere si scosse, il sorriso non visto ma percepito del padre si andò ad imprimere saldamente sotto la sua pelle.
- Allora niente. Non è nemmeno da me.- negò col capo.
- Va bene, non possiamo più aspettarlo, o saltano preparazione e tutto il resto.- risoluto, il capitano aggrottò di nuovo
le sopracciglia - Sarebbe anche controproducente disperderci per Tokio alla sua ricerca, se non abbiamo un punto di
riferimento. Avanti, tutti su!Al suo cenno, gli ultimi del gruppo si apprestarono a chiudere il vano con un sonoro tonfo perché l’intera squadra
prendesse posto sull’autobus che, tempo pochi secondi, si mise in moto e partì rapido per le strade già congestionate
dal traffico.
Kazuki affondò nel proprio sedile, riponendo il cellulare nella tasca della casacca.
- Accidenti a Takeshi e a chi lo veste alla mattina!Sua madre le aveva lasciato un biglietto nel quale le raccomandava di fare la spesa e cucinare qualcosa di
commestibile per pranzo, così Eve, non appena terminate le sue ore mattutine al dojo, era filata in direzione del primo
supermercato con l’intento di cavarsela in tempo per il treno delle due che avrebbe dovuto prendere insieme ad Aya e
Mizuki, puntuali per assistere alla partita.
A passo spedito camminava lungo il marciapiede, reggendo una grande borsa bianca con una mano. Fu un caso che si
voltasse e scorgesse due figure conosciute all’angolo del campo pubblico.
- No, Tomomi non chiamare!- la voce di Takeshi era acuta e supplichevole.
- E invece sì, ti staranno sicuramente cercando!- un secondo tono lo raggiunse, altrettanto determinato e implorante,
tono che la bionda riconobbe essere quello della manager del Toho.
L’uno dinnanzi all’altra, i due stavano contendendosi un telefono cellulare.
Eve considerò che se fosse passata facendo orecchie da mercante l’avrebbero notata in ogni caso, anche se non fosse
stato per la presenza di Mimura, sicuramente sarebbe andata incontro a Takeshi. Si schiarì la voce e tirò un sospiro
liberatorio, poi si decise: si buttò alle spalle ciò che era stata e ciò che aveva rappresentato, ben decisa a mostrarsi
come ora era diventata, senza più la necessità di danneggiare nessuno.
- Ma che state facendo voi due?- così si avvicinò, attraversando la strada e facendo contrappeso con l’altra mano sulla
borsa in plastica.
Tomomi zittì all’istante, i suoi occhi divennero due bulbi smarriti, mentre Takeshi si limitò a confondere la sorpresa
abbassando la testa.
- Di’ un po’, ma tu non dovevi essere sulla strada per disputare l’amichevole del secolo?- fece, sospettosa ed insieme
perplessa nello scoprirlo in tutt’altro posto.
- Sì.- Sawada annuì con sguardo affranto.
- Beh, e allora perché sei qui a litigare per un telefonino? Non è che volevi scappare con lei? Guarda che poi Mizuki ti
fa a pezzi!- scherzò, indicando la manager con un pollice. Quest’ultima era ammutolita ed a tratti confusa dal
comportamento leggero ed amichevole di quella che ricordava essere una sregolata e crudele fiera dagli occhi di
ghiaccio e dal cuore nero.
- No... io...- ma il centrocampista non riuscì a proseguire, voltò loro le spalle e mosse di corsa qualche passo, per
andarsi a sedere sulla prima panca di pietra che trovò libera, le mani alla testa.
Eve aggrottò le sopracciglia e per la prima volta dopo anni, si voltò a rivolgere il proprio sguardo a Tomomi che,
incredula, ma dopotutto rassicurata, notò che non era efferato e feroce, ma semplice ed interrogativo.
- Che gli prende?- domandò la bionda, stringendosi nelle spalle.
- Io... io non lo so... non me lo vuole dire.- rispose l’altra, tentando di familiarizzare col fatto che Eve sembrava essere
un’altra persona... e che le stava dedicando attenzioni come ad una qualunque altra compagna di scuola. Come ad una
ragazza normale.
- Ma... temo che debba essere successo qualcosa con la squadra, ieri lui e il capitano discutevano.- si fece coraggio e
si decise a replicare in tono dimesso, riponendo il cellulare nella borsetta.
- Oh.- fu il solo commento dell’ex velocista, che immaginò dovesse essersi trattato di una discussione piuttosto seria,
dal momento che un ragazzo paziente e dall’animo buono come Takeshi aveva reagito a quel modo.
- Dovremmo convincerlo a raggiungere gli altri col primo treno.- fece Mimura tra sé, scuotendo il capo seppur
mantenendosi rigida e fissa quasi avesse timore di un brusco movimento. Ma Eve rise di nuovo.
- Ah, sei tu la manager, che c’entro io? Su, coraggio, va’ da lui e fa’ il tuo lavoro.- le afferrò le spalle e la spinse
lievemente verso l’oggetto della discussione. Così, mentre Tomomi si vide costretta a raggiungere Sawada, la bionda
rimase braccia ai fianchi ad assistere alla lontana conversazione, tentando di carpire qualche parola.
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La manager si sistemò gli occhiali e coprì a brevi passi la distanza che la separava dal compagno, poi si accovacciò sul
terreno erboso dinnanzi a lui e gli rivolse un sorriso gentile. Sentiva ancora l’impronta delle mani di Eve sulla propria
schiena, impossibili da contraddire.
- I tuoi amici ti aspettano, stanno per giocare la partita più importante dell’anno e tu che sei una delle punte del Toho
sei qui?- Possono fare benissimo a meno di me.- ribatté seccamente lui, alzando gli occhi in quelli di lei.
- Non è vero.- e per un attimo la frivola dispensatrice di asciugamani a tradimento si fece seria, come se sapesse bene
ciò di cui stava parlando e non parve più una ragazza pescata a caso tra le mille fans che aspiravano a diventare
assistenti della squadra, ma una che sapeva il fatto suo.
- Non mi vedranno più. Lascio la squadra!- Takeshi scattò in piedi, incapace di sostenere oltre quello sguardo.
- Va bene, come vuoi.- dopo averlo fissato lungamente, anche Tomomi si alzò e si lisciò la lunga coda di cavallo - Ma io
so che non sei un vigliacco, non abbandoneresti mai le persone a cui vuoi più bene per uno stupido capriccio.Eve alzò un sopracciglio. Aveva sentito bene? Quella tizia pareva essere maturata d’improvviso.
- Mi stai dicendo che sai cosa sono io?- stizzito, lui piantò bene entrambi i piedi per terra.
- Takeshi Sawada è determinato, sincero, spontaneo. E’ la gentilezza fatta persona, è la fedeltà, la costanza, la
dedizione.- sorrise l’altra, voltandogli le spalle e raggiungendo l’angolo dietro il quale si era fermata la bionda,
lasciando il giovane centrocampista con le braccia abbandonate lungo i fianchi, non più contratte, quasi rassegnate.
CAPITOLO 19 – Amici da sempre
Takeshi era rimasto tra l’allibito ed il meravigliato a guardare la manager Mimura allontanarsi e sparire dietro l’angolo.
Stringendo i pugni ed abbassando il capo a fissare la terra appena smossa sotto i propri piedi, si trovò a desiderare
ardentemente che quelle appena udite da Tomomi avessero potuto essere parole di Kojiro.
La sua mente viaggiò repentina al pomeriggio anteriore, quando Ken aveva appena spedito un bolide da porta a porta,
lasciando il capitano era senza parole.
La squadra era tutta in fermento per l’amichevole con la ricostituita Nankatsu, tanto che l’allenamento del giorno prima
era stata più un’esibizione di talento che altro.
- Sei il solito megalomane!- Sorimachi si era avvicinato al portiere con una risata grossolana, mentre l’altro si era
portato entrambe le mani ai fianchi, con aria di scherzosa immodestia.
- Lo so.- gli aveva risposto Wakashimazu, soddisfatto.
La palla era stata poi rimessa in gioco e, sotto il sole calante della volta pomeridiana, il campo del Toho aveva visto
l’immediata presa di possesso da parte di Kojiro, che si era affrettato a passare a lui.
L’aveva mancata per un soffio, però Hyuga si era voltato di scatto e l’aveva praticamente investito.
- Accidenti, Takeshi! Ma che cavolo fai?! Se devi mancare un passaggio da niente come quello, tanto vale che domani
te ne stia a casa!- era stata una ramanzina da poche battute, ma decisamente ad effetto.
Inutile dire che lui ci era rimasto parecchio male, mortificato.
Dopotutto aveva commesso un piccolo, stupido errore... ed errare è umano, no? Evidentemente Kojiro non era dello
stesso avviso, perché oltre ad un’uscita poco felice come la prima, quando i compagni l’avevano raggiunto nel
tentativo di calmarlo, questo aveva urlato di nuovo.
- Imai, dagli il cambio! E’ ancora troppo piccolo per il mio calcio!- ovviamente nessuno l’aveva contraddetto.
E mentre Kojiro rifiutava con sonori ceffoni sulle braccia i tentativi di placarlo del resto della squadra, Takeshi aveva
avvertito una gran fitta dentro, perché mai si era mai sentito così sminuito: Hyuga era il suo idolo, aveva sempre fatto
di tutto per creare un feeling di gioco perfetto con il suo capitano, di tutto. E c’era da dire che uno come la Tigre non
era stato insignito di tale appellativo a vuoto, era bensì talmente impetuoso che a volte stargli dietro si poteva ben
definire un’impresa titanica.
In quel momento avrebbe voluto sprofondare, scoppiare in un urlo feroce e domandargli se tutto ciò che aveva fatto
finora per stargli dietro, per tenersi al passo con lui non fossero state solo briciole invisibili. Si era chiesto se Kojiro si
fosse mai accorto dei suoi sforzi, del suo andare oltre le proprie possibilità per il proprio capitano, per la squadra, per
la perfezione che tanto ricercava.
Eppure non si può essere perfetti. Che diavolo pretendeva, una squadra di campioni? A quest’ultima questione si era
risposto da solo, gli era bastato rivolgere un rapido sguardo al resto del team per inghiottire amaro: Ken, che oltre alle
sue parate spettacolari, era in grado di calciare in rete dal dischetto opposto e senza lasciare che la palla subisse una
repentina diminuzione di potenza, Kazuki, il re del dribbling, che si muoveva sfiorando la sfera con le ali ai piedi come
fosse una piuma, Koike, che quando correva era talmente veloce da essere in grado di mantenere un ritmo serrato per
una partita intera... e lui? Cos’aveva da vantare?
Non si era risposto, dal momento che un aleggiante ‘niente’ gli si stava già facendo largo nel cervello. Aveva solo fatto
in tempo ad udire un politico Furuta campare una scusa qualunque per sedare l’animo ardente di Kojiro.
- Non te la prendere, capitano, è solamente un po’ agitato per la partita di domani.- poco più di una tattica
diplomatica; Takeshi sapeva bene di aver sbagliato, punto. Aveva mancato un passaggio e la cosa era stata fonte di
granitica frustrazione sino a quando Tomomi non gli si era rivolta con quelle frasi che avevano risvegliato in lui non
una brama di rivalsa, piuttosto il desiderio di una paziente dimostrazione di amicizia.
- Sei stata... wow!- la bionda si destreggiò in un gesto fendente da supereroina e, dinnanzi a lei, Tomomi si ritrasse di
scatto.
- Oh? Io... beh, l’hai detto tu, è il mio lavoro.- fu la sua risposta, accompagnata da un’alzata di spalle. Ed
effettivamente si ritenne solo in parte fautrice dell’azione appena compiuta, dal momento che se non fosse stato per il
sollecito commento di Eve al quale non aveva avuto il coraggio di opporsi, a quell’ora sicuramente sarebbe stata
ancora lì a discutere con Sawada... e quasi certamente questo avrebbe anche finito per perdere la pazienza.
- Guarda, guarda! Si muove!- l’altra non diede segno di aver badato troppo alla sua ultima affermazione, dal momento
che mosse fulmineamente lo sguardo oltremare verso l’inaspettato soggetto in movimento.
- Eh...?- Mimura si raccapezzò smarrita, facendo capolino da dietro l’angolo.
- Lo seguiamo?- fece di nuovo l’ex atleta, ma ormai era già partita in quarta dietro a Takeshi.
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Volente o nolente, Tomomi non poté trattenersi dal prender a correre anche lei dietro al ragazzo, stando attenta a non
farsi scorgere o notare.
Per un attimo le balenò in mente la sciocca idea che, se anni addietro si fosse trovata a poter guardare un flash
forward del proprio futuro e che questo l’avesse ricondotta proprio a quel momento, mentre stava pedinando qualcuno
assieme ad Eve Springer, sicuramente sarebbe morta d’infarto.
Fu proprio quest’ultima che azzerò i suoi pensieri, quasi leggendoglieli negli occhi.
- Senti, non c’è bisogno che mi guardi così. Non devi più avere paura di me.- era seria, mentre guardava la strada.
