di Alessandro Alciato

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di Alessandro Alciato
Carlo Ancelotti
con Alessandro Alciato
Preferisco la Coppa
Vita, partite e miracoli di
un normale fuoriclasse
Prefazione di
Paolo Maldini
EDIZIONE AGGIORNATA
Proprietà letteraria riservata
© 2009 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-08204-4
Prima edizione Rizzoli 2009
Prima edizione BUR maggio 2015
Crediti per l’inserto fotografico
P. 8 in alto: © RCS Quotidiani
P. 8 in basso: © Archivio Omega Fotocronache – Milano
P. 9: © Foto AP
P. 14 in alto: © Foto AP
P. 15: © Foto AP
P. 16: © Foto AFP/Grazia Neri
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Introduzione alla nuova edizione
di Alessandro Alciato
Te jamón. È la prima cosa che Carlo Ancelotti ha imparato
a Madrid. Lo diceva, lo guardavano male, gli scoppiavano
a ridere a un centimetro dal faccione, lo prendevano in
giro, con quei sorrisini troppo snob per un bonaccione
come lui: «Il solito italiano che parla male lo spagnolo. Si
dice te amo, ti amo». E invece Carletto, nel frattempo diventato Don Carlos, aveva ragione, ma come spesso accade
non l’ha fatto notare. Non aveva la minima intenzione di
rivelare pubblicamente i propri sentimenti, semplicemente
era spinto dalla voglia di urlare al mondo che il prosciutto
della capitale gli piaceva da morire. Prosciutto in italiano,
jamón in spagnolo. Geniale, come sempre. Ottimo segno,
dopo pochi giorni si era già ambientato. L’istruzione per
l’uso dell’allenatore del Real è sostanzialmente una sola,
semplice e immediata: se in qualche modo parla di cibo,
sta bene, se invece inizia a dire che si metterà a dieta, be’,
in quel caso è consigliabile correre verso il primo telefono
e chiamare un’ambulanza. Oppure iniziare a gridare, più
forte che si può. Si riprenderà. Alla fine si riprende sempre.
È l’unico allenatore al mondo la cui capacità di vittoria è
direttamente proporzionale alla larghezza del girovita.
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Questo libro si intitola Preferisco la Coppa non per
caso. Qualcuno penserà alla Champions League, altri a
un insaccato, tutti avranno ragione. Non esiste trionfo
senza un buon ristorante. Queste pagine rappresentano
prima di tutto la storia di un figlio di contadini, solo in un
secondo momento la cavalcata straordinaria di un uomo
normale, certe volte anche troppo. È il racconto della sua
prima vita, quella che dai campi (da coltivare) di Reggiolo
l’ha portato fino al campo (di calcio) più prestigioso del
mondo, il Santiago Bernabéu, un tempio dentro al quale il
Real Madrid costruisce e autoalimenta il proprio mito. Fra
un trionfo e un Alka-Seltzer. Un libro che si ferma ai primi
successi sulla panchina del Chelsea: ciò che è accaduto
dopo lo sanno tutti, come si diventa il migliore allenatore
in circolazione merita invece un approfondimento. E mille
risate. A partire dal suo motto, «non è il salame che fa
male ma il coltello», rimasto intatto nel tempo. Cambiano
i palcoscenici, in parte le lame, non il protagonista. Fuori
l’ambiente si è fatto più luccicante, dentro non si sono registrate scosse anomale, se non dopo qualche cena andata
troppo per le lunghe. Al Real Madrid l’hanno chiamato
nell’estate del 2013 dopo aver cacciato José Mourinho, il
suo esatto opposto in tutto, e di fatto gli hanno imposto
una cosa, da subito: «Carletto, devi vincere la Champions
League». Ha pensato “cominciamo bene”, ha risposto «ci
provo». Gli stavano infatti chiedendo di riportare a casa
una coppa che mancava da dodici anni, cioè da un’eternità. Erano fermi a nove, la decima nel corso del tempo si
era trasformata nella peggiore delle ossessioni. Un incubo
senza fine, un’illusione prolungata, un traguardo che sfu6
mava sempre sul più bello. Neppure Mourinho, detto (da
se stesso) lo Special One, era riuscito nel miracolo. Forse
aveva parlato troppo. Nel dubbio, Ancelotti ha lavorato in
silenzio alla Ciudad Deportiva di Valdebebas, ha azzerato
le bande che stavano dividendo l’ambiente, ha obbedito a
quell’ordine perentorio travestito da richiesta gentile.
