settore biomedico: quali linee guida per una

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settore biomedico: quali linee guida per una
Comunità I talenti italiani all’estero
SETTORE BIOMEDICO:
QUALI LINEE GUIDA PER UNA STRATEGIA
INTEGRATA SULL’ASSE RICERCA,
INNOVAZIONE E FORMAZIONE?
Interesse nazionale
Settembre 2014
Il rapporto è stato realizzato da:
- Paola Castagnoli (project leader), Singapore Immunology Network
- Ludovico Ciferri (project coordinator), International University of Japan
- Mario Raviglione, World Health Organization
- Marisa Roberto, The Scripps Research Institute
- Fabio Scano, World Health Organization
Le idee espresse in questo documento sono frutto di analisi e ricerche condotte dagli autori e non rappresentano
necessariamente il punto di vista delle rispettive organizzazioni di appartenenza.
© Questo documento è stato realizzato in esclusiva per Aspen Institute Italia
Settore biomedico: quali linee guida per una strategia integrata
sull’asse ricerca, innovazione e formazione?
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Premessa
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Introduzione
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3.1
3.1.1
3.1.2
3.1.3
3.2
3.2.1
3.2.2
Ricerca
Le nuove sfide tecnologiche e le grandi opportunità nel biomedico
La medicina delle 4P
Il medtech
I trend demografici come driver del cambiamento
Il nuovo scenario globale della ricerca biomedica
Il nuovo ruolo delle imprese biotech e il ricorso all’alleanza pubblico-privata
Il ruolo del medtech
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4.1.1
4.1.2
4.1.2.1
4.1.2.2
4.2
4.2.1
4.2.2
4.2.3
4.2.4
4.2.5
Innovazione
Il quadro italiano
Strumenti economici e strutturali a sostegno del settore biomedico in Italia
Nuovi strumenti finanziari
Il ruolo del finanziamento privato
L’Italia e le soluzioni competitive per costruire un’Europa dell’innovazione
La Joint Programming Initiative (JPI)
Le strategie di ricerca e innovazione e le smart specialisation (RIS3)
European Research Council (ERC)
L’implementazione europea in Italia
I poli tecnologici
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5.2
Formazione
Una strategia integrata di ricerca e formazione: il capitale umano,
le torri d’avorio e gli innovatori
Innovazione o innovatori?
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Linee guida
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Autori
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1 PREMESSA
Cinque anni fa il gruppo Europeo di lavoro K4G (Knowledge for Growth) affermava che
“produrre conoscenza, e contemporaneamente, trasformare la conoscenza in un valore economico,
rappresenta la chiave della crescita economica e del successo competitivo di ogni Paese”. Sono
infatti diversi i modelli che dimostrano come la velocità di sviluppo di un Paese sia strettamente
correlata ai suoi investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) (Bulli, 2008).
Investimenti in ricerca e sviluppo
La spesa per attività di ricerca scientifica e sviluppo svolta da istituzioni pubbliche,
istituzioni private no-profit, imprese e università, è definita dall’OCSE come quel complesso
di lavori creativi intrapresi in modo sistematico sia per accrescere l’insieme delle conoscenze
(inclusa la conoscenza dell’uomo, della cultura e della società), sia per utilizzare tali
conoscenze in nuove applicazioni.
Coerentemente con queste evidenze, l’Unione Europea ha deciso di adottare una strategia di
sviluppo condivisa (“Europa 2020”) basata sulla conoscenza e l’innovazione, definendo cinque
obiettivi prioritari, fra cui quello di portare, entro il 2020, gli investimenti pubblici e privati in R&S
al 3% del PIL.
Figura 1 - Spesa interna lorda dell’UE in R&S in % del PIL nel 2000, 2012 e 2020
Legenda: sulla base degli impegni attuali, gli investimenti dell’UE in R&S potrebbero raggiungere il 2,2% entro il
2020.
*Scenario basato sull’ipotesi che proseguano le riforme e gli sforzi finanziari in corso.
**CZ e RU non hanno stabilito alcun obiettivo: i dati per il 2020 sono stati stimati dai servizi della Commissione.
***L’obiettivo dell’UE comprende la spesa in R&S per le infrastrutture di ricerca intergovernative, che non rientra nella
spesa in R&S degli Stati membri.
Fonte: Commissione Europea, 2014
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Questo permetterebbe all’Europa di creare circa 4 milioni di nuovi posti di lavoro. L’Italia per ora è
ferma ad un investimento pari all’1,5% del PIL, inferiore rispetto agli altri Paesi industrializzati che
in media destinano il 2 % del PIL.
Figura 2 - Investimenti in R&S negli Stati membri in % del PIL
Legenda: nel 2012 l’intensità di R&S nell’UE era del 2,06% del PIL, a fronte dell’obiettivo del 3% entro il 2020.
*LU: 2010.
**CZ (unicamente settore pubblico) e UK non hanno stabilito alcun obiettivo. IE: obiettivo pari al 2,5% del PNL,
ritenuto equivalente al 2%del PIL. LU: obiettivo compreso tra il 2,30% e il 2,60% del PIL (2,45% ipotizzato). PT:
obiettivo compreso tra il 2,70% e il 3,30% del PIL (3% ipotizzato).
Fonte: Commissione Europea, 2014
Il nostro Paese dovrà quindi fare uno sforzo maggiore rispetto ad altri Paesi europei per
raggiungere nei prossimi sei anni questo obbiettivo condiviso e colmare un ritardo che si è molto
dilatato negli ultimi trent’anni. Alcuni indicatori europei evidenziano il divario, primo fra tutti il
fatto che i contributi finanziari italiani ai programmi di R&S in Europa siano pari a circa il 13,5%
del totale, mentre il ritorno (a gruppi italiani partecipanti) sia di appena il 9%.
I limiti degli approcci italiani nell’accedere alle opportunità di finanziamento esistenti in campo
europeo sono evidenti e riflettono l’assenza di una strategia e di una pianificazione sistemica delle
attività di promozione e stimolo alla ricerca e sviluppo nel nostro Paese.
La scarsa competitività del nostro sistema non è tuttavia il risultato della qualità della ricerca, che
nel settore biomedico presenta anzi punte d’eccellenza, bensì la conseguenza di fattori quali:

La mancata percezione, nei settori pubblico e privato, del
dell’innovazione e della ricerca come motore di crescita economica;

La scarsa attenzione dei decision maker per le politiche d’indirizzo strategico delle tematiche
di ricerca e sviluppo;

La ridotta governance dei processi di controllo e valutazione dell’attuazione dei piani
nazionali di programmazione e coordinamento della ricerca;
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valore
strategico
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
Un finanziamento di modesta entità, scarsamente selettivo, non “prioritizzato” e che, non
favorendo la costituzione della massa critica essenziale allo sviluppo della ricerca, non
stimola né l’eccellenza né l’innovazione.
Il limitato numero di ricercatori rispetto alla popolazione, l’incapacità di attirare in Italia ricercatori
dall’estero – come ben dimostrato in un precedente rapporto del 2012 di un gruppo di lavoro
interno alla comunità dei Talenti italiani all’estero di Aspen Institute – e la limitata
internazionalizzazione del sistema italiano nel suo complesso evidenziano la scarsa percezione
dell’importanza del settore, la mancanza di policy mirate e di governance stringenti, e
l’inadeguato finanziamento di cui soffre il sistema italiano della ricerca e dell’innovazione.
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2 INTRODUZIONE
L’industria della scienza della vita (life science) si è sviluppata partendo dalle infinite applicazioni
della biologia. È un’industria che in Europa rappresenta una delle chiavi per la futura crescita
economica. Anche per il nostro Paese deve rappresentare un obiettivo imprescindibile e in questa
direzione ci si deve posizionare per poter intercettare l’opportunità.
Scopo di questo documento è discutere scelte strategiche sull’asse della ricerca, innovazione e
formazione per il nostro Paese, limitatamente alle applicazioni biomediche nel settore biotech e nel
farmaceutico. Inoltre, anche se in maniera più limitata, verranno presentate alcune analisi e
considerazioni relative al settore medtech (tecnologie/dispositivi medici).
Biotech e medtech
Biotech: è il settore della R&S relativo alle scienze biotecnologiche che comprende tutte le
tecnologie che utilizzano sistemi biologici, organismi viventi o suoi derivati al fine di
modificare prodotti o processi per un uso specifico (Convenzione delle Nazioni Unite sulla
Diversità Biologica). Per migliaia di anni l’uomo ha usato le biotecnologie in agricoltura, in
medicina e nella produzione di cibo come il vino o il pane. Nel ventesimo e ventunesimo
secolo le biotecnologie hanno incluso scienze come la genomica, l’ingegneria genetica e le
applicazioni in immunologia e in farmacologia per lo sviluppo della diagnostica/terapia
delle malattie.
Medtech: è il settore della R&S relativo alle tecnologie mediche ovvero più specificamente
tutti quei dispositivi, apparecchiature, apparati, materiali o software prodotti per l’uomo ad
uso terapeutico e diagnostico.
