Farsi eudicare dal Dio pastore - Don Martino

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Farsi eudicare dal Dio pastore - Don Martino
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 1
Farsi educare dal Dio pastore
Es 15-18
Folgaria - Giugno 2013
Don Martino Signoretto
Premessa: quale relazione con il testo sacro e il suo rimando al vissuto
Dio educa il suo popolo
Partiamo da qualcosa di già dato, da chi ha già riflettuto sapientemente su questo tema,
e cioè dalla Lettera pastorale del Cardinal C.M. Martini del 1987-88: «Dio educa il suo popolo».
Nella sua formulazione questa espressione è molto significativa. L’educatore è Dio, l’educatore
si prende cura di un popolo che sente proprio. Il popolo è chiamato a riconoscere chi è il
proprio educatore, il Dio pastore, il «Signore» a cui appartenere.
Questo processo di riconoscimento è un cammino di fede che ha pure le caratteristiche
tipiche di un itinerario educativo, pedagogico. Più il Signore viene riconosciuto come guida,
come Signore, e più Israele cresce come popolo, cresce la sua identità, cresce in libertà. A
partire da ciò è reperibile un percorso che mostra come il Dio pastore, cantato nel Salmo 23, è
anche un Dio educatore. Condurre e nutrire il proprio gregge, in questo caso, significa
educarlo, accompagnarlo in un vero e proprio cammino formativo. Notiamo una cosa: non si
parla dell’accompagnamento del singolo individuo – cosa che si potrebbe dire di Mosè – ma
del popolo intero, di una comunità itinerante.
Di tutta la Scrittura, prendiamo un breve tratto
Tutta la Scrittura ci parla di un «Dio educatore» se pensiamo quanto e come questo Dio
si sia implicato nella storia degli uomini. Proprio attraverso l’elezione di qualcuno e poi di un
popolo, Dio si prende cura dell’umanità tutta. Se tutta la Scrittura è un rimando alla storia, a
un vissuto storico, narrabile, di cui ne abbiamo in parte la recensione, ma soprattutto
possiamo farne memoria, allora non possiamo negare quanta pedagogia si nasconda dietro lo
svelarsi di Dio, visto che le sue azioni di salvezza sono azioni anche “promotive”, educano gli
uomini a essere persone, educano alla libertà, educano a essere all’altezza della propria
vocazione.
Si tratta di un percorso dentro il quale siamo compresi, ma che non riusciamo mai
completamente comprendere. Per questo può bastarne un frangente, un tratto di strada
sufficientemente significativo. Si tratta di porre l’attenzione a una serie di vicende dentro la
grande vicenda.
Questo ci pone di fronte a un primo punto: percorrendo solo un tratto del Dio pastore
ed educatore nella storia della salvezza, è importante comprenderne i confini, quindi a quali
testi fare riferimento, consapevoli che non possiamo affrontarne altri. Da Es 15,22 a 18,27 è
riconoscibile un climax ascendente che può essere pedagogicamente interpretato, scandito in
6 episodi:
1. Le acque amare diventano dolci;
2. La manna e le quaglie;
3. L’acqua scaturita dalla roccia;
4. La difesa contro gli Amaleciti;
5. L’incontro di Mosè con il suocero Ietro;
6. L’istituzione dei giudici.
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Sono solo alcune pagine. Sono concatenate: la lettura del testo inizia a insaporirsi, a
essere sapienziale. Sempre consapevoli di non essere esaustivi, crediamo quanto questa fonte
di Parola nelle parole sia per noi nutritiva, dissetante, utile per il tema che andiamo ad
affrontare nel decennio dedicato alla dimensione educativa del vangelo.
Un secondo aspetto è importante: i testi che affronteremo sono dentro una storia più
grande, qualcosa li precede, Dio cioè non inizia con queste vicende, e qualcosa li segue, Dio
cioè non conclude con queste vicende. Allora nasce la consapevolezza dell’apertura, del
vedere le cose per dove sono e per quello che possono dare, dell’apprezzamento di quel tratto
di strada proposto per quello che è possibile gustare. È l’idea del cortometraggio, del dipinto o
della foto scattata per evocare un mondo, senza riuscire a prenderlo completamente ma
rimandando il lettore a esso continuamente.
Dalla Scrittura alla Parola
A ciò possiamo aggiungere qualche nota metodologica: una lectio comporta sempre un
traghettamento, dalla Scrittura alla Parola. Non possiamo fermarci al testo, quindi alla
spiegazione di esso, cosa essenziale nel nostro percorso ma non sufficiente per chiamarla
Lectio biblica (faccio fatica ad usare il termine lectio divina. Si ratta di un’espressione troppo
inflazionata, ormai dentro un calderone di modalità di incontro sul testo sacro che non
sempre sono all’altezza della tradizione che porta con sé l’espressione).
Siamo chiamati a rifare il percorso degli antichi e interpretarvi il nostro, meglio ancora
siamo chiamati a compiere un «atto di fede» che in quelle parole ci sia dietro un vissuto,
un’esperienza di fede da cui proveniamo, parole dunque di cui possiamo fidarci, perché
crediamo che siano capaci di illuminare e orientare il nostro stesso vissuto, nel nostro caso il
vissuto di «preti» e di «educatori».
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 3
1. Prima tappa: Es 15,22-27, «farsi educare dalla sete»
Il testo parla di «tre giorni di cammino» dal giorno in cui hanno cantato la vittoria sui
nemici, la liberazione. Tre giorni senz’acqua sono mortali. Nel deserto tre giorni di cammino
comportano la necessità di trovare una fonte d’acqua che non sia quella del luogo della
partenza. Infatti il tempo di percorrenza per tornare alla fonte di partenza non è sufficiente
per restare in vita: non c’è acqua sufficiente.
Tre giorni di cammino, allora, significano una cosa molto importante: non può più
tornare indietro.
Orami la grande vittoria presso il mare dei Giunchi è alle spalle, più ci si riflette e più
sorgono interrogativi. Ne raccogliamo due molto importanti.
Cosa significa provenire da una vittoria gloriosa, dove qualcuno è perito a favore
di un altro?
Cosa significa incontrare la «delusione» dopo la vittoria, una sorta di prima
prova dopo aver conosciuto un momento di libertà, una liberazione?
La morte dei nemici
Per quanto riguarda la prima questione Israele si è misurato più volte con questi tipi di
stonatura, quella cioè che si avverte quando si parla di vittoria ma nello stesso tempo
qualcuno è considerato un nemico e Dio viene descritto come responsabile della sua morte. Il
libro della Sapienza riporta una lettura dell’Esodo in una chiave interessante, proprio quando
tratta dei nemici e in particolare degli egiziani, cerca di connettere la teologia della
retribuzione con la teologia della compassione (Sap 11-12).
In qualche modo si ammette il castigo, come giudizio di Dio nella storia, ma lo si
incapsula in una visione che prevede il recupero di chi è nemico, si prevede un ravvedimento,
si prevede una possibilità. Un commento rabbinico lascia intravedere una visione diversa
proprio sul canto di vittoria che Miriam e Mosè cantano sulle rive del mare di fronte alla
morte degli egiziani: «Quando gli angeli vollero cantare al cospetto di Dio nella notte in cui
Israele attraversò il Mare, il Santo – benedetto egli sia – li prevenne dicendo: “le mie schiere
sono nel dolore e voi volete proferire un canto al mio cospetto?”» (Esodo Rabba XXIII,7).
Secondo un midrash come le donne e Mosè iniziarono a cantare, anche gli angeli in
cielo si accodarono a quell’esultanza, Dio intervenne e impose agli angeli di tacere: non sia
festa nei cieli mentre i miei figli, gli egiziani, sono morti.
La delusione dopo la vittoria
Per quanto riguarda la seconda questione, è facile avvertire un forte contrasto: da poco
è stata cantata la vita, una vita nata dopo la morte – entrare nell’acqua del mar Rosso è come
entrare nella morte – e ora ci si lamenta di come si vive. L’acqua c’è ma è imbevibile. È
necessario un intervento, ma prima troviamo un lamento. Il popolo non sa rapportarsi con il
proprio educatore in modo appropriato, all’altezza, cioè, dell’educatore, quindi con la fede,
quella fede proporzionata alla situazione di disagio. Il popolo è appena nato, paragonabile a
un fanciullo (Os 11,1-11). È scontato che se non ha acqua il problema è di chi lo ha liberato,
non è un problema suo, se è incapace di procurarsela.
Qui notiamo una cosa importante: la liberazione aveva segnato un apice, un punto di
arrivo. Il mare segna un confine, un essere stati condotti oltre un limite umanamente
invalicabile e quindi un non dover più tornare indietro. Quando le cose sono così ci sembrano
definite, chiare, concluse: Dio è grande, Dio è il sovrano, Dio regna, Dio ci ha liberati.
La liberazione dall’Egitto è la perfetta conclusione di una storia meravigliosa: non
poteva andare meglio di così. Il male ha perso, il bene ha vinto. Ma dopo tre giorni non è più
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così. Il momento celebrativo lascia spazio al momento del lamento, esattamente come agli
inizi: ci si lamentava del faraone, ora ci si lamenta di Mosè e di Dio.
Abituati a lamentarsi del potere costituito in Egitto, è faticoso pensare di poter vivere
senza lamentarsi, è strano, è come sentirsi chiamati a vivere senza alibi, con più
responsabilità.