C’ero quel 24 maggio 2014 a Lisbona, ho avuto la
fortuna di raccontare da bordocampo per Sky la finale
contro l’Atletico Madrid, cioè un derby totale giocato in
trasferta. Lisbona capitale della Spagna. Madrid capitale
del Portogallo. Un delirio geografico, un’emozione in
fuga dal mappamondo. A pochi secondi dalla fine, a recupero già ampiamente iniziato e praticamente finito, il
Real stava perdendo 0-1 e lui – anche se non lo ammetterà
mai – stava per diventare l’ex allenatore della squadra.
L’Atletico Madrid aveva già vinto il campionato, vederlo
pure trionfare in Europa per la dirigenza del Real sarebbe
stato troppo, il presidentissimo Florentino Pérez si era
confidato con più di una persona: «Se perde lo mando
via». E invece al minuto 93 ha fatto gol Sergio Ramos.
E poi nei supplementari Bale. E poi Marcelo. E poi
Ronaldo. Risultato: 4-1 ed ennesima panchina salva per
Ancelotti, che in questo libro si autodefinisce «il primo
allenatore al mondo con il culo antisismico». Funziona
così: nel momento esatto in cui lo stanno per esonerare,
quando la panchina diventa bollente e le chiappe si fanno
incandescenti, estrae il coniglio dal cilindro, con la chiara
tentazione poi di mangiarselo. Vince quando meno se lo
aspettano, gli altri. L’ho incontrato che vagava sul campo
con lo sguardo mezzo sognante e mezzo perso, appena
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finita la partita, mentre i suoi giocatori impazziti correvano sotto la curva occupata dai tifosi vestiti di bianco dalla
testa ai piedi, intonando Hala Madrid.
«Carlo ce l’hai fatta!»
«Ce l’ho fatta...»
«Carlo hai vinto!»
«Ho vinto...»
«Carlo, la decima è tua!»
«La decima...»
«Carlo mi sembri un po’ rincoglionito.»
«Non mi rendo ancora conto di nulla.»
Ho voluto fare la prova del nove, l’unica in grado di
spiegarmi il suo reale stato mentale.
«Carlo, scusa, hai fame?»
«No.»
Ufficiale, non era in sé. È rinsavito nel giro di pochi minuti, quando gli hanno consegnato la Champions League,
nell’esatto momento in cui in tribuna autorità ha toccato
con mano il risultato del suo essere speciale, in quanto
normale. «Un allenatore leggendario», come lo definisce
spesso Beppe Bergomi, campione del mondo con l’Italia
nel 1982. Quello che davvero non sapeva, era che da lì a
poco sarebbe successa una cosa che al Real Madrid non
si era mai vista, in particolare negli ultimi anni. Durante
la classica conferenza post partita del vincitore, in sala
stampa hanno fatto irruzione molti dei suoi giocatori. Saltavano, avevano delle parrucche in testa, soprattutto sono
andati ad abbracciarlo, ci è scappato pure qualche bacetto.
Il messaggio era poco cifrato: «Grazie Carletto, noi siamo
con te». Volendo, si può leggere anche così: «Cari dirigen8
ti, se avete ancora in mente di fare a meno di quest’uomo,
prenotate un pullman, perché in quel caso noi lo seguiamo
in massa». Una notte indimenticabile. Era rimasto lo stesso dei tempi della Reggiana, quando aveva a che fare con
calciatori semisconosciuti.
A inizio stagione il nuovo acquisto Gareth Bale, per
molti, era l’uomo da cento milioni di euro, perché tanto il
Real Madrid l’aveva pagato per strapparlo al Tottenham.
Per Ancelotti, semplicemente, era il ragazzo con cui parlare
perché almeno una notte a settimana la trascorresse nell’albergo all’interno della Ciudad Deportiva. Sembrava un po’
stanco. «Sente la pressione del suo prezzo» era il pensiero
cattivo di molti. «Mia figlia piange la notte e non riesco a
dormire» confidava il giocatore al suo nuovo allenatore.
Dove gli altri vedono milionari, lui vede persone. Punto. E
viene ripagato con una fiducia e una dedizione totali, comprese quelle di Cristiano Ronaldo, che, nelle rare interviste
che concede, un concetto lo sottolinea sempre e comunque:
«Voglio ringraziare Ancelotti per tutto quello che fa per me
e per la squadra». A dirlo è il calciatore più forte e invidiato
del mondo, il vincitore di tre Palloni d’oro, uno di quelli che
supera sempre il 7 nelle pagelle del lunedì mattina, stilate
da Ancelotti e dal suo staff prima che ricominci la settimana
degli allenamenti. Dopo la decima è arrivato il Mondiale
per Club a Marrakech, vinto in finale contro il San Lorenzo,
che fra i suoi tifosi annovera anche papa Francesco. Non ha
commesso peccato Ancelotti, perché la legge del gol è di
fatto una legge divina: il più forte vince.