La manager sussultò. Se n’era accorta...? Beh, ovvio, dopotutto non era stata l’esempio pratico di discrezione, dal
momento che l’aveva fissata per tutto il tempo, quasi in timorosa attesa di un gesto inconsulto.
- I... io...- riuscì soltanto a rispondere.
- Quello che ti ho fatto è stato... non so come tu ti sia sentita, mi dispiace sia capitato a te.- la bionda si strinse nelle
spalle, mentre le fronde di un piuttosto voluminoso cespuglio le nascondevano agli occhi dei passanti. E le rendevano
anche piuttosto sospette.
Ma l’apparente comicità della situazione fu inghiottita dal ghiaccio delle sue stesse iridi: Eve si volse a lei diretta e
senza veli, troppo decisa per non causarle un nuovo, repentino sussulto.
- Forse... dovevo tenere a bada il mio desiderio di strafare, di essere amica di tutti, di credermi in grado di sistemare il
mondo.- fu la semplice, titubante replica della compagna, che si lisciò la lunga coda dalla cima della nuca.
L’altra serrò per qualche secondo la mascella, quasi in un muto segno d’assenso, tentando di reprimere le spiacevoli
visioni del passato che le si accavallavano dinnanzi agli occhi come un vecchio, doloroso filmato sgualcito.
- Già.- lo palesò poi, e nonostante tutto le strizzò l’occhio, mostrandole l’abbozzo di un sorriso consapevole e per
questo a tratti mesto, amaro.
Per qualche istante Tomomi non seppe che replicare, chiusa nel suo angolo, nel suo guscio, ma fu di nuovo Eve a
toglierle il silenzio.
- Ma che fa, torna a casa?!- esclamò, distogliendo lo sguardo e rivolgendosi alla porta dell’abitazione ben conosciuta.
- Speriamo di no, prego perché stia andando a recuperare il borsone.- con ritrovata calma Mimura si sporse ed incrociò
le dita. Ci vollero pochi minuti perché Sawada ne uscisse di nuovo con il borsone della squadra alla mano e, svelto, si
defilasse lungo il marciapiede opposto, diretto verso la stazione.
- Accipicchia che intuito.- osservò Eve, un sopracciglio alzato. Al suo fianco e senza più il bisogno d’essere nascoste,
Tomomi non trattenne un sorriso.
La sorpresa dalla quale fu colta nello scoprirsi a sorriderle spontaneamente fu tiepida e piacevole, come il primo sole
che faceva capolino dietro le nubi passeggere della tarda mattinata.
- Meglio se lo raggiungo.- disse poi, socchiudendo gli occhi e schiarendosi la voce, scacciando via quel fastidioso
groppo che aveva preso ad ostruirle la gola.
Bastò un solo sguardo da parte della bionda per trattenerla ancora qualche attimo.
- Sei una brava manager, dico davvero. Sei attenta ai particolari, dai coraggio ai singoli.- commentò Eve con una
semplicità sconvolgente, con un’oggettività spiazzante.
- Io... oh... grazie.- Mimura sbatté più volte le palpebre e le sue mani presero ad intrecciarsi nervosamente, nel
tentativo di trovare qualcosa di più adatto da replicare, ma un’ultima volta, l’altra la cavò da un sicuro imbarazzante
silenzio.
- Senti... puoi odiarmi se vuoi, o puoi continuare a farlo se già mi disprezzi.- il suo tono sereno era quello di chi aveva
imparato a portare la propria croce, a tratti abbandonato, seppur fieramente limpido - Ne hai tutto il diritto e non sarò
io ad impedirtelo o a costringerti a rivolgermi la parola o salutarmi come se niente fosse.Questa volta Tomomi fu sicura della propria reazione, distese le dita e si portò una mano al petto, poi piegò il capo da
un lato e semplicemente, inaspettatamente sorrise, dietro le sue lenti trasparenti.
- Ci vediamo presto.- Salve!- un solare Tsubasa Oozora si avvicinò trotterellando al capitano del Toho.
Kojiro si voltò e gli rivolse un amichevole cenno del capo.
- E’ tanto che non giochiamo da avversari, mh?- sorrise il primo, mostrandogli quanto la lontananza da casa non
l’avesse per nulla cambiato: era ancora carico della sua caratteristica voglia di vivere, giocare e vincere, la stessa che
aveva distinto per anni l’allegria schietta del suo essere un fuoriclasse.
Erano arrivati da un paio d’ore, giusto il tempo di sistemarsi negli spogliatoi e familiarizzare col campo, poi la Nankatsu
al completo si era presentata tra urla ed allegri schiamazzi; i ragazzi erano stati tutti piuttosto felici di ritrovarsi.
- Già.- Hyuga gli tese la mano in una stretta che Tsubasa non rifiutò, anzi, l’accolse piuttosto calorosamente per poi
scambiarsi un sorriso consapevole, sereno, sotto il cielo terso e senza una nuvola che avrebbe fatto da supremo
spettatore all’incontro pomeridiano.
Li attendeva una partita spettacolare, certamente avrebbe ricordato molto quella vecchia finale di campionato, finita 4
a 4 in un tripudio di tenacia e agonismo.
Quando Oozora fu richiamato da Ishizaki, Kojiro lasciò che l’ex capitano della Nankatsu si dirigesse nuovamente verso
il gruppo, spostandosi dal canto suo verso gli spalti più bassi, dove Ken Wakashimazu era comodamente spaparanzato
con le gambe lunghe e distese, appoggiate alla ringhiera ed un opuscolo spiegazzato a coprirgli il volto.
- Ken?- il bomber tentò di scuoterlo, richiamandolo con tono moderato.
- Mmmh...- mugolò l’altro, limitandosi a muovere impercettibilmente un muscolo della spalla, ma anziché dare retta al
compagno, preferì voltarsi di tre quarti dall’altra parte, scomodamente adagiato sul minuscolo sedile del parapetto.
Il volto di Eve era pallido e bianco di cipria, sotto le gote appena sfumate di pesca giaceva un sorriso affettuoso,
principesco.
Gli si avvicinò quel tanto che bastava per depositargli un bacio sulle labbra, dolce come candido zucchero. Lui si
discostò giusto l’attimo necessario per notare che indossava un antico kimono scarlatto con delle sagome di morbidi
aironi e fiori di ciliegio stilizzati sulle lunghe maniche e sullo strascico. Gli tendeva la mano semicoperta dal cedevole
tessuto, piccola, affusolata e signorile.
Gliela strinse, udì il suono del proprio cuore riecheggiagli in gola, mentre si tendeva di nuovo verso di lei a scostarle le
ciocche ribelli che sfuggivano alla tradizionale corona di fiori intrecciati che portava sul capo. Specchiandosi nei suoi
occhi di cielo leggermente sfumati di rosso, le sfiorò di nuovo la bocca, dipinta anch’essa d’intenso vermiglio.
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Mosse le proprie braccia a cingerle la vita stretta nella cinta di morbida stoffa, la quale si dispiegava alle sue spalle in
un impalpabile corteo di seta e volute e l’abbracciò forte, in una volitiva e cosciente brama di non lasciarla andare più.
- Ken!- per l’ennesima volta il capitano, spazientito, si decise ad alzare la voce, tanto che il portiere scattò su a sedere
come una molla.
- Cosa!? Dove!? Che c’è?!- gridò, spalancando gli occhi e prendendo a guardandosi freneticamente attorno, lasciando
che il libretto gli scivolasse rapidamente dal viso per raggiungere il suolo.
Solo quando notò Kojiro con le braccia incrociate a poca distanza dal proprio borsone prese un gran sospiro, si
massaggiò gli occhi e sbuffò.
- Accidenti, ma sei del tutto psicopatico a farmi prendere un colpo simile?! Stavo sognando il mio matrimon...- si
bloccò appena in tempo, razionalizzando una frase che già era sfuggita al suo controllo, trovandosi ad arrossire di
colpo ed a bloccare l’espressione a mezz’aria.
- Il tuo che?- fece stupito l’altro, sciogliendo le braccia e distendendole lungo i fianchi - Matrimonio?Ken diede un breve accesso di tosse non troppo realistico, scosse il capo a scacciare un pensiero fisso che ormai lo
accompagnava anche durante il sonno, poi si decise a sviare.
- Ma che cavolo avevi da urlare?- buttò là, raccogliendo il volantino dell’improbabile svendita ai grandi magazzini
d’elettronica che aveva avuto la sola utilità di schermargli gli occhi dal sole del mezzogiorno durante l’improvvisata
pennichella.
- Eh... niente. Volevo solo svegliarti.- anche Kojiro si rese conto di essere rimasto piuttosto stupito dall’uscita
dell’amico - E’ ora di pranzo e vorrei trovare ancora qualcosa di commestibile che non siano gli avanzi del resto della
squadra, dato che tu quando dormi batti ogni record di apnea nel mondo dei sogni!- Okay, okay, sono sveglio adesso...- colto da un imprevisto sbadiglio, il portiere si massaggiò un occhio per
apprestarsi a seguire il capitano verso i compagni che, con lo stomaco gorgogliante, erano in loro attesa sul campo.
Quest’ultimo si voltò giusto in tempo per assistere alla comparsa di una figura conosciuta dalla scalinata principale ed
a quella vista i suoi occhi non poterono fare a meno di spalancarsi.
- Accidenti a te, Sawada! Ma dove diavolo sei stato?!- fu il suo grido d’accoglienza non troppo benevolo, mentre
Takeshi scendeva i gradoni a due a due, trascinandosi dietro la sacca. Era evidentemente giunto di corsa dalla stazione
senza fermarsi un attimo, il volto arrossato ed il fiatone.
- Scusate il ritardo.- riuscì a dire una volta dinnanzi al cannoniere, piegandosi sulle ginocchia nel tentativo di
riprendere fiato.
La sua aria pareva quasi per nulla impensierita, né colpevole e decisamente questo non metteva Kojiro in condizione
d’essere indulgente. Così fece per replicare, quando il compagno più giovane gettò il capo all’indietro e si asciugò la
fronte, per mostrargli uno sguardo determinato come mai, tanto da gettarlo nello sconcerto ed ogni suo pensiero, ogni
considerazione ed ogni intenzione di rimprovero si azzerarono come in corto circuito dalla sua mente.
- Ti chiedo scusa, capitano.- Sawada si chinò in un gesto remissivo, ma fiero - Devo solo... imparare ad accettare le
critiche. Se vorrai ancora farmi giocare al tuo fianco, oggi, io...Ma le parole gli rimasero sospese tra le labbra, avvertendo il contatto energico della mano di Hyuga sulla propria
spalla.
I loro sguardi si incrociarono istantaneamente, occhi negli occhi come a volersi sussurrare una muta confessione.
E d’un tratto un ragazzino dall’aria spensierata tornò prepotentemente in luce, davanti a tutto il rumore dei ricordi di
Kojiro, un giovanissimo centrocampista che in partita mutava d’espressione e di carattere, mostrando tutta la sua
caparbietà, il suo desiderio d’essere all’altezza del team.
I suoi occhi scuri e limpidi erano la prova lampante che al mondo esisteva una nitida e pura passione per il calcio,
qualcosa a cui dedicarsi col cuore, una devozione. Sawada era proprio ciò che gli si leggeva in viso, senza volontà
alcuna di celare nulla, gli era sempre stato accanto, ottimista e speranzoso.
- Sono io che devo imparare a tenere a bada la foga.- il capitano scosse il capo bruno, socchiudendo le palpebre in un
silenzioso cenno d’assenso - Ammiro la tua tenacia, Takeshi. Sei il Toho quanto me, senza di te non c’è squadra.Dietro di lui, gli occhi neri di Ken si curvarono sopra un sorriso appena abbozzato, sereno. Kojiro era impetuoso,
aggressivo, impulsivo e travolgente, ma possedeva anche quell’assennata maturità di spirito che mostrava solamente
in certe occasioni, nelle più rare, con le persone più preziose. Era successo con lui, era successo con Aya, ora con
Takeshi e da sempre con la sua famiglia.
Il portiere avanzò sino a giungere di fianco ai due, poggiando una mano sull’altra spalla del nuovo venuto e
strizzandogli l’occhio, rivolgendo poi lo stesso cenno al capitano.
- Avanti, facciamogli vedere chi è il Toho!- esclamò infine Kojiro, contraendo di nuovo il volto in un’espressione di
chiara grinta.
Ora non aveva più fretta. Non aveva nessuno alle spalle che l’avrebbe giudicato negativamente.
Non avrebbe dovuto giocare per il bene della famiglia, né per entrare a fare parte di una delle scuole più famose di
Tokio.
Quel giorno sarebbe sceso in campo solo per sé stesso ed avrebbe stravinto perché lui era Kojiro Hyuga, il
capocannoniere del mondiale, una volta per tutte libero di scontrarsi con Oozora per stravincere insieme ai compagni
che da sempre erano con lui, senza averlo abbandonato mai.
Mizuki si fece largo tra la folla per raggiungere le compagne, tra le mani bibite e noccioline. I viaggi in treno avevano
la bizzarra conseguenza di farle venire un insano appetito, così non appena aveva avuto l’occasione, si era gettata sul
chiosco dei panini.
- No, grazie.- Ayame rifiutò cortesemente l’offerta dell’amica, troppo improvvisamente investita da un intenso odore di
sale e caramello.
