RASSEGNA STAMPA
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RASSEGNA STAMPA Lunedì 20 ottobre 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Del 20/10/2014, pag. 5 Libertà dalla paura e dal bisogno. Nasce Cild Democrazia. Primo congresso della Coalizione italiana per i diritti civili. Associazioni e ong italiane in rete con la European liberties platform, per rendere più efficaci le lotte in favore dei diritti umani Eleonora Martini <<I diritti non sono a compartimento stagno ma sono interconnessi, interdipendenti e indivisibili». O non lo sono. Ha ragione Patrizio Gonnella, presidente della neonata Coalizione italiana Libertà e diritti civili (Cild) che ieri ha tenuto il suo primo congresso nella sala Caprinichetta di Piazza Montecitorio. Un soggetto resosi necessario per tentare un salto di qualità nelle campagne di advocacy che decine di associazioni e ong praticano ormai da decenni ma in modo forse troppo frammentato, e che entra immediatamente a far parte dell’European Liberties Platform (ELP), il network europeo di ong istituito con il sostegno della Open Society Foundation fondata da George Soros, principale filantropo delle lotte per i diritti umani. Decine già le associazioni che aderiscono a Cild: da Antigone a LasciateCientrare, da Parsec a 21 Luglio, dall’Arcigay alla Luca Coscioni, dalla Società della Ragione al Forum droghe, dall’Arci a Certi Diritti, e poi ancora Cittadinanzattiva, Lunaria, Associazione nazionale Stampa interculturale, Diritto di sapere e molte altre. Organizzazioni che hanno sperimentato tutti i limiti e le potenzialità delle campagne nazionali in favore dei diritti civili, in un Paese dove questi sono stati troppo a lungo subordinati, anche nel pensiero politico della sinistra, ai diritti sociali, come ha sottolineato il senatore Pd Luigi Manconi. Eppure, vale la pena ricordarlo, siamo il Paese dei Cie dove i migranti possono rimanere senza limiti di tempo ma non possono entrare i sindaci, dei giovani italiani che sono considerati immigrati perché i loro genitori hanno fatto il viaggio, delle carceri peggiori d’Europa, della legge sulle droghe illegale, degli agenti di polizia non identificabili dai cittadini, della tortura che non è reato, degli sgomberi e dei campi «nomadi» costati al comune di Roma in cinque anni 60 milioni di euro (59.718.107) dove sono confinate 7 mila persone rom e sinti mai state «nomadi». Il Paese dove non si può scegliere come morire, né quando e come procreare, della ricerca scientifica limitata, della libertà di stampa minore che in Ghana, Romania o Niger. Il Paese dove è ancora possibile essere rinviati a giudizio per un bacio omosessuale con l’accusa di «disturbo alla quiete pubblica», come è successo a Perugia, secondo l’interrogazione parlamentare presentata dal deputato di Sel Alessandro Zan, con un bacio, anzi i baci, volutamente consumati in pubblica piazza tra tre coppie di attivisti per i diritti lgbti, alcune sposate all’estero, che avrebbero a tal punto «disgustato i passanti» da dover far intervenire gli agenti della Digos. Ecco, in un Paese così, come spiegano i rappresentanti di Human Right Watch e Amnesty international, «senza attivisti locali che lottano, denunciano e tentano di incidere sulle leggi e sulla cultura nazionale, noi organizzazioni internazionali non possiamo fare molto». Eppure, ricorda Aryeh Neier, ex direttore dell’American Civil Liberties Union e di Hrw, e presidente della Open Society Foundations, in tutto il mondo si sta ancora aspettando quell’«età d’oro per i diritti civili» che ci si aspettava si sarebbe «aperta dopo la caduta del muro». Per esempio, racconta Neier davanti a una sala stracolma perfino di giovanissimi, soprattutto studenti del liceo Virgilio che hanno presentato un lavoro encomiabile, «nel mio Paese, gli Usa, viviamo un’isteria nazionale dovuta a pochissimi e isolati casi di Ebola che 2 ha portato a pratiche discriminatorie delle persone provenienti dall’Africa occidentale. E in Russia Putin sembra essere intenzionato a chiudere due delle principali ong per i diritti umani che sono sopravvissute alla fine dell’Urss». Per questo motivo solo lavorando in rete a livello mondiale si può rendere più efficace