Alias - Il Manifesto

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Alias - Il Manifesto
ALIAS DOMENICA
11 OTTOBRE 2015
(3)
«I NOMADI», INCHIESTE SCRITTE NEL 1936 E TRADOTTE PER LA PRIMA VOLTA NELLA COLLANA «LE SILERCHIE»
STEINBECK
di GIORGIO MARIANI
In uno degli ultimi pamphlet
pubblicati dal Literary Lab di Stanford, creato anni fa da Franco Moretti
per applicare allo studio della letteratura gli strumenti informatici, e soprattutto per poter lavorare sui big data – su corpora di centinaia o addirittura migliaia di testi – emerge un dato curioso. Nel tentativo di costruire
un corpus elettronico del romanzo di
lingua inglese del Novecento, posti di
fronte a una mole enorme di testi, gli
autori dello studio (Mark McGurl e
Frank Algee-Hewitt) hanno deciso di
combinare tra loro un numero di
elenchi già in circolazione – per esempio «i 100 migliori romanzi del ventesimo secolo della Modern Library» –
per ovviare agli interessi implicitamente o esplicitamente partigiani su
cui ognuno di questi cataloghi si basa. Dall’analisi quantitativa svolta si
scopre che un solo testo ricorre in tutti gli elenchi accorpati: questo unico
testo, che incontra l’approvazione
dei critici di tendenze più disparate
(accademici innamorati dello sperimentalismo, critici fedeli al realismo,
studiosi delle letterature postcoloniali e «etniche») e che al tempo stesso è
stato un enorme successo commerciale, è Furore di John Steinbeck. Provare a spiegare il perché non rientra
tra i compiti dell’analisi di McGurl e
Algee-Hewitt, che si limitano a indicare come il romanzo di Steinbeck sia
un «caso letterario» meritevole di ulteriori indagini.
Questo dato dovrebbe essere di per
sé sufficiente a giustificare l’interesse
per i sette articoli di inchiesta e di denuncia civile che Steinbeck scrisse per
il «San Francisco News» tra il 5 e il 12
Ottobre del 1936, in piena Grande Depressione, e che rappresentano a tutti
gli effetti la premessa ideale e la base
concreta di Furore. Raccolti per la prima volta nel 1938 in un volumetto dal
titolo Their Blood is Strong (Hanno il
sangue forte), che comprendeva alcune foto di Dorothea Lange (a tutti nota
per la sua «Migrant Mother», una delle
foto più celebri del secolo scorso), e
successivamente ripubblicati col titolo The Harvest Gyspies (I gitani del raccolto) nel 1988, vengono ora per la prima volta resi disponibili al lettore italiano con il titolo I Nomadi, in una eccellente traduzione di Francesca Cosi
e Alessandra Repossi (Il Saggiatore,
pp. 113, e 14,00). L’edizione nella collana Le Silerchie, ottimamente curata,
Sette inchieste
sugli «okies»,
i migranti arrivati
in California
dalle zone agricole
devastate
dalle tempeste
di sabbia
negli anni trenta
comprende sia le foto di Lange sia altri
scatti di fotografi anonimi, ed è corredata dall’interessante introduzione alla edizione dell’88 di Charles Wollenberg, nonché da una più breve ma incisiva postfazione di Cinzia Scarpino.
Chi ha letto Furore ritroverà in questi articoli in primo luogo un’analoga attenzione per le sconvolgenti
condizioni sociali e umane nelle quali versano gli okies, i lavoratori migranti giunti in California in cerca di
lavoro dal Texas, dall’Arkansas, dal
Mississippi e naturalmente dall’Oklahoma: da quelle zone agricole,
cioè, che erano state devastate dal
Dust Bowl, le terribili tempeste di
sabbia degli anni trenta. Come Furore, anche I Nomadi denuncia le pratiche brutali (Steinbeck le etichetta co-
me «fasciste») messe in atto dai latifondisti, interessati solo allo sfruttamento più bieco di una forza lavoro
disposta a tutto pur di non morire –
letteralmente – di fame e malattie.