L’idea alla base del lavoro di questo gruppo e di cui il presente documento costituisce il primo
risultato, è che in Italia ci sia ancora il potenziale, per quanto sempre più depleto, per sviluppare i
due settori del biotech e del medtech. Le linee guida qui proposte sono dunque pensate a beneficio
della salute umana e a supporto della crescita economica del Paese; in particolare per lo sviluppo
industriale di piccole e medie imprese (PMI) e start-up, del biotech e del medtech.
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3 RICERCA
3.1 Le nuove sfide tecnologiche e le grandi opportunità del biomedico
Diversi studi hanno dimostrato come l’investimento nella ricerca biomedica generi importanti
ritorni economici. Gli investimenti nel settore biomedico inglese hanno portato ad esempio a
ritorni sul lungo termine (circa 15 anni) superiori al 30% in GDP gains. Negli USA è stato rilevato
che per ogni dollaro speso dal National Institutes of Health (NIH) si generano, in soli 12 mesi, 2,21
dollari in crescita economica aggiuntiva. In generale, si calcola che gli investimenti nella ricerca
biomedica portino a un ritorno medio pari al 39% (EMRC White Paper, 2011).
Gli investimenti nel settore biomedico sono dunque essenziali per migliorare la salute umana, ma
anche strategici per assicurare il benessere economico di un Paese. L’industria della salute, intesa
come somma del settore farmaceutico e del biotech, ha un fatturato annuale globale di oltre 500
miliardi di dollari, con tassi di crescita importanti. Nel 1989 il fatturato delle industrie
biotecnologiche mediche era di 2,7 miliardi di dollari, nel 2011 ha superato gli 83 miliardi di dollari
e dovrebbe raggiungere i 150 miliardi nei prossimi cinque anni. Le aziende biotech, inoltre,
spendono quasi il 30% del loro fatturato in ricerca, e l’industria farmaceutica mediamente il 15%,
garantendo un impatto occupazionale significativo.
3.1.1 La medicina delle 4P
Il settore biomedico, attualmente uno fra quelli in maggiore crescita, è anche in grande
trasformazione, basti vedere le evoluzioni in ambito farmaceutico, dove un limitato gruppo di
grandissimi operatori industriali sono impegnati in operazioni di M&A a livello globale che
ridisegnano continuamente il settore. Ciò rappresenta una grande opportunità, oltre che una sfida,
che si giocherà, da un punto di vista scientifico, proprio con le nuove tecnologie biomediche: la
medicina rigenerativa con l’uso di cellule staminali, le nuove tecniche di imaging, la nanomedicina
e quella degli impianti e dei trapianti, la terapia genica e la terapia cellulare anche per i tumori,
sono già pratiche cliniche.
Nella medicina molecolare, in particolare, il sequenziamento del primo genoma umano, quello di J.
Craig Venter, circa 13 anni fa ha avuto un costo di 100 milioni di dollari e ha richiesto nove mesi di
lavoro. A marzo di quest’anno Venter ha annunciato che, grazie agli enormi progressi tecnologici,
è ora possibile sequenziare un intero genoma umano al costo di 1000 dollari. Inoltre, ha annunciato
che potranno essere sequenziati 100 genomi al giorno e che, in meno di un anno, la sua nuova
impresa, la Human Longevity inc. (bio-itworld.com), sequenzierà quarantamila genomi all’anno.
Sono numeri che spalancano le porte ad una rivoluzione destinata a cambiare l’industria della
salute permettendo di attuare in brevissimo tempo la medicina predittiva e personalizzata. Queste
nuove tecnologie di sequenziamento, già approdate anche in alcuni dei laboratori italiani,
permettono di muoversi verso una medicina che oggi viene definita delle 4P: ovvero una medicina
Predittiva, Preventiva, Personalizzata e Partecipativa. Grazie alla generazione di una massa
enorme di dati, le informazioni genetiche/epigenetiche saranno infatti correlabili alle malattie e
sarà possibile anticipare/prevenire una malattia stratificandola per gruppi (genotipi) diversi di
persone. Si ipotizza che, entro il 2020, il sequenziamento dell’intero genoma di ogni neonato sarà
fattibile ed economicamente sostenibile in Europa e negli USA.
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La gestione della genomica umana, della medicina personalizzata, di grandi banche dati e il
disegno di nuovi biomarcatori per la diagnostica molecolare richiederanno lo sviluppo di altre
tecnologie, come quelle informatiche per il trattamento e l’analisi dei big data. Queste masse di dati
non sono infatti analizzabili con le tecnologie oggi a disposizione perché crescono troppo in
termini di volume, varietà e velocità. Serviranno nuovi approcci e nuove tecnologie, semantici e/o
algoritmici, per analizzarli e dare loro “senso”.
Si tratta di una scommessa che interseca un altro grande tema della nostra contemporaneità, quello
della complessità, il quale ci impone di rinunciare alle assunzioni di linearità nei sistemi dinamici
per indagarne più a fondo il comportamento. In queste direzioni si stanno muovendo anche Paesi
emergenti come il Brasile, che hanno colto la sollecitazione, posizionandosi in maniera efficace per
intercettare queste nuove opportunità.
È verosimile che altri Paesi BRICs, ma anche MICs (definiti come “the 86 countries that fall into the
middle-income range set by the Bank's World Development Indicators”) nei prossimi anni si
indirizzeranno verso la medicina delle 4P. Si tratta di una globalizzazione che aprirà la strada a un
mercato molto più ampio dell’attuale, offrendo grandi possibilità di sviluppo e importanti ritorni
economici a quei Paesi che sapranno cogliere oggi questa sfida tecnologica.
3.1.2 Il medtech
Un altro importante settore in rapido cambiamento è quello del medtech, la cosiddetta tecnologia
medica, vale a dire qualsiasi tecnologia (dispositivi medici, mezzi diagnostici in vitro,
apparecchiature di imaging o dispositivi di e-health) utilizzata per diagnosticare, monitorare,
valutare predisposizioni e/o pazienti affetti da una vasta gamma di condizioni. Un buon modo per
descrivere la “tecnologia medica”, e più specificamente quella dei dispositivi medici, è di utilizzare
la definizione della Commissione Europea fornita nella EU Medical Devices Directive:
“Any instrument, apparatus, appliance, software, material or other article, whether used alone or in
combination, including the software intended by its manufacturer to be used specifically for diagnostic
and/or therapeutic purposes and necessary for its proper application, intended by the manufacturer to be
used for human beings. Devices are to be used for the purpose of: Diagnosis, prevention, monitoring,
treatment or alleviation of disease; Diagnosis, monitoring, treatment, alleviation of or compensation for an
injury or handicap; Investigation, replacement or modification of the anatomy or of a physiological process;
Control of conception.”
Difficile fornire un quadro esaustivo dell’ampiezza di offerta in questo settore, che comprende più
di 500.000 tecnologie raggruppate in 20.000 generic groups, a loro volta organizzati in 16 categorie
di prodotti secondo quanto descritto dalla Global Medical Devices Nomenclature (GMDN)
Agency. Quello che risulta evidente è come l’arrivo sul mercato di nuove generazioni di terminali
per il monitoraggio dei parametri fisiologici – come i dispositivi multifunzione e le applicazioni
personalizzabili oggi disponibili a prezzi contenuti e su moltissime piattaforme – aprirà di fatto al
mondo del medtech un mercato dalle dimensioni enormi prima non raggiungibile.
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Da un punto di vista di struttura dell’industria, va infine rilevato che fanno parte del settore
medtech un vasto numero di imprese piccole e medie del comparto high tech. Investire per favorire
la R&S in questo settore significa, oltre che contribuire a migliorare la salute dell’uomo, portare
innovazione nelle PMI, colonna portante delle economie di diversi Paesi fra cui l’Italia.
3.1.3 I trend demografici come guida del cambiamento
In ultimo, insieme ai macro trend tecnologici per lo più legati alla gestione e all’interpretazione dei
dati informativi, vanno ricordati i cambiamenti demografici come guida dei grandi cambiamenti
epocali in atto oggi nel settore biomedico. Basti pensare che, in meno di un secolo, si è passati da
una popolazione di 1 miliardo di persone agli attuali 7 miliardi, e che oltre il 50% della
popolazione mondiale si è urbanizzata, con evidenti problemi sociali e sanitari legati alla vita nelle
mega-metropoli. L’Europa, e in particolare l’Italia, assistono anche a un’altra sfida, quella legata ad
un rapido e progressivo invecchiamento della popolazione. In pochi decenni la popolazione
italiana oltre i 65 anni di età raggiungerà il 30% del totale, mentre gli ultra-ottantenni saranno il
15% della popolazione.
Il fenomeno, che non è solo italiano, pone sfide enormi, non solo sociali ed economiche ma anche
mediche. In Europa il numero di persone sopra i 50 anni triplicherà entro il 2050 e, secondo un
recente studio dello Standing Committee for the Social Sciences (SCSS) della European Science
Foundation (ESF), questi cambiamenti demografici saranno il principale fattore di
condizionamento dello sviluppo economico e sociale di questo secolo in Europa.
L’invecchiamento, infatti, porta spesso a una maggiore fragilità, a depressione e demenza oltre che
a un significativo aumento delle malattie degenerative. Si assisterà a un aumento dei costi della
sanità e dell’assistenza, legati soprattutto alla cronicizzazione delle patologie, che nel loro insieme
faranno lievitare nei prossimi 10 anni i costi sanitari a cifre doppie se non triple rispetto alle attuali.