Vivere a tappe: camminare
Questo dinamismo della narrazione, tipico dell’esperienza biblica, apre molte
prospettive sul vissuto, sulle vicende umane, su come noi cresciamo di tappa in tappa, sul
fatto che molti dei momenti vitali della nostra vicenda terrena possono costituire dei veri
momenti «iniziatici», sono cioè importanti perché in essi si cela l’opportunità inedita di
accedere a una tappa successiva della nostra maturazione; considerare i momenti chiave della
nostra esistenza terrena come un arrivo definitivo, come qualcosa di acquisito, come un luogo
da cui non ripartire più, è una malattia dello spirito, nasconde aspetti idolatrici del nostro
procedere, quando cioè le tappe raggiunte, diventano conquista, arrivo, stasi, accontentarsi,
non ripensarsi più, non meravigliarsi più, quindi si “idolatra” il momento in cui si è giunti e
per un po’ di tempo si vive di rendita.
La liberazione e la libertà: vivere un’esperienza e poi comprenderla con nuove esperienze
Come potrà il popolo essere educato a comprendere la differenza tra essere liberati ed
essere liberi?
Un conto è ricevere la liberazione e quindi esultare. Molti popoli hanno alle spalle un
momento di questo tipo, non ultime le vicende che hanno coinvolto il centro dell’Eurasia,
pensiamo alla Polonia, alla repubblica Ceca, etc. a partire dalla caduta del muro di Berlino nel
1989.
Un conto è custodire la libertà: in questo caso subentra qualcosa di sproporzionato. La
sproporzione tra il dono ricevuto e la responsabilità corrispondente. Essa non sembra mai
proporzionatamente adeguata. Pensiamo anche al federalismo: vorremo decentralizzare le
risorse e la gestione congiunta, ma poi non vogliamo rinunciare alla possibilità di lamentarci
di chi lavora nel centro del potere, il lamento denuncia spesso una sorta di via di fuga dalle
nostre responsabilità. Dietro un diritto che si esige vi è la responsabilità corrispondete da
adeguare: se vuoi le risorse le devi saper gestire. Questa cosa qui inizia a farci capire la
difficoltà di procedere con i nostri criteri politici, anche quando nascondono grandi valori di
giustizia. Ma dietro le parole ci sono le persone e le loro capacità.
Allora cosa fare? Dio non perde coraggio, Dio sembra sapere che il popolo non è
all’altezza del dono, Dio conosce che è necessario del tempo. Dio sa che si può educare.
Intervenire, ascoltare, aspettare, ricominciare sono dimensioni essenziali nel processo
educativo. Dio non si spaventa di questa tempistica. Una certa fretta è tipica di noi uomini, non
è divina (ripensiamo a cosa ha detto Papa Francesco all’inizio del suo pontificato: Dio non si
stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono).
Dio permette di vivere le esperienze per quello che sono: è il modo con cui ci stiamo
dentro, è il modo con cui le percepiamo e colleghiamo che fa la differenza. La fede è
intraprendente di sua natura se ci permette questa apertura di adesione a colui che nelle
esperienze ci precede e segue, a colui che ci accompagna e non ci abbandona. Riconoscere
questa fiducia cementante, nutrire una relazione che a sua volta coglie le correlazioni vitali in
percorso apparentemente frammentato, apre gli occhi del cuore, si viene capacitati a vedere
l’invisibile, a vedere come una esperienza successiva può essere decisiva per comprendere la
precedente, non solo si comprende, però, ma si sta vivendo qualcosa di inedito – si è come
dentro, avvolti … - ci si scopre coinvolti in un processo di adesione, di riconoscimento, un atto
di fede, appunto.
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Imparare a fidarsi di un nuovo «padrone»
Il popolo mormora, Mosè invoca. Sono due modalità diverse per relazionarsi a Dio. La
prima è comprensibile: anche Mosè la conosce, lui ha mormorato più volte, anche durante la
sua vocazione è stato recalcitrante (Es 3). Ci vuole molto a fidarsi di qualcuno. Mosè ha vissuto
questa dimensione della relazione con Dio e quindi è nelle condizioni di comprendere la fatica
del popolo: questo popolo è appena nato, è un bimbo ingrato che pretende. Ogni tappa, ogni
lamento, ogni prova è occasione perché il popolo inizi a fare l’esperienza di che tipo di
«padrone» è Dio. Certamente non è come il faraone.
A differenza del libro dei Numeri, dove ricorrono episodi simili, in Es 15,22-18,27 Dio
dopo il lamento non castiga. Possiamo interpretare questa differenza così: ora il popolo non
ha ancora conosciuto la legge – secondo l’accezione paolina nemmeno il peccato, infatti il
primo peccato del popolo, il vitello d’oro, sarà dopo la legge, non prima. Dopo il Sinai, dopo il
dono delle «dieci parole», allora il popolo è responsabilizzato, è chiamato a essere adulto, è
attrezzato, addestrato e formato per custodire la libertà. Solo dopo il Sinai, il dono di essere
adulti, il lamento e, di conseguenza, cercare soluzioni con stratagemmi diversi dalla proposta
divina comporta un castigo, in termini attuali comporta delle conseguenze negative, un farsi
del male.
Il popolo adesso è chiamato solo a sperimentare che nel deserto ha un nuovo Signore,
che a differenza del faraone è un vero educatore.
Indicare un legno
Dio non compie nulla di prodigioso: indica un legno. In un luogo di morte indica un
segno, un legno, un oggetto che proviene dalla vita o che richiama la vita; il legno non spunta
dal nulla, ma ha la sua storia. A quanto pare Mosè, esperto di deserto, soprattutto di quel
deserto, sapeva che quel legno aveva proprietà purificatrici. Almeno possiamo supporre che il
narratore ci stia indicando che sotto il testo si nasconda un’idea di questo tipo, esperienza non
sconosciuta in alcune popolazioni del deserto ancora oggi.
Le acque sono sanate attraverso il legno: significa in fondo che Dio invita a far uso di
ciò che il cosmo dispone per crescere, migliorare la propria esistenza anche con la sapienza.
Dio educa il suo popolo. Il lamento e la tentazione diventano occasione. Una dinamica dentro
la quale il popolo sarà sempre esposto.
Una legge: condizionamento o condizione?
Una volta purificata l’acqua il testo afferma qualcosa di intrigante: «Dio impose una
legge e un diritto». Per sé si dovrebbe attendere il Sinai per questo tipo di intervento. La mano
deuteronomista, però, non fa mancare il proprio apporto nei testi con interventi a sorpresa
che cercano di darci una chiave. Il popolo appena liberato ha davanti a sé un percorso di
crescita nel deserto, la legge del Sinai sarà quella che lo rende adulto, ma ora serve una legge,
un legislatore, uno che faccia da riferimento educativo, che metta i «famosi paletti», che si
prenda a cuore in un modo asimmetrico le sorti di questo popolo: non servono nuovi
condizionamenti, in questo caso saremo ancora in Egitto, ma condizioni. Allora questa legge è
molto semplice e costituisce una sorta di condizione: ogni percorso educativo, in effetti,
funziona se ci sono delle condizioni. Pensiamo all’espressione: «se darai ascolto …». È una
legge che chiede ascolto: ascoltare qui significa semplicemente obbedire. Obbedire è mettersi
nella condizione di fidarsi e fare l’esperienza dell’obbedienza, significa mettersi in una
posizione di inferiorità ma al contempo in una possibilità di fare un passo reale e verificabile
di esperienza pedagogica. Posso fidarmi di quello che mi viene chiesto, obbedire con cuore
significa che senza pianificare ciò che mi aspetta, so che ciò che mi aspetta è per me anche
nella misura in cui sono già disposto ad assumere il nuovo percorso che mi si pone innanzi.
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L’educazione passa attraverso l’obbedienza, la quale è comprensibile nelle relazioni di
fiducia. Ci si mette nelle mani di un nuovo padrone, che non è più il faraone, ma questo non
significa che si smetta di servire, lavorare, darsi da fare. Che bello essere stati liberati. Questo
non chiude una storia, pur a lieto fine, ma permette di scriverne una nostra: come scriverla?
Fidandoci, obbedendo al Dio che ha liberato.
Mosè e Ulisse
Possiamo distinguere due modi di affrontare il deserto:
A. Secondo il mito di Ulisse potremo fare del deserto una palestra per la nostra astuzia,
per la nostra intraprendenza, per dirci quanto siamo capaci di essenzialità, di sobrietà.
Il deserto è un momento di prova per dire che ce la facciamo, che abbiamo una
sapienza in grado di permetterci di stare nel deserto in modo molto pragmatico,
affrontando le prove in modo che superarle significa dire molto della nostra capacità di
superarle. Il deserto ci rende scafati, addestrati, pronti ad affrontare di tutto e forse ad
osare, osare di superare certi confini (cfr. le «colonne d’Ercole»).
B. Secondo la storia di Mosè potremo fare del deserto un luogo e un tempo per la nostra
fiducia, per la nostra fede, per dirci quanto abbiamo bisogno di qualcuno a cui tendere
la mano, di cui ci lamentiamo, ma in fondo di cui ci fidiamo perché ci insegna a vivere,
non ci offre un cammino già pronto, ma lo inventa con noi; percorre con noi una strada
e ci fa crescere nella fiducia «con e oltre» la sapienza. In questo caso le prove sono
superate non per la nostra astuzia ma per la fede; il deserto allora ci rende fiduciosi,
desiderosi di relazione, accampati presso un santuario mobile, quindi non attaccati a
un luogo, in grado di costruire nuove relazioni là dove la persona di cui ci fidiamo ci
porta.