Frutto di un’attenta ricerca sul campo e di interviste sia con i migranti sia
con assistenti sociali come Tom Collins (che ispirò uno dei personaggi di
Furore) impegnati nella creazione di
accampamenti statali dove le condizioni di vita fossero perlomeno accettabili, e dove fosse possibile ricevere
un minimo di assistenza sanitaria, il
volume si situa, come nota Scarpino,
«agli albori del libro documentario».
Negli anni a venire, infatti, si moltiplicheranno i photo-essay book, frutto di
collaborazioni tra fotografi come Lange o Walker Evans, e scrittori-giornalisti come Steinbeck, Erskine Caldwell e
James Agee.
Ciò che accomuna tutti questi testi
a un romanzo come Furore è un intento documentario che non resta mai fine a se stesso e che, com’è particolarmente evidente negli articoli di Steinbeck, vuole funzionare da pungolo alla ricerca di soluzioni concrete ai problemi descritti. Lo scrittore, pur non
mancando di lanciare allarmi sui rischi di cancellazione della democrazia
in uno stato come quello della Califor-
Reietti immigrati
nella Depressione
NELL DUNN
Interni
di working class
inglese
con un debole
per i ladri:
«È la vita, Joy!»
di ENRICO TERRINONI
«La colpì allo stomaco, quattro volte.
Quando smise di picchiarla, la strinse forte a
sé e cominciò a piangere»: si presenta così
una delle scene più drammatiche del
romanzo che Nell Dunn ambientò nella
working class inglese, giocando tra ostentata
leggerezza e ferite causate da occasioni
mancate: un romanzo noto per aver ispirato il
giovane Ken Loach al suo primo film, Poor
Cow, che è anche il titolo originale del libro,
tradotto per una incomprensibile ratio È la
vita, Joy! (traduzione di Marinella Magrì,
Sonzogno, pp. 126, e 15,00). Tutte le
caratteristiche del genere, o meglio del
sottogenere di appartenenza – la fiction di
ambientazione proletaria, o per certi versi,
sottoproletaria – sono presenti in questo libro
che, al tempo, causò un certo scandalo:
«Troppi amanti per una sola ragazza», scrive
Mariarosa Mancuso nella postfazione, le cui
storie hanno appassionato gli ammiratori del
regista di Nuneaton. La protagonista, Joy, è
una ragazza che ha un debole per i ladri: ne
sposerà uno, ma poi, una volta che l’uomo
verrà arrestato, si innamorerà del suo
compare, e per lui perderà la testa. Fino al
punto che quando gli toccherà soggiornare
dietro le sbarre, Joy vivrà di espedienti, non
mancando di sfruttare anche il suo corpo.
Partecipe, assieme al figlio, di un’esistenza in
bilico tra disperazione e eccesso, Joy – che
non porta tracce di ciò che evoca il suo nome
– è la fedele riproduzione di un tipo sociale
non ignoto alla letteratura inglese: quello
della ragazza che sogna di emanciparsi ma
non possiede gli strumenti adatti a realizzare
l’obiettivo. Testimone di divari sociali
lampanti, non sa individuare percorsi di vita
realmente liberatori: «Nelle classi alte puoi
sempre cavartela, è questo il grande
vantaggio... Ho sentito dire che tra loro ci
sono tanti aborti quanti che n’è tra noi…
anche se non usano gli stessi metodi». E di
metodi per aborti fatti in casa il libro ne
illustra fin troppi, anche ricorrendo a
immagini discretamente crude. È un modo di
raccontare, quello di Nell Dunn, che ricorda le
prime prove di Joseph O’Connor, e
nia, i cui centri di potere sono manovrati dagli interessi delle lobbies
dell’agribusiness monopolistico, sceglie di rivolgersi al buon senso, e al
buon cuore, della classe media e medio-alta. La sua speranza è che essa
comprenda come queste migliaia di lavoratori migranti siano non una minaccia, bensì una risorsa indispensabile. Da questa scelta retorica, discendono – come opportunamente sottolinea Scarpino – non solo un certo populismo ma anche le «ambiguità razziali non del tutto trascurabili» che segnano in una certa misura i ragionamenti di Steinbeck. Lo scrittore non
manca certo di ricordare che, per decenni, prima dei migranti del
Mid-West, a essere sfruttati in modo
se possibile ancora più bestiale, erano
stati, a turno, i cinesi, i giapponesi, i
messicani e i filippini; ma l’appello
che nei suoi articoli rivolge al lettore affinché prenda atto delle disperate situazioni in cui versano questi nuovi
migranti «della migliore razza americana» – insistendo sul fatto che «i futuri
braccianti saranno bianchi e americani» – appare non solo discutibile
nell’implicita invocazione di una solidarietà razziale e nazionalista, ma anche poco sensato politicamente.