Promuovere e sostenere la medicina Predittiva, Preventiva, Personalizzata e Partecipativa significa
dunque abbattere anche i costi della sanità in modo importante: è stato calcolato che l’investimento
di circa 2 dollari in farmaci innovativi porti a un risparmio finale di circa 11 dollari1.
Il dato demografico del rapido invecchiamento della popolazione sta emergendo anche in altri
grandi Paesi, primo fra tutti la Cina. I benefici economici derivanti dagli investimenti e dai brevetti
indirizzati al settore biomedico per affrontare le conseguenze di questo processo demografico
potrebbero avere una portata maggiore proprio perché il mercato non sarebbe limitato a quello
nazionale.
3.2 Il nuovo scenario globale della ricerca biomedica
Gli investimenti globali in R&S in ambito biomedico erano, nel 2005, di 160 miliardi di dollari
secondo il Global Forum for Health Research, il 51% del quale proveniva dal settore privato, il 41%
dal pubblico e l’8% da donazioni e no-profit.
1
Fonte: EMRC (http://www.emrc.be)
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Gli Stati Uniti già dieci anni fa investivano quattro volte più dell’Unione Europea in R&S nel
settore biomedico con fondi pubblici. Questo gap si sta tuttavia riducendo e, in alcuni Paesi come
la Germania, l’industria della salute ha ormai più peso di quella automobilistica. Il trend è
chiarissimo, soprattutto nel settore privato, tanto che in Europa il totale degli investimenti in R&S
è passato da 7,8 miliardi di euro nel 1990 a 27 nel 2010. Si tratta, tra l’altro, di un settore che
impiega oltre 640.000 persone in Europa (4 milioni negli Stati Uniti) e rappresentava nel 2010 il
3,5% del valore aggiunto e il 17% di tutto il settore della R&S.
In questo nuovo scenario in rapida trasformazione, le relazioni storiche fra accademia, imprese
biotech, PMI e multinazionali sta cambiando molto velocemente proponendo forme innovative di
cooperazione fra settore pubblico e privato e facendo emergere il medtech come nuovo settore in
forte sviluppo.
3.2.1 Il nuovo ruolo delle imprese biotech e il ricorso all’alleanza pubblico-privata
Il peso delle biotecnologie, della farmaceutica e, in generale, dell’industria della salute è in crescita
e destinato ad espandersi; tuttavia il trend attuale vede nel settore del biotech la maggiore
espansione possibile ed è a questo asset strategico che dovrebbe guardare anche l’Italia. Le grandi
industrie del settore farmaceutico stanno infatti attraversando un periodo di forte rallentamento e
cercano di ridurre il rischio di impresa. Fra il 2013 e il 2018 si stima che perderanno circa 230
miliardi di dollari per la scadenza di brevetti. Nel 2012 il numero totale di nuovi farmaci approvati
globalmente è stato pari a soli 95 prodotti, secondo il Centre for Innovation in Regulatory Science
(CIRS), mentre il costo di sviluppo di nuovi composti non permetterà più grandi margini di
profitto. Nel contempo, aumenta costantemente il numero dei prodotti generici senza brevetto.
Che la situazione sia complessa lo dimostra anche il fatto che nel 2013 Merck&Co ha ridotto il
personale di 16.500 unità, come avevano già fatto Pfizer nel 2011, Roche nel 2012, Sanofi e
AstraZeneca nel 2013. Secondo KPMG (Outsourcing in the Pharmaceutical Industry, 2011) circa metà
del lavoro delle industrie farmaceutiche verrà dato in subappalto, mentre il segmento di drug
discovery e di sviluppo, quelli a maggiore rischio di impresa, saranno sempre più delegati alle
aziende biotech e ai migliori centri di ricerca pubblici/privati come le università, con cui le
partnership sono aumentate del 50% negli ultimi sette anni.
Pfizer, ad esempio, ha stretto un accordo in questo senso con il National Institute of Health (NIH)
negli USA per l’identificazione di biomarker del diabete. Sanofi ha siglato un’alleanza con i
principali laboratori francesi di ricerca biomedica per studiare l’invecchiamento e la medicina
rigenerativa. Merck ha investito 80 milioni di dollari per progetti di collaborazione scientifica con il
California Institute of Biomedical Research (CIBR), un ente no-profit2. In Europa questo trend di
outsourcing è stato realizzato con la creazione dell’Innovative Medicine Initiative (IMI), un
consorzio di partner industriali (EFPIA members) e pubblici (EU FP7) che, con progetti specifici,
finanziano la scoperta di farmaci innovativi.
I vantaggi di queste partnership sono la condivisione dell’expertise, la flessibilità ed il ridotto costo
delle tecnologie abilitanti. Le debolezze sono nella limitata presenza nei centri di ricerca di quel
personale con capacità di management che faciliti il trasferimento tecnologico e sopprima gli
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http:// www.calibr.org
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ostacoli legali spesso legati alla proprietà intellettuale. Nonostante ciò, il settore delle imprese
biotech e delle PMI high tech assumerà sempre di più un ruolo chiave nella scoperta e nello sviluppo
di nuovi farmaci.
Le aziende biotech di dimensione medio-piccola, non potendo a loro volta sostenere gli enormi costi
della ricerca, si avvicineranno sempre di più ad università e grandi centri di ricerca
pubblici/privati, per stipulare accordi di partnership volti alla scoperta e allo sviluppo di nuove
molecole per le quali è fondamentale comprendere il meccanismo di azione, ovvero conoscere i
target molecolari, ma anche che cosa questi target fanno in un sistema complesso come la cellula, il
tessuto, l’organo e infine l’organismo. La complessità biologica è enorme e non serve aumentare i
trial clinici per “provare” un farmaco nuovo, spesso con costi enormi. Oggi la scienza ha reso
possibile studiare, comprendere e predire il meccanismo di azione delle molecole: naturalmente ci
vuole tempo e l’investimento in conoscenza non può che essere a lungo termine.
3.2.2 Il ruolo del medtech
Un altro settore importante per la definizione dei nuovi scenari biomedicali è costituito dalla
tecnologia medicale, un fattore chiave per il benessere economico dell'Europa: fornisce
occupazione di qualità e un contributo sostanziale all’equilibrio europeo degli scambi commerciali.
In Europa il settore medtech impiega infatti oltre 575 mila persone; la dimensione del mercato è di
circa 100 miliardi di euro, rappresentando quasi il 30% del mercato mondiale (quello americano, il
più grande al mondo, ne esprime oltre il 30%); l'8% circa del fatturato delle quasi 25 mila aziende
del settore attive in Europa viene reinvestito in ricerca e sviluppo; quasi il 95% di queste aziende è
una PMI, la maggior parte delle quali piccole o micro-imprese.
Il saldo commerciale europeo nel medtech evidenzia un valore positivo di 15,5 miliardi di euro
(2012), il doppio rispetto al 2006; gli Stati Uniti al confronto hanno un trade surplus di soli 5,3
miliardi di euro (2012). I principali partner dell’Europa nello scambio commerciale di prodotti
medtech sono Stati Uniti, Cina e Giappone. In termini di fatturato, a livello europeo, la diagnostica
molecolare, seguita da quella per immagini e dalla diagnostica cardiologica rappresentano i settori
di maggior peso.
Questo cambiamento radicale nel settore biomedico è già in corso e ha conseguenze importanti che
dovrebbero guidare la realizzazione di piani strategici di programmazione e di coordinamento
nazionale della ricerca biomedica anche in Italia. Una delle previsioni della European Science
Foundation (ESF), formulata nel libro bianco dello European Medical Research Council (EMRC), è
che nel ventunesimo secolo la scienza che si svilupperà maggiormente sarà quella biomedica.
L’Europa non può e non vuole mancare questa opportunità di sviluppo, soprattutto dopo la lunga
crisi economica.
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Conclusioni
• L’industria della salute è un settore in rapida espansione nel mondo e in Europa. La R&S
in questo settore sta a sua volta crescendo velocemente.
• Sia nell’ambito biotech sia in quello medtech il progresso è visibile e notevole, e si stanno
aprendo nuovi orizzonti che permetteranno ampie innovazioni nel campo della salute.
• L’Italia non è tuttavia in posizione d’avanguardia e gli investimenti non sono al livello
degli altri Paesi industrializzati, né esistono strategie chiare nella ricerca.
• La grande industria farmaceutica sta evolvendo verso nuove alleanze, anche con il
settore pubblico, per i propri investimenti nella R&S. Questo può avere implicazioni
favorevoli.
• L’alleanza pubblico-privata è diventata una strategia necessaria per il progresso nella
R&S e nell’innovazione.
• Fattori demografici ed economici nei Paesi industrializzati e in rapido sviluppo come i
BRICS suggeriscono che gli investimenti in R&S nel campo della salute potranno portare
a grandi benefici economici.
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4 INNOVAZIONE
L'innovazione, intesa come dimensione applicativa di un'invenzione o di una scoperta,
contribuisce direttamente alla prosperità e al benessere individuale e collettivo. La finalità
principale della politica di ricerca e sviluppo tecnologico è quella di costruire un'economia della
conoscenza basata sull’innovazione.
