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ALFONSO GATTO
LA MEMORIA COME CONDIZIONE DELL’UOMO IMPERFETTO
di Emilia Sirangelo
«La memoria ..è la condizione dell’uomo imperfetto», così ebbe a dire una volta Alfonso
Gatto.
A voler tentare di chiarire questo pensiero, diremo che è proprio la mancanza di
imperfezione nell’uomo a generare l’improprietà dell’essere: l’uomo è improprio quando
manca di imperfezione. Quello che sembra essere un paradosso linguistico, in verità porta
in sé un pensiero rilevante, secondo cui, nel momento in cui l’uomo dimentica di essere
una creatura imperfetta ecco che diviene impropria. Cosa significa dimenticarsi di essere
imperfetti? Significa, per esempio, identificarsi totalmente con dei valori assoluti, con degli
ideali smisurati, verso cui certamente ci sentiamo inclini, ma che non coincidono
completamente con la nostra natura molteplice. Da sempre l’uomo ha avvertito la
lontananza da una società ideale, alla quale aspira, ma questo non deve implicare
necessariamente un’ identificazione con dei valori assoluti, deve invero favorire una
dialettica di movimento, che sposti l’occhio ora su un elemento ora sul suo opposto, e che
infine sintetizzi il tutto, secondo, aggiungerei, la lezione di hegeliana memoria.
In questo senso la memoria è la condizione dell’uomo imperfetto, giacché tutto si gioca in
quel momento di dimenticanza, di mancata memoria, quando mettiamo da parte la
consapevolezza di non essere esseri perfetti: «Abbiamo smarrito la nostra imperfezione
comune e la ragione del tempo: e ogni giorno cerchiamo di rendere nostra l’improprietà di
cui siamo gli inani educatori». Secondo Gatto, il poeta, in quella fase storica (stiamo
parlando degli anni ’50), ha scelto un messaggio che reca in sé «L’attesa di una ragione»,
un messaggio in cui si raggiunge l’apice dell’improprietà dell’essere, della sua
inadeguatezza. La poesia è la via mediata dalla parola attraverso cui l’uomo può
sollevarsi in alto, ma ad un certo punto egli si scontrerà con le pareti di quella campana di
vetro che cinge la condizione umana. E allora a lui toccherà cominciare da capo, liberarsi
da quella idea di società che tende all’assoluto, per tornare ad una società che sia a
misura d’uomo, quindi una società improntata alla «ragione». In un periodo storico, come
quello in cui scrive il Nostro, in cui nella tendenza ad una dilagante omologazione
s’inserisce il più spietato individualismo, in cui si perpetua la rozza ricerca di una pace
attraverso la violenza, è quanto mai necessario essere coscienti della propria
imperfezione, della molteplicità di aspetti in cui l’uomo si può manifestare, conducendo
una vita anche mediocre, ma irreprensibile, fatta di piccoli accorgimenti, di un saper
costruire la propria calma, di un mettere in risalto le proprie idee, anche se queste urtano
con il pensiero dominante, anche se saranno votate all’insuccesso: mai uniformarsi alla
maggioranza, ma maturare e manifestare la propria diversità, la propria sana individualità;
mai essere convinti a tutti i costi di essere i detentori di una verità assoluta, ma favorire,
dialetticamente, il confronto per arrivare ad una verità comune. Tutto ciò favorirà un
riavvicinamento al proprio essere, alla nostra ragione, la cui forma suprema, secondo
Gatto, è la bontà. E questa bontà lui la manifesta attraverso il suo lavoro di poeta,
prendendo spunto dalla figura del principe Myskin, «l’idiota» dostoevskijano, nella purezza
e bontà dei suoi intenti.
Nel tentativo di stilare un proprio ritratto personale, Gatto si inoltra in un interessante
discorso di impronta sociologica, all’interno di un articolo pubblicato su «Campo di Marte»,
periodico fondato con Vasco Pratolini. Ponendosi da solo alcuni interrogativi, alla
domanda «la poesia porta con sé l’incapacità di imparare a vivere?», si risponde che la
capacità di svolgere il duro mestiere di vivere può essere messa a verifica soltanto quando
un uomo si rapporterà ai propri figli, pertanto la possibilità di definire questo problema si
avrà solo vivendo in qualità di padre. Ai propri figli sarà inevitabile fornire una immagine
continua della propria vita, a loro semplicemente si trasmetterà il messaggio che
scaturisce dal proprio modus vivendi, il messaggio dell’ «a me è andata così»,
mantenendo una coerenza con sé stessi, terminare la propria vita così come la si è
iniziata. In effetti, come lui ribadisce, noi non siamo proprietari di noi stessi, non
«abbiamo» ma «siamo» noi stessi, e in quanto tali non possiamo permetterci di correggere
le imperfezioni che non tolleriamo, perché non ci apparteniamo, noi possiamo solo essere.
