I intervento Ulysses (II) De Paolis Pierfrancesco

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I intervento Ulysses (II) De Paolis Pierfrancesco
 I gusci vuoti di Ulysses II Dovendo affrontare lo studio del secondo libro dell’Ulisse appare necessario soffermarsi sul tema della storia, che stando allo Schema Linati ne è la colonna portante. Il tema in questione è toccato sia dai pensieri del protagonista Stephen, sia dalla stessa narrazione, che drammaturgicamente svela le considerazioni dello stesso Joyce. In entrambi i casi l’idea che ne deriva è prettamente pessimista e nichilista: Joyce e il suo alterego Stephen ci forniscono al riguardo delle informazioni criptiche, connaturate in alcuni simboli, la cui interpretazione è determinante per lettura del secondo libro: «La mano di Stephen, di nuovo libera, tornò ai vuoti gusci di conchiglia. Simboli anche di bellezza e di potenza. Un rigonfio nella tasca: simboli insozzati di avidità e infelicità»1. La contrapposizione epifanica tra le conchiglie e le monete esprime, in questo caso, la contrapposizione tra il passato e il presente. Le conchiglie infatti non sono solo elemento d’arredo dello studio di Mr Deasy, ma in accordo con la poetica di Joyce si caricano di un nuovo significato. Di questo sovrassenso ci informa anche il regista Sergej M. Ejzenstein: « […] ogni espressione, ogni parola in Joyce lavora come un’intera colonna di piani, significati, strati di associazioni: a partire dai più semplici strumenti di combinazioni sonore fisiologiche, attraverso due o tre strati di immagini regolari, fino a raggiungere un piano di lettura sovrastrutturale che mette in gioco reminescenze, associazioni, echi di significati e di sentimenti»2. In accordo con questo ragionamento questi “gusci vuoti” sono sia il simbolo di forza e di resistenza che simbolo di bellezza (potremmo quasi dire che essi incarnino l’ideale classico di perfezione). Ma queste virtù sono esaltate dal fatto che esse entrano in funzione per difendere un essere vivente. Scomparso questo a causa dell’azione erosiva e distruttrice del tempo («il tempo scosso rimbalza, scossa su scossa»3, «Tessi, tessitore del vento»4) tali apparati protettivi hanno perso il loro valore fisiologico e spirituale diventando un “morto tesoro”. Il piano di un passato di valore viene dunque a intersecarsi con un presente esornativo puramente materiale e voluttuosamente corrotto. Non a caso queste conchiglie sono conservate nello studio di Mr Deasy, il quale convoca Stephen proprio per retribuirlo del suo lavoro e che esprime a più riprese l’importanza del denaro: «Perché lei non risparmia, disse Mr Deasy puntando un dito. Lei non sa ancora cos’è il denaro. Il denaro è potere»5. Proprio Mr Deasy, inoltre, può esserci utile per chiarire ancora più profondamente la visione Joyciana sul presente. I suoi connotati sono infatti molto negativi, ma sono anche esemplari. Oltre ad essere un 1
J.Joyce Ulisse; Mondadori, Milano, 2009, cit., pag 31 G. Di Giacomo; Estetica e letteratura, Laterza, cit., pag 127 3
J. Joyce, Ulisse; cit., pag 33 4
Ivi. p. 26 5
J. Joyce, Ulisse; cit., p. 31 2
[Digitare il testo] uomo attaccato estremamente al denaro (un capitalista vero e proprio potremmo dire) e un antisemita accanito, Mr Deasy è un uomo che ha molte conoscenze importanti e sembra essere anche parecchio influente. «Ho scritto ier sera all’on. Field, Sto cercando di trovare appoggi al ministero. Adesso voglio provare la pubblicità»6. Egli sembra avere parecchie pretese e molte convinzioni per questo è convinto che la lettera che gli farà pubblicare Stephen sarà sicuramente accolta dall’opinione pubblica. Non a caso lo scrittore ci tiene a precisare che Mr Deasy viene dall’Uster, regione situata nell’Irlanda del Nord, in cui il Partito Unionista si sta facendo, ai tempi di Joyce sempre più forte. Al riguardo Mr Deasy si scaglia contro Daniel O’Connell: «Io ho veduto tre generazione dal tempo di O’Connell. Mi ricordo della carestia del ’46. Lo sai che le logge orangiste si agitavano per la revoca dell’unione venti anni prima che lo facesse O’Connell o prima che i prelati della sua religione lo denunciassero come demagogo?»7 O’Connell conosciuto com “The Liberator” aveva combattuto per l’abolizione dell’ Union Act che stipulava l’unione tra Irlanda e Regno Britannico. Inoltre egli aveva anche lottato per le descriminazioni fatte dagli anglicani ai cattolici. La