Come osservato da Leandro D’Aurizio e Marco Marinucci (Questioni di Economia e Finanza 197 –
Settembre 2013. L'innovazione delle imprese italiane tra il 2008 e il 2010, Banca d’Italia) l’Italia presenta
un quadro articolato:
“Oggi uno dei temi dibattuti in Europa, ma soprattutto in Italia, è la perdita di competitività delle imprese e
quali strategie adottare per contrastarla. Un tema collegato è quello dell’innovazione e degli investimenti in
ricerca e sviluppo (R&S): la loro centralità per il recupero della competitività dell’Unione Europea è stata
ribadita dalla “Strategia di Lisbona” e dagli obiettivi di “Europa 2020”(Commissione Europea, 2010). Dal
punto di vista macroeconomico, il progresso tecnologico rappresenta il principale motore della crescita
economica di un Paese, mentre dalla prospettiva microeconomica R&S e innovazione sono fondamentali
perché le imprese rimangano competitive. Nel confronto internazionale, l'Italia ha una bassa spesa in R&S e
una produzione di brevetti inferiore rispetto a Paesi dalla struttura economica simile (Germania, Francia,
Giappone). Anche il tradizionale ritardo di produttività dell’Italia, rilevante nell’attuale fase congiunturale, è
fortemente legato alle carenze nell'attività di R&S e nell’innovazione (Griliches, 1998; Halletal., 2010 e Hall,
2011).”
4.1.1 Il quadro italiano
A dispetto della difficile situazione in cui versa il sistema industriale italiano, il comparto
dell’industria della salute, in particolare quello farmaceutico, è secondo in Europa solo a quello
tedesco. Vanta un export del 61% del prodotto pari a 25 miliardi di euro, generando più di 2
miliardi di euro l’anno in investimenti in produzione e ricerca, e dando lavoro a più di
sessantamila addetti. Va sottolineato tuttavia che la quota di export italiano in ambito farmaceutico
si deve in grande parte alla produzione di principi attivi non scoperti e/o sviluppati in Italia; si
tratta quindi di una posizione da terzisti.
Come ha rilevato il Rapporto Pharmintech, il settore dell’indotto farmaceutico rappresenta una
“punta d'eccellenza del settore manifatturiero, con performance nettamente migliori rispetto al
resto dell'industria italiana”, continuando con il sottolineare che “l’indotto individuato in base alla
fiera internazionale di riferimento per le imprese che compongono questo particolare settore
industriale, mostra a consuntivo d'anno indicatori ben al di sopra dell'industria manifatturiera nel
suo complesso: ha produttività più elevata rispetto alla media dell’industria (+27%), genera valore
aggiunto per addetto superiore del 25%, ha salari più alti della media (+20%), investe di più (+58%)
ed esporta in modo più intenso (+30%)”. Sarebbe auspicabile che questi risultati positivi servissero
da volano per incrementare in Italia la spesa di R&S nel settore farmaceutico.
Per quanto riguarda il settore del medtech, le dimensioni del relativo comparto in Italia offrono un
quadro ambiguo. Da una parte abbiamo una forza lavoro di circa 52 mila unità che genera un
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fatturato pari al 10% del mercato europeo. A confronto, la Svizzera con 51 mila unità rappresenta il
4% del mercato totale. Dunque il dato è positivo.
D’altra parte l’Italia è importatore di prodotti medtech con un saldo negativo di oltre 1 miliardo di
euro. Il confronto naturale è con la Francia che, con una forza lavoro simile alla nostra, esprime sì il
16% del mercato europeo, evidenziando tuttavia un saldo negativo della bilancia ben superiore a
quello italiano.
In questo comparto il benchmark europeo di riferimento rimane la Germania che, con una forza
lavoro di 175 mila unità, rappresenta il 27% del mercato, ma garantendo un attivo di bilancio
prossimo agli 8 miliardi di euro. Ciò a conferma del fatto che il problema sta nel valore del
prodotto esportato, in cui la produzione italiana esce ridimensionata. Ancora una volta, lo scarso
finanziamento in R&S delle imprese italiane penalizza l’innovazione e la competitività dei prodotti
italiani.
4.1.2 Strumenti economici e strutturali a sostegno del settore biomedico in Italia
Da quanto sopra emerge come sia opportuno attivare anche in Italia un meccanismo virtuoso che
permetta ai risultati della nostra ricerca e sviluppo – che andranno migliorati sino a permettere
scoperte di qualità – di trasformarsi in prodotti attraenti e ad alta desiderabilità per il mercato
andando a differenziare, rafforzandola, l’offerta del comparto farmaceutico e di quello del medtech
italiano nel suo complesso (dalla ricerca alla produzione). Questo permetterebbe lo sviluppo in
Italia di un settore strategico in ambiti da individuarsi con un’attenta analisi delle necessità
primarie e dalle potenziali ricadute economiche.
Per fare questo occorre:
•
Valorizzare la ricerca italiana esistente tramite un aumento dell’investimento pubblico di
base, la messa in rete delle eccellenze italiane tramite incentivi adeguati e il supporto a Poli
di innovazione che utilizzino le smart specialisation europee. Solo così si può creare un
ambiente favorevole all’innovazione nelle PMI/start-up, che sia sostenuto da un’ingegneria
finanziaria disegnata proprio per la creazione e lo sviluppo di PMI/start-up.
•
Creare strumenti finanziari ad hoc per sostenere il costo di sviluppo dei risultati della
ricerca sino ad uno stadio in cui questi possano attirare l’attenzione dell’industria o dei
fondi di venture capital ad esse collegati.
4.1.2.1 Nuovi strumenti finanziari
Il settore biomedico, in continua espansione da un punto di vista finanziario perché garante di
ritorni importanti sugli investimenti, rimane un comparto ad alto rischio, molto esigente in termini
di risorse finanziarie (capital intensive) necessarie per chiudere il ciclo di ricerca, sviluppo e
approvazione di nuovi prodotti, in particolare se composti/farmaci. Anche promettenti aziende
biotech sono spesso costrette a raccogliere in diverse fasi, i cosiddetti round, le risorse finanziarie
(per lo più denaro a fronte della cessione di equity) necessarie per il sostegno dei loro progetti, il
che va a discapito sia della continuità sia dell’efficacia della loro attività di ricerca. Il primo
momento in cui le aziende farmaceutiche prendono in considerazione un composto è infatti
quando i risultati sono corredati da dati preclinici, anche se recentemente il momento si sta
rapidamente spostando verso fasi più avanzate quando siano disponibili già i primi dati clinici.
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14
Nello specifico, è auspicabile la creazione di un fondo di seed/early stage investment per sostenere lo
sviluppo preclinico di progetti italiani selezionati da specialisti del settore, possibilmente con
esperienza internazionale. Questi progetti potrebbero essere selezionati anche per la loro messa in
rete virtuale con i migliori laboratori italiani. L’iniziativa dovrebbe essere collegata ad uno o più
fondi di venture capital o società farmaceutiche, meglio se attive su mercati internazionali, per
sostenere lo sviluppo dei progetti e favorirne l’exit dal fondo di seed/early stage. In questo stadio il
valore aggiunto è limitato e il rischio è alto, ma si può tuttavia considerare un IRR fra il 5% e il 10%
a seconda dell’area terapeutica o se si tratta di un prodotto first in class. Il successo dell’iniziativa
potrebbe avere inoltre effetti di spill-over in ambito finanziario, favorendo la creazione di altri fondi
di seed/early stage investment o di un vero e proprio venture capital italiano specializzato nel campo
biomedico.
Financial engineering nel settore biomedico:
il modello di megafund proposto da Andrew Lo
Professore di finanza alla Sloan School of Management del MIT e in passato gestore di un
hedge fund con 3 miliardi di dollari, Lo ritiene che l’ingegneria finanziaria possa essere
utilizzata per finanziare progetti innovativi nell’ambito della ricerca farmaceutica.
A suo parere, per ridurre il crescente rischio di impresa nelle biopharma impegnate nello
sviluppo di nuove molecole occorre creare dei mega fondi dell’ordine dei 30 miliardi di
dollari, basati sulla securitizzazione del rischio a supporto di programmi nel biomedico
capaci di attrarre investimenti di grandi istituzioni come i fondi pensione attivi negli Stati
Uniti. Un megafund può infatti coniugare la massa critica necessaria per portare a termine
senza discontinuità i progetti meritevoli con un efficace contenimento dei rischi; in aggiunta,
combinare equity con debito può allargare non poco il bacino dei finanziatori, ottimizzando
il rapporto rendimento/rischio per ogni categoria.
Il primo ambito di applicazione della teoria di Lo è stato quello dello sviluppo di molecole
in campo oncologico, seguito dalle malattie rare. In sostanza, si andrebbe ad occupare uno
spazio che né i fondi puri di private equity, né le grandi industrie farmaceutiche sembrano
poter coprire adeguatamente: i primi perché non amano investire in quel settore così
specifico e rischioso; le seconde perché stanno rallentando gli stanziamenti in R&S a seguito
della scadenza di numerosi brevetti.