la tutela dei diritti umani. «Nel creare questa coalizione in Italia — conclude Neier – non solo riuscirete a rafforzare la lotta nazionale ma in sinergia con altre organizzazioni europee porterete questa battaglia a un livello superiore». D’altronde che i tempi siano maturi, ripetono alcuni dei relatori, lo si capisce dal fatto che pur nella tenaglia della crisi economica l’attenzione pubblica ai diritti individuali non diminuisce. Anzi. Attenti però, ammonisce Eligio Resta, filosofo del diritto dell’università Roma 3, (che interviene dopo il sottosegretario Ivan Scalfarotto, il ministro plenipotenziario Gian Ludovico de Martino, presidente del comitato interministeriale per i diritti umani e il delegato del sindaco di Roma, Silvio Di Francia), a pensare che in questa era di «forte predominanza della sfera pubblica» i diritti civili possano essere slegati dai diritti sociali, «dal dovere degli Stati». Il lavoro è tanto, soprattutto culturale. Si dovrà riportare l’attenzione sulle parole a cominciare dal concetto di libertà, esorta ancora Resta che suggerisce di prendere a prestito quel «canto della legge» che è il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 in cui si celebra la «libertà dalla paura e dal bisogno». «Vorrei — conclude il professore – che diventasse il grido di battaglia di questa Coalizione». 3 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 20/10/2014, pag. 21 In centomila marciano per la pace (e chiedono lavoro) Perugia-Assisi, la presidente della Camera Laura Boldrini: «Cercherò di aiutare gli operai di Terni» ROMA Cento colpi per ricordare cento anni di guerre. Si è aperta così ieri mattina, con il fragore delle esplosioni trasmesso dagli altoparlanti, la ventesima edizione della Marcia della Pace di Assisi. Tra striscioni, bandiere e arcobaleni, quasi 100 mila i partecipanti che hanno percorso a piedi i circa 24 chilometri tra Perugia e Assisi. Per dire basta ai conflitti, un secolo dopo la Prima guerra mondiale. Ma non solo. Perché per portare la pace, quella sociale, è fondamentale anche il lavoro, quest’anno tema centrale della manifestazione. In prima fila c’erano infatti gli operai dell’Ast di Terni, impegnati in una difficile vertenza per salvare oltre 500 posti a rischio. Il presidente della Camera, Laura Boldrini, che si è unita alla marcia nell’ultimo tratto, li ha incontrati: «Farò il possibile, non buttatevi giù», ha detto, sottolineando la necessità di una task force istituzionale che affronti la vicenda. «La pace sociale si basa anche sul diritto al lavoro, che è un diritto costituzionale». Dopo quello del capo dello Stato, anche papa Francesco ha inviato un messaggio: «La Marcia sia un’occasione per un maggior impegno nella diffusione della cultura della solidarietà, ispirata ai valori morali e al servizio della persona umana e del bene comune». In marcia la vicepresidente di Montecitorio, l’umbra Marina Sereni, don Luigi Ciotti, la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, quello del consiglio regionale, Eros Brega, oltre al sindaco di Perugia, Andrea Romizi. Ma i protagonisti sono stati i cittadini, tra cui moltissimi ragazzi e bambini di 177 scuole. Hanno sfilato 277 enti locali, 479 associazioni, 526 città e rappresentanti di ogni regione. Qualche defezione, in polemica con la Tavola della pace, che ha promosso la manifestazione. «San Francesco attende i suoi testimoni di pace per incoraggiarli nel loro impegno quotidiano in una situazione drammatica di presenza di guerre e assenza di lavoro», aveva detto alla vigilia padre Enzo Fortunato, direttore della Sala stampa del Sacro convento. «Siamo qui perché non vogliamo più vedere vittime» ha spiegato Flavio Lotti, coordinatore del comitato promotore Del 20/10/2014, pag. 1-8 VIAGGIO Sulle tracce di Fenoglio 70 anni dopo i “23 giorni di Alba” Caro Johnny, le tue Langhe non esistono più Di Michele Concina Sono sempre le stesse, le colline del Partigiano Johnny. C’è chi ne ricava un sacco di soldi, dalle Langhe. Da pochi giorni è finita la vendemmia, da qualche settimana la 4 raccolta delle nocciole. Alla fiera di Alba compratori di mezzo mondo si disputano i tartufi bianchi, a prezzi che partono da duecento euro