L`esperienza di Adriano Olivetti

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L`esperienza di Adriano Olivetti
L’esperienza di Adriano Olivetti
TITO CONTI*
Non sono uno studioso della vita e del pensiero di Adriano Olivetti. Se ne volete
uno ve lo posso consigliare: Bruno Lamborghini, mio ex collega ed amico; il quale,
oltre ad essere stato Presidente dell’Olivetti è anche Presidente dell’Archivio Storico
Olivetti, la massima fonte in relazione alla storia di Adriano Olivetti e della Olivetti.
Oppure Renzo Zorzi, o Luciano Gallino.
Mi ha chiesto di partecipare a questo incontro il prof. Claudio Baccarani al quale
ho detto di sì non solo perché è un amico ma perché mi ha garantito che non avrei
dovuto fare una dotta relazione, ma semplicemente fornire una testimonianza, anche
aneddotica, come persona che ha vissuto profondamente la realtà dell’azienda di
Adriano. E’ così che ho accettato. Parlare dell’Olivetti degli anni d’oro è un piacere,
ma è forse anche un dovere. Perché chi ha vissuto un’esperienza così rara per
l’Italia, ha il dovere di raccontarla, di farla conoscere, sperando che il seme non vada
del tutto perduto, che l’esplosione di valori, civili e industriali allo stesso tempo,
avvenuta cinquant’anni fa possa ancora contagiare positivamente la nostra cultura
industriale e sociale, così povera, così asfittica.
In questa mia chiacchierata “attorno al caminetto” vi racconterò dunque qualcosa
in termini semplici, esperienziali - ed anche qualche aneddoto significativo. Ma la
mia prospettiva non è né aneddotica né nostalgica. E’ quella di una persona, che,
dopo avere trascorso 33 anni all’Olivetti (da giovane ingegnere elettronico fino a
responsabile di una società del Gruppo operante nel settore della componentistica
elettronica avanzata e direttore di Gruppo per la qualità) ha avuto l’avventura di
occuparsi poi, come consulente, dei fattori manageriali e organizzativi che sono
critici ai fini dell’eccellenza. Sì, mi sono occupato e mi occupo ancora di strategie di
qualità; non della qualità dei prodotti e dei servizi, ma della qualità dei sistemi
organizzativi - e più in generale oggi dei sistemi socioculturali.
Dice R.M. Pirsig, autore del libro “Lo zen e l’arte della manutenzione della
motocicletta”: “non sai cosa è la qualità fino a che non l’hai incontrata”. Io so che
questa affermazione è vera. Chi non ha mai incontrato un’organizzazione di vera
qualità ma ha solo visto organizzazioni “normali” può rimanere abbagliato da
modelli, approcci, anche esempi che vengono presentati come la quintessenza della
qualità (abbiamo visto le esaltazioni degli ultimi vent’anni di fronte alle norme e la
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Consulente di qualità delle organizzazioni, Presidente della International Academy for
Quality
e-mail: [email protected]
sinergie n. 70/06
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certificazione di qualità, al TQM, al BPR, al Sei Sigma, alla CSR, ecc). Non chi ha
sperimentato cosa sia un’organizzazione veramente eccellente e poi ha meditato su
tale esperienza confrontandola con le teorie.
L’eccellenza non ha bisogno di essere certificata, o premiata, per rendersi
manifesta. Negli anni ‘50, negli ambienti universitari italiani e in altri luoghi di
cultura si diceva scherzando che “i giovani intellettuali italiani si dividono in due
categorie: quelli che lavorano per l’Olivetti e quelli che sognano di entrarvi”. E non
era tanto l’idea di Comunità, che pur attraeva molti giovani idealisti, a sostenere il
mito. Gli ambienti a cui mi riferisco sono normalmente cauti, scettici, se non ostili,
di fronte a idealizzazioni o “beatificazioni” di imprenditori, non parliamo di
“ingegneri”. Era la combinazione di un mix di fattori che lasciava per lo meno
stupiti: l’incredibile successo sul mercato; una qualità superiore dei prodotti;
l’eccellenza nel design; il rispetto guadagnato a livello internazionale; il livello
professionale e culturale del personale con cui i clienti venivano a contatto; non
ultima la presenza in settori culturali nei quali le aziende solo solitamente assenti,
come l’architettura, l’urbanistica, il rapporto con il territorio, l’arte. Gianluigi
Gabetti così racconta oggi, dopo cinquant’anni, il suo incontro (era molto giovane
ma già ben lanciato nel mondo delle banche) con l’ambiente Olivetti: “La qualità
delle persone che incontrai era, a tutti i livelli, decisamente più elevata di quella che
avevo avuto occasione sino allora di incontrare nei miei contatti di lavoro con altre
aziende”
Non voglio certo fare qui un esame critico dei modelli di eccellenza proposti in
questi anni: non sono stato chiamato per questo. Ma lasciatemi procedere per flash e perciò in modo necessariamente frammentario, discontinuo - su alcuni aspetti
dell’esperienza Olivetti in cui credo che si sia incarnata l’eccellenza organizzativa.