La sfida che pone il modello proposto da Andrew Lo è di verificare se il modello proposto
sia vincente sul primo mercato su cui è stato presentato, quello americano; se sia inoltre
esportabile su mercati diversi, segnatamente quello europeo; e se, infine, possa essere esteso
alla ricerca di composti per tipi diversi di malattia, ad esempio le malattie
neurodegenerative.
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4.1.2.2 Il ruolo del finanziamento privato
In un Paese come l’Italia, dove le PMI rappresentano il 99% delle imprese e dove la ricerca
industriale è ancora limitata (5% del totale degli investimenti in ricerca), occorrono azioni precise a
sostegno di nuovi settori come il biomedico, incentivando le start-up o le PMI. La ricerca
biomedica, per potersi affermare come volano di sviluppo, in Italia deve dunque rafforzarsi, sia
nell’industria privata sia nei consorzi pubblico-privati.
La competitività della ricerca biomedica italiana in questi ultimi anni è stata spesso sostenuta
grazie al supporto delle cosiddette charities, associazioni filantropiche come l’AIRC (Associazione
Italiana per la Ricerca sul Cancro) o Telethon in grado di raccogliere, con campagne televisive e di
comunicazione, anche 50 milioni di euro all’anno da erogarsi per sviluppare progetti di ricerca di
base. Nei primi 40 anni di attività l’AIRC/FIRC ha erogato 738 milioni di euro per la ricerca
biomedica in campo oncologico; Telethon in 24 anni ha erogato 394 milioni di euro per la ricerca
nel campo delle malattie genetiche. Si tratta di un miliardo di euro di investimenti in ricerca
biomedica che hanno permesso alla ricerca italiana di mantenersi a livelli accettabili, ma senza
condurre ad una vera competitività con quei Paesi che investono in R&S cifre molto superiori
Un altro esempio di supporto alla ricerca è quello rappresentato da entità come il britannico
Wellcome Trust (WT). Istituito nel 1936 da un magnate del settore farmaceutico, Sir Henry
Wellcome, come charity indipendente con un lascito iniziale di 74 mila sterline, WT è una
fondazione dedicata alla salute umana e animale. Oggi la terza charity al mondo per dimensioni,
WT è dopo la Bill e Melinda Gates Foundation il maggiore finanziatore della ricerca medica
mondiale con in gestione investimenti pari a circa 200 miliardi di euro. Nel 2013 WT ha investito
235 milioni di euro in un fondo dedicato specificamente al sostegno di start-up nel settore biotech e
medtech, segnatamante medical-device, prodotti terapeutici, strumenti per la diagnostica e ICT.
WT rappresenta anche un caso scuola nella comunità finanziaria, perché ottiene risultati al di
sopra della media rispetto ad analoghi veicoli finanziari costruiti puramente a fini di lucro,
garantendosi uno standing finanziario tale da permettere l’emissione di obbligazioni per aumentare
la raccolta.
Analogamente a trust come WT, vanno segnalati i cosiddetti social impact funds, una categoria di
attori rappresentati in Italia solo dalle fondazioni bancarie, che nel mondo anglosassone sono
invece radicati in molti settori, anche grazie a regimi fiscali privilegiati, e che sopperiscono alla
scarsità delle risorse disponibili per attività economiche ad alto impatto sociale.
4.2 L’Italia e le soluzioni competitive per costruire un’Europa dell’innovazione
L’Unione Europea ha lanciato, nel dicembre 2013, una sfida da 80 miliardi di euro di investimenti
in R&S con l’ottavo programma quadro della ricerca europea, Horizon 2020 (2014-2020), che vede
lo sviluppo dell’industria della salute come uno dei suoi pilastri. Horizon 2020 sostiene una serie
di obiettivi condivisi che rappresentano una notevole opportunità per il nostro Paese per rilanciare
il volano della crescita e contribuire alla formazione dell’Europa dell’innovazione.
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HORIZON 2020
Il Programma Quadro europeo per la Ricerca e l'Innovazione (2014 - 2020)
Horizon 2020 è il nuovo Programma di finanziamento integrato destinato alle attività di
ricerca della Commissione Europea, responsabilità che faceva capo al VII Programma
Quadro, al Programma Quadro per la Competitività e l'Innovazione (CIP) e all'Istituto
Europeo per l'Innovazione e la Tecnologia (EIT).
Il nuovo Programma è stato attivato il 1° gennaio 2014 e durerà fino al 31 dicembre 2020.
Sarà di supporto all’UE nelle sfide globali, fornendo a ricercatori e innovatori gli strumenti
necessari alla realizzazione di nuove idee e progetti.
Il budget stanziato per Horizon 2020 (compreso il programma per la ricerca nucleare
Euratom) è di 70,2 miliardi di euro a prezzi costanti / 78,6 miliardi di euro a prezzi correnti.
Iniziative comunitarie come le Piattaforme Tecnologiche Europee, le Iniziative Tecnologiche
Congiunte (ITC), i Research Driven Cluster, le European Innovation Platform (EIP), le Public Private
Partnership (PPP) e i Programmi ERA-NET sono tutte azioni in cui l’Italia dovrebbe essere
protagonista, considerati i significativi finanziamenti italiani su tali progetti.
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4.2.1 La Joint Programming Initiative (JPI)
L’Unione Europea si è data, sin dal 2008, un nuovo strumento di Programmazione Congiunta della
Ricerca Europea, la Joint Programming Initiative (JPI), che impegna i Paesi a definire una visione e
un piano strategico di ricerca condivisi per affrontare le sfide del secolo ed incidere maggiormente
sul completamento della rete European Research Area (ERA). Tale rete si basa su schemi di
cooperazione europea, sulla mobilità di ricercatori e studenti e su partnership bilaterali di ricerca.
La Joint Programming Initiative da sola non sarà tuttavia sufficiente per fare la differenza, poiché il
problema cruciale resta l’entità dei finanziamenti. La ricerca biomedica in Europa è infatti sottofinanziata a confronto con gli USA, dove il 50% del finanziamento governativo per R&S è destinato
proprio alla ricerca biomedica; in Europa, invece, solo il 30% è destinato alla R&S in ambito
biomedico, per di più a valere su un budget totale destinato alla R&S che rappresenta solo il 15%
dell’intero budget annuale dell’Unione Europea. Lo European Medical Research Council (EMRC)
aveva raccomandato, già nel 2007, di raddoppiare l’investimento pubblico in campo biomedico,
ma ciò non è avvenuto. L’agricoltura resta infatti il settore in cui l’Europa investe ancora
maggiormente (nel 2011 il 40% circa dell’intero budget).
Sul fronte della tecnologia, è invece incoraggiante il fatto che l’Unione Europea sia riuscita attraverso lo European Research Forum on Research Infrastructures (ESFRI) – a sottoscrivere 13
iniziative strutturali in campo biomedico e delle scienze biologiche. Tali infrastrutture vanno dallo
storage all’analisi di big data, dalle banche biologiche (biobanking) alla medicina clinica (clinical trials)
e traslazionale. L’Italia è partner di alcune iniziative che potrebbero costituire un’ulteriore
opportunità di internazionalizzazione e di cooperazione.
Un altro modo di sviluppare collaborazioni intra-europee è offerta proprio dalla Joint
Programming Initiative (JPI), la prima delle quali si occuperà di malattie neurodegenerative. Altre
tematiche emergenti riguardano la resistenza agli antibiotici, l’obesità, i cambiamenti demografici e
l’invecchiamento. L’Italia dovrebbe promuovere temi di ricerca in cui la nostra eccellenza
scientifica sia riconosciuta internazionalmente, catalizzando e concentrando gli sforzi
principalmente verso questi ambiti di eccellenza.
Un metodo piuttosto diffuso per identificare l’eccellenza e l’impatto scientifico in ambito biomedico è la valutazione dell’H-index dei ricercatori; l’H-index è un indice che quantifica la
produttività e l’impatto del lavoro svolto in base al numero di pubblicazioni e di citazioni ricevute.
Con questo metodo recentemente sono state valutate le istituzioni di ricerca biomedica in Italia, sia
nel settore pubblico, che nel privato3.
Sarebbe auspicabile che, da queste analisi, emergesse la consapevolezza che è interesse principale
del nostro Paese concentrare gli sforzi e sostenere con finanziamenti adeguati le tematiche e le
discipline in cui è riconosciuta l’eccellenza scientifica italiana a livello internazionale.
3
http://www.ANVUR.org e http://www.topitalianscientists.org/Top_italian_scientists_VIA-Academy.aspx
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4.2.2 Le strategie di ricerca e innovazione e le smart specialisation (RIS3)
È stato osservato che, rispetto agli Stati Uniti, l’intensità della R&S in Europa e la disseminazione
delle nuove tecnologie sono abbastanza limitate. Nell’innovazione gli Stati Uniti hanno infatti
mantenuto, a livello globale, una riconosciuta supremazia per quanto riguarda le scienze della
vita.
Le ragioni del ritardo europeo sono attribuibili alla frammentazione delle fonti di finanziamento,
al limitato coordinamento tra gli attori operanti nella R&S e alla mancanza di una massa critica e di
finanziamenti adeguati per la ricerca nelle università (molto sostenuti invece nelle università
statunitensi).