questione quindi è sia politica che religiosa: ai quei tempi il Regno Unito corrispondeva al protestantesimo che cervava di spegnere i focolari cattolici in Irlanda. Non a caso qui il discorso di Mr Deasy cita le logge orangiste, che hanno avuto e hanno ancora, un’influenza non indifferente nella politica irlandese, soprattutto dal punto di vista della diatriba religiosa. La posizione del preside della scuola è dunque chiara e ben delineata: «Siamo tutti iralandesi. Tutti figli di re»8. A motivare quest’affermazione e la flessione di Mr Deasy per l’Inghilterra è ancora l’arredo del suo studio: «Mr Deasy fissò severamente per qualche istante sopra il caminetto la ben costruita sagoma di un uomo in gonnellino scozzese: Alberto Edoardo, principe di Galles»9. L’attaggiamento venerativo chiaritoci dall’avverbio “severamente” e la posizione sollevata, «sopra il caminetto», danno il sentore che il quadro del Re Edoado VII, sia assunto a santino, a oggetto di contemplazione emotiva e ideologica. Il modo di fare di Mr Deasy qui è molto simile a quello di un crociato prima di una battaglia, e in quel perdiodo di battaglie ideologiche, giocate sui tavoli della politica ce ne erano molte. Ed erano sicuramente degli scontri molto accesi, che incrementavano l’intolleranza e il settarismo. Al riguardo Mr Deasy tende a rimarcare il suo orientamento attuando una demarcazione molto forte: «Voi feniani vi dimenticate di certe cose»10. L’uso del pronome di seconda persona plurale tende a rimarcare una profonda presa di posizione, che in questo caso è contro i simpatizzanti del Sinn Fein, movimento autonomista molto seguito in quegli anni. 6
Ivi. p. 34 Ivi. p.32 8
Ibid. 9
Ibid. 10
Ibid. 7
[Digitare il testo] Il quadro che ne ermerge è quello di un presente tormentato da numerose lotte intestine, che hanno come minimo comune denominatore l’intolleranza e la paralisi. Tutto ciò blocca Dublino e l’Irlanda facendo scaturire in Joyce uno stato di profonda insoddisfazione, che culminerà con l’esilio volontario. D’altronde se il presente è così il futuro non sembra avere spiragli di speranza. Gli alunni della classe di Stephen, la nuova generazione, sembrano più vogliosi di giocare a hockey che di studiare. Essi, infatti sembrano conoscere la storia in maniera sommaria e lacunosa: «-­‐Sì, professore. E disse: Un’altra vittoria come questa e siamo spacciati»11. L’interrogato Cochrane, riguardo alla sconfitta di Pirro sembra ricordare unicamente la sua celebre frase e ciò fa scaturire un profondo senso di sconforto: «Quella frase il mondo se l’era ricordata. Ottusa distensione della mente»12. Il pensiero di Stephen è diretto e concreto. La faccia di Cochrane è infatti poco prima definta “vuota”. La memoria, importante attributo, che ha sempre ricevuto antiche nobilitazioni, da Cicerone a Giordano Bruno, è una facoltà che non sembra appartenergli: «La faccia vuota del ragazzo interrogò la finestra vuota. Favoleggiata dalle figlie della memoria. E tuttavia in qualche modo ci fu anche se non come la memoria l’ha favoleggiata»13. L’importanza della memoria è centrale in Joyce. Da un lato essa è collegata alla passione che lo scrittore aveva per Giordano Bruno e dall’altro è anche legata alla sua stessa poetica. Al riguardo, nel febbraio del 1902 Joyce legge all’University College di Dublino un saggio sul poeta maledetto James Clarence Mangan, ma qui il parlare del poeta è un pretesto per parlare di poesia e di poetica14. Nel saggio infatti, Joyce esprime il collegamento necessario che ci deve essere tra l’artista, la memoria e i fruitori: il poeta, immortalato dai ricordi, deve diventare una presenza importante presso di noi. Se ne deduce che il passato in generale diventa un prezioso strumento conoscitivo, un monito esemplare di cui non possiamo fare a meno. Questa concezione positiva allarga, poi, su una visione possibilistica della storia: «Se Pirro non fosse caduto ad Argo per mano di una vecchiaccia o Giulio Cesare non fosse stato ucciso a coltellate. Cose che non si possono abolire col pensiero. Il tempo le ha segnate col suo marchio, e in ceppi dimorano lungo le infinite possibilità che hanno estromesso. Ma possono essere state possibili dato che furono mai? O fu possibile solo ciò che avvenne?»15 11
Ivi, p.25 Ibid. 13
Ibid. 14
Cfr. F.Ruggeri, James Joyce, Laterza, 1990. 12
15