Faccio cioè un breve esame critico dell’Olivetti di allora nella prospettiva dei
modelli di eccellenza di oggi.
Tutti tali modelli mettono la leadership al primo posto. E all’interno della
leadership la capacità di creare una visione, un “senso del destino” per
l’organizzazione, e la capacità di porre alla base della convivenza organizzativa dei
forti valori condivisi. E ancora, la capacità di generare, attraverso una visione
comune e sfidante e dei valori condivisi, il senso della squadra, l’orgoglio per
l’appartenenza e la disponibilità a contribuire al limite delle proprie possibilità; la
capacità e la determinazione nel raccogliere attorno a tale visione e a tali valori i
migliori talenti e dare loro lo spazio per farli crescere
La leadership di Adriano si caratterizzava appunto per una presenza traboccante
e contagiosa di tali attributi. Adriano era un uomo di grandi visioni. Grandi perché
derivavano dalla concezione altissima che aveva dell’uomo e dall’esigenza di vedere
l’uomo armonicamente integrato negli ambienti fisici e sociali in cui vive. “La città
dell’uomo”, è il titolo del suo libro programmatico. La sua dedizione all’architettura,
all’urbanistica, oltre che al design di prodotto, non sono hobby o passioni isolate,
sono parte di un’unica visione dell’uomo, della società. Anche la sua visione politica
si stacca nettamente dalle ideologie del tempo, che configuravano per lui concezioni
limitate dell’uomo: “… democrazia, liberalismo, marxismo? La verità non si può
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imprigionare in formule parziali, sempliciste o astratte, ma deve dare luogo a una
sintesi creativa dove quanto è vivo e vitale della democrazia, del liberalismo, del
socialismo, trovi una nuova e più felice espressione (Città dell’uomo, 1955).
Visione dunque alta, quella di Adriano: eccellere nel proprio campo specifico; e
ampia: coinvolgere il territorio, le comunità in cui l’impresa si sviluppa (si pensi alla
storia dell’insediamento di Pozzuoli) e coinvolgere tutti i partner che possono
contribuire a realizzarla.
In relazione alla sua impresa le visioni sono sempre grandiose e in forte anticipo
sui tempi - e la determinazione nel realizzarle all’altezza di esse. Alcuni esempi:
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Negli anni ‘50 e ‘60: essere la prima e più creativa azienda nel campo dei
prodotti meccanici per ufficio. Mentre i principali concorrenti scomparivano
l’Olivetti cresceva. Nei primi anni 50 realizza Divisumma e Tetractys, le prime
macchine calcolatrici scriventi al mondo. Nel 1959 realizza il sogno di acquistare
la mitica Underwood (in quel periodo il Presidente della IBM, Tom Watson,
indicava ai suoi l’Olivetti come l’azienda modello a cui ispirarsi).
Capacità di adattare la visione anche di fronte a cambiamenti che potevano
essere traumatici (e in parte lo sono stati, a causa della sua immatura scomparsa).
Già nella metà degli anni ’50, molto prima della IBM e delle altre aziende del
settore, elabora e fa penetrare nell’azienda, malgrado le evidenti incomprensioni
e resistenze, la nuova visione: essere fra i primi nello sviluppo dei nuovi prodotti
elettronici nel campo del calcolo, dell’elaborazione dei dati, della scrittura.
A metà degli anni ‘50 (raccogliendo il suggerimento di Fermi) creato il
laboratorio elettronico di Pisa, affidato all’ing. Tchou e il laboratorio elettronico
di New Canaan (USA).
Nel 1959 lanciato il primo grande calcolatore europeo a transistor (Elea 9003).