Quando se ne andrà dalla Spagna, continueranno a volergli bene. Accade sempre. A Roma – dove se vuole pagare
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il conto al ristorante ancora oggi deve chiamare i carabinieri
a cavallo – lo rivorrebbero come allenatore, un giorno. Al
Milan idem. Al Chelsea ha lasciato mille amici, nonostante
Roman Abramović non abbia mantenuto la promessa che
gli aveva fatto dopo averlo scelto come allenatore: «Se vincete le prime sei partite consecutive, vi carico tutti sul mio
Boeing privato e vi porto a mangiare dove volete, in qualsiasi parte del mondo». Non lo sapeva, ma nel momento esatto
in cui stava pronunciando il verbo mangiare, il proprietario
del Chelsea aveva già perso. Le prime sei partite Carletto le
ha vinte, ma all’aeroporto di Parma – perché la scelta era
caduta su un ristorante in cui ai tempi del Milan aveva portato anche Beckham a fare una scorpacciata di tortellini – la
pista è rimasta vuota. Con il Paris Saint-Germain, accompagnato al successo in Ligue 1 (il campionato francese), non si
è lasciato benissimo, ma neppure da quelle parti sono volati
gli stracci. A un certo punto, di nascosto, hanno contattato
Mourinho – ancora lui, sempre lui – e nonostante sia un
buono, Carletto una sola cosa non sopporta, anzi due: la
mancanza di fiducia abbinata alla mancanza di sincerità.
L’ha saputo e un attimo dopo ha comunicato al club la
propria decisione: «A fine stagione lascerò la squadra».
Hanno fatto finta di non capire, sono diventati leggermente
dispettosi, tanto che prima di andare al Real Madrid ha
dovuto pagare di tasca sua una parte della clausola di uscita
dal contratto, ma non c’è denaro che tenga. La dignità non
ha prezzo. Il suo valore, a Parigi, in molti l’hanno capito in
ritardo, quando già aveva spostato le natiche extralarge sulla
panchina del Santiago Bernabéu. Molti giocatori, compreso
Zlatan Ibrahimović che ha scatenato la sua parte dolce, nel
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periodo dei saluti gli hanno invece scritto messaggi carichi
di affetto. C’è stato un momento, prima di una partita in
Champions League contro il Porto, in cui Carletto sapeva
tutto: «Se perdi, o se comunque la partita della squadra non
ci convincerà, dovremo sollevarti dall’incarico». Le solite
parole dei soliti dirigenti, quante volte anche in passato le
aveva ascoltate. A parte che sollevarlo è più facile a dirsi che
a farsi, ma detto questo quella sfida il Paris Saint-Germain
l’ha vinta. Si sono separati, in Francia avevano in progetto
la costruzione di una squadra in grado di provare a vincere
la Champions. Peccato che appena un anno più tardi l’abbia vinta il Real Madrid, orfano di Mourinho e allenato da
Ancelotti, e non il Paris Saint-Germain, che sognava Mourinho e aveva perso Ancelotti. Nonostante tutto, neppure
a Parigi gli hanno fatto perdere il sorriso. Di più, il suo era
contagioso. Perché c’era un’usanza a Camp des Loges, il
centro sportivo che confinava a nord con una strada e a sud
con una caserma militare. Ogni mattina il capitano Mamadou Sakho arrivava, saliva al primo piano, girava a sinistra,
faceva tutto il corridoio, bussava all’ufficio dell’allenatore,
lo raggiungeva alla scrivania, gli stringeva la mano e senza
dire una parola ripercorreva la strada al contrario, scendeva
negli spogliatoio si cambiava e iniziava ad allenarsi. Una,
due, cento volte. Ancelotti non sapeva come dirglielo, ma
secondo lui quel cerimoniale non era necessario. Non volendo far la parte del maleducato, ha iniziato a raccontarlo
a qualche membro dello staff, nella speranza che il passaparola arrivasse, con messaggio incorporato, alle orecchie di
Sakho. Niente da fare. Un bel giorno, allora, ha spifferato
tutto durante un’intervista con l’inviato del «Corriere della
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