J.Joyce, Ulisse; p. 26 [Digitare il testo] In questo frammento, le due interrogative dirette pietrificano il lettore, congelandolo in un’epifanica contemplazione di una verità forse sempre sfiorata ma vai veramente capita. Questa visione, smarrita tra le molteplici sfumatute possibilistiche, rende la verità, quella con la “v” maiuscola difficilmente afferrabile. Giordano Bruno, al riguardo, avrebbe incaricato il filosofo per una tale ricerca, ma Joyce preferisce rimarcare lo smarrimento esemplificandolo nelle espressioni confuse del suoi studenti16, nel contenuto delle loro cartelle (che costudiscono cartocci di fichisecchi, invece che tomi enciclopedici) e nelle loro conoscenze sommarie. Joyce ci tiene a precisare che «la storia era un racconto come tanti altri sentiti troppo spesso»,17 e questo vale per la maggiorparte delle persone, che voltando le spalle al passato, ai gusci di conchiglia, hanno reso il presente becero, senza lasciare speranze per il futuro. Se questo sarebbe anche il nostro credo certo dovremmo convenire con Stephen e affermare con lui che «la storia è un incubo da cui cerco di destarmi», ma la letteratura e le scienze umane ci offrono altre vie d’uscita» Al riguardo nelle ultime pagine del racconto avviene questo scambio tra Mr Deasy e Stephen: «Le vie del Creatore sono le nostre vie, disse Mr Deasy. Tutta la storia si muove verso un’unica grande meta, la manifestazione di Dio. Stephen accennò col pollice alla finestra dicendo:-­‐ Quello è Dio […] un urlo per la strada»18. Da questi frammenti si può intuire che di certo Joyce, circondato da una realtà così triste, non potesse avere speranze in Dio e in una Provvidenza. Ma come dicevo prima, pensarla come Joyce non è l’unica opzione: «Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utilii per una vita migliore»19. Queste sono le battute finali e il “sugo” che sta dietro a I promessi sposi. Alessandro Manzoni componendo con forza il primo romanzo della nostra tradizione, ci dà nella Provvidenza e nella fede in Dio lo strumento interpretativo per meglio leggere le peripezie dei promessi: ma tale lente di ingrandimento può anche ampliare il proprio campo di illuminazione. Non si può infatti, non considerare l’importanza che la storia ha per Manzoni: essa è uno dei punti cardini della sua poetica. 16
L’unico alunno che sembra diversificarsi è Comyn che, spinto da una smodata voglia di intervenire nella lezione, vuole rispondere al posto dei suoi compagni impreparati. Ciò però può significare ben poco: se da una parte Comyn potrebbe solamente incarnare lo stereotipo del “secchione”, dall’altra è anche vero che ne Stephen ne Joyce gli danno mai parola. Questo potrebbe significare un atteggiamento di nichilismo volonatario da parte dei due, in cui anche se ci potrebbe essere speranza si fa finta di niente. 17
J.Joyce, Ulisse; p.26. 18
Ivi, p 35. 19
A. Manzoni, I promessi sposi; Garzanti, Milano, 2006, cit., p. 540. [Digitare il testo] Anch’egli, sconvolto dal suo presente, violentato dalle lotte risorgimentali, ha sempre considerato l’indagine storica come un appiglio per meglio comprendere e superare la situazione contemporanea. Ma a questo va a sicuramente ad aggiungersi, componendo una miscellanea compatta e ottimista, il credo in cui tutto è manifestazione della volontà divina. Questa sicurezza non c’è in Joyce, c’è solo la possibilità di un’indipendenza dell’eroe che si lascia vivere e sopravvivere nell’interiorità e tutto ciò perché l’assenza di un piano divino rende la vita senza un senso preciso: «Quello che avvicina il romanzo all’epica è che entrambi hanno come oggetto la vita. Solo che, mentre per l’epica la vita è già dotata di senso, per il romanzo la vita ne è priva».20 Nell’epica, a leggere le parole di Lukàcs, il piano delle divinità è preciso e inaccerchiabile; in Manzoni il Dio cattolico, agisce sempre lasciando però spazio al libero arbitrio; in Joyce la manifestazione di Dio è solo “un urlo fuori dalla finestra” ed è probabilmente per questo che: «Il romanzo del Novecento può essere definito un antiromanzo dal momento che il lettore non entra in una storia da un’estremità per uscire dall’altra, ma penetra in un universo nel quale si può soltanto errare»21. Ed è proprio questo che Leopold Bloom: erra e viaggia come ha fatto Ulisse, ma senza la consapevolezza che il suo ritorno sarà il “ritorno della vita”. 20
G. Di Giacomo, Estetica e letteratura; p. 27. Ivi. p. 121. 21
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