l’etto. Se ti siedi su una panchina con gli occhi chiusi, dopo un po’ ti sembra di vivere un sogno altrui. Un sogno di Nanni Moretti: il profumo dolciastro e inconfondibile della Nutella scende ad avvolgere la città dallo stabilimento della Ferrero, multinazionale a conduzione familiare che rifiuta di separarsi dalla sua cittadina d’origine. C’è chi delle Langhe s’innamora. Specialmente adesso, in autunno, girando per le colline pettinate dai vigneti, fra i colori attenuati dalla nebbia leggera, i verdi non troppo verdi, i rossi non troppo rossi. Respirando l’odore di terra smossa e di funghi. Sostando nelle cascine, da tempo tirate a lucido, per un bicchiere di vino, servito con cortesia schiva, ritrosa. E c’è chi nelle Langhe ha fatto la guerra. Combattendo i fascisti, i tedeschi, e questo stesso paesaggio oggi incantevole; ma ostile, funesto nel terribile inverno del 1944. Nei rittani, i dirupi delle alte Langhe, dove si rifugiava inseguito il partigiano Johnny: “Era un inferno di fango, lezzava di foglie marcite, la vegetazione curva su di esso a mascherarlo come un aborto di natura grondava orribilmente”. Nelle notti di guardia, quando “nulla era visibile nella ondulante tenebra, udibile soltanto il sinistro, purgatoriale crocchiare dei rami freddi sotto il vento onnipotente”. “La presero in duemila e la persero in duecento” Sono passati giusto settant’anni dall’ottobre in cui le formazioni della Resistenza occuparono Alba, instaurandovi una libera repubblica durata 23 giorni. Non la prima, non la più duratura, né la più importante delle repubbliche partigiane. Ma a difenderla, e poi a darle fama superiore a ogni altra, c’era un ventenne dinoccolato e un po’ goffo, figlio di un macellaio di Alba, affascinato dalla letteratura inglese. Si chiamava Beppe Fenoglio. Seppe scrivere della Resistenza e di questa terra come nessun altro. Senza retorica, senza indulgenza verso la propria parte, senza paura delle parole: “guerra civile”, la chiamò da subito. Capace di cogliere l’epica collettiva, ma anche le insufficienze, talvolta le meschinità di chi combatteva; o trovava modo d’i m b oscarsi quando l’aria volgeva al brutto. “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre” è il celebre attacco folgorante, impietoso de I ventitré giorni, il primo libro pubblicato. Tre paragrafi più in là, racconta la sfilata trionfale dei partigiani: “Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. E poi: “Su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini”. Frasi e passaggi che scatenarono il tiro al bersaglio da sinistra. “Questo racconto di Beppe, che ha fatto la Resistenza accanto a me sulle Langhe, mi è parso aiutare chi si affanna a denigrarci”, scrisse Davide Lajolo. Carlo Salinari, gappista romano, poi illustre critico letterario di stretta ortodossia marxista, si occupò di scomunicarlo su R i n a s c ita . Fenoglio non ci badò più di tanto, e si diede a raccontare le Langhe del tempo di pace. Strette d’assedio non dalla Wehrmacht, ma dalla povertà. La terra dei contadini della Malora , ossessionati dallo spreco: “Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino”. Il punto di svolta: lo scandalo del metanolo del 1986 Sono sempre le stesse, quelle colline e quelle zolle. Ma a percorrerle oggi, anche con i libri di Fenoglio sotto gli occhi, sembra che le abbiano trasportate di peso in un altro pianeta. E ci si chiede che cosa abbia trasformato, in un tempo inferiore a quello di una vita umana, i cupi mezzadri affamati nei gentiluomini di campagna in giacca di tweed che vendono Barolo ai miliardari cinesi e piantano rose alle estremità dei filari. Il punto di svolta, probabilmente, fu una disgrazia: lo “scandalo del metanolo” del 1986. Ventitré persone morte per aver bevuto del vino da pochi soldi, adulterato con alcol metilico per risparmiare qualche lira sull’imposta di fabbricazione. Epicentro nelle Langhe. Rifiutati dal mercato, minacciati di estinzione, i vignaioli seri si resero conto che la loro unica speranza era puntare sulla qualità alta, altissima. La grande paura li spinse addirittura a superare il secolare individualismo, a scambiarsi esperienze e 5 buone pratiche, a esplorare insieme mercati nuovi. Da Slow