Se il deserto ci offre anche un percorso di sapienza, di gnosi per così dire, un percorso
che ci rende più intraprendenti, questo è da comprendere nell’esperienza di Mosè, che si è
fidato e ha affrontato le prove a partire dalla relazione con Dio, quindi non semplicemente con
se stesso e le sue capacità. Non si tratta di pensare che sia aumentata la sua capacità
interpretativa, come se il deserto lo ha reso un vero analista delle situazioni, capace di
cogliere come Dio agisce sulla storia ma in fondo rimanendo staccato dalla storia di cui sa farsi
interprete. Mosè prima di essere un teologo (parlare di Dio) è un uomo di Dio (parlare con
Dio). Eventuali capacità culturali e interpretative non sono mancate, sono state importanti,
ma sono emerse come dono di Dio, sono a servizio di questa fiducia.
Le acque dolci non bastano
Questa prova «dopo tre giorni» era una tappa, non una meta: significa essere di
passaggio. Infatti si arriva ad Elim. Le dodici sorgenti dicono una sovrabbondanza inaspettata,
una sorgente per tribù; le settanta palme possono avere vari significati. Si parlerà di 70
anziani, che fungeranno da giudici nel cap. 18, ma soprattutto il numero 70 corrisponde al
numero dei popoli.
Qualcosa di questa simbologia la riscontriamo nelle due recensioni evangeliche di Mc
della condivisione dei pani: 12 canestri avanzati là dove i pani sono stati condivisi tra i figli di
Israele e 7 sporte avanzate, la dove i pani sono stati condivisi con i pagani.
Allora dopo la prova ecco di nuovo l’abbondanza. Il problema sarà sempre lo stesso
come nei prossimi episodi: il popolo è in grado di riconoscere l’autore della sovrabbondanza?
Quanto tempo è necessario a Dio per guadagnarsi una certa fiducia?
La prova poteva mettere dei dubbi, invece la sorpresa sembra dare per scontato che
Dio è fedele alle sue promesse. Ma la prova dice molto anche sul futuro, sui giorni prossimi:
non lo si può possedere, ma solo ricevere.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 7
Dt 32,10: «lo educò, ne ebbe cura»
In Dt 32,10, all’interno del cantico di Mosè, il suo epitaffio, troviamo una frase
importante:
«Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari, lo circondò, lo allevò,
lo custodì come la pupilla del suo occhi».
Alla luce delle suggestioni che il Cardinal Martini offre nella sua lettera pastorale
proprio questo breve inciso si potrebbe tradurre così: «lo educò, ne ebbe cura». Dio educa il
suo popolo in modi altamente eversivi ma anche rispettosi. Certo non è molto fedele alle
nostre aspettative – anche se secondo Dt 2,7 (cfr. Dt 8,1-5) si dice che nei 40 anni di deserto al
popolo non è mancato nulla – semmai è fedele alle sue promesse. Proprio questo è ciò che ci
salva, ci salva anche da noi stessi. Le nostre aspettative sono troppo piccole e di breve durata
per prospettarci una vita nel suo nome.
Allora possiamo metterci anche noi in fila con questo popolo dalla dura cervice,
lasciarci educare, come preti ed educatori, lasciare pur libero il nostro lamento di esprimersi
con sincerità per comprendere di che pasta siamo fatti. Ci lamentiamo di molte cose, ma il
lamento denuncia anche qualcosa di noi.
Se abbiamo tutto, se non ci manca nulla (Dt 2,7), possiamo porci una domanda: «cosa
vuoi? Di che ti lamenti?». A quanto pare questa domanda sta a cuore a Dio più di quanto noi
immaginiamo. La dove si nascondono i nostri desideri (sai dire a te stesso «cosa vuoi?»), si
nascondono opportunità e difficoltà, chiusure ma anche aperture. Dio educa il suo popolo a
interpretare le proprie domande, il proprio lamento, ma soprattutto a misurarsi con un futuro
di cui fidarsi, e riconoscere qualcuno di cui fidarsi.
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2. Seconda tappa: Es 16,1-36, «farsi educare dalla fame»
Dopo l’acqua ecco che arriva il cibo solido: la manna e le quaglie. Sono le cose che il
popolo chiede: pane da mangiare e la pentola della carne. La fame è il motivo del lamento. Qui
incontriamo uno stretto legame tra cibo e fede.
Israele si trova a confrontarsi con una nuova questione che andrà oltre il libro
dell’Esodo.
Cosa comporta una libertà se poi manca da mangiare?
Un’oppressione a stomaco pieno, era poi una vera oppressione?
Dunque, è bene esplorare questa fame, che non solo è fame reale, il richiamo dello
stomaco, ma anche quello che comporta la fame a livello esistenziale: la rabbia. Sia perché la
fame concentra su di sé, sia perché la situazione precedente, in Egitto, era migliore; inoltre ci
si sente pure ingannati e in trappola, perché non si vedono vie di uscita. Stare sotto il faraone
con lo stomaco pieno era preferibile che essere liberi a stomaco vuoto. Se leggiamo, infatti,
Nm 11,4-5 noteremo che la nostalgia per le «cipolle d’Egitto» era ben motivata. In Egitto il
pesce era gratis, si poteva godere di un cibo molto variato: cetrioli, cocomeri, porri, aglio, etc.
Ora il cibo è nauseante, è abitudine, è monotonia. In fondo stare sotto padrone, sotto il
faraone, comportava dei compromessi, ma almeno quella era vita, non era vivere nella «paura
di morire», almeno così sembra in questa nuova situazione.
Una lettura «meno trionfalistica» dell’Esodo
La macro-lettura dei testi rispetto alla micro-lettura di singoli episodi, compresa tutta
la composizione letteraria costruita attorno alla Pasqua, offre un quadro diverso di quello che
solitamente conosciamo sulla vicenda d’Egitto. In fondo il faraone era un tiranno, gli egiziani
idolatri, il popolo d’Israele schiavo e Q/qualcuno lo ha liberato, ha fatto giustizia! Questa
visione semplicistica della vicenda può portare a conseguenze disastrose se viene poi
applicata in chiave sociologica. Una macro-lettura, una lettura che considera i testi inseriti con
altri, le vicende alla luce di altre, una lettura che tiene conto che anche il singolo testo, che
narra un singolo episodio – in fondo non è altro che un testo riletto in nuovi contesti – apre
invece alla complessità, ma forse per questo è più aderente alla realtà.
Questa macro-lettura ci permette di vedere le cose nella loro complessità, ci guarisce
dalle semplificazione, dal vedere nero e bianco, dal vedere in ogni circostanza biblica e poi
nella vita «la battaglia tra il bene e il male» in modo chiaro e distinto come in certi film, dal
vedere le cose con la precomprensione che noi abbiamo, eredi di un mondo politico dove non
si riesce ad uscire dalla logica partitocratica. Svincolare un valore o un principio da un gruppo,
cogliere la verità di una cosa nella complessità, sapendo che chi se ne appropria può essere
mosso da interessi estranei al principio stesso, è qualcosa che dovrebbe aiutarci a
comprendere quanto non riusciamo a capire, quando citiamo principi e valori di giustizia ma
poi abbiamo a che fare con persone e soprattutto con noi stessi. Un rabbino, ad esempio, dice
che:
per Dio è stato più facile far uscire gli ebrei dall’Egitto,
che far uscire l’Egitto dal cuore degli ebrei.
Rimane vero ciò che è stato detto in precedenza: un conto è fare l’esperienza della
liberazione, l’evento. Questo è il momento sorgivo, fondamentale. Un conto è misurarsi con la
responsabilità che scaturisce dall’essere liberati. Vivere liberi significa poter esercitare una
signoria non possibile nel regime della tirannia, significa dunque iniziare a comprendere cosa
comporti avere delle responsabilità che prima non si vedevano sotto il regime del tiranno.
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Una lunga meditazione sul rapporto fame e fede
Es 16,1-36 è contestualizzato in una singola tappa. L’episodio ha conosciuto sia
riletture interne, onde per cui non dobbiamo scandalizzarci ma piuttosto incantarci delle
inserzioni e della teologia recente che il capitolo custodisce. Ha conosciuto anche riletture in
altri testi. Pensiamo al libro della Sapienza, in 16,21-22, o alla ricca letteratura giudaica sulla
manna, non ultimo al Nuovo Testamento, quando Gesù nel deserto è tentato e ha fame,
potrebbe trasformare le pietre in pane; oppure al discorso del cap. 6 del quarto vangelo.
Potremmo addirittura dire che una sintesi di questi passaggi, di questo percorso molto
fecondo è pure in una frase del Padrenostro: «donaci il pane quotidiano».
La manna piove dal cielo: è il contrario della grandine; le quaglie ricoprono la terra,
sono il contrario delle locuste (così le acque purificate, sono il contrario del Nilo intriso di
sangue). Notiamo come in questo percorso del deserto si vive un paradosso cosmologico: in
Egitto luogo di sicurezze, luogo dove hai l’acqua tutto l’anno, dove avevi gratis il pesce, le cose
naturali, i vari equilibri erano dati per scontato, erano fonte di sicurezza, ma di fatto possono
essere sconvolti. Il faraone non ha il controllo di questo equilibrio come pensava. L’equilibrio
dipende da un Altro. Il deserto, terra per antonomasia inospitale (cfr. tutto Dt 8!!!), terra dove
l’acqua non c’è, terra dove l’acqua arriva quasi per caso, il cosmo è a disposizione dell’uomo
con un suo equilibrio, un equilibrio che è sempre un dono.