Accanto a lei, Eve incrociò le gambe dinnanzi alla balaustrata metallica, imitandola con un gesto della mano per
declinare la gentile offerta di Mizu. Soddisfatta di sé per essere riuscita ad arrivare in tempo e per aver preso i posti
migliori, incrociò le braccia al petto, soprattutto forte del fatto che l’amica non fosse minimamente a conoscenza della
piccola diserzione di Takeshi che, a quanto pareva, si era conclusa tuttavia in maniera positiva.
La manager Mimura era in piedi a qualche metro dalla panchina del Toho, in tenuta ginnica e con una cartella tra le
mani. L’aria pacifica e rilassata faceva intendere che la squadra si era appena lasciata alle spalle la disavventura
mattutina ed ora si apprestava a giocare l’amichevole tanto attesa.
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Gli sguardi di tutti, carichi di tensione, si mantennero tali durante l’intero primo tempo, che si concluse sullo zero a
zero in un intenso sospiro di sollievo da parte dell’intero pubblico.
Le due squadre si erano fronteggiate strenuamente come titani, sostenute dal folle tifo impazzito delle rispettive
fazioni, cariche ed entusiaste al punto giusto.
Mille azioni degne di nota si erano susseguite senza lasciare un attimo di tregua agli spettatori, estasiati e decisamente
soddisfatti dall’andamento dell’incontro, sebbene nessuna delle due squadre fosse ancora riuscita a prevalere sull’altra.
Ma ognuno sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo; la palla era rimbalzata saettando da una parte all’altra
del campo, accompagnata da passaggi e dribbling perfetti, da stoppate e rimesse accurate.
Il sessantesimo minuto culminò con un crescendo di eccitazione, sfociando in una serie di frenetiche azioni da mozzare
il fiato.
= Hyuga si porta sulla fascia destra, spalleggiato dal compagno Takeshi Sawada. La difesa avversaria si chiude
improvvisamente, ecco che Hyuga si prepara a tirare in porta, dove lo attende Yuzo Morisaki, che si è comportato da
vero eroe durante questa partita, mostrando a tutti i suoi enormi miglioramenti nel non far passare nemmeno un goal!
Ma attenzione! Invece di tirare in rete, la punta del Toho passa il pallone in direzione di Koike! Takasugi della Nankatsu
interviene pesantemente su di lui, che cade rovinosamente al suolo. Una brutta caduta, il ragazzo non si rialza,
tenendosi la caviglia! Ma l’arbitro non interviene, perciò il gioco prosegue mentre la barella si occupa di condurre
Hideto Koike fuori dal campo.
La sostituzione vuole che Matsuki prenda il suo posto... ma attenzione! Il gioco riprende senza che questo possa
toccare palla, ecco che Hyuga con una mirabile finta si porta in avanti inseguendo il pallone e riesce a strappare la
sfera al difensore avversario! Tira! Tira verso Sawada! Tutta la difesa è su di lui ma... accidenti! Manca il passaggio!
No, un attimo... anche questa è una finta! La palla è in realtà indirizzata a Sorimachi, che spunta con incredibile
velocità dalle retrovie! Kazuki Sorimachi riceve alla perfezione ed entra in area, seguito da Sawada, il quale ha diretto
magistralmente l’azione e con il quale scambia rapidi passaggi, beffandosi degli avversari!
Takeshi Sawada è solo a pochi metri dalla porta! Si prepara a tirare quando Ishizaki interviene in scivolata! Sawada
salta con il pallone ai piedi e... magia! Magia del piccolo centrocampista del Toho, che riesce a passare sulla sinistra,
dove lo attende Hyuga!! Il capitano ottiene il possesso di palla e salta di nuovo per liberarsi della strenua difesa.
Ma eccolo, Tsubasa Oozora!! Il cannoniere gli si para davanti, impedendogli di calciare la sfera in porta! Su di lui
intervengono anche altri tre difensori: l’azione sembra destinata a finire qui. Ma ecco che la Tigre gli volta le spalle!
Signori, incredibile!! Sta per lanciare il suo formidabile Tiger Shot verso la sua stessa porta!! E’... è impazzito!? Ha
tirato!! Il pallone sembra illuminarsi, tanto è veloce e carico di potenza! La Nankatsu è attonita e confusa, nessuno
riesce a comprendere cosa gli sia preso! Che spettacolo... Ken Wakashimazu esce dai pali e stoppa di petto!!=
Il volto del portiere s’illuminò del suo caratteristico sorriso deciso ed orgoglioso, e tutti gli occhi furono a lui, in un
inebriante senso di lustro, di fervore, prima di cominciare a correre lungo il campo, diretto verso i compagni.
- Ma che fa? È impazzito??- Mizuki si alzò di scatto in piedi, non badando a dove finissero viveri e cibarie e per poco
rischiando di strozzarsi.
Eve le conferì un’energica manata sulla schiena, pur rimanendo fissa con lo sguardo su quel puntino con la casacca
gialla che ora stava praticamente dirigendosi lungo la metà campo avversaria, scartando gli avversari che velocemente
tornavano a centrocampo.
Wakashimazu oltrepassò la linea di mezzo.
- Scusate ma io ero rimasta che Ken era il portiere...- fece Mizu, riprendendo un colorito naturale e sbattendo più volte
le palpebre, incredula come il resto dello stadio. La bionda si limitò a socchiudere gli occhi in controluce, senza
smettere di fissare il portiere, decisamente ipnotizzata, come alla finale del mondiale dell’anno passato.
Ken era là, pazzo o no, in un delirio d’onnipotenza e per quei pochi secondi stava guadagnandosi decine e decine di
sguardi, tutti concentrati su di sé.
- E’ successo spesso, una volta in particolare.- esordì Ayame, scuotendo il capo - Ken ha lasciato la porta, credo fosse
deciso a segnare, ma quell’Ishizaki ha bloccato il tiro con la faccia. Così Oozora è riuscito a respingerla, anche se Ken
ha fatto il miracolo ed è arrivato in porta prima del pallone. Ma si tratta di molti anni fa, se non ricordo male ai tempi
di una finale delle medie.Se la ragazza dai folti capelli ricci stava pendendo dalle labbra dell’amica, l’altra non stava per nulla dando l’aria di
seguire il discorso, piuttosto impegnata nel tenere dietro all’azione di Ken, tutti i sensi canalizzati verso di lui.
La bellezza rovente ed implacabile del suo congestionato volto d’uomo parve per un attimo oscurare il resto, fulgida ed
ardente, al suo cospetto ogni cosa si piegò inchinandosi e chiudendosi su sé stessa, rattrappita e contratta sotto il suo
tenace avanzare.
- Segneremo! Sarà un magnifico goal!- sorrise Eve, scattando anch’ella in piedi e sporgendosi dalla ringhiera.
= Wakashimazu procede con l’impeccabile tecnica di un attaccante! Incredibile! Ma attenzione, passa a Sawada!! Il
giovane centrocampista raccoglie con abilità il pallone e si scontra di nuovo con Oozora! Ma prima di un confronto
diretto, riesce a passare di nuovo al suo portiere, portatosi sin nell’area avversaria! E’ una fase delicata, se perdessero
il pallone ora sarebbe la disfatta! Wakashimazu avanza ancora!=
Tensione palpabile, il sudore sul volto di Ken gli incollava la frangia alla fronte, i suoi occhi neri di brace guizzarono
fulminei a considerare rapidi la situazione di lì a pochi metri.
L’arena intera zittì simultaneamente, ogni fiato spezzato nelle numerose decine di gole, il tempo sospeso.
Un ardito Ryo Ishizaki tentò un disperato e quindi impreciso intervento in scivolata, che il portiere del Toho non faticò
a scongiurare. Quando toccò di nuovo il suolo dopo il breve salto con la sfera tra i piedi, si posizionò celermente di
modo da poterla calciare.
Morisaki, colto alla sprovvista, si era già lanciato sulla destra, ma il pallone non era destinato alla rete, dal momento
che sfrecciò ad attraversare l’intera area a mezz’aria, fermandosi finalmente laddove era stato indirizzato sin
dall’inizio, ovvero ad incrociare una spettacolare quanto inattesa rovesciata di Kojiro.
- Aaah!!- Mizuki fu sicura di levitare da terra di qualche buon centimetro, accompagnando l’esultanza con un applauso
concitato.
- Lo sapevo! Lo sapevo! Siete i più grandi!!- fece contemporaneamente Eve, gridandolo dalla ringhiera, gli zigomi
rotondi indorati dai luminosi raggi trasversali che illuminavano l’intera curva in piena animazione.
- Che azione fantastica!- Ayame si era portata le mani al petto, raggiungendo le amiche nei festeggiamenti ed
unendosi a loro in un abbraccio euforico.
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Un tripudio di urla e colori si levò vigoroso dagli spettatori, impazziti di gioia. Il sole caldo e conciliante del pomeriggio
si rifletteva sui numerosi striscioni delle tifoserie, sventolati in alto in un moto di entusiasta esultanza, quasi a voler
illuminare in maniera preferenziale quelli della squadra che si era appena portata in vantaggio, sbloccando il risultato.
Accanto al trio, un gruppo ben nutrito di supporter femminili schiamazzava vociante in una performance alquanto
isterica di festosità.
- Sei stato grande, capitano!- Uno a zero! Uno a zero!!- Uaah, Ken sei il migliore!!Mizuki si trovò a guardarle dall’alto in basso con le orecchie tappate, mentre Eve non poté fare a meno di alzare un
sopracciglio, tra il meravigliato e l’irritato.
- ‘Uaah, Ken’? Ma cosa sono, cheerleaders?- dichiarò con la sua migliore espressione assassina.
- Kojiro! Ce l’ha fatta!- ma la sincera esclamazione dell’innamoratissima Ayame al proprio fianco la distolse dagli
illegali propositi che avevano cominciato a frullarle in testa in direzione dello sfegatato gruppo di fan girls, facendola
sciogliere in un sorriso intenerito.
I ragazzi del Toho gridavano sotto i festeggiamenti del pubblico, mentre petto contro petto, Wakashimazu allungava
delle sonore pacche alla schiena di Hyuga, il quale dal canto suo si occupava di scompigliare i capelli del portiere in
segno d’esultanza.
= La partita riprende 1 a 0 per il Toho. La squadra di Hyuga conduce. La palla schizza nella metà campo protetta dai
difensori in maglia blu. Si avvicina Izawa, che riesce a rubare palla a Shimano con uno scatto in avanti. Ecco che anche
Oozora si lancia in avanti. Izawa è un ottimo sostituto per Misaki, che formava con lui la coppia d’oro della squadra.
Il Toho si stringe in difesa!! Izawa allunga per Tsubasa, che riceve senza problemi. I difensori gli sono addosso!! Ma
che fa?! Decide di tirare da lì! Signori, è fuori area... e tira! Incredibile tiro di Oozora che sfreccia verso l’angolo destro
della porta!=
Ken tastò il terreno con i tacchetti delle scarpe, graffiando l’erba e respirando l’intenso odore di adrenalina che
emanava ogni singolo, frenetico giocatore dinnanzi a sé.
Con dei gesti ben definiti guidò la difesa come sino a quel momento si era preoccupato di fare, un perfetto burattinaio
intento a muovere e gestire i fili delle proprie marionette.
Poi il suo sguardo di fosca opale si assottigliò. E saltò.
Rapido, con uno scatto dei suoi. Felino, dinamico, agilissimo.
= Wakashimazu esce e respinge di pugno!=
La sfera dagli ormai indistinguibili esagoni saettò nell’azzurro del cielo, oltrepassando la traversa e toccando terra solo
oltre la linea di campo: corner.
Hajime Taki si occupò di recuperarla e di battere personalmente il calcio d’angolo. Fu un tiro lungo sulla distanza,
diretto scontatamente a Tsubasa, già marcato stretto poco lontano dal dischetto della porta. L’unica cosa che Oozora
fu in grado di fare per liberarsi del pressing fu slanciarsi in aria e tentare una delle sue prodigiose rovesciate.
Ma di nuovo le suole di Ken artigliarono il terreno e lo condussero in aria per scontrarsi con l’avversario in un mirabile
duello aereo. L’azione del capitano della Nankatsu fu congelata dalle mani del portiere, che agguantò saldamente il
pallone; ma mentre entrambi raggiungevano il suolo, Ken fu sbilanciato dal peso dell’attaccante, il quale gli cadde
addosso, finendo per non controllare il proprio corpo che, come una zavorra, fece della spalla sinistra di Wakashimazu
il fulcro dell’atterraggio.
- Maledizione!- boccheggiò, serrando la mandibola in un rabbioso e disperato ringhio.
Gli occhi di Eve ebbero un lampo repentino.
Se l’essere stoico non fosse stata una peculiare caratteristica della sua personalità, Ken avrebbe sicuramente urlato e
non si sarebbe rialzato da terra per dei buoni, lunghi minuti.
Ma fu subito in ginocchio e poi, nell’accovacciarsi, scansò uno sguardo eloquente da parte di Kojiro il quale, pochi metri
prima della metà campo, lo stava fissando con espressione ansiosa.