La soluzione a questi problemi consiste nell’attuare un cambio strutturale che permetta a nuovi
settori e nuove industrie di emergere, attraverso il finanziamento di aree ad elevato potenziale
come l’industria della salute. Le strategie di ricerca e innovazione possono differire tra regioni in
modo da fare emergere tecnologie diverse in aree diverse, ma devono ricadere sotto un disegno
organico che sia il risultato delle priorità strategiche indicate dall’Unione Europea.
Per facilitare il raggiungimento di questo ambizioso obiettivo, vale a dire creare un’Europa della
ricerca e dell’innovazione, l’Unione Europea sta lanciando le cosiddette smart specialisation o
Research and Innovation Strategies for Smart Specialisation (RIS3). Queste costituiscono un
approccio allo sviluppo economico a livello regionale basato sulle sinergie tra ricerca e
innovazione. L’idea è quella di sviluppare una visione strategica che identifichi i vantaggi
competitivi di ogni regione e fissi le priorità, in modo da massimizzare il potenziale di sviluppo
dell’economia della conoscenza a livello regionale. È possibile costruire tale visione tramite lo
sviluppo di tecnologie abilitanti e con cambiamenti strutturali, come ad esempio la realizzazione di
infrastrutture e la messa in rete di quelle già presenti sul territorio.
In questo modo si realizza un ambiente favorevole all’high tech e all’innovazione nelle PMI che
deve essere comunque supportato da un’ingegneria finanziaria che sia di stimolo alla nascita e allo
sviluppo delle PMI. Elementi fondamentali di questa strategia sono: impegno di lungo termine da
parte dell’autorità pubblica su un programma con chiari obiettivi e deliverable; analisi dei vantaggi
competitivi; esistenza di una massa critica di competenze; inserimento in una catena del valore che
abbia valenza internazionale; e partecipazione attiva di tutti i principali attori dello sviluppo
economico del territorio.
In quest’ottica, risultano molto importanti per l’Europa l’utilizzo e la gestione efficienti dei fondi
strutturali, che potrebbero rivelarsi un fattore critico per il superamento della crisi economica. Le
smart specialisation, se ben utilizzate, potrebbero fornire proprio gli strumenti e una struttura per
guidare ed allineare gli investimenti regionali e nazionali, privati e pubblici, nelle regioni e negli
Stati membri. Infine, le smart specialisation potrebbero anche essere uno strumento per ripartire gli
investimenti, fino ad ora concentrati nelle regioni nordiche, verso le regioni del sud affinché queste
possano sviluppare il loro potenziale di innovazione.
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4.2.3 European Research Council (ERC)
Un programma europeo di grande successo è lo European Research Council (ERC) che, dal 2002,
investe nei talenti purché restino a lavorare in Europa. Il programma è nato dalla constatazione che
il problema del brain drain dei talenti europei si stava aggravando. Ad oggi, l’ERC ha sostenuto
1.600 scienziati in tutti campi, con una spesa di 3,5 miliardi di euro sotto forma di grant. Al settore
delle scienze della vita, che include il biomedico, è stato tuttavia assegnato solo un terzo di tali
fondi, risultato poco soddisfacente che rivela quanto la ricerca biomedica in Europa non abbia il
peso che meriterebbe, considerata la rilevanza industriale e la competitività.
Uno studio del 2009 ha infatti dimostrato che, nonostante la significativa differenza nell’entità
degli investimenti in ricerca biomedica, l’Europa detiene una quota del 39% di tutte le
pubblicazioni nel settore, rispetto al 33% degli USA, valore compensato in parte da un maggior
numero di citazioni degli articoli statunitensi. L’Europa è quindi in una situazione di vantaggio
rispetto agli Stati Uniti, vantaggio che dovrebbe essere maggiormente valorizzato.
4.2.4 L’implementazione europea in Italia
L’Italia, in linea con le direttive europee, ha elaborato il programma nazionale della ricerca (MIUR
2011-2013), definendo una serie di macro-obiettivi, alcuni dei quali si applicano al settore
biomedicale:
•
Migliorare la massa critica nella ricerca pubblica e privata, e valorizzare il capitale
umano;
•
Rafforzare la competitività del Paese in aree tecnologiche prioritarie;
•
Consolidare gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione;
•
Rafforzare la collaborazione tra imprese pubbliche e private;
•
Sostenere la nascita e sviluppo di imprese ad alta tecnologia;
•
Migliorare la partecipazione italiana nell’ambito della ricerca europea;
•
Realizzare e partecipare alle infrastrutture di ricerca europea.
Una volta definiti gli obiettivi è tuttavia di fondamentale importanza sviluppare il contesto
normativo e finanziario necessario per la loro attuazione. Al momento, nell’area biomedicale, è
stata avviata soltanto una rete nazionale di ricerca oncologica.
L’Italia ha il potenziale e le competenze per cogliere le sfide del ventunesimo secolo e fare del
settore biomedicale un settore strategico. Occorre tuttavia prendere atto del fatto che, senza una
decisa ed immediata azione politica, sarà molto difficile raggiungere gli obiettivi prefissati: nel
disegno di legge per la competitività e il rilancio della politica industriale approvato dal Governo
Prodi II nel 2006 uno dei cinque progetti di innovazione industriale (denominato Programma
“Industria 2015”) riguardava proprio le tecnologie per le scienze della vita. Ad oggi, dopo nove
anni, il programma è stato implementato solo marginalmente, vanificando lo sforzo di tutti coloro i
quali avevano partecipato attivamente alla preparazione dei progetti. Senza strumenti finanziari e
regolatori ad hoc sarà difficile che l’industria della salute possa diventare un vero volano di
crescita dell’economia italiana.
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4.2.5 I poli tecnologici
Nell’attuale contesto caratterizzato da limitate risorse finanziarie pubbliche, la domanda è se sia
possibile raggiungere almeno alcuni dei traguardi fissati. L’opportunità per provarci viene
dall’Unione Europea che, con il programma Horizon 2020, promuove la creazione di nodi di
eccellenza nel tessuto europeo. È possibile in Italia valorizzare la ricerca esistente tramite la messa
in rete dei punti di eccellenza con le nuove realtà come i poli di innovazione? Sicuramente sì
nell’ambito biomedico.
In questi poli, il patrimonio di conoscenza pubblica e privata dei centri di ricerca e degli ospedali
coinvolti può esprimersi con piani strategici a lungo termine caratterizzati da obiettivi condivisi e
raggiungibili. Il tutto deve essere fatto coinvolgendo, tramite meccanismi di trasferimento
tecnologico, le imprese a maggiore capacità innovativa, le start-up e le imprese high tech, con
l’obiettivo di costituire un tessuto industriale intorno a quei luoghi dove la ricerca è più attiva e di
riconosciuta eccellenza internazionale.
Altre proposte per stimolare la competitività sono i distretti ad alta tecnologia (diversi dai distretti
industriali), che in Italia esistono dal 2005, ma che non hanno sempre avuto uno sviluppo positivo.
I poli di innovazione dovrebbero riunire, in uno stesso spazio fisico, infrastrutture ed istituzioni di
eccellenza per costituire quei cluster di ricerca che l’UE vorrebbe vedere crescere in ogni Paese. Tali
centri di eccellenza dovrebbero raggruppare competenze e strutture gestite da diverse istituzioni e
coordinate da un consorzio di imprese pubbliche e private quali enti di ricerca, atenei, PMI e startup; in questo modo si potrebbe superare la dimensione nazionale e dare vita ad un distretto ad alta
tecnologia che rappresenti un nodo territoriale della rete dei distretti europei.
Si tratta di nodi che sicuramente favoriscono il processo di internazionalizzazione, migliorando la
capacità di attrazione sia dei talenti sia degli investimenti, e creando sinergie tra diversi settori
industriali che utilizzano tecnologie condivise, come ad esempio l’ICT nell’analisi dei big data. A
questo riguardo la California, e in particolare la Silicon Valley, è un esempio di incredibile successo
di ecosistema favorevole all’innovazione.
Creare ecosistemi che promuovano lo sviluppo di sinergie fra settore pubblico e privato dovrebbe
essere una delle scelte strategiche capaci di rilanciare la competitività italiana.
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Conclusioni
• L’industria della salute, e in particolare quella farmaceutica, rappresenta un importante
comparto economico per l’Italia. I volumi di fatturato dei prodotti italiani su questi
mercati sono rimarchevoli anche a livello europeo. Nella catena del valore, tuttavia, la
nostra produzione, ad esempio quella farmaceutica, si colloca in una bassa posizione
poiché il contenuto limitato d’innovazione riduce il valore aggiunto del prodotto stesso.
• I risultati della R&S italiana devono essere valorizzati attraverso meccanismi diversi, in
funzione degli attori da coinvolgere: un co-finanziamento strategico, con strumenti
finanziari innovativi, dello sviluppo di un nuovo prodotto sin dalle sue fasi iniziali può,
ad esempio, stimolare l’interesse dell’industria a sostenere gli stadi finali dello sviluppo
stesso.
• Meccanismi di seed-funding per le fasi pre-cliniche di ricerca e sviluppo sono auspicabili
al fine di giungere a prodotti di altissima qualità.