L’episodio offre un’istantanea sulla diretta conseguenza tra richiesta/esaudimento,
come del resto per il precedente episodio dell’acqua amara. La domanda che sottende è molto
sottile: non è la domanda se Dio si prende cura o no del suo popolo. La domanda è se il popolo
si accorge di questo, se è disposto a riconoscere questa appartenenza a partire da quello che
vive, da quello che gli succede. Ora il popolo fa fatica: non si tratta di riconoscere il nuovo
Signore a partire dall’incredibile prodigio del «mare che si apre», ma dall’ordinarietà del
deserto e le sue possibilità di vita. Passare dallo straordinario all’ordinario come luogo tipico
della fede è una questione educativa. Dio sa che si tratta di una fatica per questo non si
lamenta, ma risponde: accompagna, si fa premuroso, indica una soluzione, dona delle parole.
In questo passaggio il rapporto cibo/fede è radicale. Hai fame e dimentichi chi è il
Signore della vita. Hai fame e dimentichi anni di doni, di fedeltà, di promesse, di cammini
spirituali. Hai fame e ti dimentichi degli altri. Hai fame e non hai più fede.
La manna è la risposta di Dio alla fame, per dire che lui non ti fa mancare il pane e per
dire, anche che «non di solo pane vive l’uomo» (Dt 8,1-5). Ma una volta saziato l’uomo saprà
fare questo salto di qualità? Quanto tempo ci vorrà? O forse come canta il profeta Osea nel
libro che porta il suo nome, Dio può solo prospettare e sperare in una conversione, che non
sembra mai arrivare?
Dio dona esattamente ciò che essi chiedono: pane e carne. Ma loro si pongono la
domanda: «cos’è?». Potremo rispondere: «ma come? Non vedi? Scende dal cielo, è un dono di
Dio! Ti sei lamentato e Dio ha risposto prontamente. Non vedi tutto questo? Non cogli il dono
nella vita che stai conducendo? Cosa succede? Perché appena arriva il dono che ti soddisfa
non lo chiami con il suo nome? Dono? Ma lo chiami con una domanda? Man-hu?»
Tesaurizzare la manna
Il problema è nelle risposte possibili alla domanda che si pongono gli israeliti:
«cos’è/man-hu?»? Se essa è qualcosa che posso procurarmi da solo, perché non riesco ad aver
fede se non in un Dio che può farsi vivo solo nello straordinario, allora questo cibo diventerà
nauseante, sarà sempre segno che posso farcela, anche se in modo non così ricco e gratificante
come il cibo consumato in Egitto.
Se è qualcosa da raccogliere per il giorno dopo, per paura di non averne, di rimanere
senza, allora significa che non mi fido della promessa, non mi fido del domani, non mi fido
della parola che dice che domani ci sarà la manna, che dura un giorno.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 10
Se la raccolgo di sabato, significa che non ricevo il giorno di riposo come dono, ma
come limite. E come posso limitarmi se anche di sabato mi metto ansia nel procurarmi cibo?
La manna invece è al suo posto: è lì a narrare che il popolo è in uno stato di
inconsapevole grazia. La manna arriva comunque, sia per chi ne prende un omer, sia per chi la
tesaurizza prendendone per i giorni successivi. La manna arriva per tutti, quindi non fa
distinzioni tra fratelli. Notiamo come la giusta quantità può nascondere anche un fattore di
giustizia e di uguaglianza. Non solo a nessuno deve mancare il pane, ma esso non mancherà se
preso nella giusta misura.
La dimensione fraterna è qualcosa che poi ricompare negli episodi evangelici della
condivisione dei pani, e questo chiede un’igiene nel nostro rapporto con il cibo; la giusta
misura dice che serve prendere quello che serve, non quello che poi avanzeremo. Parlando
con un amico notavamo la differenza tra i buffet a prezzo fisso rispetto ai buffet a peso. Nel
primo caso ti riempi il piatto, un piatto ricco e pesante, e paghi un prezzo fisso. Puoi andare al
buffet quante volte vuoi e una volta sazio, anche troppo sazio, il piatto rimane mezzo pieno, di
assaggi, di gusti, di cibi. Il buffet a peso non è così: ne prendi quello che puoi magiare, o quello
che sai che puoi spendere. Ne prendi per non avanzarne. Il buffet a peso responsabilizza il
modo di accostare al cibo, infatti sai che più ne prendi e più paghi. Il limite aiuta a
comprendere meglio il valore del cibo.
Il dono del sabato
La manna risposa di sabato, infatti secondo il testo di sabato non arriva. Allora posso
prenderne due porzioni il venerdì. Programmare questo modo di rapportarsi al cibo è
altamente educativo. Da una parte mi fido della promessa, mi abituo a non tesaurizzare, mi
abituo al Dio che domani come pastore «ad acque tranquille mi conduce e su pascoli ubertosi
mi fa riposare»; dall’altra imparo a programmare, a mettermi sulla linea delle leggi che la vita
ha.
La regola di prenderne per un giorno è relativa, non è un assoluto. Il sabato può
stabilire un’eccezione alla regola. Significa che le cose si adattano, che ci si proporziona a un
equilibrio che ricevo dall’esistenza, dal contesto. Non posso spremere di energie la terra, gli
animali e me stesso. In Egitto non esisteva il sabato, nel deserto sì. La libertà è anche libertà di
non fare nulla, di prepararsi a questo nulla da fare. Libertà di essere legati alla relazione con
Dio non alle cose che facciamo e che mangiamo. Lavorare di sabato è sbagliato perché dice
l’incapacità di fermarsi, di gustare, e la presunzione di essere onnipotenti, di poter fare senza
Dio, la mancanza di fede.
Educare a nuove abitudini
L’episodio della manna è altamente educativo. Il rapporto con il cibo, con la propria
animalità accostato con il desiderio di crescere e di potere dire che non di solo pane si vive, è
delicato, fecondo, esposto alla contraddizione ma decisivo per crescere.
In un senso eucaristico, potremo dire che questo episodio educa a dire «grazie». La
manna quotidiana, solo quotidiana, mi permette di pensare che domani Dio provvederà, mi
permette di non accontentarmi di un atto di fede compiuto oggi, ma che sono chiamato anche
domani compierlo di nuovo. La manna dura un giorno, il giorno che passa è la nostra manna.
Alla domanda che cos’è? Si può rispondere ogni giorno, si può dire grazie ogni giorno. Una
risposta da costruire giorno per giorno, un pane quotidiano, un grazie quotidiano.
Poter dire a sera un grazie per il giorno compiuto, per le cose adempiute, per aver
potuto dare un senso ulteriore al semplice nutrire il corpo, è un bene inestimabile. Un bene
che non è inaccessibile, ma che diamo troppo per scontato. Infatti molte volte pensiamo che
quello che compiamo nel nome di Dio, la nostra azione pastorale, il nostro fare, è solo per Dio
e per la gente. In realtà possiamo scorgere che quanto facciamo, che la nostra generosità e i
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 11
nostri altruismi, il nostro stesso impegno e servizio, è per noi. Perdere di vista questo ci fa
tanto, tanto male. Allora iniziamo a tesaurizzare, a cercare consolazioni, perdiamo la fede che
domani Dio ci porterà in un nuovo pascolo.
Questo episodio, il deserto in generale, ci educa alla fede dentro l’ordinario. Diciamo
subito che l’episodio straordinario è stato decisivo, il passaggio del mare segna un imprinting
indelebile, di cui si potrà fare memoria, di cui il momento ordinario ha bisogno. Ma Dio educa
il suo popolo a riconoscerlo con un volto nuovo nel cammino del deserto, in una relazione
continuativa, nella solita manna quotidiana, nella solita acqua scoperta quasi per caso. Qui le
cose chiedono sempre tempo, un misurarsi con tutte le aspettative che il momento
straordinario ha immesso nel nostro cuore e vengono puntualmente e pedagogicamente
disattese. Potremo chiarire questa linea educativa una sorta di disciplina del quotidiano,
educarsi al faticoso passaggio dalla pretesa (voglio la vita) al dono (ricevo la vita).
La manna rende solidali
Questo episodio ci abitua alla fraternità: la fame, quella radicale, rende più aggressivi. È
un dato di fatto, semplice e reale. La manna rende solidali. Dentro le giornate che a sera
diventano per noi un dono, gli altri, uomini e donne che incontriamo sul cammino, acquistano
il loro vero volto. La manna è venuta anche per loro, ciascuno constata che non ha avuto
un’esclusiva.
Sap 16,20-21 costituisce un commento alla manna e al suo gusto molo curioso. Il testo
fa memoria di questo cibo, come «pane degli angeli», un cibo che si adattava al gusto e al
desiderio di ciascuno. La manna è vista allora come qualcosa che non depotenzia l’originalità
dentro la fraternità, anzi la permette. Il linguaggio ci sembra quasi ridicolo, eppure questo
inciso del libro della Sapienza nasconde una sapienza. In fondo le giornate, piene o meno degli
impegni che ci sono chiesti e che mettiamo in atto, sono secondo i nostri gusti, o per lo meno
non dobbiamo essere così ingenui da non pensare che in fondo facciamo le cose che vogliamo
fare, certo dentro dei limiti, ma in fondo le giornate di cui ci lamentiamo ce le siamo anche un
po’ volute. Sarebbe poco onesto pensare diversamente, il grado di potere che abbiamo sul
nostro tempo è troppo grande per pensare che ci viene in fondo imposto un modo diverso di
vita, che in fondo siamo schiavi. Se lo siamo, in buona parte dipende da molte nostre scelte. Se
cogliamo in questo il dono della nostra originalità, allora cambia la prospettiva: la manna non
è più monotona, ma si adatta al gusto che desideriamo. La manna è educativa, rispetta cioè la
situazione della persona. Se ci concediamo questo, se siamo disposti a questa rivisitazione
delle scelte che sono opportune e non opportune per un bene più grande dentro il quale noi
non siamo schiacciati ma promossi come persone, allora smetteremo anche molti dei nostri
lamenti, e forse percepiremo che esiste un dolore più autentico (nel senso che non scade nel
vittimismo), quello per cui siamo chiamati a pregare, a lottare e a farcene carico nella nostra
intercessione.