Il cannoniere fece per correre in area, ma l’altro bloccò ogni sua intenzione con un gesto deciso del braccio opposto,
esortando i compagni a correre in attacco, ora che l’avversario più pericoloso non si era ancora rialzato.
Incurante dello spasmo che, come mille spine acuminate gli bruciò sin dentro le ossa, Wakashimazu rilanciò la sfera
con un calcio di punta, facendola finire direttamente ai piedi del capitano.
- Siamo stati grandi!- si auto lodò Furuta.
- Eccome! Siamo stati fantastici!- confermò Koike, la caviglia fasciata a dovere e sul volto l’espressione rilassata di chi
dovrà godersi un buon periodo tutto dolci e riposo.
La panchina del Toho fremeva, esultante di vittoria.
Accompagnati dal giubilo della tifoseria, i ragazzi si erano stretti in gruppo allo scadere del novantesimo minuto,
gridando e festeggiando, portando in trionfo i fautori del successo.
Nessun rancore e nessuna delusione, gli avversari della Nankatsu avevano battuto loro le mani e Tsubasa si era
lasciato andare ad una risata cristallina e morbida, asserendo che era tempo ormai che non si divertiva così. Aveva
desiderato ardentemente incontrarsi di nuovo con la Tigre per un confronto allegro in onore dei vecchi tempi, lontano
dall’agonismo delle leghe maggiori. Era stato davvero come tornare indietro, una giornata così preziosa l’avrebbe
conservata con cura per i mesi a venire, sereno, allietato e riscaldato dalla consapevolezza che coloro che aveva
lasciato in Giappone erano ancora suoi amici e sarebbero per sempre stati tali, uniti da un saldo legame nel nome del
pallone.
- E’ stato tutto merito dell’arma segreta dei nostri due campioni!- dichiarò Takeshi, facendosi largo tra le spalle di
Kojiro e Ken per battervi un sonoro e contemporaneo colpo di palmi ciascuno.
Wakashimazu sussultò, scosso come da una scarica elettrica e ci mancò poco che cadesse in ginocchio, frantumando i
sorrisi sui volti dei compagni.
- Ken!- Kojiro gli fu subito dinnanzi, istintivamente facendo per sorreggerlo ma inavvertitamente toccando il punto
critico tra scapola e omero. Il portiere non trattenne una nuova smorfia.
- Miseria, potevi dirmelo della spalla!- esclamò di nuovo il capitano, che ritrasse istantaneamente la mano.
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- Ma va, non è niente.- sorrise l’altro, tentando di cavarsela con un tono quantomeno convincente. Non aveva
intenzione di inquietare nessuno, la squadra si meritava dei festeggiamenti coi fiocchi e di certo non ci si sarebbe
messo lui con il suo solito acciacco a fungere da scoglio.
- Cammina, Wakashimazu! Ti porto in infermeria.- ma Hyuga era piuttosto autoritario quando ci si metteva. Ed
intimidatorio, senza dubbio.
Lo prese sotto l’altra spalla, scuotendo il capo e facendo per abbandonare il gruppo.
- Kojiro, è solo la solita vecchia ruggine. Lasciami, non c’è bisogno dell’infermeria!- ribatté il compagno, discostandosi,
ma venendo irrimediabilmente di nuovo abbrancato dal tenace capitano, tanto che dovette alzare gli occhi al cielo e
voltarsi verso il resto del Toho con fare rassicurante - Ragazzi, è tutto okay, sul serio. Vado e torno, e poi ci
strafoghiamo di cheese cake!Sollevati e deliziati all’idea di fare il pieno del tradizionale dolce del festeggiamento, i volti dei compagni si fecero più
rilassati ed accompagnarono i due finché non furono spariti oltre l’imbocco del corridoio scuro, che li avrebbe portati
oltre gli spogliatoi, sotto le file di sbraitanti e vocianti spalti.
- Puoi anche fingere con la squadra, ma non mi va che tu mi tenga all’oscuro di certe cose.- Kojiro scoccò al portiere
uno sguardo categorico, leggendogli nel pensiero ed anticipando quella che sarebbe stata la sua immediata lamentela Anche se la partita è finita.Ken tentò di trovare qualcosa di ulteriormente persuasivo da aggiungere, ma alla fine la sua aria si sciolse rassegnata
per accogliere un ultimo sguardo impensierito di Hyuga, il quale, una volta assicuratosi che il proprio messaggio fosse
stato recepito, cambiò tono.
- Avanti, vieni.- gli disse e riprese la stretta, proseguendo e superando la prima porta sulla destra.
In pochi istanti, sotto gli occhi di un alquanto improvvisato barelliere, Wakashimazu si stava occupando di liberarsi
della casacca, per poi mettersi a sedere a cavalcioni sulla prima sedia che trovò.
Un esteso ematoma ancora rossastro torreggiava sulla cima della sua schiena, tanto che il capitano non trattenne
un’altra smorfia.
- Se fossi venuto qui immediatamente dopo la partita a fasciarti questa spalla, avresti evitato di farmi preoccupare
come uno stupido!- discostato da lui di quel poco che bastava perché l’altro gli potesse leggere in faccia il disappunto,
il bacino appoggiato al lettino e le braccia conserte al petto.
Ma Ken non replicò, si limitò a sorridere tra sé, tra il lusingato e l’intenerito. Un vero e proprio compagno, Kojiro, un
fratello.
- Così mi sarei perso i festeggiamenti.- rise poi, scostandosi i capelli dal dorso e permettendo al medico, arrangiato
soccorritore già per Koike, di esaminare la lesione e detergere energicamente via il sudore dall’intero busto.
Hyuga fece per ribattere qualcosa di incisivo come “ti ricordo che sei già stato messo sotto da un tir, una volta, basta
fare il supereroe!”, ma se lo risparmiò, dal momento che convenne che quello zuccone di Wakashimazu non l’avrebbe
certamente preso sul serio. Era capitato più di una volta che fosse stato in pensiero per lui, e questo gli procurò un
lieve calore al petto; avere qualcuno di cui fidarsi, avercelo avuto da sempre, beh, lo faceva sentire molto fortunato.
- Abbiamo fatto proprio una bella azione, eh, capitano?- la sua voce piacevolmente grave lo distrasse dai propri
pensieri ed allo stesso tempo glieli confermò: Ken aveva poggiato gli avambracci allo schienale della sedia ed il mento
su di essi, mentre gli veniva spalmata una pomata in gel sull’ematoma. Ed era così semplicemente, genuinamente
sereno, che Kojiro non riuscì a fare altro se non annuire.
- Già.Poi sorrise. Di un sorriso riconoscente, fraterno, concorde.
Solo quando il compagno voltò di poco il capo indietro, rivolto alla ferita, il bomber decise d’avvicinarsi. Il medico stava
armeggiando con delle garze nell’armadietto metallico, intento a trovarne una adatta a fasciare l’intero torace del
paziente che, tra capo e collo, gli era piombato in infermeria.
- Non è più sparita.- fece Ken, rompendo il silenzio rotto soltanto dal frusciare di tamponi e scatole di carta.
Hyuga si sporse di quel passo che bastò a fargli scorgere ciò a cui alludeva l’amico: poco lontano dal livido che si era
appena procurato vi era già un segno ben visibile, si trattava della cicatrice che gli aveva lasciato l’intervento di molti
anni addietro, la conseguenza dell’incidente in cui era stato coinvolto per salvare il suo cucciolo. Lo stesso cucciolo che
da quel momento non aveva cessato di seguirlo. Wakashimazu non gli aveva dato un nome, all’inizio lo chiamava
semplicemente ‘piccolo’, poi - viste le dimensioni piuttosto importanti che era arrivato a raggiungere - aveva
cominciato a rivolgerglisi solo con un semplice ‘ehi!’.
Decisamente uno strano, stranissimo portiere.
Kojiro sospirò di nuovo, non trovando parole per replicare, ma notando che il volto dell’amico non era contratto in una
malinconica aria affranta, ma quasi in una nostalgica e placida espressione d’intesa con sé stesso. O forse con Eve, alla
quale stava pensando in quel momento, considerando - come aveva già fatto più di una volta - che entrambi
portavano una cicatrice ben impressa sulla pelle, come ad unirli, come a simboleggiare un mutuo sostentamento.
Sorrise.
Per l’ennesima volta si era scoperto intento a rivolgere la sua mente a lei. Ed inevitabilmente finì per affiorargli
dinnanzi agli occhi il sogno di qualche ora prima, quando invece d’essere teso per l’incontro, si era messo a
sonnecchiare in tribuna.
- Credo di volerlo fare davvero, sai, intendo, quello che ti dissi prima di pranzo.- sospirò, mantenendo le labbra
distese. L’altro alzò un sopracciglio.
- Scorpacciata di cheeseburgers...?- fu la risposta che gli giunse, accompagnata da un tentennante tono stranito.
- Ma che cheeseburgers, accidenti!- Ken scattò in piedi, travolgendo l’uomo alle sue spalle, che aveva appena toccato
il punto dolente, contribuendo così alla repentina reazione del portiere.
- Ehi, ehi, non ti agitare! Sei tu il pozzo senza fondo!- il capitano mise le mani avanti, in tono di sfida più che di
pacifica remissività, proprio come voleva il suo temperamento.
Il medico attese che Ken si risistemasse sulla sedia, prima di riprendere a fasciarlo da dove aveva interrotto, non
mancando d’asciugarsi la fronte con una manica.
- E’ perché sono più alto di te, devo riempire più spazio nello stomaco.- ora Wakashimazu stava decisamente
vaneggiando.
- Ma che c’entra? Non è che se uno è alto, ha più centimetri di stomaco!- Hyuga si chiese se la pomata non avesse
avuto effetti collaterali immediati sul cervello.
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- Ti dico di sì, vogliamo scommettere?- combattivo, il compagno pareva ben lungi dal voler demordere e, mentre si
infilava nuovamente la casacca, annuì convinto tra sé.
- E come? Ci svisceriamo a vicenda!?- Kojiro spalancò la porta dell’infermeria con una sonora manata, apparendo di
nuovo nel corridoio illuminato artificialmente.
- Oh, basta! Non era questo che intendevo!- Ken si lasciò l’uscio alle spalle, alzando gli occhi al cielo e convenendo che
forse era il caso di tornare sul discorso che più gli premeva - Parlavo del matrimonio!- Il... che cosa?!- per poco il cannoniere non cadde di faccia sul pavimento - Il matrimonio di chi?- Il mio! Il mio matrimonio, Kojiro!- stavolta Wakashimazu sbuffò sonoramente.
- Oh.- replicò l’altro, tra lo sconvolto e lo spiazzato.
Gli occhi di nera ed opalescente ossidiana incastonati nel volto del portiere lo scrutavano con ferma decisione,
esattamente come quando si trattava di scendere in campo e dare il massimo.
- Io voglio sposarla.- lo disse d’un tratto, cristallino, la voce di nuovo pacata e limpida, come di chi è arrivato a
comprendere qualcosa di sostanziale ed ha imparato ad accettarlo.
A tratti stralunato, l’attaccante sbatté più volte le palpebre.
- Che c’è? Non credi che possa essere un buon marito?- fu la reazione dell’altro, che si fece guardingo ed a tratti
dubbioso.
- No... no...- il capitano del Toho dovette impiegare qualche buon istante per riaversi completamente - E’ che... tu,
Ken Wakashimazu... sposato!? E’ così... così... beh, non me l’aspettavo davvero.- concluse poi, ammettendo d’essere
rimasto piuttosto sconcertato.
Ken non era umile, questo no, ma era sincero. Cosa che, dopotutto, quasi poteva dimostrare lo stesso concetto, in
termini pratici. E Kojiro l’apprezzava molto, questo lato di lui.
Tutte le sue considerazioni raggiunsero il giorno in cui Eve e Ken erano comparsi sulla soglia di casa di Takeshi. E già
allora il primo, innato pensiero che l’aveva rapito era stato il supporre che quei due stessero insieme. E se così non
fosse stato, che presto ci sarebbero finiti, perché a pelle, ad istinto, li aveva sentiti immediatamente complici.
- In realtà è da un po’ che ci sto pensando.- i lunghi capelli a sfiorargli di nuovo la casacca gialla, in contrasto con il
netto colore corvino.
- E glielo dirai?- chiese Hyuga, il volto di Ayame irrimediabilmente ricondotto a sé. L’amare qualcuno forse era il
desiderare la completezza. Significava adorare l’altro, respirare il suo odore anche a miglia di distanza.
E la sua Aya, così gentile, dolce e signorile, senza dubbio era stata in grado di entrare in lui più di chiunque altro.
L’aveva amata in silenzio ancora prima di accorgersene, l’aveva stretta e fatta sua, e non gli era importato niente di
Kazuki e del fatto di stare o meno agendo correttamente. Quando c’era di mezzo lei, ogni cosa cadeva e della realtà
non restavano altro che i suoi intensi occhi neri e le sue piccole mani di perla.