• Esistono nel mondo numerose modalità di finanziamento privato della ricerca che
andrebbero esplorate per capire se e come siano replicabili in Italia.
• L’Unione Europea dispone di vari meccanismi di finanziamento dell’innovazione.
L’Italia dovrebbe definire adeguatamente i propri vantaggi strategici e le aree prioritarie
per poter sfruttare appieno le opportunità esistenti.
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5 FORMAZIONE
5.1 Una strategia integrata di ricerca e formazione: il capitale umano, le torri d’avorio e gli
innovatori
In ambiti come il biotech e il medtech le idee sono il vero motore. Un’iniziativa biotech nasce spesso
da una singola nuova idea. Per questa ragione, la creatività è essenziale, così come la capacità di
pensare in modo originale e nuovo. È quindi fondamentale che la formazione stimoli la creatività,
superando l’approccio nozionistico. Inoltre, per sviluppare un’economia della conoscenza, è
assolutamente indispensabile catalizzare e aggregare competenze interdisciplinari (cliniche,
biologiche, bioinformatiche, di ingegneria, di nanotecnologia, ecc.).
Nell’economia della conoscenza, il capitale umano e i talenti rappresentano i pilastri dello
sviluppo. Il capitale umano è dato dall’insieme di capacità, conoscenze ed esperienze di un
individuo o di una popolazione che costituiscono il valore di un’organizzazione o di un Paese. Il
capitale umano è la vera chiave del successo, e alcuni Paesi esercitano e sostengono politiche attive
di attrazione del talento. Il capitale umano è infatti mobile e mobilizzabile. La capacità di un Paese,
di un distretto o di un’industria di attrarre talento, può essere una misura di successo.
Le università di Oxford e Cambridge sono in questo senso esempi di brain circulation e risultano
attrattive sul piano lavorativo, tecnologico, sociale e culturale. Il ritardo dell’Italia non è dovuto
solo agli scarsi investimenti in R&S, ma è anche il risultato di una scarsa capacità di attrazione dei
talenti, malgrado l’eccellenza in termini di qualità della vita e patrimonio culturale. La scarsa
internazionalizzazione e i limitati investimenti in capitale umano rappresentanto un freno allo
sviluppo e alla retention dell’eccellenza. Basta un numero per cogliere, nel contesto europeo, i
nostri limiti: nel 2006 così come oggi, in Italia, il numero di borse di studio post-dottorato in tutte le
discipline era di sole settecento, un dato assolutamente anomalo in Europa.
Fra i macro obiettivi del Piano Nazionale della Ricerca (PNR) del 2013 vi sono il sostegno
all’internazionalizzazione e la valorizzazione del capitale umano. Il MIUR, attraverso la Strategia
per l’Internazionalizzazione della Ricerca Italiana (SIRIT), ha definito le linee guida per
l’internazionalizzazione, la cui attuazione non è però visibile. Una conseguenza di questa scarsa
attenzione all’attuazione dei programmi fa sì che i giovani talenti scelgano raramente di rimanere,
di venire o di ritornare in Italia. Questo brain drain dall’Italia, ma anche dall’Europa con l’eccezione
del Regno Unito, è particolarmente acuto in campo biomedico. Gli USA esercitano ancora una
grande attrazione e attirano a loro vantaggio i migliori cervelli da tutto il mondo. Le politiche di
retention e di circolazione sono ancora neonate e sinora inefficaci in Italia, come illustrato nel
documento del gruppo di lavoro Aspen (Brain drain, brain exchange e brain circulation, 2012).
Il capitale umano è un fattore essenziale per l’innovazione e l’Europa coltiva creatività e diversità
come nessun altro continente. Le nostre istituzioni educative e di ricerca preparano inoltre
eccellenti ricercatori in campo biomedico che possono inserirsi in una moltitudine di istituzioni
pubbliche o private. Tuttavia, occorre prendere atto del fatto che molte delle nostre migliori
università/centri di ricerca sono torri d’avorio difficilmente permeabili all’innovazione. Esistono
enormi barriere, e la conoscenza rimane spesso segregata e frammentata, con ripercussioni
negative in termini di trasferibilità.
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La formazione ha un peso enorme nello sviluppo economico di un Paese. Un esempio chiarissimo
viene dalla California. L’economia dell’informazione non è nata per caso a Stanford. L’università
di Stanford, fondata da Jane e Leland Stanford nel 1891, aveva come principio costitutivo quello di
preparare gli studenti per lo sviluppo e il successo personale, e non per essere una torre d’avorio
della conoscenza. Gli scienziati e gli ingegneri dell’università dovevano quindi produrre
innovazione attirando non solo fondi di ricerca governativi, ma anche privati e di venture capital.
Il primo Presidente di Stanford, David Starr Jordan, era un angel investor poiché nella missione di
Stanford vi era l’idea di creare innovazione per dare vita ad una comunità destinata a fare impresa
e quindi business. Oggi, questo spirito imprenditoriale ha portato l’università a dare in licenza
8.000 brevetti che hanno generato ritorni per 1,3 miliardi di dollari in royalties e l’ateneo può
affermare di aver generato idee che hanno dato vita a 5.000 aziende come Hewlett-Packard, Yahoo,
Cisco Systems, eBay, Netflix, Google, Amazon, Agilent, LinkedIn, Silicon Graphics, ecc. A Stanford
meno della metà degli studenti sono caucasici e metà ricevono una borsa di studio. Quest’anno le
domande di ammissione erano 34.000 e gli ammessi 2.400 (ovvero il 7%); di questi il 17% era il
primo membro in famiglia ad andare all’università. Più ci sono talenti e meglio si fa innovazione.
L’eredità forse più importante di Stanford sarà, in futuro, la formazione interdisciplinare mirata a
creare, più che innovazione, gli innovatori che oggi chiamano T-students. Questi studenti devono
possedere una conoscenza approfondita in un campo, ma devono poter spaziare e collaborare
anche in molti altri ambiti, per risolvere problemi reali che da soli non potrebbero affrontare.
L’interdisciplinarietà è diventato il nuovo paradigma per coltivare innovazione e creatività, come
Leonardo da Vinci ci ha mostrato. Questa non è una nuova idea, bensì un ritorno all’umanesimo in
contrasto alla super-specializzazione che ha rappresentato la dottrina dei campus americani negli
ultimi cento anni.
Gli studenti italiani hanno sicuramente un vantaggio e molti non devono diventare T-students
poiché lo sono già. Il successo degli scienziati italiani che hanno studiato in Italia e sono poi andati
altrove è di solito significativo. Aspen ha avviato l’iniziativa Interesse Nazionale anche per dare
voce a questi talenti. Sedici dei 20 top scientist italiani, secondo la classifica di VIA-Academy4,
occupano posizioni di rilievo all’estero, di cui la metà nel settore biomedico. Valorizzare la nostra
cultura umanistica aprendola al territorio significa ricreare la bottega dove ogni studente può
diventare innovatore, ciascuno con il proprio bagaglio e le proprie capacità, in un ecosistema dove
al sapere si coniuga il saper fare. Ci stanno provando a Stanford5, ma nella bottega del Brunelleschi
si faceva già cinque secoli fa, a Firenze.
5.2 Innovazione o innovatori?
È difficile rispondere a questa domanda. Certamente ricominciare dalla scuola è una garanzia.
Tutto inizia dall’educazione. La nostra deve aprirsi al mondo, abbandonare il provincialismo,
guardare avanti e soprattutto creare innovatori. Le ricette ci sono e sono state utilizzate in alcune
regioni italiane. A Reggio Emilia vent’anni fa c’erano le scuole materne (pubbliche) migliori del
mondo, analizzate dai dipartimenti di pedagogia delle più prestigiose università americane. I
bambini di Reggio Emilia dai 3 ai 5 anni andavano a scuola per “fare” cose insieme, in gruppo,
4
5
http://www.topitalianscientists.org
https://dschool.stanford.edu/learning-experiences/
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senza una leadership precostituita, senza insegnanti che “istruivano”. Ognuno portava il proprio
sapere e insieme si cercava di capire come costruire un castello o come fare un treno. Moltissimi di
quei bambini sono diventati imprenditori e si diceva che in Emilia Romagna non appena due
persone si conoscevano facevano impresa.
Questo modo di fare educazione per generare impresa non è altro che il “nuovo” modello della
famosa d.school di Stanford6, che oggi rappresenta il modello educativo universitario più
avanzato; qui non ci sono barriere fra le discipline, non c’è differenza fra studenti e sapienti, non si
studia ma si impara facendo: la creatività e le idee hanno libero corso e non ci sono diplomi da
conseguire. Insomma, esattamente il modello delle scuole materne di Reggio Emilia.
È possibile tornare ad un’educazione più creativa e innovativa, coniugando sapere e saper fare?