Creata, assieme a Telettra, nel 1957, la SGS, prima azienda indipendente europea
nel campo dei semiconduttori. Nel 1961 entra Fairchild. Uscita questa e dopo un
lungo periodo d’ombra, SGS diverrà, con Pistorio, azienda leader mondiale nel
campo dei circuiti integrati, prima come SGS-Thomson e quindi come ST
Microelectronics).
Dopo la scomparsa di Adriano la capacità di visione e quindi l’innovazione
continuano, anche se diventa un problema trovare i mezzi finanziari per
sostenerla. I grandi calcolatori passano alla GE. Rimane “l’elettronica minore”:
ma da essa nel 1965 scaturisce la Programma 101 il primo calcolatore elettronico
da tavolo.
Dice E. Piol: “Nel disegno del DNA dell’Olivetti, Adriano introdusse valori,
visioni, stile, modi di operare che hanno resistito nel tempo”. La capacità di adattare
la vision al cambiamento del contesto è rimasta infatti, per lungo tempo, nelle
persone che avevano ricevuto da lui l’impronta, resistendo ai fattori nuovi che la
contrastavano. Nel giro di poco più di venti anni dalle ceneri dell’azienda meccanica
nacque l’azienda elettronica, poi l’azienda informatica e di servizi, quindi quella di
telecomunicazione (Omnitel).
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Dice G. Soavi: “Adriano era un piemontese ebreo di rara qualità. Era anche, per
cultura, un po’ svizzero e un po’ americano [e di madre cristiana valdese]… Adriano
sognava. Adriano inseguiva, con fermezza, tutto quello che voleva fare. Adriano era
un visionario, ma di quelli che sanno fare bene i conti.”
La visione di Adriano si estende all’ambiente fisico e sociale quello in cui i
lavoratori operano e quello in cui essi vivono con le loro famiglie e gli altri membri
della comunità. Per realizzare tali ambienti Adriano utilizzò i migliori architetti del
tempo (Figini, Pollini, Gardella, Vittoria, Fiocchi, Cascio; il progetto Le Corbusier
della sede della Divisione Elettronica morirà invece con lui e con la cessione di tale
divisione)
Negli ambienti di lavoro si respirava la ricerca continua del massimo benessere
dei lavoratori. La ricerca del bello era intrecciata alla ricerca della funzionalità e del
benessere. Grande attenzione, ad esempio, alla sicurezza delle persone, a livelli di
gran lunga superiori a quelli medi del tempo.
Riguardo agli ambienti di vita voglio ricordare coma all’alba flotte di autobus
raccoglievano i dipendenti su tutto il territorio e alla sera li riportavano a casa
(antidoto efficacissimo, assieme ai prestiti agevolati per ristrutturare le case nei
luoghi di residenza, contro l’inevitabile tendenza all’urbanizzazione)
Nella cintura e nelle abbondanti aree verdi di Ivrea, crescevano case per i
dipendenti residenti in città e per gli immigrati da altre regioni (i laureati e i tecnici
che il territorio non era in grado di fornire, dato il rapido sviluppo), progettate dagli
architetti della corte di Adriano. Ai dipendenti venivano offerti prestiti a basso
interesse.
Asili nido di sogno sorsero in tutte le sedi produttive, che consentivano la
vicinanza dei piccoli alle madri lavoratrici, così come in tutte le sedi erano presenti
ambulatori medici di grande qualità.
Mense aziendali di alto livello, alcune aperte anche alla sera, erano disponibili
per i dipendenti e i familiari, ad esempio i figli studenti.
Le biblioteche, tutte di altissimo livello (90.000 volumi nella biblioteca
principale, con più di 70.000 prestiti/anno) hanno contribuito fortemente alla
diffusione della cultura sul territorio, così come la disponibilità di corsi di lingua
gratuiti, di cineteche, di sale di ascolto per la musica, i frequenti incontri serali con
personaggi di rilievo nazionale e internazionale in tutti i campi dell’arte e della
cultura.
Gli impianti sportivi e le iniziative del Gruppo Sportivo/Ricreativo Olivetti
infine hanno molto contribuito alla socializzazione fra i dipendenti e fra le famiglie.