Era stato ben controverso e si era maledetto per averla fatta soffrire, per averla fatta piangere, per averla fatta sentire
sporca e colpevole. In verità non poteva prendersela con sé stesso, per questo aveva fatto a botte con Sorimachi, nello
strenuo desiderio di fargliela pagare per averla trascurata, per averla condotta sul cammino di uno come lui... che,
malgrado ogni cosa, non poteva fare a meno di lei.
- Eh...?- a questo Ken non aveva proprio pensato.
- Beh, un matrimonio si fa in due, immagino che Eve dovrà saperlo.- convenne poi, alzando entrambe le sopracciglia in
segno di saccente superiorità.
- Ah-ah. Stai facendo dell’ironia? No, perché se è così me lo segno, sai, non capita molto spesso vederti dispensare
battute di spirito.- l’altro si esibì in una smorfia infantile, una mano ad un fianco.
- Stai attento, portiere, non mi provocare.- ma Hyuga era sempre Hyuga.
- Stai attento tu, ricordi? Io sono quello intoccabile.- e Wakashimazu sempre Wakashimazu.
Si guardarono per qualche istante di sottecchi, occhi negli occhi, circospetti e corrucciati. Lo stesso sguardo accorto ed
a tratti diffidente che si erano scambiati la prima volta che le loro strade si erano incrociate.
Allora, due ragazzini poco più che bambini si erano lanciati una tacita sfida, una muta scommessa e, da quel momento
in poi, sotto la presenza posata di Kozo Kira, i loro destini si erano irrimediabilmente intrecciati, mescolati, confusi ed
allacciati, pronti ad iniziare ad evolversi, trasformarsi, progredire insieme nella grande avventura che è la vita.
Gli anni transitarono dinnanzi ai loro occhi in un istante ed in un lampo si ritrovarono in quel corridoio dalle pareti
grigie e dalle lampade orizzontali dalla luce troppo bianca ed intensa per non risultare nell’immediato fastidiosa,
cresciuti, adulti, ma di nuovo l’uno dinnanzi all’altro. E la consapevolezza di essere di ancora insieme nonostante tutto,
li gettò in una paga e trasparente euforia.
Scoppiarono a ridere quasi simultaneamente, tra l’allegro e l’entusiasta, ringraziandosi consciamente e
vicendevolmente d’essere amici.
CAPITOLO 20 – Nicholas
Dal momento che Mizuki pareva aver ecceduto un po’ con l’alzare il gomito in occasione dei festeggiamenti, la cena in
onore della partita - che aveva l’intrinseco significato di un ultimo saluto prima che le strade di tutti si separassero era stata per Takeshi una sorta di prova di coraggio, come quella di un domatore di leoni che sta per insegnare alla
belva a saltare nel cerchio di fuoco.
Ma, durante uno degli svariati tentativi di tenere a bada la brilla compagna, si era trovato a considerare quanto
l’avesse immensamente lusingato il fatto che Kojiro avesse riconosciuto il suo stesso essere a volte eccessivamente
impetuoso ed irruente. Certo, la Tigre rimaneva sempre travolgente ed aggressiva, ma il fatto che l’ammirasse lo
rassicurava non poco ed una calda sensazione di pace aveva da quel momento preso piede nel petto del giovane
centrocampista che, tra l’altro, al contrario dei suoi compagni più grandi, poteva permettersi di temporeggiare e
fermarsi a pensare, non dovendo ancora fare i conti con i litri di caffè - e le ovvie conseguenze - spesi per la
preparazione al diploma.
Dopo l’amichevole, infatti, l’intera squadra del Toho - o perlomeno quelli dell’ultimo anno - si erano irrimediabilmente
ricordati, come per incanto, che l’avventura scolastica stava volgendo al termine e che di lì a poco sarebbero stati
chiamati a sostenere gli esami finali.
Forte di ciò, quel pomeriggio Ken era tornato dagli allenamenti di buona lena, programmando che avrebbe potuto
spendere un paio d’ore sui libri prima di cena e poi forse riuscire ad organizzare qualcosa in merito anche per la
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giornata successiva, accordandosi con Eve e con Kojiro. E magari Kazuki... o Ayame, insomma, qualcuno che potesse
illuminarlo sull’arcano funzionamento di una radice trigonometrica.
Rimuginando tra sé e scartando a priori la prima della lista, la quale aveva deciso di seguitare ad ignorare la
trigonometria, considerandola qualcosa di totalmente inconcepibile - ma soprattutto inutile - e contando sulla fortuna
che il giorno dell’esame non capitassero problemi a tema da risolvere, il portiere oltrepassò il cancello in legno e
raggiunse il porticato, di cui salì i gradini per arrivare alla porta scorrevole in carta. L’ aprì distrattamente, mantenendo
la sua aria soprappensiero.
Forse era il caso di dar retta ad Eve e risparmiarsi ore e ore di noia sui libri, tentando di comprendere qualcosa che a
lungo andare avrebbe causato prurito.
- Arrivo subito, un attimo!- una voce di nuovo piacevolmente conosciuta si fece largo nell’ambiente sgombro della
palestra.
Wakashimazu si sporse dall’entrata, intento nel contempo a levarsi le scarpe. La bionda era voltata di spalle e
sembrava stesse tirando efficaci colpi di penna ad alcuni documenti dell’archivio, crocettando e scribacchiando
qualcosa su degli altri.
Quando si voltò con la biro poggiata alle labbra gli rivolse un gradevole e stupito sorriso, sgranò gli occhi azzurri e
dopo un attimo di sorpresa gli corse incontro, abbandonando il bancone.
- Ciao gattino! Bentornato!- lo salutò, saltandogli al collo ed abbandonando momentaneamente l’appoggio a terra,
mentre Ken la sosteneva in un abbraccio.
- Ciao squilibrata!- fu la risposta altrettanto tenera di lui.
- Ah, certo... dimenticavo quest’appellativo romantico.- fece lei, ruotando gli occhi, ma Ken la sorprese con un bacio
sulle labbra. Socchiuse per un attimo gli occhi e le strofinò il volto contro il proprio, avvertendo distintamente il suo
odore avvolgente.
- Che ci fai qui a quest’ora? Oggi è giovedì, non devi essere al Ningyo?- gli chiese poi, riaccompagnandola a terra in un
misto di festosa sorpresa e l’insidioso dubbio che suo padre fosse stato preso da un delirio di tirannia e avesse deciso
di schiavizzare la sua ragazza, facendola lavorare anche le ore del pomeriggio e per giunta senza paga.
- No, veramente...- Eve curvò le labbra in una strana smorfia, grattandosi il mento - Non ci lavoro più al Ningyo.confessò, alzando le spalle.
- Che? E da quando? E perché?- l’altro si chinò su di lei con sguardo impensierito - E’ successo qualcosa? Era un lavoro
che ti dava una buona paga, e poi...- Ho lasciato.- lo interruppe, scuotendo il capo e riprendendo un’espressione serena - Ho messo da parte quanto mi
bastava per realizzare un progetto che ho in mente, mi è servito solo per questo. Impiegavo troppo tempo per andare
e tornare. Ora poi ci sono gli esami e non posso permettermi di perderne in viaggio da pendolare. La mattina c’è la
scuola e poi...- gli scoccò un’occhiata maliziosa - Poi tuo padre ha deciso di assumermi definitivamente a orario fisso.Il che le dava molte agevolazioni, dal momento che la palestra distava solo qualche isolato a piedi e lavorare lì le dava
anche il tempo di poter studiare come si deve. A poco a poco, ma come si deve.
E poi il signor Wakashimazu era un capo abbastanza comprensivo, decisamente distinto e professionale, ma senza
dubbio condiscendente e flessibile.
Ken stava per autoinfliggersi un doloroso pizzicotto per testare se stesse sognando o meno, quando suo padre aprì la
porta scorrevole che dava sul giardino interno.
- Buonasera, ragazzi. Mi pareva di aver sentito delle voci.- li salutò, facendo il suo ingresso con l’aria composta e
signorile di un samurai, sistemandosi la fascia del kimono scuro che gli stringeva la vita.
- Ciao, papà.- il portiere gli rivolse un cenno col capo, annuendo seriamente, mentre Eve gli sorrise affabilmente.
- Eve, sei ancora qui? Il tuo turno non finiva mezz’ora fa?- le domandò, alzando un sopracciglio e chinando lievemente
il capo da un lato. Lei diede una rapida occhiata all’orologio, sbattendo più volte le palpebre.
- No, non sono nemmeno le cinque, non si ricorda, di solito...- fece per ribattere, confusa, ma l’uomo la frenò,
facendosi vicino e scoccandole un’occhiata eloquente.
- Io dico che è finito mezz’ora fa.- ripeté.
La bionda distolse finalmente lo sguardo dalle lancette, abbandonando l’ipotesi che il suo orologio fosse rotto e
finalmente cogliendo il sorriso d’intesa del suo interlocutore.
- Oh! Beh... già!- stabilì, annuendo energicamente - Già, è meglio che me ne torni a casa, mio fratello dev’essere
rientrato da un pezzo!- detto questo tornò dietro il bancone e rimise un plico di fogli sotto il fermacarte, poi afferrò la
propria borsa, non mancando di sussurrare un velato e riconoscente ‘grazie’ nel transitare accanto al padrone della
palestra.
- A domani!- salutò infine, rivolgendo ad entrambi un gran cenno di saluto e partendo di buona lena verso casa
propria.
I due la seguirono con lo sguardo, mentre lasciava il cortile e spariva oltre la strada; Ken stava per chiedersi se forse
di nuovo non fosse tutto un sogno, quando suo padre parlò.
- Hai giocato molto bene.Una frase tanto repentina che Wakashimazu pensò di doversi aggrappare allo stipite della porta per accusare il colpo.
- Grazie.- rispose invece, dissimulando la migliore aria responsabile e coscienziosa di cui fu capace.
Poi cadde il silenzio, inesorabile e pesante. Un po’ come le decisioni che l’uomo che gli stava di fronte aveva da sempre
stabilito per la famiglia, per la palestra, per la vita. Per lui.
- Non devi, sai.- Ken esordì nuovamente, ma stavolta con l’aria affranta di chi ha colto il pensiero dell’altro, un
pensiero non troppo lusinghiero, forse un po’ falso, formulato unicamente in virtù del quieto vivere - Non devi fingere,
non ho più dodici anni. Davvero, papà, non mi serve che tu assecondi la mia scelta. Non ne ho più bisogno.Socchiuse gli occhi con la maturità adulta di chi è, nonostante tutto, affranto dalla cognizione di stare da sempre
viaggiando su due binari paralleli, di star percorrendo la medesima strada, seppur senza incontrarsi mai.
Il sole del pomeriggio filtrava tra le impalpabili imposte di carta, talmente leggere da lasciare che il fascio di luce
rendesse visibili quelle minuscole particelle che viaggiano nell’aria, perlopiù incorporee.
L’uomo mosse un passo verso il figlio, arrivando a guardarlo negli occhi da pochi centimetri di differenza. Di statura
imponente, il signor Wakashimazu aveva trasmesso parecchi tratti genetici a Ken, tra cui l’ampio busto e le
caratteristiche del volto piuttosto marcate.
- Tu sei mio figlio.148
Non fu un sussurro, né un grido. Furono parole pronunciate con un tono famigliare, dalle tinte dolci e profumate di
infanzia.
- Sei mio figlio, ed io ho scritto per te una strada, invece di lasciare che tu intraprendessi la tua vita.- ora gli aveva
portato le mani sulle spalle, grandi, proprio come Ken se le ricordava, mentre - lui, così piccolo - lo sollevavano in una
giocosa imitazione di un aeroplano in uno sfocato ricordo.
Il volto del ragazzo si contrasse, dopo lo stupore, in una fitta alla gola. E d’un tratto tutto tornò indietro sino a quel
mondo di salopettes e caramelle, quando suo padre, scompostamente seduto a gambe incrociate sul tatami, lo
guardava con un’aria amorevolmente ridanciana muovere i primi passi e lui, eroico, nonostante le botte e le cadute, si
rialzava sempre in piedi per riprovarci, facendo leva sulle minuscole mani.
In un attimo Ken si ritrovò stretto al suo petto, ci si gettò senza badare a conseguenze, spazio, lacrime e rancori.
Fu di nuovo suo figlio, dopo tanto tempo. O forse scoprì di essere sempre stato tale, mai estraneo, sempre sostenuto
ed osservato in silenzio ed a distanza, con discrezione e temperanza.
Si sentì di nuovo piccolo piccolo, sorretto da due mani che mai nemmeno lontanamente avrebbe pensato sarebbero
divenute l’esatto modello delle proprie, un giorno.
L’odore carico ma semplice del kimono del padre gli invase i sensi, i ricordi. Una metà del volto premuta tenacemente
ad esso, gli occhi volutamente rivolti ad un punto qualsiasi della palestra, vuota e placida come un tempio.
Ken si rese immediatamente conto di essere una parte di lui, l’ovvio prodotto della sua carne, di derivare da lui, di
essere vita da vita.
Gli gettò le mani alle spalle, aggrappandosi alla stoffa scura e stringendo, tenendosi stretto come a voler tornare a far
parte della fonte, all’origine, al principio.
E tutti i diverbi scomparvero. L’eterna questione sempre aperta e mai conclusa si annebbiò sino a farsi talmente sottile
da non avere più ragione di esistere; ne rimase solo un semplice, muto grazie.