Per un verso, difatti, la percezione
del migrante come «altro», «sporco» e
pericoloso è determinata dalla sua collocazione sociale, indipendentemente
dalla sua identità etnica. Ridotti in condizioni sub-umane (alcune pagine di
Steinbeck sono così agghiaccianti da
ricordare quelle di Primo Levi, soprattutto quando illustrano come, private
di ogni dignità, queste famiglie scivolino inesorabilmente verso una condizione animale), gli okies erano presentati dalla maggior parte della stampa
come una minaccia, in quanto supposti portatori di malattie e potenziali
elementi di una massa rivoltosa.
Inoltre, la fede un po’ ingenua che
Steinbeck nutre nella eventualità che
questi migranti pretendano un giorno
di essere trattati come i cittadini americani che effettivamente sono, rifiutando il miserrimo tenore di vita cui si piegavano «i lavoratori stranieri a basso
costo», non fa i conti con la realtà. Come scrive Wollenberg nella sua introduzione, «gli okies si dimostrarono
meno intenzionati a organizzarsi e
aderire ai sindacati rispetto ai messicani e filippini che li avevano preceduti.
(…) I migranti della Dust Bowl si consideravano ancora agricoltori indipendenti e trovavano difficile abbandonare il tradizionale individualismo rurale». Ugualmente mal riposta era
l’aspettativa di Steinbeck (e di Tom
Collins) che a queste famiglie potessero essere concessi piccoli appezzamenti di terra che ripristinassero le
condizioni sociali e ambientali dalle
quali erano state violentemente sradicate. L’economia agricola californiana
era estranea alla tradizione dei piccoli
proprietari di stampo jeffersoniano,
ed era piuttosto dominata da enormi
aziende agricole i cui interessi erano rivolti al mercato internazionale.
Il testo di Steinbeck ci parla, ovviamente, di tempi passati; ma sono fin
troppo evidenti le analogie con l’oggi,
e ciò che accomuna, per esempio, gli
okies di allora e i migranti africani che
raccolgono i pomodori nel nostro mezzogiorno per paghe da fame, in condizioni lavorative e abitative indecenti.
Forse è anche per questo che l’importanza del lavoro di Steinbeck è universalmente riconosciuta: perché ci ricorda quella «tradizione degli oppressi»
per la quale, come ammoniva Walter
Benjamin, lungi dall’essere un’eccezione, lo stato di emergenza era (ed è tuttora) la regola.
specialmente di quel Cowboy and Indians che
propone questioni simili, sempre dalla
prospettiva di donne della working class. Ma è
dal punto di vista stilistico che il testo offre
maggiore interesse: alterna, infatti, brani
narrati in terza persona a lunghi, lunghissimi,
divertenti, e desolanti monologhi interiori,
che fanno di Joy una Molly Bloom con le idee
molto meno chiare. Interessanti, poi, le rese
traduttive dei malapropismi nelle lettere che
Joy scrive al suo amante incarcerato: qui
l’andirivieni del registro tragico e di quello
faceto si concretizza in scelte lessicali talvolta
dotate di un certo spessore, e situate in una
tradizione narrativa inglese che va dai libri di
Smollett fino a quelli di Irvine Welsh. Breve
ma significativo, il romanzo di Nell Dunn, che
si sarebbe sempre mantenuta sul sentiero
della fiction femminile ambientata tra le classi
più povere, è interessante anche per i richiami
che autorizza a quel filone della narrativa dei
bassifondi inaugurata da uno dei padri del
romanzo inglese, Daniel Defoe. Anche lui, del
resto, si ritrovò a scrivere, nella sua carriera,
più di una «storia di ladri».
Dorothea Lange,
«California»,
febbraio 1936
GERENZA
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