food di Petrini a Eataly di Farinetti Ebbero fortuna: gli americani stavano scoprendo proprio allora i cibi d’élite. E in zona cominciavano a farsi largo un paio di giovani capaci di costruire intorno alle produzioni alimentari una filosofia di vita, se non addirittura un’ideologia. Ad Alba c’era Oscar Farinetti, futuro patron di Eataly. A Bra, da qualche anno, studiava e predicava Carlin Petrini: tra i padri fondatori del Gambero Rosso, in quel 1986 trasfor-mò l’Associazione amici del Barolo in Arcigola; tre anni dopo diede vita a Slow Food. Ma se queste non fossero state le Langhe, la riscoperta della terra madre e delle eccellenze alimentari avrebbe colto i poderi sguarniti, abbandonati da contadini corsi a inurbarsi nelle fabbriche. La Ferrero e il monopolio delle nocciole Qui, invece, c’era la Ferrero: un’azienda nata all’indomani della guerra, che ha sempre assorbito l’intera produzione dei settemila ettari di noccioleti della zona. E ha sempre preferito lasciare che i suoi operai continuassero ad abitare nei paesetti sparsi per le colline, anziché attirarli in casermoni di città. Ancora oggi, in corrispondenza dei turni dello stabilimento, non c’è un villaggio in cui i pullman della Ferrero non si fermino a caricare i dipendenti. Un’idea formidabile, in quegli anni. “Per il contadino che si era alzato alle quattro a zappare la vigna, il turno alla Ferrero non era neppure fatica. Tornava a casa bello fresco, e ricominciava a rivoltar la terra”, spiega Enzo De Maria, ex sindaco di Alba e oggi presidente dell’Anpi locale. È la prosperità, alla fin fine, che ha smussato la terra di Fenoglio e le vite di chi l’abita. Senza snaturarle, per ora. Anzi, contribuendo a ingentilire il paesaggio fino a farlo includere, quattro mesi fa, nella lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità (con implicito sberleffo all’indirizzo del rivale di sempre, il Chianti). Ma consacrare il bello non lo mette al riparo dagli assalti del brutto. È abbastanza noto, e deprecato, il caso della Cascina Langa, a Trezzo Tinella, l’ “aia gelata, aperta per tre lati al cielo”, in cui il partigiano Johnny e il partigiano Fenoglio trovarono rifugio nei momenti peggiori. Certo, trasformandola in un resort di lusso l’hanno resa irriconoscibile, a forza di parallelepipedi in cemento nudo e vetrate panoramiche. Certo, è veramente dura capire che ci fa, fra queste colline, uno hammam, che dovrebbe essere il bagno rituale di arabi e turchi. Il manufatto che domina il costone di Trezzo Ma lo stravolgimento di Cascina Langa è un’inezia, rispetto al vasto manufatto incredibile che domina il costone più alto di Trezzo, una specie di ranch messicano reinterpretato due volte, prima da Hollywood e poi da un qualche palazzinaro locale, di un bianco accecante. O al ripetitore televisivo, alto il doppio della chiesa cinquecentesca, rizzato sullo spiazzo in cima a Mombarcaro. Era l’ “alpestre deserto” di Johnny. E il luogo in cui Fenoglio andava a meditare, ritto sul ciglio del dirupo, contemplando la sua Langa aspra, poco domestica, cupa verso il tramonto. Ancora ignara del suo destino da cartolina. Del 20/10/2014, pag. 43 Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisi STEFANO RODOTÀ NEL 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su 6 questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa). Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera “politica dell’umanità”, l’opposto di quella “politica del disgusto” di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell’altro. Quella del riconoscimento dei diritti è un’antica promessa. La ritroviamo all’origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l’ habeas corpus , il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato “l’età dei diritti”, alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del “lago Atlantico”, negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse “generazioni” di diritti: civili, politici, sociali, legati all’innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei “vinti”, l’italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all’eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell’umano a qualsiasi potere esterno. Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall’innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti “insaziabili”, che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie. Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati “decidono”, annettendo alla sfera dell’economico le prerogative proprie della politica e dell’organizzazione democratica della società? La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell’attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti “etico-democratici”, i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l’essere umano nella sua realtà più individuale e singolare». I diritti fondamentali “ultima utopia”, come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando 7 sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto “imperialistico” la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come “ultrademocrazia”, e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito «la marcia trionfale dei diritti»? Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel “sud del mondo” che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell’Occidente. Al tempo stesso, però, l’attenzione per le costituzioni “degli altri” deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d’origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica. I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull’obbligo di renderne possibile l’attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell’altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella “politica dell’umanità” alla quale è legata la vicenda dei diritti. Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull’iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi? 8 ESTERI Del 20/10/2014, pag. 1-21 Da Hong Kong al Messico le rivoluzioni degli ombrelli ADRIANO SOFRI FRA i manufatti umani, l’ombrello è dei più antichi e versatili, e il suo rilievo simbolico fu universale. Si legge di un antico sovrano birmano che si attribuiva il titolo di “Re dell’elefante bianco e Signore dei ventiquattro ombrelli”. Da noi oggi, fabbricati in Cina, si comprano da benedetti venditori africani o asiatici al primo accenno di acquazzone, a una tariffa usa e getta. E di colpo i giovani di Hong Kong ne fanno l’insegna della propria impresa. IL BELLO delle rivoluzioni è che si trovano i loro simboli per una felice combinazione fra il caso e l’inventiva. A Hong Kong fa caldo, e bisogna proteggersi dal sole. Poi gli agenti speciali, nelle loro uniformi marziane, cominciano a usare spray al pepe e lacrimogeni, e viene fatto di proteggersi dietro gli ombrelli. Poi a un ragazzo, più esilarato degli altri, viene di mettersi a saltare in mezzo alla nube di gas con due ombrelli spalancati, e lo fotografano e lo battezzano “l’uomo-ombrello”, e di lì a poco è già un manifesto planetario. Un giorno ero al capezzale di Elsa Morante e le dissi che fuori c’era una pioggia noiosa; «Sì — disse — ma gli ombrelli sono bellissimi quando si aprono». Se avesse visto aprirsi gli ombrelli di Hong Kong! Anche i giovani di Hong Kong sono incerti se chiamare la cosa “rivoluzione” o “movimento”. Il primo nome sembra troppo solenne, e anche troppo canonico, il secondo promette di preservarne la duttilità, ma le cose poi finiscono, o comunque tornano a inabissarsi. Ora che le rivoluzioni politiche, quelle che si proponevano di conquistare il potere, non si fanno più, e così sia, le rivoluzioni si riprendono il loro diritto: che è quello di irridere la menzogna del potere, di denunciarne la violenza, e di proporre, almeno per un po’, un altro modo di vivere insieme. Sbucano all’improvviso, non più come vecchie talpe pazienti che hanno saputo scavarsi la loro occasione: e tuttavia sotterraneamente, misteriosamente si ricordano le une delle altre, senza antenati ed eredi, come nella storia politica, ma per citazioni creative, come nella storia dell’arte. In una delle innumerevoli variazioni grafiche — hanno fatto un concorso per il logo dell’ombrello, con risultati fantastici — c’è un ragazzo con l’ombrello aperto sulla testa che fronteggia la colonna dei carri armati: è una citazione del 4 giugno della Tienanmen, e fissa una parentela con quel meraviglioso giovane di Pechino che