A questo punto sorge il problema della libertà dell’uomo: quanto un uomo può essere
libero se può solo essere? E se l’essere è soltanto l’illusione di reinventarci, quando in
realtà non facciamo altro che ripeterci, come possiamo essere liberi? La risposta è che
quella libertà, lungi dall’essere un dono, va conquistata. Siamo potenti su noi stessi solo
quando abbiamo acquisito la capacità di fissare un oggetto con costanza. Così come lo
stesso Leopardi, citato da Gatto, affermava: «L’uomo sarebbe onnipotente se potesse
essere disperato tutta la vita». Questo a voler dire che solo tenendo lo sguardo fisso verso
il medesimo oggetto, gravitando intorno alla nostra passività riusciremo ad essere liberi.
La libertà, insomma, è la consapevolezza di sé, è riuscire ad estrarre da noi la realtà del
nostro essere, alimentando una continua condizione riflessiva.
Questa operosità contemplativa sarà finalizzata alla creazione di un tempo interiore, che
permetterà al poeta di fissare sul silenzio della carta la comprensione della rumorosità
esteriore: «Tutti viviamo sino in fondo una guerra esterna ed una pace appropriata sino al
silenzio in cui rendiamo sensibile ogni parola nostra che tenga dietro al discorso che
facciamo di noi.»
Ed è proprio per restare in argomento di condizione contemplativa, ricordiamo in uno dei
suoi scritti di accompagnamento alla lettura delle poesie, il suo singolare interesse verso
quelli che, con uno sgradevole inglesismo, si chiamano hobbies, in quanto attività
caratterizzate da una motivazione intrinseca. L’esecuzione delle azioni esatte in questione,
coinvolge sempre un uso delle mani, un lento e misurato uso di esse. Ed è in questo
lavorio, dapprima impacciato e poi via, via sempre più raffinato ed automatico, che la
memoria rientra in gioco, essa sarà fissa verso un medesimo oggetto, ipnotizzata da
esso. Non a caso in poesie come «Il Dio povero» e in «Colpa», le mani figurano associate
all’epiteto “buono” (alle mani di freddo la ringhiera/ le scale in sogno, / ci parve l’ultima
sera./ Io mi dicevo ch’ero stato buono/ tutta la vita; oppure Parve a sé stesso innamorato,
buono, / da amare con parole che le mani/ accompagnano a lungo, le parole/ comuni che
non sembrano mai dette.). Questo sforzo di coltivare la propria calma il Gatto lo apprese
nei mesi di permanenza presso il carcere di San Vittore, a Milano, in cui si trovava con
l’accusa di propaganda antifascista: chiuso nella sua angusta cella e alla ricerca di un
modo per reggere quella penosa condizione e affrontare il vuoto circostante, tentò di
costruire una sorta di casa, una casa virtuale, il cui cemento era la poesia.
La memoria dell’uomo diventa così serbatoio di stimoli poetici, colti e sviluppati già dal
suo primo lavoro, una silloge dal titolo «Isola». È fin dalla prima poesia della raccolta
«Notte», che emerge uno dei temi che lo accompagnerà durante tutti i suoi scritti, quello
della morte (Lungo sereno dileguano piane/ voci apparenti del mondo sepolto:/
m’adeguano nel sonno di montane/ bare odorose, ed il cuore n’è folto.) Ora la morte è
intonata come mero controcanto alla vita, sarà solo con «Morto ai paesi», che il tema verrà
approfondito maggiormente (Se conosciamo la sua biografia, non avremo difficoltà a
capire il perché della presenza dominante di questo tema. La sua vita è stata costellata da
numerosi episodi correlati a quella: la morte del fratello Gerardo, prima, quella del padre
all’età di ventisei anni, e del figlio Leone, poi). C’è da dire però, come Silvio Serrat ci
suggerisce, che sebbene la perdita del fratello lo abbia proiettato in una dimensione
lugubre, il mondo sepolcrale non ha perso il suo carattere di meraviglia infantile, lo si noti
in poesie come «Plenilunio» (Deserta in vuoto candore/ al cheto villaggio d’infanzia,/ terra
del dolce sogno: azzurri carri di neve/ salivano ai monti pallidi/ e la notte era un vano
chiamare/ nell’eco perduta dei morti.). In Morto ai Paesi il tema della morte viene arricchito
da altre simbologie, non più solo legato al mondo notturno e lunare, ma anche alla terra:
Nella povere spalle è scesa la morte,/ il freddo della terra,
(«All’altezza dei gridi»); …e sulla morta/ terra vi sogna i tuoi capelli. («Prato»).