Testi riletti in nuovi contesti
Gesù nel deserto si confronta con tre prove, proprio la prima è sulla fame, sulla
possibilità che le pietre diventino pane. Si tratta di un testo paradigmatico; tutta la vita di
Gesù è sotto il segno della prova/tentazione. Non si è messi alla prova una volta nella vita, ma
ogni giorno. Sono presenti sfumature e differenze nel brano di Mt e di Lc, in entrambi i casi,
però, notiamo una cosa: Gesù prende posizione con la Scrittura e anche sulla Scrittura. Cita
versetti. L’uomo - Gesù risponde - non vive solo di pane, ma della parola che esce dalla bocca
di Dio. Il richiamo è a Dt 8,3, un testo che meriterà la nostra attenzione per la sintesi
pedagogica che sottende. Questa risposta costituisce una sorta di posizione che Gesù prende
anche nei confronti della Scrittura. Il rischio che la teologia diventi ideologia, che si lotti per la
teologia e non si è disposti a morire per la fede, è sottile. Per noi addetti ai lavori, per noi preti
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 12
ed educatori questo rischio è più frequente, perché facciamo più fatica a riconoscerlo e perché
gli argomenti teologici sono parte integrante del nostro vissuto. Se la Scrittura non è a servizio
del rapporto con il Padre, a cosa serve? Come ce ne serviamo? Se l’uso della Scrittura risponde
a nobili istanze culturali, ma non a un servizio di fede, a una mentalità di fede, che disegno
stiamo portando avanti? Chi stiamo servendo? Quali interessi nascondono le nostre iniziative?
Anche le più nobili? Di che cosa siamo segno nei nostri progetti pastorali, culturali,
devozionali?
Le tre tentazioni sono indice di tre appetiti fondamentali: «avere», la prospettiva di uno
stomaco pieno senza la fatica del sudore del lavoro; «potere», la prospettiva di sottomettere i
regni della terra asservendosi al nemico; «valere», la prospettiva di un ruolo spettacolare, per
trovare in esso un riconoscimento identitario. Gesù nel deserto prende una posizione molto
chiara su questo: solo il Signore tuo Dio adorerai! È curioso il significato latino di adorare:
portare alla bocca.
La sua posizione sull’uso della Scrittura è importante: la Scrittura è a servizio
dell’umanità, della salvezza, incomprensibile al di fuori del rapporto tra il Padre e i propri figli.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 13
3. Terza tappa: Es 17,1-7, «farsi educare in modo condizionato»
Il tema della sete e il bisogno di acqua ritorna di nuovo. Questa volta la situazione è più
articolata. Il popolo sembra dare dei segnali di crescita nella fiducia. L’inizio del capitolo,
infatti, parla di un popolo che è disposto a partire «secondo l’ordine del Signore». È un popolo
obbediente, disposto a camminare a tappe. Potremmo leggere questo inciso come un fattore
di crescita: ci si fida della guida.
La nuova prova è mettere alla prova
A Refidim il popolo si ferma e scopre che manca l’acqua. La cosa è grave e quindi il
lamento è comprensibile. Mosè è coinvolto, anzi si sente minacciato. Ancora una volta Dio
esaudisce, non si lamenta.
La differenza che possiamo notare con le situazioni precedenti è che in questo episodio
la fede sembra ormai presente, ma non vuole crescere. Essere messi alla prova diventa un
momento di crescita. Alla luce del segno, l’acqua scaturita dalla roccia davanti a 70 testimoni e
la domanda con cui conclude l’episodio svelano la posizione del popolo dopo aver percorso un
tratto di questo cammino di fede, mettendo a nudo le domande che in ogni epoca Israele si è
posto, soprattutto durante la crisi dell’esilio quando sono venuti a mancare aspetti importanti
per la fede, come il regno e il re, la terra e quindi la promessa, il tempio e il culto: ma allora «il
Signore è in mezzo a noi sì o no?».
La prova della sete in un contesto di «fede appena nata», quindi di gente che inizia a
camminare nella fede, è quella di cominciare a mettere Dio alla prova: «Dio c’è, Dio si è
occupato di noi; vediamo se è vero quello che ci è successo, se il dono ricevuto lo riceviamo di
nuovo». Che fede è questa? Una fede che mette alla prova Dio: anche negli episodi del libro dei
Numeri Dio è messo alla prova dieci volte. Si potrebbe pensare a una progressiva
trasgressione dei dieci comandamenti, per evidenziare i dieci peccati di Israele, ma anche
quella fede che cresce attraverso i propri errori, errori teologici, errori morali, attraverso
conflitti, convinzioni da sradicare, idee di Dio da riformulare, disponibilità all’ascolto da
riattivare.
Cosa significa «mettere alla prova Dio», tanto che l’episodio sarà ricordato nella
coscienza storica e morale giudaica proprio con questi nomi: massa «prova» e meriba, «lite,
contesa»?
Significa mettere Dio in ostaggio, vincolare l’immagine che ho di lui, il suo «essere per
me», sotto una condizione, costretto a essere Dio «solo se» sarà fedele a certe richieste, a certe
condizioni, a certe cose. La coerenza di Dio con quello che mi aspetto da Dio determinerà se è
un Dio vero o falso, quel Dio che merita la mia fede.
La tentazione di Gesù, quella di buttarsi giù per dimostrare che era figlio di Dio, può
essere letta sotto questa linea. Ma questa è fede? O segna un passaggio importante per la
crescita della fede? L’immagine della propria fede chiede di maturare ulteriormente.
La roccia, l’acqua e il bastone
Dio ora dona l’acqua: in questo caso siamo sulla stessa linea del primo episodio. Dio
esaudisce la richiesta. Ma a differenza delle acque imbevibili di Mara, qui è importante far
comparire l’acqua dove non si vede, mostrarsi in modo più chiaro a un popolo che inizia a
camminare.
Ecco che anche questo testo è ricco di teologia, attraverso alcuni dettagli, tra cui una
glossa molto significativa.
Dio è chiamato roccia in molti casi, non ultimo nel cantico di Mosè. Per chi è stato per
giorni nel deserto del Neghev e nel deserto del Sinai, non si meraviglia di questa attribuzione,
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 14
quanto per un esquimese non è strano avere venti modi per dire il termine «neve». La neve
per un esquimese, la roccia per un semita, cioè un pastore del secondo millennio a.C. – ma
anche successivamente – era ciò che lo circondava tutti i giorni.
Dio è roccia e la roccia è chiamata con una glossa: Oreb, cioè il Sinai. Cosa significa?
Non si è ancora giunti al Sinai, ma si dice che si è giunti. In questo caso si aggiunge un ulteriore
significato alla roccia: essa genera, la sua acqua disseta, ma dice la qualità dissetante della
legge. Dalla roccia scaturisce l’acqua, dal Sinai scaturisce la legge, questo diventa assodato. Si
creano le condizioni scritturistiche e simboliche per generare di nuovo una letteratura molto
feconda sul rapporto acqua/Legge, che per il mondo giudaico è anche rapporto acqua/Parola.
Noi pronunciamo con disinvoltura il termine amen. È una parola ebraica. Significa
«aderire» nel senso di considerare solido e sicuro ciò su cui ci si appoggia; ’emuna, infatti
significa «fede/fiducia», ’emet significa «verità». Sono parole che appartengono al medesimo
campo semantico. Alla luce dei significati legati alla roccia che questo brano permette, dire
amen non significa solo considerare Dio la roccia sicura, ma anche nutrimento, «roccia che
disseta», colui che nutre.
Una citazione neotestamentaria è degna di nota, quella di 1Cor 10,1-4:
«1Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube,
tutti attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel
mare, 3tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda
spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella
roccia era il Cristo».
Il testo rilegge l’Esodo in chiave cristologica: la roccia da cui scaturisce l’acqua è il
Cristo. Vi è l’accenno a un aspetto che nel testo di Es 17,1-7 non troviamo e cioè la comparsa
di un «roccia ambulante». Dietro questo inciso, infatti, si nasconde una tradizione giudaica
sulla roccia da cui scaturì l’acqua. Essi se la portarono con sé nel deserto. Se loro non
potevano più andare alla roccia, il Sinai, era la roccia che viaggiava con loro. Il Dio del tempio
per Israele antico era prima di tutto un Dio del tempo, un Dio che accompagna il popolo. La
stanzialità è stata precaria, il tempio è durato quello che è durato, la normalità di questo Dio è
la sua «nomadicità».
Continuando sulla simbologia la letteratura cristiana patristica vedrà un parallelo tra il
gesto di Mosè che usa il bastone contro la roccia e il gesto del centurione che con la lancia
colpisce il costato di Cristo da cui esce sangue ed acqua. Di nuovo Cristo è ripresentato come
la roccia e «dal suo seno escono fiumi d’acqua viva» (cfr. Gv 7).