Oggi stanno nascendo i poli di innovazione in diverse regioni italiane: il biomedico a Perugia, le
biotecnologie a Torino, e così via. È possibile immaginare che le università si rendano disponibili a
creare scuole come la d.school di Stanford, dove una nuova generazione di studenti possa
diventare una generazione di innovatori, dove soltanto le buone idee abbiano seguito, dove
ognuno impari dall’altro e dove l’insieme abbia un valore aggiunto inestimabile? Progetti che
diventano prototipi, aziende che partecipano e sostengono, sapere che diventa condiviso. Tutto
questo è già presente in Italia, è parte della nostra cultura, e deriva non solo da Reggio Emilia ma
dalle botteghe del Brunelleschi e di Leonardo da Vinci. È tutto accessibile e a costo zero. Se
dovessimo assegnare delle priorità alla lunga serie di linee guida illustrate in questo documento,
creare un “La Scuola.it” presso ogni università che si impegni a far parte di un polo di innovazione
dovrebbe essere la priorità numero uno. È sempre bene ripartire dall’inizio, quindi dalla
formazione, costruendo una strategia integrata basata su esempi di successo che abbiano una
fattibilità immediata.
Conclusioni
•
La formazione ha un peso enorme nello sviluppo economico e sociale di un Paese.
•
Un nuovo modello di formazione che privilegi la creatività e la multidisciplinarità è
necessario in Italia per competere con i grandi poli di educazione anglosassoni.
• La creazione di reti dipendenti dai poli di formazione più autorevoli che agiscano lungo
l’asse formazione-ricerca-innovazione-produzione industriale è la migliore soluzione per
favorire lo sviluppo dei vari elementi dell’asse.
• Questo richiede investimenti adeguati e creatività nello stabilire gli elementi solidificanti
delle reti stesse e nel facilitarne la formazione e il sostenimento.
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http://dschool.stanford.edu
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6 LINEE GUIDA
Alla luce di quanto descritto, è possibile formulare alcune linee guida che intersechino le quattro
caratteristiche del settore biomedico italiano indicate in apertura del documento: la scarsa
percezione dell’importanza del settore, la mancanza di policy mirate e di governance stringenti, e
l’inadeguato finanziamento di cui soffre il sistema italiano della ricerca e dell’innovazione, in
particolare nel campo della scienza della vita.
In questa sede ci limiteremo a proporre alcune linee guide per i settori della ricerca,
dell’innovazione e della formazione.
Ricerca
1. L’entità del finanziamento per la R&S in Italia deve crescere ed allinearsi alle medie
europee. Per fare ciò è necessario un mutamento nella percezione del valore strategico
della R&S per la crescita economica del Paese.
2. L’accesso alle linee di finanziamento per la R&S dovrebbe avvenire attraverso interventi di
policy e governance basate sulla definizione strategica delle priorità nazionali, mappando
l’eccellenza scientifica riconosciuta internazionalmente in cui l’Italia detiene un vantaggio
competitivo. Ciò richiede:
*
La capacità di riconoscere il merito e di valutare i risultati della ricerca;
*
La costituzione di una rete di nodi nazionali d’eccellenza;
*
Il sostegno in Europa dei nodi nazionali affinché diventino parte integrante della
futura rete europea della conoscenza;
*
Il sostegno di alleanze pubblico-private che permettano il finanziamento della R&S
in compartecipazione strategica con l’industria nazionale e internazionale.
Innovazione
3. La percezione della rilevanza dei settori biotech e medtech come driver di innovazione deve
affermarsi come una priorità per la crescita economica del Paese. L’accesso alle linee di
finanziamento per fare innovazione dovrebbe avvenire mediante interventi di policy e
governance che favoriscano la creazione di:
*
Nuovi strumenti finanziari, ad esempio fondi di fondi di venture capital, ma anche
un ripensamento del sistema degli incentivi alle imprese, del credito d’imposta per
gli investimenti in R&S e della garanzia pubblica sui finanziamenti degli investitori
istituzionali in imprese che realizzino progetti di innovazione industriale nelle
filiere produttive indicate dall’Unione Europea;
*
Nuovi fondi di venture capital, partecipati dalla grande industria italiana e
internazionale, focalizzati su biotech e medtech; questo permetterebbe di sostenere
l’innovazione mediante il finanziamento delle fasi iniziali di trial clinici (trial di fase
I/II) per lo sviluppo di nuovi prodotti dove maggiore è il rischio d’impresa;
*
Nuovo utilizzo delle partecipazioni pubbliche in investitori istituzionali e in
imprese industriali come strumento per indirizzare le imprese a posizionarsi in
modo competitivo sui mercati chiave per la crescita economica, dove il biotech e il
medtech potrebbero fungere da volano.
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Formazione
4. Ripensamento della percezione dell’importanza e dell’impatto futuro delle scienze della
vita per il benessere delle società e lo sviluppo economico. Adozione di misure di policy e
governance per favorire lo studio delle scienze della vita in ogni ordine e grado
dell’istruzione pubblica e privata, così come la sua diffusione mediante i mezzi di
comunicazione di massa. Ciò richiede forme di finanziamento mirato e in particolare:
*
Promozione di iniziative volte allo sviluppo della creatività, dell’imprenditorialità
e della valorizzazione industriale del prodotto creativo, in particolare nell’ambito
delle scienze vita;
*
Sostegno all’internazionalizzazione del sistema formativo ed alla sua
interdisciplinarietà, in raccordo con le linee guida espresse dall’Unione Europea e
mediante l’utilizzo di fondi ad hoc (ad esempio il programma Marie-Curie
rinnovato in Horizon 2020), in genere attivabili in modalità di co-finanziamento.
Gli impegni assunti con l’adozione della Strategia Europa 2020 per la spesa in R&S
prevedono l’obiettivo del 3% del PIL, con una partecipazione del settore privato a due terzi
di tale spesa. Nei prossimi sei anni l’Italia dovrà quindi essere in grado di raddoppiare il
proprio investimento di R&S. Un grande sforzo, cui è chiamato tutto il nostro sistema
pubblico e privato, ma anche una grande opportunità per diventare protagonisti nella sfida
del ventunesimo secolo: le scienze della vita.
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7 AUTORI
Paola Castagnoli
Scientific Director
Singapore Immunology Network
Singapore
dal 2007 è Direttore Scientifico di SIgN (Singapore Immunology Network), un Centro di Ricerca di
Immunologia dell’Agenzia governativa A-STAR di Singapore. È Professore Ordinario di
Immunologia e Patologia Generale presso l’Università di Milano-Bicocca. È stata Post-doctoral
Fellow alla Stanford University e Visiting Scientist al MIT di Boston. È membro eletto dell’EMBO e
dell’Accademia delle Scienze Tedesca, Leopoldina. Ha vinto una Marie Curie Chair della EU
presso l’Istituto Pasteur di Parigi ed è membro dello Scientific Advisory Board del Max Plank
Institute for Infectiology a Berlino. Nel 2007 ha fondato la Singaporean Society of Immunology
(SgSI) di cui è stata Presidente dal 2010. È membro del Council del FIMSA (Federation of
Immunological Societies of Asia-Oceania) e del IUIS (International Union of Immunological
Societies). Nel 2012 riceve dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’onorificenza di
Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia.
Ludovico Ciferri
Lecturer
Graduate School of International Management
International University of Japan
Niigata – Japan
In Giappone dai primi anni Duemila, insegna Mobile Business Strategy e Private Equity & Venture
Capital alla Graduate School of Management, International University of Japan. Analista presso
Mobile Internet Capital Inc., fondo di venture capital giapponese focalizzato sugli investimenti in
nuove tecnologie, è componente del Comitato scientifico del Private Equity Monitor – PEM. Vice
Presidente della Fondazione Italia Giappone, è Presidente di Advanet, azienda
giapponese controllata dal gruppo italiano Eurotech, leader nella produzione di embedded board
computer. Mario C. Raviglione
Director
Stop TB Department (STB) HIV/AIDS, TB & Malaria Cluster (HTM)
World Health Organization
Geneva – Switzerland
È tra le massime autorità internazionali sulla tubercolosi. Responsabile di normativa, politiche e
strategie sul controllo della TBC nel mondo, definisce gli approcci, monitora la situazione globale e
identifica le innovazioni necessarie per tradurre l'evidenza proveniente dalla ricerca in normativa e
pratica.
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Marisa Roberto
Associate Professor with Tenure
The Scripps Research Institute
Recipient of the U.S. Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers
La Jolla, CA – U.S.A.
È Professore Associato con Tenure nella Committee on the Neurobiology of Addictive Disorders
allo Scripps Research Institute. La sua ricerca studia la fisiologia cellulare del nucleo centrale
dell’amigdala: Marisa ha identificato importanti cambiamenti indotti dall’esposizione acuta e
cronica di alcool e sostanze d’abuso (cannabinoidi, sedativi, nicotina, cocaina etc.) nell’attività
neuronale sia inibitoria che eccitatoria nell’amigdala. Marisa ha ricevuto dal Presidente Barack
Obama il premio Presidential Early Career Awards for Scientists and Engineers, il premio più
prestigioso conferito dal Governo degli Stati Uniti a giovani ricercatori allo stadio iniziale della
loro carriera di ricerca.
Fabio Scano
Head, Disease Control and Pharmaceuticals
World Health Organization
Beijing – China
Specialista in malattie infettive, TBC e AIDS, è attualmente responsabile del controllo delle
malattie infettive e croniche presso la sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Pechino,
dove svolge anche attività di consulenza per il Ministero della Salute e l’Agenzia dei Farmaci
cinese. Nel 2011 L'Università di Yale gli ha conferito il titolo di Yale World Fellow.
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