Riguardo all’altra caratteristica fondamentale della leadership, la capacità di
radicare nell’organizzazione valori condivisi, appare chiaro che tale capacità gli
derivava dalla convinzione assoluta che l’impresa non può essere concepita come un
insieme di individui ma come un corpo sociale unito – e che il cemento di tale
unione è proprio dato dai valori condivisi. E che le persone, unite dalla condivisione
di tali valori e della visione comune (il destino comune) fanno fruttare
abbondantemente i propri talenti a beneficio dell’impresa stessa – e a beneficio
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proprio. Infatti l’impresa di Adriano sa compensare con abbondanza chi si dedica a
lei con lealtà e dedizione.
I valori più importanti per lui erano il rispetto reciproco (rispetto della persona in
quanto tale, nobiltà di ogni ruolo), e il sentirsi parte di una squadra.
Riguardo al rispetto della persona, qualche flash e un aneddoto. All’ingresso
dell’edificio dei Servizi Sociali una targa avvertiva: “anche se entrando nella
fabbrica indossi la tuta da operaio…ricordati che non ti spogli mai della tua dignità
di persona” E i suoi non erano slogan, ma la “scrittura sulla pietra” di
comportamenti reali (Aneddoto del giovane a cui era stata fatta l’offerta informale di
passare dall’officina al Servizio del Personale, poi ignorata senza interpellare
l’interessato, perché il giovane risultava militante delle ACLI e del sindacato; di
come il Presidente, venuto a conoscenza del fatto, volle incontrare la persona
assieme ai Direttori del Personale e della Produzione, per chiarire che nella sua
azienda non tollerava discriminazioni di alcun genere. Altro aneddoto, più noto,
quello di Natale Cappellaro, passato da operaio a Direttore Generale Tecnico, e
insignito della laurea ad honorem in ingegneria meccanica).
Riguardo al fare squadra, ricordo come il suo istinto e la sua vocazione di talent
scout venivano indirizzati verso individui con grandi potenzialità sì, ma disposti a
fare squadra per il bene dell’azienda (la sensazione di entrare a far parte di una
squadra vincente certamente aiutava). Egli mandava continui chiari segnali che non
tollerava i solisti. La sua onnipresenza d’altra parte l’aiutava a capire dove
nascevano conflitti importanti; e il suo ascendente l’aiutava a risolverli.
(Episodio autobiografico raccontato da Piol. Nel 1959 Adriano visita a Milano il
prototipo della Elea 9002. Piol fa la presentazione classica per i Capi: tutto bello e
tutto bene; alle domande di Adriano risposte di tipo molto generale, a volte evasive.
Adriano si innervosisce e, gentile ma deciso: “Io sto scommettendo l’Olivetti su
queste macchine e voglio capire dove e come investiamo”. Poi fa una domanda
specifica, sul perché del ritardo nello sviluppo di un prodotto sulla cui necessità si
erano di fatto manifestate divergenze. La risposta fu ancora diplomatica. Tale
prodotto non è ritenuto necessario. “Mi risulta invece che alcuni suoi colleghi di alto
valore ritengono rischiosa al sua mancanza”. Racconta Piol: “Il tono era tale per cui
ebbi dubbi sulla mia futura carriera all’Olivetti”. Non ci furono certo conseguenze.
Adriano voleva solo mandare segnali inequivocabili: sapeva dei contrasti e faceva
capire in modo gentile ma chiaro che non tollerava lotte intestine.)
Adriano Olivetti aveva una convinzione assoluta che le persone sono il capitale
fondante di un’impresa. Vorrei solo elencare alcuni fatti che testimoniano ciò:
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La cura estrema nella selezione del personale. Negli anni 1945-65, gli anni dello
sviluppo della meccanica, l’Olivetti reclutava ad Ivrea e dintorni i migliori
licenziati dalla scuole medie inferiori e li faceva passare attraversi il Centro
Formazione Meccanici. A partire dalla metà degli anni 50 – e sempre più con lo
sviluppo dell’elettronica – inizia la ricerca dei migliori laureati delle università
italiane e di personaggi stranieri di altissimo livello. L’ing. Tchou insegnava alla
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Columbia University quando venne individuato e assunto per fondare il
Laboratorio elettronico di Pisa.
Fino alla metà degli anni 50 Adriano vuole intervistare tutti i laureati prima
dell’assunzione. Quando il loro numero diventa troppo grande, intervista solo
quelli con potenzialità maggiori, ma il figlio Roberto e l’ing. Tchou continuano
per un certo tempo la tradizione di Adriano, intervistando tutti i laureati.