Il gesto è dunque passibile di varie interpretazioni, il gesto dice e non dice. Ancora una
volta Mosè è coinvolto, deve percuotere la pietra. Questa esperienza è riconoscibile ancora
oggi, nella proprietà speciale di alcune pietre del deserto, porose e spugnose, che trattengono
quella poca acqua e umidità che ogni tanto si forma. Percuotendole si può constatare come
l’acqua si raccolga. Ma il brano conclude con una domanda, come una domanda era in fondo la
conclusione dell’episodio legato alla «manna» («che cos’è?»): quindi anche qui non si conclude
con un’adesione di fede. Mosè verso il quale ci si lamenta, può sempre essere interpretato
come il vero autore del dono, colui che sa come attingere acqua dal deserto in una situazione
di lite. Lui vede la presenza dell’azione Dio nella roccia, ma gli altri? Cosa vedono? Come
rispondono alla domanda che conclude il brano?
Coinvolgere gli anziani è un ordine di Dio, essi servono da testimoni, Mosè non si può
lasciare solo, il cammino di fede inizia a coinvolgere altri nell’esperienza di fede di Mosè.
Pedagogicamente questo è un passo importante: l’esperienza di fede inizia a essere condivisa,
perché anche altre persone ne sono rese corresponsabili. Esse si faranno promotrici, esse
sono punti di riferimento e possono quindi costituire un passaparola efficace per una lettura
delle tappe del deserto nella fede. Questo coinvolgimento rimanda, infatti, all’incontro con il
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 15
sacerdote Ietro, la sua saggezza e quindi il momento in cui Mosè condivide il suo servizio con
altri.
Un ultimo pensiero vale la pena richiamare per meglio approfondire il senso del
miracolo nel mondo antico. Per noi il miracolo è legato al prodigio, spesso in senso molto
pirotecnico, per il mondo antico il miracolo era riuscire a vivere in condizioni di disagio. Nel
mondo antico, dove vi era un regime di precarietà, sopravvivere a certe condizioni era già un
miracolo, comportava una sorta di gratitudine. Ad esempio il deserto è luogo di morte, trovare
acqua e non morire di sete poteva essere considerato un vero miracolo. Qui si gioca la fede: il
Signore mi ha salvato? Il caso? La mia astuzia? Che cosa (mah-nu)?
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 16
4. Quarta tappa: Es 17,8-16, «farsi educare da una guida»
La quarta (gli amaleciti) e la quinta tappa (i madianiti) sono caratterizzata dal fatto che
il popolo incontra qualcuno: il percorso pedagogico del deserto comporta il confronto con
altri popoli, gli amaleciti e i madianiti. Nel primo caso l’incontro è negativo, si tratta di nemici,
nel secondo è invece positivo, Mosè ritorna alle origini, quando presso il territorio di Madina,
lavorava per conto di Ietro.
L’incontro/scontro con gli amaleciti è famoso per l’immagine di Mosè intercessore che
permette la vittoria quando tiene alzate le mani. Entrando nel testo ci si accorge di almeno
due difficoltà. La prima – già affrontata per certi aspetti per quanto riguarda la vittoria sugli
egiziani – riguarda il fatto che si prospetti una vittoria che sancisca lo sterminio del nemico. La
seconda, riguarda il fatto che la vittoria dipenda solo in parte da Dio, in quanto sembra che le
mani di Mosè abbiano un certo potere su Dio e la sua efficacia.
La vittoria sui nemici
Rispetto alla considerazione che la memoria giudaica aveva nei confronti degli egiziani,
quella per gli amaleciti è marcatamente più negativa e vendicativa. È curioso che oggi in
Israele si dica: «ricordati di quello che ti ha fatto Amalék» riferendosi alla Shoah. In effetti Dt
25,17-19 riporta la tradizione di quanto Amalék ha fatto contro Israele e risulta che ci sia
stato un desiderio di sterminio, a partire dalla parte più debole di Israele, dalla retroguardia
del popolo in cammino, coloro che erano sfiniti, le categorie più deboli. Amalék e il suo
desiderio di distruggere Israele divenne emblematico per questo tipo di attacchi che il popolo
ha conosciuto, per cui non meravigliamoci se la reazione è augurare lo sterminio di un nemico
così crudele e sleale.
Ci si augura a conclusione del brano che non ci sia più memoria di Amalék, quando
nello stesso tempo questo sterminio deve essere scritto e ricordato soprattutto da Giosuè in
poi. Non manca una certa ironia in questa «contradizione» in termini: la memoria di una non
memoria.
Leggendo Ger 18,7-8 e Sap 11,21ss ci si rende conto della riflessione giudaica sul
rapporto del Dio che può tutto e vuole che tutto sia buono con ciò che non è buono. Questa
prospettiva, assieme a quello che già abbiamo visto sulla questione della morte egli egiziani, è
importante all’interno di questa macro-struttura: non è in gioco solo la dimensione narrativa,
un inserire una questione dentro l’itinerario pedagogico della storia della salvezza, ma anche
quella teologica.
La macro-struttura teologica è una visione della storia che comprende l’uomo biblico in
tutte le sue dimensioni, anche quelle che ci risultano incompatibili con il vangelo. Non viene
giustificato, viene compreso. Se intendiamo il Primo Testamento come l’antropologia di Dio e
in essa lo sguardo di Dio su un uomo così come si presenta, quindi con l’abbruttimento che si
cela nelle sue richieste vendicative – pensiamo alle censure fatte sui salmi del nostro breviario
– allora ci accorgiamo che il primo a non scandalizzarci di noi ma a considerarci per quello che
potenzialmente e talvolta realmente siamo è proprio Dio.
L’antropologia di Dio non ci offre un trattato su come deve essere l’uomo, ma su come
Dio lo guarda, lo accoglie e lo accompagna. Non so se siamo in grado di reggere lo sguardo su
un uomo nella sua totale possibilità di bene e male; leggendo il Primo Testamento
constatiamo che Dio sa reggere questo sguardo. Solo se sa fino a che punto è disposto l’uomo
ad abbruttirsi, Dio può spingersi a svelargli nel modo pedagogicamente più appropriato a
quale vocazione l’uomo è chiamato. Allora diventa ancor di più eloquente la venuta del figlio,
l’Adamo «prototipo» di Adamo, anche in situazioni disdicevoli e inaccettabili.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 17
Una preghiera che tiene Dio in ostaggio?
Colpisce che il testo inizia tutto all’insegna delle iniziative degli uomini. Abituati al
lamento, tutto d’un tratto Israele e un condottiero di nome Giosuè si presentano in grado di
affrontare una battaglia. Dio compare esplicitamente solo a partire dal v. 14. Forse si inizia a
comprendere che Dio è presente, si inizia a riconoscerlo. Il popolo sta dando segnali di
crescita. La vittoria, però, è nelle mani di Mosè.
Questa posizione orante di Mosè è di primo acchito ambivalente. La vittoria è nella
capacità di Mosè di tenere Dio in ostaggio del suo desiderio di vittoria. Le mani alzate di Mosè
sono il potere che può esercitare su Dio. Il problema non è nuovo. Nella mishna, del II sec. d.C.,
una parte del Talmud che raccoglie le tradizioni giudaiche sull’interpretazione biblica, si dice
che nel gesto di Mosè c’è il cuore di Israele: solo quando Israele pone i suoi occhi verso il cielo
con un cuore timorato, allora può ottenere vittoria. Il messaggio del testo allora si può
riassumere in questo: la vittoria sui nemici non dipende dalla forza di Israele o di Mosè, ma da
Dio. Ora la fede di Israele nel Dio vittorioso ha conseguito la vittoria. Da questo punto di vista
Israele ha fatto dei passi nella fede rispetto alle tappe precedenti.
Si tratta di un’intercessione?
Mosè ponga sul colle: un’altura, un luogo dal quale verificare la battaglia, ma anche
rimandare al suo significato religioso. Mosè ha bisogno di tempo, fino al tramonto. Il suo gesto
orante è connotato, dunque, da uno spazio e da un tempo. Il fatto, poi, che Aronne e Cur
debbano sostenere le sue braccia stanche è indice che ci sia un compito insostituibile di chi ha
un ruolo di mediazione con il divino. Si può aiutare Mosè ma non si può sostituire Mosè. Il
ruolo qui spesso è interpretato con quello di intercessore. È proprio così? Sì per certi aspetti e
no per altri.
Intercedere significa «intromettersi, fare un passo in mezzo». Mosè si interpone tra una
situazione di emergenza del popolo che è minacciato e Dio perché operi a vantaggio del
popolo. Questa posizione intermedia e il gesto orante lo colloca certamente nel ruolo
dell’intercessione. Se però leggiamo l’intercessione di Mosè in Es 32 o ci lasciamo
evangelizzare da alte figure oranti come Abramo, Salomone, Amos, Geremia e lo stesso
Giobbe, notiamo che l’intercessione si verifica là dove è necessario ristabilire una giustizia, là
dove l’intercessore si pone dalla parte di qualcuno che dovrebbe in qualche modo «pagare»
per la sua colpa, per cui si intercede per chi è svantaggiato, ma perché possa ricevere un
perdono, possa avere una dono di giustizia perché infranta evitando che sia a scapito di
qualcuno. Questa dimensione non è presente in questa vicenda in senso proprio, quando
invece è molto frequente nella dinamica dell’intercessione biblica, tanto che la giustizia di
qualcuno è può essere motivo di salvezza per chi è ingiusto, come prospetta Abramo in Gen
18,22ss. o Giobbe nei confronti degli amici.