Grazie di avermi desiderato.
Grazie di esserti occupato di me, dopotutto non esistono scuole per addestrare ad essere un genitore.
Grazie per i giocattoli e le belle sorprese a Natale.
Grazie di avermi insegnato ad andare in bicicletta.
Grazie per avermi dato ciò che tu non hai avuto.
Grazie di essere taciturno, ma costante.
E non m’importa se sei rigido e austero, grazie del tuo abbraccio.
Perché sei mio padre, grazie di essere mio padre.
Eve si specchiò nella trasparenza della vetrina alla sua destra.
Indossava un paio di jeans ed una casacca leggera color terra, scollata. Il tintinnare dei bracciali che portava al polso
si fece sentire forte e chiaro quando lo mosse per guardare l’orologio. Erano le quindici o giù di lì di una serena e
tranquilla domenica pomeriggio.
Al di là della vetrata, passanti e clienti di quella stessa gelateria transitavano chi solerte e chi con più flemma, chi
sorridente e chi concentrato nel proprio incedere.
La bionda si sistemò un ciuffo di capelli dietro un orecchio, alzando poi gli occhi verso la ragazza silenziosa che le
sedeva dinnanzi: Ayame era tutta intenta a non far perdere l’equilibrio ad una succulenta amarena in cima alla sua
coppa alla panna a colpi di cucchiaino.
Portava un fermaglio verde ad un lato del capo, floreale e discreto, che catturava tuttavia l’attenzione sul luminoso
volto ora corrucciato.
- Mangiala, altrimenti scappa via.- rise Eve, poggiando il dorso allo schienale rosso della sedia in plastica.
- Ma è la parte più buona, voglio lasciarla per ultima!- si lamentò lei, riuscendo a cogliere una voluminosa cucchiaiata
di decorazione al cacao fuso, facendosi finalmente soddisfatta.
L’ambiente color pastello intorno a loro era saturato dal chiacchierio insistente degli avventori del locale, il quale aveva
aperto da poco in città, per divenire nell’immediato una leggenda, meta di grandi e piccoli a causa della allettante
sfilza di semifreddi che produceva ed offriva. Inoltre, l’allegria delle tinte accese alimentava i sorrisi sulle bocche di
coloro che già si rimpinzavano di dolci e cassate, contribuendo a fare di quel luogo di sosta una piccola isola amena di
zucchero e felicità nel frenetico e caotico ritmo della città.
Ottima strategia di marketing, si era trovato a considerare una volta Kojiro.
E proprio la Tigre, seduto di fianco ad Aya, stava giusto allontanando da sé una coppa in vetro soffiato vuota,
massaggiandosi pago lo stomaco.
Aveva resistito fino all’ultimo, ma alla fine era stato costretto ad arrendersi dinnanzi ad un esplicito invito da parte di
una coppa al tiramisù, piuttosto che a quello degli amici che avevano sino a quel momento premuto per convincerlo.
Ingrato, egoista, ma maledettamente deliziato.
Rise tra sé, mentre la compagna si era di nuovo arresa all’evidenza, decidendo di far sparire l’amarena dietro le sue
labbra lievemente dipinte di rosa.
- Nh, a proposito, Mizuki e Takeshi non ci raggiungono?- si fece pensosa, lasciando che il gusto avvolgente del piccolo
frutto rosso le si sciogliesse in bocca.
- Mister Awashida aveva una trasferta, a quanto ne so.- Ken si limitò ad alzare le spalle, senza distogliere l’attenzione
dal suo semifreddo al cioccolato, guadagnandosi da Eve un pizzicotto su un braccio.
- Che pettegolo!- lo rimproverò scherzosamente, voltandosi verso di lui e scoccandogli un’occhiata socchiusa - E tu che
ne sai delle trasferte di Mister Awashida!- Cioè? Che...?- Ayame rivolse repentinamente i suoi innocenti occhi neri dall’uno all’altro, incapace di afferrare al
primo colpo, rapita com’era stata fino ad allora sulla ciliegia. Il capitano preferì non intervenire.
- Oh, Aya, a quest’ora Takeshi sarà oggetto di un tour de force!- rise la bionda, dilettandosi nel tormentare il portiere
con nuovi, pungenti pizzicotti.
- Ah, piantala tu!- Wakashimazu l’afferrò saldamente, stringendole le spalle con una mano ed imboccandola a forza
con un cucchiaio di cacao, tanto che Eve si protesse per quanto poté, poi decise laidamente di cedere alla tentazione soprattutto forte del fatto che la sua coppa alla frutta giaceva desolata e ripulita a pochi centimetri da quella di Kojiro.
- Oh, quindi immagino che quei due non si faranno vedere fino alla fine del weekend.- calcolò la bruna, arrivando
finalmente all’ovvia e facile conclusione.
149
- Ssst! Principessa, non è da te parlare in questo modo! Tu devi essere quella che ci modera, se anche tu vieni
traviata, non avremo più freni!- l’amica tentò di divincolarsi dalla presa del compagno, il quale riprese a gustarsi il suo
gelato senza badare troppo alla ragazza intrappolata nella propria morsa.
- Di solito è Awashida quella senza freni.- convenne Hyuga, in un placido e convinto cenno d’intesa col capo.
- Non so se Takeshi sia più iellato o fortunato.- ridacchiò Ken, poggiando il cucchiaio nella coppa in vetro blu,
anch’essa a breve privata del suo dolce contenuto.
- Vizioso, portiere, vizioso!- Eve cacciò la lingua, riprendendo a tempestare il ragazzo di amorevoli colpi a palmo
chiuso.
- Ehi, ehi, a cuccia! Sei una mia dipendente!- questa volta Wakashimazu non poté fare a meno di trattenere una risata
divertita, ma la bionda puntualizzò repentinamente.
- Non sono tua dipendente! Volendo posso anche fare la spia al mio vero capo e raccontargli un sacco di versioni
fasulle, sono sicura che a tuo padre serva tanto un aiuto che sfacchini tutta la settimana con scatoloni di terra e nuove
colture per il rigoglioso giardino della palestra più in del momento!- Sei perfida!- lui ripescò il cucchiaino dal voluminoso bicchiere vuoto e glielo puntò sul naso, inevitabilmente finendo
per dipingerle la punta di cioccolato.
Ayame ridacchiò teneramente, mentre il capitano del Toho alzò gli occhi al cielo, sospirando in un sorriso. Immaginò
che Ken non le avesse ancora parlato del progetto che oramai si era deciso a realizzare; considerò che l’amico avesse
pensato di fare le cose in grande, perlomeno con tanto di dichiarazione e tutto il resto. Avrebbe decisamente voluto
godersi la scena, non tanto per sadica ironia, ma per curiosità... e forse anche per un tacito sostegno morale.
Quando si separarono, all’uscita del locale, il sole del pomeriggio splendeva ancora alto dietro i tetti più elevati del
quartiere, dando però monito di aver già iniziato la propria discesa verso ponente.
Il cannoniere si stiracchiò, ben deciso a dedicare il resto della domenica ad un’attenta riflessione sul proprio futuro, dal
momento che gli erano state recapitate diverse proposte d’ingaggio da parte delle squadre più valenti anche all’estero.
La decisione sarebbe stata sostanziale, avrebbe avuto modo di guardare oltre il suo piccolo mondo e di ritenersi sulla
via di una nuova vita. Si sentiva carico e gravemente consapevole, ma decisamente euforico all’idea di star realizzando
i propri sogni uno dopo l’altro.
Gli occhi neri di Ayame lo scrutavano, al suo fianco, grandi e luminosi.
- Va tutto bene, Koji?- glielo domandò con quel tono riservato e sentito, infinitamente tenero. Lui si lasciò andare ad
un sorriso disteso, considerandosi di nuovo parte di un’alchimia speciale, la metà esatta di una parte esclusiva di
universo, così differente ma altrettanto saldamente legato alla propria controparte.
- Va tutto bene.- le confermò sulle labbra, racchiudendo il suo fragile corpo di ragazza entro una stretta protettiva e
seguitando a camminare verso l’incrocio dell’area pedonale.
Ken ne osservò il gesto dall’altro lato del marciapiede, al quale Kojiro fece pervenire un’occhiata di benevola allegria da
sopra la propria spalla, prima di sparire oltre una manciata di altri passanti.
Quando il portiere tornò a rivolgersi ad Eve, la trovò tutta intenta ad allacciarsi in vita l’elegante casacca scura,
sistemandosi la fibbia della cintura.
Gli sembrò una donna, per la prima volta, dopo tutto e sopra tutto.
Era la stessa donna che con una superba noncuranza gli aveva rivolto il primo sguardo da sopra uno scaffale di un
negozio di elettronica. Era quella che l’aveva sfidato, che l’aveva conquistato.
Era quella che aveva stretto tra le braccia milioni di volte ed ancora bramava di potersi fondere con la sua pelle
diafana di perla. Era quella disperata, sconfitta, bruciata e distrutta, che si era rialzata. E quando l’aveva compreso, ne
aveva vista la grandezza, scintillare sopra ogni altra cosa.
Eve era Eve, quella che, nonostante mesi e chilometri di distanza, aveva saputo ritrovare identica e famigliare,
esattamente uguale a come l’aveva lasciata.
Ed ogni ‘per sempre’, ogni intima unione, ogni singola stretta delle loro mani intrecciate non chiedeva altro che essere
promessa e consolidata al di là del tempo.
Il sole indorava i suoi capelli biondi, che oramai le superavano le spalle di alcuni corposi centimetri. Il rumore dei
tacchi che accompagnava il suo incedere era ritmico e conciliante.
- A stasera.- glielo sussurrò, facendo in modo che il ragazzo si riavesse dalle proprie considerazioni e si rendesse conto
di essere giunti di nuovo dinnanzi all’alta ed imponente staccionata in legno che racchiudeva le mura della palestra.
- Okay, che dici, poi rimani da me?- le rispose frettolosamente, considerando che dopo l’uscita serale avrebbero potuto
cogliere l’occasione per stare insieme un po’ più a lungo.
- D’accordo.- la compagna acconsentì, distendendo le labbra dipinte in un sereno sorriso. Gli sfiorò la mano un’ultima
volta, poi lo superò per dirigersi verso la propria abitazione. Un istante solamente, si voltò di nuovo e, con il medesimo
dolce sorriso, decise di avanzare la proposta, il progetto per cui aveva lavorato nei mesi passati.
- Senti, che ne dici di un viaggio?- Senti, che ne dici di sposarci?- la replica di Ken fu decisamente traumatica.
Si lasciò sfuggire le parole di bocca, in piedi a pochi metri da lei, immerso nella penombra del pomeriggio dietro le
fronde degli alberi a fusto più maestoso, il fiato spezzato in gola.
Gli occhi della bionda si spalancarono all’istante, incredula, nel silenzio che invadeva i dintorni, decisamente si trovò
spiazzata e senza parole.
Dal canto suo, Wakashimazu si rese conto di non avere praticamente pensato, prima di parlare. Le aveva chiesto di
sposarlo con due parole, un gesto semplice buttato lì con un sorriso... in barba ad anelli e cerimonie, cene a lume di
candela, fiori ed il classico inginocchiarsi.
- Vi... viaggio? E dove?- fu sempre lui a rompere il ghiaccio, cambiando discorso prima che poté.
- N-non lo so, io... cercavo un lavoro apposta per questo. Volevo guadagnare abbastanza per poterci regalare un
viaggio insieme... tutto qua.- lei si strinse nelle spalle, dalla bocca le parole giuste per spiegarsi, nella mente i vorticosi
pensieri che aveva scatenato la frase di Ken di poco prima.
- Ah, è per questo allora che hai iniziato a lavorare all’hotel! Avrei dovuto arrivarci.- il ragazzo si portò una mano
dietro la nuca, prendendo a passare lo sguardo repentinamente dappertutto, evitando accuratamente di soffermarlo
nei suoi occhi.
- Sì, volevo farti una sorpresa. Non appena avessi messo da parte una sommetta decente.- rispose Eve, tentando di
catturare i suoi occhi, sporgendosi verso di lui con aria incuriosita.
150
- E’ un’idea meravigliosa!- scattò immediatamente il portiere, afferrandole le mani con un gesto deciso - Ma non
occorre che metta da parte tutto tu, ci sono anch’io, sai? Che ne dici dell’Europa? Ti piace la Francia?- Emh... veramente non saprei...- fece lei, immediatamente travolta e confusa.
- Bene! Allora ci vediamo stasera, così definiamo i particolari!- le schioccò un bacio sulla guancia e, subitaneamente, si
occupò di rientrare in casa di fretta e furia. Talmente velocemente che la bionda si trovò d’un tratto sola, imbambolata
davanti alla soglia del dojo con espressione stralunata ed una mano sul viso, laddove giaceva ancora il calore delle
labbra che Ken vi aveva appena poggiato.
Ma che cavolo gli era preso? Era del tutto impazzito? Troppi anni di calcio gli avevano dato al cervello?
Le considerazioni di Eve, prima di muoversi nuovamente verso casa, cominciavano a spaziare nei casi da manicomio.