Centro di formazione meccanici per i diplomati della scuola media del territorio.
Paragonabile a una scuola per periti industriali a tempo pieno, con contratto di
assunzione dal primo giorno. Materie di insegnamento non solo tecniche ma
anche umanistiche, con docenti di primo piano. I migliori studenti/dipendenti
venivano portati alla laurea.
Corsi gratuiti di lingue per i tutti i dipendenti che lo vogliano.
Tutti i laureati, in qualunque disciplina dovevano accettare immersioni iniziali
nei reparti operativi (laureati tecnici in officina e montaggio, ai banchi degli
operai; laureati in discipline umanistiche o commerciali a vendere i prodotti di
linea bassa, casa per casa).
Invio di giovani dirigenti a corsi post-laurea negli USA (Harvard, MIT, Sloan).
Processi di coinvolgimento e decisionali che travalicano normalmente i livelli
gerarchici. (E. Piol: “Ciò che immediatamente mi impressionò era il clima
aziendale di valorizzazione dell’individuo e la possibilità di partecipare ai
processi decisionali indipendentemente dal livello gerarchico, nella misura in cui
si era in grado di dare un contributo”).
Assegnazione di responsabilità importanti e sfidanti sulla sola base delle capacità
personali, saltando livelli gerarchici, anche molti livelli.
Ancora negli anni ‘70 più della metà dei dirigenti venivano “dalla gavetta”.
Qui bisogna che io mi fermi. Ma vorrei concludere notando come oggi spesso si
tenda a frammentare la qualità di un sistema socioculturale come è l’azienda nelle
sue ipotetiche componenti – e a valutarle o addirittura certificarle singolarmente:
certificazione di qualità, ambientale, sicurezza, responsabilità sociale... Così si fanno
le autopsie dei cadaveri, non l’analisi di corpi vivi, come sono le aziende. L’azienda
è un sistema unitario, che crea valore attraverso le relazioni che riesce a stabilire e le
sinergie che tramite esse riesce a suscitare. Un sistema basato su valori condivisi e
unito da un comune senso del destino - la vision - che solo una leadership illuminata
può esprimere e diffondere. E un sistema non chiuso, isolato, ma fortemente
integrato nell’ambiente con cui interagisce. L’azienda eccellente assorbe cultura
dall’ambiente e genera cultura per l’ambiente. L’azienda eccellente non uccide la
creatività delle persone ma crea l’ambiente in cui i talenti personali possono
esprimersi e moltiplicarsi.
Non ho parlato, per motivi di tempo, della presenza di Olivetti nel mondo
dell’arte e del design. Delle mostre che hanno fatto epoca, delle pubblicazioni, tipo i
calendari e le agende Olivetti. Cito solo la risposta di Mario Minardi, per lungo
tempo responsabile delle Comunicazioni, a una persona che gli chiedeva perché
l’Olivetti spendesse tanto danaro nelle mostre: “Non abbiamo mai pensato di
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misurare le ricadute economiche di queste mostre. Queste manifestazioni si
organizzavano con grande naturalezza, quasi fossero un effetto della naturale
anomalia della nostra azienda.”….” In quel modo l’Olivetti riusciva a penetrare in
circoli intellettuali molto raffinati e, al contempo, a entrare in contatto con i
dirigenti, politici e imprenditori dei paesi stranieri. Qualcosa di nemmeno
lontanamente immaginabile per la nostra organizzazione commerciale. O meglio,
per qualunque organizzazione commerciale, di qualunque impresa. Noi ci
riuscivamo.”
Spero proprio che questo sprazzo di luce che Adriano Olivetti ha portato nel
contesto imprenditoriale italiano non si perda per sempre. In un periodo in cui il
bisogno di qualità è estremo, staccarsi dall’ottica del breve e dagli opportunismi per
cercare di capire cosa stia alla base dell’eccellenza delle organizzazioni è doveroso.
Ed è doveroso imparare a vedere la realtà con occhi sistemici, con le sue relazioni, le
sue interdipendenze: l’azienda, il territorio, la nazione, il sistema mondiale. Come il
Prof. Borgonovi ricordava, bisogna essere attori consapevoli di uno sviluppo
economicamente e socialmente sostenibile.