Allora possiamo riconsiderare il gesto di Mosè, le sue mani alzate, il gesto di chi sa
stare veramente tra cielo e terra, fedele a Dio di fronte agli uomini e fedele agli uomini di
fronte a Dio. Un gesto da considerare nell’alveo degli oranti – più che degli intercessori – che
sanno osare di stare di fronte a Dio per evitare una forma di retribuzione commutativa e
aprire a un forma di eccedenza di compassione.
La nostra intercessione
Si tratta di un compito messo nelle nostre mani di preti – o religiosi – in modo molto
specifico. Nelle tre preghiere di consacrazione agli ordini sacri, infatti, si da per scontato che il
candidato si applichi «all’orazione mentale», essa si definisce così per distinguerla da quella
«vocale». Si vuole distinguere cioè la preghiera recitata con le formule, da quella senza priva
di formule. È a questa seconda che si riferisce l’espressione, che potrebbe avvicinarsi nel
nostro gergo comune a quella che chiamiamo «preghiera personale» (anche «preghiera di
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 18
ascolto»). L’orazione mentale è un dono e al contempo una responsabilità del battezzato. A
questa orazione si diventa chiamati a esercitarne un'altra non sostitutiva: l’implorazione della
misericordia divina per il popolo di Dio attraverso la liturgia delle ore.
Leggendo in sinossi le tre preghiere e le promesse corrispondenti del rito di
ordinazione agli ordini sacri, si nota un climax: al diacono si dona il breviario come impegno,
ma non si aggiunge altro. Al prete si aggiungono parole molto profonde, riferite alla lettera
agli Ebrei, perché sappia «sentire giusta compassione» per il popolo di Dio e implorare la
divina misericordia. Al vescovo si aggiunge a questo che «non si stanchi mai» di pregare per il
popolo a lui affidato. Sono sfumature del medesimo compito. Il compito però è particolare e
rientra nello specifico del ministero: pregare per gli altri, intercedere. Non si tratta di leggere
questo in modo legalistico, farisaico. Giungere a sera avendo la rassicurazione di aver recitato
il breviario. Questa concezione riduttiva dell’intercessione è pericolosa, patetica. Si tratta di
iniziare a farci voce davanti a Dio della voce del popolo di cui siamo pastori. Nelle parole dei
Salmi, nei lamenti e nelle esultanze, nella liturgia delle ore con cui acclimatarci lungo gli anni,
diventiamo voce dell’umanità, non voce nostra, ma voce di chi soffre ed esulta, di chi è
vendicativo e di chi perdona, di chi è in ricerca e di chi ha fede.
I salmi erano anche quelli del popolo ebraico, sono stati le preghiere di Gesù. I salmi
sono ora la nostra orazione. Il contatto vivo e implicativo con la gente, le questioni assillanti
da cui non riescono ad uscire, i momenti chiave della vita dove si cresce, si conosce la gioia,
costituisce un punto di riferimento ricco e imprescindibile per essere intercessori. Allora ci
accorgeremo che molte parole di un salmo sono le parole di chi ascoltiamo e noi non facciamo
altro che cercare una forma di legame con il cielo, non possiamo far altro che essere servi di
questo rapporto tra cielo e terra a cui ogni uomo è destinato.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 19
5. Quinta tappa: Es 18,1-12, «farsi educare da un incontro»
Di nuovo il popolo incontra qualcuno nel suo cammino nel deserto e questa quinta
tappa è segnata da un’atmosfera di gioia. Dopo tanto lamento ecco che troviamo nella Bibbia
qualcosa di non così frequente: l’espressione di un sentimento, «Ietro si rallegrò di tutto il
bene che il Signore aveva fatto a Israele» (18,9).
Dio assente?
Leggendo questo episodio e confrontandolo con i precedenti notiamo come Dio non
interviene. Al contrario: i protagonisti riconoscono l’intervento di Dio. Il percorso precedente
ha fatto maturare la fede, la fede è stata condivisa (gli anziani: testimoni dell’episodio
dell’acqua), ora è narrabile e genera a fede in Ietro.
Il Dio che doveva intervenire a tutti i costi a ogni lamento, a ogni richiesta, ora rimane
dietro le quinte. Mosè a nome del popolo si ritrova a narrare le gesta di Dio: non narra solo la
liberazione dall’Egitto, un singolo episodio di sapore trionfalistico, ma anche come Dio ha
agito con cura pedagogica e paziente durante il cammino del deserto, quindi anche nei
momenti della prova più ordinaria.
Dio è presente non più in modo interventista, semmai sulla bocca dei protagonisti,
come loro atto di fede, nella condivisione dei loro racconti, nel riconoscimento di come ha
agito.
Dio è presente perché Mosè è capace di guardare all’indietro, di riconoscerlo in ciò che
è successo e – a dispetto di un ruolo tutt’altro che minoritario – riconosce il vero agente degli
avvenimenti.
La reazione di Ietro, sacerdote di Madian
L’incontro con Ietro comporta una sorta di ritorno alle origini. Non quelle in Egitto, ma
quelle presso Madian, un santuario, visto che Mosè è stato 40 anni (questo secondo il midrash
di Atti 7) presso il sacerdote. Le origini sono: aver trovato moglie, aver avuto dei figli, aver
respirato un’aria di tipo religioso, il timor di Dio, aver condotto un gregge, sentirsi straniero,
aver imparato un lavoro importante ma umile, essersi accasato, aver trovato un equilibrio,
aver preso confidenza con quel deserto, aver meditato nel silenzio del suo girovagare
quotidiano con il gregge di Ietro, etc.
Le origini sono una famiglia che poi per una chiamata speciale è stata lasciata. Tornare
alle origini significa che Ietro ricorda a Mosè dove è stato e cosa ha comportato quel momento
della sua vita: una famiglia. L’incontro con Ietro diventa anche un ricongiungimento
famigliare, il ritorno alle origini è una sorta di guarigione, o di resa dei conti con qualcosa che
era rimasta sospesa. Dove era finita la tua famiglia Mosè? E i tuoi figli?
Ietro è stato una sorta di «padre spirituale» per Mosè e ora riporta Mosè a qualcosa di
umano, lo ricongiunge. Ciò che Dio aveva unito non va diviso.
Stare presso un santuario all’ombra di una guida è un «topos letterario». Samuele era
presso Eli. Mosè era presso Ietro. Stare presso un santuario è stare presso qualcuno e vivere
in quelle condizioni per cui Dio possa intervenire.
Mosè ha avuto questa opportunità e questa si riversa nei confronti del sacerdote di
Madian in positivo. Aver avuto sette figlie aveva significato un’interruzione di ruolo,
l’impossibilità di continuare il suo compito. Il nuovo arrivato non solo lo eredita ma lo
trasforma in modo eccedente.
È molto emblematico questo riconoscimento: un sacerdote, carico della sua spiritualità
e della sua esperienza teologica, che riconosce il Dio di Mosè.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 20
Il mondo giudaico legge questo come il primo proselito della storia. Noi possiamo
aggiungere una cosa. Quale grande soddisfazione per un maestro essere edotto dal proprio
discepolo! Dovrebbe avanzare così la storia. Una gerontocrazia che non permette al proprio
discepolato di superarsi, di andare oltre è destinata a far retrocedere la società. Un vero
maestro sa di essere un traghettatore, non un guro. Si sentirà veramente realizzato quando si
vedrà superato.
Ietro è esempio di questo passaggio da un’epoca a un'altra, da una religiosità a un'altra,
dall’aver accudito qualcuno che ora lo supera.
Nei vv. successivi non mancherà di dare consigli a Mosè. Con questo, Mosè che si
lascerà consigliare, non smette di essere leader, mediatore, scelto da Dio per un compito
particolare.
Un fede narrata: la fede nasce dall’ascolto
Ietro fa una po’ da specchio a Mosè e alle parole di Mosè. Infatti si rallegra del bene. Si
rallegra del racconto, si rallegra e riconosce («ora so») il Dio della liberazione, il Dio pastore
ed educatore. Mosè forse aveva bisogno anche di questo. La fede si nutre anche di questo, di
vedersi allo specchio. Vedere qualcuno che possa offrire un rimando (feedback) rispetto a ciò
che credi e come lo credi.
Ietro gioisce, si rallegra del bene operato da Dio. Ietro riconosce Dio, non elogia Mosè.
L’atto della fede di Ietro è scaturito ex auditu. L’ascolto della narrazione della fede,
l’entusiasmo di Mosè, l’averne prima sentito parlare e poi sentire il testimone diretto, fa
scattare in Ietro la fede. Episodi simili ne riscontriamo nei racconti post-pasquali.
Ietro offre un banchetto celebrativo: un olocausto tutto per Dio e poi un sacrificio di
comunione. La fede va celebrata, la condivisione diventa festa.
Il ricongiungimento famigliare
Mosè si trova con la sua famiglia. Questo è importante. Ritornare alle origini significa
ristabilire una giustizia, far tornare i conti di qualcosa in sospeso. Alle origini, infatti, ci sono le
domande: perché la tensione tra Adamo ed Eva, tensioni uomo/donna? Perché un fratricidio?
Le origini portano con sé le domande di senso sulla vita, sulle relazioni, sul futuro,
sull’universo.
Non si può separare ciò che Dio ha unito. Allora per la famiglia di Mosè viene ristabilita
una giustizia. Mosè si ritrova con i suoi congiunti.