Il tema della morte, così spasmodicamente cantato, potrebbe semplicisticamente spingere
a considerare il Gatto un poeta malinconico e mesto, quando vero è esattamente il
contrario. Il fatto di ribadire continuamente questo tema scaturisce in parte dalla sua vita
travagliata, ricca di perdite, in parte proprio dal suo vivo desiderio di vivere: Una casa da
nulla, ma ragazza alle persiane/ E il meriggio era dolce vivere,/ d’aver speranze e paure. Il
meriggio era vapori che lavorano/ E gli uomini del canale/ Che mostrano il bianco degli
occhi, ma vivi./ Una casa da nulla pareti accostate/ Fragile ma viva,/ e sera che lascia
aperta la porta/ e s’ode la fontanina/ s’ode la lampada apparsa sulla tovaglia./ Non venga
la notte non venga la morte/ Degli oziosi re di pietra,/ non venga la legge delle paure./ Chi
vive è leggero,/ è stanco in tutto il mondo./ Chi vive è senza gloria («Vivi»).
Il suo amore per la vita lo si nota dallo stesso idillio che si instaura tra lui e la natura, e che
si esprime attraverso amene canzonette digiacomiane. Qui si avvale di una memoria
puramente descrittiva, che serve a lui per narrare i panorami più disparati, naturali e
desunti dal vivere quotidiano, si veda «Mattino all’ospedale», in cui, a dispetto del titolo, si
respira l’aria frizzante di un mattino invernale in cui il freddo edificio interagisce
armonicamente con lo scenario naturale che lo circonda (“Battono con gli zoccoli di
cristallo,/ acciuffate dal freddo in allegria, / le lavandaie: ed un canto di gallo/ s’è spaccato
nei vetri, dalla via./ Ed il mattino sgorga di sorpresa/ con la sua sana nudità di monti/ e
travalichi, sembra, l’indifesa/ fragilità dell’ospedale e affronti/ la remota apparenza della
notte.”). Gli scenari si aprono su montagne e pianure, ma possono anche raccogliersi
nell’intimità di una stanza (“Svanisce, continuo tepore di gelo,/ nella bottiglia verde, il latte:
nuvole chiare/ lontanano nel fioco armonioso tacere/ della campagna: Sembra compiuto
nel limitare/ della mia casa il sonno delle riviere.”da «Erba e latte» ). Il suo rapporto con la
morte di cui possiamo conoscere l’evolvere temporale grazie alla constatazione della
evoluzione delle sue poesie, cambia intorno agli anni ’70, quando manifesta propriola
coscienza del suo convivere con l’idea della stessa: “Mi chiedi come ho potuto vivere
pensando sempre alla morte,/ …perché sono così calmo, così deluso da attendere/ la
nave che non mi vede e che mi porta affacciato” (Ricordami così). Arrivato quasi alla fine
non gli rimane che invocare quella morte che così dolorosamente ha accompagnato la sua
esistenza: “La vita non è che la vita,/ il giorno la sveglia e la morte/ ricorda d’averla
smarrita” (La rosa dei granili)
Qual’ è il momento, qual’ è il luogo in cui sorge in lui il bisogno di scrivere poesie? Tutto
accade in un pomeriggio dei suoi vent’anni: poggiato su una finestra al di là della quale
piove dolcemente ed è il meraviglioso panorama delle campagne salernitane, si sente
sopraffatto da un’ineffabile dolcezza e amore per quel mondo che chissà se altri avrebbero
visto con lo stesso suo sguardo, e allora sente il bisogno di imprimere con la parola sulla
carta questo suo amore per il mondo tutto, con lo scopo di farlo suscitare nella terra e di
imprimerne la splendente immagine su di un foglio.
Ciò che lo spinge a scrivere non è solo questo amore ma anche la convinzione di avere
scorto nell’uomo il bisogno di essere amato dal suo sguardo, e la poesia non si ferma solo
ad essere mezzo attraverso cui esprimersi, e rifugio in cui il lettore può trovare
consolazione, ma diventa soprattutto strumento attraverso cui provocare l’uomo lettore,
contagiarlo con la propria disperazione, e condurlo verso una scoperta sempre maggiore
della propria natura. In questo senso la poesia non è solo da considerarsi come arte, con
la sua funzione consolatoria, ma deve provocare, mettere di fronte al bisogno della lotta,
perciò il poeta è colui che trasmette la sua sofferenza e le sue speranze .
Questo ci fa capire quanto Alfonso Gatto fosse innamorato della vita, degli uomini, lui,
poeta dimenticato della memoria, che meriterebbe il suo giusto posto nel ricordo dei vivi.