Era ben certa di aver udito quelle parole... di aver appena ricevuto la proposta di matrimonio più sconclusionata del
mondo.
Certo, se almeno le avesse dato modo di capire... e invece no, come se non bastasse quel maniaco d’un portiere aveva
chiuso il discorso, mettendosi a parlare della Francia.
La cosa che non sapeva era che Wakashimazu stava dandosi mentalmente dell’idiota da quando si era lasciato sfuggire
quella frase. Stava proprio convenendo che forse quella sera avrebbe fatto bene a chiarire ogni cosa... decisamente,
avrebbe fatto bene.
La questione non fu sollevata per tutta la durata della serata. Perlopiù si limitarono a programmare a grandi linee il
viaggio di cui Eve aveva già ideato l’abbozzo: per una settimana intera, durante l’estate che sarebbe venuta di lì a
poco, sarebbero stati soltanto loro due. In una parte remota e lontana del mondo, loro due.
Rimaneva l’uscita di Ken di quel pomeriggio che, anche se sommersa, si faceva pressante ed incombente, faceva ben
sentire la propria presenza. Fu soltanto quando il ragazzo fermò l’auto davanti a casa della compagna, sulla via del
ritorno, che qualcosa scoppiò.
Stavano per scendere, di modo da salutarsi sulla soglia, ma Wakashimazu si bloccò di colpo, consapevole di non
essere in grado di tirare tanto per le lunghe una questione aperta, tanto più che ormai ad Eve arrivato il messaggio ed
una strana linea di tensione inespressa si stava lentamente intrecciando. La conclusione più ovvia sarebbe stata che
solo affrontando il discorso avrebbe potuto farla sparire. Un discorso caduto quasi ancora prima di cominciare.
- Che c’è?- la voce era quella di Eve, che lo guardava a tratti preoccupata dal sedile di fianco - Ken, tutto okay?Il portiere alzò lo sguardo con posata flemma e si imbatté nei suoi occhi di zaffiro che lo fissavano in attesa di una
risposta. Le palpebre sfumate e le labbra scarlatte, i capelli compostamente legati dietro la nuca, gli orecchini pendenti
ad incorniciarle il viso, pareva un’immota autorità d’altri tempi.
- Eve.- decise di cominciare, schiarendosi la voce - Ascolta, riguardo a quello che ti ho detto oggi pomeriggio...- Oh, non fa niente! Non importa, figurati!- lei non nascose per nulla un poco convinto tentativo di concludere il
discorso il più in fretta possibile.
- No, a me importa invece.- ribatté lui, accogliendole le mani tra le proprie - Penso davvero quello che ti ho detto.A battiti zero, il cuore della ragazza si arrestò inesorabile. Come un tuffo al petto, le sue mani rimasero mute e
pietrificate, strette in quelle del compagno chiedendosi per quale ragione le stava dicendo certe cose.
La colse un intemperante desiderio di chiudersi le orecchie, di scendere da quell’auto e cominciare a correre. Correre,
no? Aveva sempre fatto così quando c’era stato da scappare via.
- Per me è importante. Lo so che per dire certe cose servono anelli, un posto romantico... ma... ma... io ho bisogno di
dirtelo...- il volto di Ken non era dolce e conciliante come quello di un re, né severo e ponderato come quello di un
giudice. Piuttosto, serio e risoluto come quello di un eroe. Ed Eve ne era a tratti terrorizzata.
La sua mente lottava contro l’immobilità del corpo, immersa in uno strano stato di ansia. Mentre nella sua testa
lottavano e cozzavano tra loro milioni di parole e disegni, il suo volto era immobile, riflesso in quello del ragazzo che
tanto amava, ma che in quel momento l’atterriva.
- Io voglio sposarti.Glielo disse tutto d’un fiato.
Nel silenzio che seguì, Eve avvertì dentro il proprio petto, racchiuso tra il calcareo costato, il cuore rompersi in mille
pezzi, frantumarsi, perdersi.
Si trovò immersa nel buio, gli occhi di Ken scomparvero, si vide persa, sola, brancolante.
Ed ora...? Una risposta. Doveva forse trovare una risposta? Qualcosa da replicare, per non lasciare che l’assenza di
suoni divenisse padrona di una situazione così tremendamente delicata.
- Ken... - il timbro della sua voce femminile suonò così irrimediabilmente lontano, tanto che Wakashimazu non sentì
nemmeno più il tocco caldo delle sue mani tra le proprie, abbassando lo sguardo verso la stretta che Eve aveva
appena sciolto - Torna a casa.Gli occhi di nero ebano furono colti da un fremito di stupore, meraviglia, disappunto. Inaspettate, parole come frecce
dritte allo stomaco.
- Dammi solo... tempo.- furono le ultime parole che la bionda gli rivolse, aprendo la portiera e richiudendola con la
medesima affranta lentezza, impegnandosi poi a procedere verso casa, sicura che lui non l’avrebbe seguita.
Un gruppo di scatenate ragazzine urlanti del secondo anno le transitarono accanto senza nemmeno tentare di
nascondere l’eccitazione che sfolgorava nei loro occhi.
- Avete sentito, Dexter Springer ha respinto Momoko Sawashita!- gridò una, portandosi una mano davanti alla bocca.
- Cheee?!- una seconda, stralunata, fece tanto d’occhi - E’ impossibile! Momo è una delle più popolari della scuola!- Già!- le fece eco un’altra, scuotendo accigliata la testa bruna - E’ la terza proposta che declina in così breve tempo!
Credo che il più popolare del momento sia lui!- Secondo me Dex ha un amore segreto, uno di quelli da favola! Aaaww!- sospirò di nuovo la prima, assumendo
un’aria sognante.
- E’ così bello!- vociò l’amica, annuendo incantata - E poi è così atletico, così riservato, con quell’aria da misterioso
cavaliere!Ci volle poco perché l’ultima esclamazione non provocasse un inebriato sospiro da parte dell’intero gruppetto di
studentesse.
151
Eve alzò un sopracciglio distrattamente, chiedendosi se quelle tizie stessero parlando dello stesso Dexter Springer che
conosceva lei. Si lasciò cadere il libro sulle ginocchia, stiracchiandosi da seduta com’era sul muretto interno del cortile.
Certamente non aveva mai tentato di vedere suo fratello sotto una luce diversa, a dire il vero le era sempre parso
piuttosto noncurante e di poche parole nei confronti dell’altro sesso, con il chewingum tra le labbra, le cuffiette nelle
orecchie e le mani affondate in tasca. Eppure, a quanto pareva, il modello dell’ombroso battitore della squadra di
baseball attirava l’attenzione di un nutrito drappello di donzelle.
Il che, doveva ammetterlo, la rendeva piuttosto gelosa.
Quella notte non aveva dormito molto, considerando che doveva essere sembrata una specie di stupida a salutare Ken
in quel modo, chiedendogli del tempo di cui forse non sapeva bene nemmeno lei cosa fare.
Si alzò con indolenza, per richiudere il rilegato fascicolo di appunti e cominciare a dirigersi verso l’interno dell’istituto,
intenta a raggiungerne il tetto, per trascorrere quella pausa pranzo in totale solitudine - certo non per depressione
incalzante, piuttosto per tentare di fare luce tra i propri pensieri.
- Eve, ci raggiungi al campo?- come non detto. Una sorridente Aya si avvicinò con tutta l’intenzione di renderla
partecipe della sua nuovissima ricetta del giorno, contenuta in un colorato e composto cestino per il pranzo.
- Oh, eh... veramente ho già mangiato, ho appena finito.- tentò d’inventarsi su due piedi di rimando - Sto salendo sul
tetto, devo finire di ripassare questa roba, ho lasciato un paio di argomenti indietro sulla tabella di marcia.- sorrise
infine, mostrandole distrattamente il libro e chiedendosi da sé quali argomenti avesse realmente tralasciato e se forse
non necessitasse sul serio di una ipotetica tabella di marcia.
L’amica fu comprensiva, annuì convinta e la salutò, informandola che - se mai fosse riuscita a venire a capo delle
questioni entro la fine della pausa - avrebbe potuto trovare lei e gli altri sul campo, come sempre.
La bionda non mancò di replicare con un poco convinto ‘grazie’, poi sparì su per le scale. Aveva bisogno solo di un
attimo per pensare, uno soltanto.
Si sedette accanto al muretto ed abbandonò la dispensa ai propri piedi senza badarci troppo, poi si passò una mano
sulla fronte, ravviandosi una ciocca di capelli dietro la schiena. Accidenti. Come fare a confessare a Ken tutto ciò che si
agitava nella sua piccola testa confusa?
Di certo più volte si era trovata ad immaginarsi come... moglie. Di Wakashimazu. E, nonostante i brividi, una soave e
tenera sensazione di calore le aveva ogni volta abbracciato le membra.
In molte occasioni aveva liberato la fantasia, immaginandosi al suo fianco in una casa tutta loro, con un futuro tutto
loro... e tante promesse consolidate, le mani intrecciate per sempre.
Sospirò, facendo leva sulle ginocchia per rialzarsi e raggiungere l’inferriata che dava sul cortile.
Il sole le riscaldava ardente il volto, abbagliandole la vista e gettandola in un mondo di luce.
Era così difficile concretizzare un desiderio. Dal dire al fare, c’è di mezzo un abisso, come si suol dire. Ancor peggio se
quell’abisso è costellato di terra che frana e spauracchi di un passato che troppe volte l’aveva colpita alla schiena.
Si sarebbe giocata tutto con un sì e forse, anzi, di certo, era impaurita a morte dal pensiero di rischiare di saltare
dall’altra parte senza un appiglio e visti i trascorsi tormentati.
L’unica cosa che dava per certa era che non avrebbe saputo cosa dirgli, se se lo fosse trovato davanti.
- Ehi, è permesso?- come non detto. Era un dejà-vu, oppure il destino cominciava a prendersi gioco di lei?
Non si voltò, conosceva fin troppo bene quella voce.
Seguitò a rivolgere lo sguardo in lontananza, oltre le strade, oltre la metropoli, oltre l’orizzonte, mentre il cuore - lo
sentiva - a poco a poco aveva preso a battere come un treno.
La presenza di Ken si fece tangibile, il suo caratteristico profumo le invase i sensi, mentre il ragazzo si appoggiava con
il dorso alla ringhiera, giusto pochi centimetri da lei. I suoi occhi scuri e sereni presero a spaziare per l’immensità del
cielo terso e quasi irrealmente azzurro, il capo gettato indietro ed i lunghi capelli ondeggianti al vento.
- Ayame mi ha detto che eri qui. Posso farti compagnia?- il suo tono sgombro, limpido, era sempre musica. Era
sicurezza, era sostanziale, tranquillizzante a tal punto che la sola sua voce a volte le bastava a convincerla che sarebbe
andato tutto bene.
Eve annuì senza parlare, i capelli le coprivano gli occhi ed era impossibile per lui decifrarne l’espressione.
- Perdonami se ieri sera ti ho detto qualcosa che non avrei dovuto. Magari pensi che l’abbia fatto perché credo sia
prematuro, che siamo troppo giovani per...- glielo disse con un malinconico sorriso, che tuttavia venne
immediatamente frenato: la bionda lo interruppe, alzando di scatto il capo e piantandogli in faccia quel suo paio di
lame penetranti che stavolta non erano atte a ferire, piuttosto a chiedere comprensione.
- No! Io non ho mai detto una cosa del genere!- concitata, ebbe immediatamente fretta di sfatare una sciocchezza che
mai avrebbe potuto balenarle in testa - Ken, ti sposerei anche subito se solo ce ne fosse la possibilità... è solo che...Il portiere rimase a guardarla mentre sul volto bianco della compagna aveva preso a troneggiare un’aria incrinata
dall’agitazione, impaziente di smentire qualsiasi equivoco.
Un nuovo momento di aleggiante sospensione, poi la frase ebbe modo d’essere conclusa d’un fiato, quasi con timore di
non essere in grado di pronunciarla un’altra volta.
- Solo che... e se finisse tutto com’è successo ai miei genitori?!- un’esclamazione asciutta, quasi colpevole, afflitta.
Eburnea e solitaria, la mano destra di Eve aveva preso a stringere con veemenza il corrimano in metallo dell’inferriata,
le nocche si fecero bianche, mentre si voltava di scatto verso di lui. Wakashimazu si tirò su, curvando il volto verso di
lei, senza perdere l’espressione pacata che portava distesa sul volto.
- Ken, io ho paura, sono terrorizzata, e non è questione di preavviso, io... non sono capace di essere una ragazza
normale, ci ho provato, non ci riesco...- la bocca della compagna, rossa come ciliegia, fremette per un istante - E non
so se riuscirei ad essere una brava moglie, avrei sempre bisogno di quelle piccole cose che non ho avuto mai, di... di
svegliarmi la mattina e sentire che ci sei, sentirti davvero, anche se sei già uscito di casa, anche se sei lontano mille
miglia... anche se... io... avrei bisogno di te sempre, di sapere costantemente che non mi lascerai cadere mai... di...
di...- le parole si mutarono in pochi attimi in balbettii, sopraffatte da un istinto troppo pungente per essere vinto a sua
volta.