Le storie post-diluviane sono un percorso diverso da quello che all’inizio sembrava
inevitabile: se Caino e Abele finiscono con un fratricidio, la storia tra Giacobbe ed Esaù
conclude con un abbraccio. La storia successiva allora è gravida di tensioni, il male non si può
togliere, ma accanto al male Dio ristabilisce la giustizia, apre strade di riconciliazione e
ricongiungimento.
All’inizio – prima del peccato – le cose erano ideali, non erano necessari percorsi,
quindi non era necessaria la pedagogia: «Adamo era nato pronto».
Ora, invece, le cose non sono così. Si nasce molte volte e si cammina a tappe. Ogni tappa
può diventare un momento iniziatico, un punto di non ritorno, un momento pedagogico anche
per la fede, perché cresca con noi, perché si sveli colui che cammina con noi.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 21
6. Sesta tappa: farsi educare dal «consiglio di Ietro»
Dopo l’incontro famigliare, Mosè è presentato con il ruolo di giudice, consultato per il
suo ruolo di mediatore con Dio. Dal testo ricaviamo un dato interessante: il popolo frequenta
Mosè accreditato con questo ruolo come una cosa normale. Non solo non compare la
mormorazione, ma dal testo risulta scontato che si tratti di un compito che Mosè esercita da
tempo, come una cosa normale. Il testo sembra dare risposta all’episodio di Es 2,11-16,
quando Mosè tentò il suo primo approccio di salvatore perso suoi fratelli, scoprendo di non
essere un giudice così desiderato «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di
potermi uccidere, come hai ucciso l’Egiziano?» (Es 2,14).
Ietro è sorpreso del carico di lavoro di Mosé, che lavora dal mattino al tramonto.
Mentre presso la battaglia contro gli amaleciti il ruolo dell’orante era insostituibile, qui le cose
possono essere viste in modo diverso. Il ruolo di Mosè può essere riconsiderato in un modo
più consono agli uomini e a Dio stesso. Ietro si fa forte e offre il suo consiglio, lo fa con estrema
sapienza. «si fa forte», cioè rischia, perché dare consigli a un mediatore, a un uomo di Dio, un
uomo il cui consiglio funziona, la cui mediazione è da tutti riconosciuta, è difficilissimo. Il
consiglio di Ietro si potrebbe sintetizzare in una parola: delegare. Leggendo tra le righe, però,
questa delega è fatta con sapienza spirituale. Si tratta, infatti, di un momento in cui il popolo
vive una forma di comunione, ha fatto dei passi importanti, il popolo sembra pronto alla
corresponsabilità.
Innanzitutto c’è qualcosa di irrinunciabile a cui Mosè non può sottrarsi, come per la
battaglia contro gli amaleciti: «Tu sta’ davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni
a Dio. A loro spiegherai i decreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono
camminare e le opere che devono compiere» (Es 18,19-20). La mediazione tra cielo e terra è
un compito insostituibile, la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, la custodia del dono della
profezia, la capacità di mediare la parola al popolo sono doni insostituibili, non sono da
delegare. È possibile percepire qui la mano della generazione post-esilica che meglio precisa il
ruolo della comunità sacerdotale legata al tempio e del sommo sacerdote.
Poi sono necessarie delle figure di mediazioni per l’ascolto delle persone per meglio
organizzare l’esercizio del giudizio, quindi del discernimento, del dirimere questioni. Ne va
dell’alleggerire il peso, ne va del bene da fare al popolo, perché sia un bene possibile e
praticabile, un bene più effusivo.
La saggezza di Ietro sta nel fatto di scegliersi le persone giuste, a quanto pare non
semplici esecutori, ma persone di esperienza. Un leader a cui sta a cuore la comunità e non la
se stesso, la propria immagine, non si sceglie persone servili, pronte solo a dare ragione, ma
persone rette e in grado di essere critiche per un bene più grande, per il bene stesso della
guida e della comunità.
Ietro conclude in modo molto sapiente, da vero padre spirituale: «Se tu fai questa cosa
e Dio te lo ordina, potrai resistere e anche tutto questo popolo arriverà in pace alla meta» (Es
18,23). La questione non è solo di convenienza pratica, di rendere il lavoro di Mosè più snello
e funzionale, la questione della delega è da cogliere nel piano di Dio. Mosè allora è nelle
condizioni di vedere il consiglio di Ietro non come una parola buona e saggia, di chi lo conosce,
ma è stato abilitato dall’esperienza precedente a vedere l’invisibile. Nella parola di Ietro Mosè
è chiamato a fare un discernimento: se si tratta di ascoltare la parola di Dio e nella parola di
Dio vi è un piano, portare il popolo alla meta.
«Mosè diede ascolto alla proposta del suocero e fece quanto gli aveva suggerito» (Es
18,24). Questa frase è tanto potente quanto pericolosa: la si dice sempre nei confronti di
quanto ha detto Dio! Mosè ascolta cioè obbedisce a Ietro come si obbedirebbe a Dio stesso.
Ietro è diventato un primo proselito, e subito la sua parola saggia merita ascolto e anche
obbedienza, come la meriterebbe Dio. Come mai Mosè è così saggio e intelligente da ascoltare
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 22
e obbedire alle parole di qualcuno che gli offre un consiglio sull’organizzazione del popolo?
Perché Mosè è intelligente? perché Mosè ha fede? Certamente Ietro è uno che ha sempre
amato Mosè e può permettersi di dargli un consiglio, ma perché Mosè accetta?
La guide che hanno fede possono essere accompagnate dai consigli e dalle critiche dei
loro collaboratori stretti che vogliono bene alle guide, fatte con stima e rispetto, ma queste
saranno ascoltate se le guide hanno fede e se sono sufficientemente intelligenti.
Prima di tutto se hanno fede: credono che nelle parole dei collaboratori Dio sta
accompagnando il proprio popolo, che in gioco c’è il bene di tutti, che Dio non parla in modo
magico o automatico solo nel loro cuore, ma proprio attraverso un discernimento
comunitario, quindi Dio parla attraverso anche i collaboratori.
In secondo luogo se sono intelligenti, di un’intelligenza spirituale: le guide capiscono
bene –sono cioè consapevoli – come i collaboratori vedono ciò che le guide non vedranno mai,
i collaboratori sanno cose che le guide non sentiranno mai in modo diretto. Le guide hanno
una sufficiente esperienza per sapere che il modo rispettoso con cui arrivano le critiche o i
consigli, è già mediato e ammorbidito, per cui non si deve prendere alla leggera
un’indicazione.
Alla partenza vi era una tappa con 12 sorgenti e 70 palme, un numero simbolico per
indicare la futura organizzazione del popolo, le dodici tribù, l’organizzazione del sinedrio. Non
sono i numeri a fare da legge, ma il criterio. L’ombra e le sorgenti davano vita al popolo.
L’organizzazione e la comunità di discernimento organizzano la vita del popolo in un modo. La
futura comunità dei dodici discepoli sarà un altro esempio di come Gesù stesso accompagna il
popolo, quando in contesti di predicazioni organizzerà la condivisione dei pani proprio
attraverso gli apostoli.
Dio educa il suo popolo
Il popolo è partito nella sete e nella fame e ora è giunto ai piedi del Sinai organizzato e
in grado di procurarsi acqua e cibo. Sono elementi essenziali, ma sono gli elementi che fanno
di un gruppo umano, un popolo adulto, pronto per l’alleanza, pronto per un dono successivo, il
dono della legge.
La legge non arriva subito dopo il passaggio del Mare, la liberazione è una cosa, la
libertà è un cammino di responsabilizzazione. Il popolo ora è più responsabile: aver
camminato con il proprio Dio pastore ed educatore, aver attraversato il deserto comporta la
crescita, il progressivo riconoscimento del liberatore. Un educatore onesto, Dio, onesto perché
prima di proporre le sue dieci parole di libertà, il Decalogo, preferisce farsi conoscere per
quello che è. A differenza del faraone, permette agli Israeliti di diventare grandi:
imparare ad aver fede, fidarsi di lui, superando la paura del tiranno;
ascolta il loro grido di lamento e viene loro incontro, il faraone invece affronta le
mormorazioni contrastando;
insegna a procurarsi il cibo da soli, senza approfittare del cibo ottenuto
gratuitamente;
insegna a difendersi dai nemici, senza avere un protettore e i suoi compromessi;
insegna a organizzarsi,senza affidare ad altri la responsabilità della gestione del
bene comune.
Il cantico di Mosè nella nuova traduzione recita così a un certo punto, in Dt 32,10:
Egli lo trovò in una terra deserta,
in una landa di ululati solitari.
Lo circondò, lo allevò,
lo custodì come la pupilla del suo occhio.
Farsi educare dal Dio pastore – pag. 23
In luogo di «lo circondò, lo allevò», nella traduzione CEI precedente si leggeva: «lo
educò ne ebbe cura». Al di là della resa, ora questi versetti, alla luce di questo cortometraggio
biblico, dovrebbero suonare in un modo molto diverso, sono la sintesi di un modo di fare di
Dio particolare, un modo di porsi nel confronto di un popolo ma anche di ciascuno.
Il fatto di cogliere il Dio educatore che si prende cura di un popolo offre uno sguardo ad
un processo educativo solidale e condiviso. È come se in questo cortometraggio si intuisca
quanto il percorso pedagogico sia di sua natura comunitario per quanto lo si debba declinare
in modo individuale: o si cresce insieme o non si cresce.