E per un’ennesima volta, come ad un epilogo il cui rimando non stava altro che all’inizio di ogni cosa, Ken le cinse le
spalle con le braccia, racchiudendola in una stretta dall’aroma di terra.
Come il primo abbraccio che le aveva regalato, senza sapere bene né come, né perché, si trovò ad avvertire nel petto
una pulsante sensazione di intesa, di consapevolezza e, posando il mento sul suo capo, le baciò la fronte, ora conscio,
ora pronto, ora uomo.
152
- Non finirà così.- lo sussurrò con semplicità, liberando il cuore da ogni dubbio e mostrandole la sicurezza della fiducia.
Le prese il viso tra le mani, sfiorando le ciocche di capelli biondi che, mossi da un vento proveniente dal lontano
oceano, le carezzavano fuggevolmente le guance.
- Non esistono valutazioni sbagliate, né tantomeno legittime. Quando si prendono certe decisioni, ogni cosa trascende,
ogni cosa è più importante di tutto.- quieti, i lineamenti mascolini del portiere disegnavano le curve del suo volto,
lontano come soffice nuvola, eppure concreto come palpabile carne - Tutto fa parte della vita. E io questa vita la voglio
vivere con te. Se nemmeno per te vale, nemmeno a me importa della gente che dirà che sono troppo giovane o
inesperto per... sposarti.- l’ultima parola trattenuta e poi soffiata in un sorriso - Perché, credi, è il taglio squadrato
delle tue spalle, è la piega morbida dei tuoi fianchi, la curva netta del tuo seno, è quello che ti batte nel cuore, è il tuo
il profumo che voglio sentire per sempre.Eve fu sul punto di essere travolta dal fulgido spettro del compagno. Tremendo come fulmine, accogliente ed immenso
come il mare. Stava succedendo di nuovo.
- Ken...- tentò di pronunciare quel nome che tanto amava anche solo lasciar comparire tra i propri pensieri per sentirsi
in pace con il mondo, ma fu incapace di andare oltre, incapace di razionalizzare, incapace di sentirsi di nuovo una col
proprio corpo, lasciato indietro, proiettata in un universo dove i sensi erano canalizzati ad essere uno, la completezza.
Lui si chinò di nuovo verso la sua bocca semiaperta per cogliere il proprio nome sulle proprie labbra, racchiuderlo nella
propria gola, lasciarlo scivolare dentro sé, mentre una mano liscia di lei gli si poggiava tenue su uno zigomo,
accogliendogli il volto in un tocco di nebbia.
La baciò con la delicatezza di un principe, con l’energia di un paladino.
- Io ti prometto, ti giuro, dovessi pagare con la vita il fio, ti onorerò sempre come si onora una regina. Ti amo, mia
Eva. Sarai sempre e solo tu.- e la sua voce parve così inaspettatamente vicina, che le lacrime di Eve si sciolsero ed il
prepotente nodo alla gola s’infranse e si ruppe in mille, inconsistenti pezzi.
Scontato, eccessivo, melenso, fiabesco? Forse.
Ma quando certe parole ti colgono il cuore, lo innalzano e lo trascinano via in un mondo di bianco, puro candore, e
allora... allora ogni giudizio è superfluo.
Le parole sono semplicemente quelle che arrivano, sono promesse di dedizione, sono incanti, sono favole
coraggiosamente trasformate in realtà.
Ed Eve sarebbe potuta morire anche in quel momento, ma felice, sostenuta, ricongiunta alla perfezione, sicura di aver
raggiunto la totale pienezza che solo alcuni fortunati al mondo hanno l’occasione di sperimentare.
Senza aggiungere altro, Wakashimazu le asciugò il viso bagnato con innumerevoli piccoli baci, finché, scossa dal
solletico, la compagna non rise.
- Sono ancora in tempo per risponderti?- la nuova domanda, più leggera, fu accompagnata da un timido sorriso
malizioso.
- Umh... vediamo...- Ken le strapazzò i capelli, facendo per controllare l’orologio - Aspetti, signorina... credo che il
tempo stia per scadere.Le allungò una mano in vita, traendola a sé con la palese volontà di stuzzicarle di nuovo i fianchi.
- Cafone!- Eve non trattenne un nuovo riso stimolato e divertito - Ma come si permette!? Io sono la signora
Wakashimazu!Il portiere ne fu inevitabilmente contagiato, tanto da essere rapito dal trasporto; la prese in braccio, sollevandola
letteralmente da terra.
- Ti amo.- bisbigliò, dopo un giro completo, baciandola sul collo.
- Ah... basta col solletico!- fu la falsa lamentela di lei che, scendendo dalle sue braccia, prese a correre verso la porta
che dava sulle scale - Adesso dovremo organizzare tutto!La sua risata felice si infranse contro il cielo leggero e carico, echeggiante e ricca di aspettative e virtù.
Ken la raggiunse, pensoso, non mancando di afferrarle di nuovo una mano per prolungare il contatto e dimostrarle con
quanta sicurezza confidasse nella visione e nel progetto di un futuro insieme.
- Anelli, inviti, cerimonia, vestito bianco...- si grattò il mento, curvando indietro un labbro.
- No, aspetta! Niente vestito bianco!- gli occhi azzurri di Eve balenarono immediatamente dalla stretta delle loro dita
intrecciate al suo volto riflessivo, trattenendosi e fermandosi di nuovo a pochi centimetri dal suo naso - Voglio un
kimono, uno di quelli antichi, da cerimonia!- lo disse con l’espressione sognante di una bambina, rapita, in
contemplazione di qualcosa che fino ad allora aveva soltanto immaginato ed ammirato nelle illustrazioni più belle.
Il compagno si sciolse in un soffice sorriso. Alchimia.
- Magari con delle sfumature rosse e una corona di fiori?- buttò là, conoscendo già la risposta che gli sarebbe giunta.
- Ehi!- sbottò la bionda, la cui mente prese irrimediabilmente a ripercorrere il passato alla ricerca dell’occasione in cui
gli aveva svelato i propri assurdi desideri - E tu come fai a saperlo?- E’ un segreto!- Ken cacciò la lingua, assumendo poi scherzosamente l’aria superba e arrogante che lo
contraddistingueva e di cui era maestro. Ma Eve sapeva essere cento volte peggio di lui, dopotutto, erano fatti l’uno
per l’altra.
- Come segreto?- si portò le braccia ai fianchi, trascinando con sé la mano del compagno ancora stretta alla propria.
- Segreto!- ovvio, il portiere le scoccò un rapido bacio sulla guancia, poi la lasciò andare e le conferì una sonora e
giocosa sculacciata. Per un attimo lei rimase a metà tra il colto alla sprovvista e l’interdetto, ma ebbe modo di riaversi
immediatamente, dal momento che Wakashimazu era già sulla via delle scale.
- Andiamo! Non vorrai nasconderlo alla tua futura moglie! Quando te l’ho raccontato?!- Se mi prendi te lo dico!- Oh, puoi giurarci! Torna subito qui, licenziosissimo portiere!I lunghi capelli biondi scivolavano oltre le spalle di una giovane donna, le cui ciocche ribelli erano oggetto di un vivace
soffio di fresco vento primaverile diretto al suo perfetto ovale di viso. Indossava una leggera maglia intrecciata,
azzurra come i suoi occhi di zaffiro, che le si posava delicatamente sul petto, delineandone la forma dolce, un paio di
pantaloni bianchi che le cingevano la vita snella, lasciandole scoperte le gambe dal ginocchio in giù e dei sandali con il
tacco dello stesso, immacolato colore. Sul suo fianco era poggiata la mano di un giovane uomo dai capelli color ebano,
153
che superavano le spalle della camicia blu, il quale le rivolgeva uno sguardo di quieta serenità, mentre i pantaloni neri
gli tratteggiavano signorilmente i pronunciati muscoli delle gambe da atleta ad ogni passo.
I due si scambiarono un armonioso bacio, giusto mentre un bambino di circa quattro anni scuoteva i suoi cortissimi
capelli castano chiaro e rivolgeva i suoi occhi nerissimi su e giù per il parco, correndo spedito per il sentiero.
- Nicky! Nicholas! Non correre così veloce!- gli gridò la donna, tra il perentorio e l’impensierito.
- Chissà da chi ha preso...- sorrise il compagno, raggiungendo la propria mano con quella che fino ad allora aveva
tenuto libera di ciondolare al proprio fianco, racchiudendo il corpo della consorte in un abbraccio.
- Mamma, mamma! Guarda cos’ho trovato!- il bambino tornò di corsa verso i genitori, con un grande sorriso ingenuo
sulle labbra umide dall’affanno, mostrando con estatica allegria un quadrifoglio. Le sue iridi di preziosa opale si
specchiarono in quelle del padre, esattamente identiche, nere, profonde come notte.
- Sei fortunato! Pensa un po’ tutte le volte che l’ho cercato io, un quadrifoglio!- rise il giovane padre, accovacciandosi
verso di lui, scompigliandogli affettuosamente i capelli e strizzandogli un occhio - Certe fortune non si inseguono, ti
capitano e basta, se le cerchi stai sicuro che ti sfuggono.In tutta risposta il piccolo gli rivolse un’aria ancor più entusiasta e riconoscente, ringraziandolo con un inconsapevole e
silenzioso sorriso per averlo fatto sentire così esclusivo nella sua fortuna, ricominciando a correre su e giù per la
stradina, coraggiosamente gettandosi alla mercé di nuove curiosità da scoprire.
Con una serena risata, l’uomo tornò ad abbracciare la moglie ed a camminare lentamente con lei dietro al figlio,
immersi nella pioggia di petali rosa tenue che, tanto impalpabili e leggeri, consacravano il principio di una nuova
primavera.
Grazie.
Grazie, perché ve lo devo.
Lo devo a tutti coloro che mi hanno seguita dal lontano anno della primissima stesura di questa fict.
Lo devo anche a tutti quelli che l’hanno conosciuta in occasione della revisione, ora che ha preso la sua definitiva forma.
Qualcosa da dire in merito? Qualche curiosità?
Beh, chi mi conosce anche solo un pochino sa che da sempre vedo e scrivo di Ken dappertutto, nei rimandi, nei deliri, più o
meno ovunque. E - tentando di rimanere seria, anche se la cosa non mi si confà molto - è perché amo da impazzire il suo
personaggio. E proprio dal momento che è un personaggio, mi ha appassionata dal primo momento.
Perché è umano. Si concede di sbagliare, di agire secondo orgoglio, a volte senza buonismi di sorta. E’ altezzoso, è duro, è
selvatico, ma è anche impetuoso, tenace, è un amico. E’ vero.
Se poi ci aggiungiamo anche il suo character design... beh, ma questa è un’altra storia.
Parlando di Eve, lei è una delle mie primissime creazioni.
Quella che amo di più, quella che sento più di ogni altra.
Perché io stessa sono Eve più di quanto immagini. Lo sono stata, credevo d’essermi persa, ed invece mi sono riscoperta lei più
inaspettatamente ed intensamente che mai.
Non che non adori i personaggi originali che sono venuti dopo “Ombre di cicatrici”, ma forse sono tutti troppo adulti, troppo
disperati, troppo arrabbiati. Ma è giusto, dopotutto ho attribuito ad ognuno di loro un ruolo che sono tenuti a rivestire e, se
così non fossero stati tratteggiati, di certo ora non sarebbero adatti allo scopo, alle vicende che li vogliono protagonisti.
Invece Eve è la bambina cresciuta troppo in fretta che anche io sono stata - sebbene le cause di ciò siano differenti -, è quella
che quasi inconsciamente decide di fidarsi un’ultima volta di uno strano portiere incontrato per caso e che fortuna ed autrice
vogliono sia quella buona.
Perché dopotutto “Ombre di cicatrici” è una storia d’amore, una di quelle classiche e senza pretese.
E’ il cammino verso la maturità di un po’ tutti gli attori sul palcoscenico, in primis del protagonista maschile.
E’ uno scorcio del suo diventare uomo. E’ anche la sua presa di coscienza, da cui deriva la decisione di mettere da parte le
armi dell’adolescente ed incamminarsi verso la riconciliazione con un padre che lo ormai lo vede come l’adulto che è diventato.
E, come dicevo poche righe fa, ha tanto di me.
Perfino Dexter ha assunto ad un certo punto le caratteristiche del mio reale fratello minore, che peraltro amo
appassionatamente, con il quale sono cresciuta e che considero un dono senza prezzo.
Nessuna storia ha più avuto questi intimi connotati, per questo “Ombre” è speciale.
E per questo mi sento di dover dire grazie a tutti coloro che in questi anni hanno speso almeno un poco del loro tempo con la
mia storia.
Grazie per tutte la vostre parole, per avermi seguita e per considerarmi una brava autrice. Il sapere che vi ho fatto battere il
cuore almeno un pochino, beh, per me è cosa grande, ed il cuore lo fa battere a me.
Akuma
~ Grazie di stare qui con me. Non voglio andare da nessun’altra parte.
[ Ken, Capitolo 2 ]
FINE
Il Bazar di Mari
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Online da: Giugno 2007 – Ultimo aggiornamento: Dicembre 2007
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