ipnotizzò la fila di tank col suo sacchetto di plastica in mano. Così è toccato alla Cina di offrire due immagini delle migliori della storia contemporanea: il giovane che ballava davanti al carro armato nell’89, e i ragazzi degli ombrelli nel 2014. (Però la migliore, quest’anno, è della bambina che estrae dalle macerie di casa a Gaza il libro di scuola). Le rivoluzioni si ricordano l’una dell’altra, senza preoccuparsi di essere in linea. “Occupy Central” è la traduzione di Hong Kong di “Occupy Wall Street”, e la canzone che ne è diventata l’inno, “Do U hear the people sing …”, viene dal musical sui Miserabili, e le barricate montate ordinatamente con le transenne dai ragazzi di Hong Kong sono cugine di quelle parigine sulle quali muore Gavroche, senza finire la sua canzone. Nel riadattamento in cantonese per la rivoluzione degli ombrelli l’inno dice più o meno: “Nessuno ha il diritto di restare indifferente di fronte alle migliaia di fiammelle di candele che luccicano in ogni mano: noi ci battiamo audacemente per il diritto a votare il futuro che ci appartiene”. Victor Hugo sarebbe stato entusiasta, tanto più se avesse potuto vederlo 9 quel firmamento di telefonini-candela luccicanti sollevati nella notte in tutta la città, e la miriade di ombrelli colorati. I simboli delle rivoluzioni sopravvivono loro, e le valgono. Sapete perché la rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974 si chiama “dos cravos”, dei garofani? Mentre i militari ribelli e la folla occupavano Lisbona, una sontuosa festa di matrimonio in un locale del centro dovette essere rinviata, e i titolari regalarono i garofani che l’avrebbero addobbata ai soldati, che li infilarono nelle canne dei fucili. La rivoluzione dei garofani. In Tunisia si chiamò dei Gelsomini, nel 2010, e l’anno dopo il governo cinese fu così spaventato dal contagio da censurare su Twitter la comparsa della parola: gelsomino. Gli ombrelli hanno qualcosa di più domestico e cattivante, specialmente quando sono rotti, rivoltati, storti, dopo aver fatto da scudo alle botte da orbi delle squadre speciali. Ce n’erano anche nelle fotografie di sabato sugli scontri di Bologna: l’emulazione è veloce, ma l’analogia finiva troppo presto. E ce ne erano a Berlino, dove gli ombrelli sono stati agitati dagli attivisti che manifestavano contro il traffico di essere umani. E infine tra i messicani che chiedevano giustizia per 43 studenti fatti sparire dopo scontri con la polizia. Per militanti che siano, gli ombrelli sono del tutto non-militari. Nei giorni scorsi, grazie al meticoloso Cottarelli, si è saputo che il regolamento proibisce agli ufficiali di coprirsi dalla pioggia con un ombrello. Regola universale, a quanto pare, visto che anche Obama ha dovuto scusarsi con un cadetto cui aveva chiesto di tenerglielo aperto sulla testa. L’ombrello è stato a lungo un accessorio femminile, e anche questo ha giovato al movimento di Hong Kong, che li ha scelti colorati, e ne ha mostrato la somiglianza con dei grandi fiori che si aprano e richiudano. La serietà e il coraggio di un movimento che sfida la prepotenza di un impero colossale e lo fa danzando con gli ombrelli, abitandoci sotto e scrivendoci sopra, e drizzandoli a testuggine, ecco un capitolo che il gran libro delle rivoluzioni cucirà con orgoglio tra le proprie pagine. «Altre mani si leveranno e impugneranno le nostre armi», scriveva il Che. «Se un ombrello si strappa — dice uno dei manifestanti di Hong Kong — un altro arriverà a rimpiazzarlo». I tempi cambiano e si fanno la rima. Gli ombrelli poi hanno qualcosa del paracadute, ma di un paracadute alla rovescia, specialmente quando vento o manganelli li rivoltano, e sembrano poter portare le ragazze e i ragazzi in alto, come aquiloni. Hanno anche citato la Grande Rivoluzione Culturale, a Hong Kong: mettendo in mano alla giovane Guardia Rossa dei manifesti di allora che doveva spazzar via il Quartier Generale… un ombrello. E riempiendo la metropoli di minuscoli e minuziosi post-it, versione ingentilita dei tazebao di allora, ed espressione di una moltitudine composta di altrettanti individui manoscriventi. Uno dice: «Sono così arrabbiato che l’ho scritto». Una moltitudine di persone che ha preso le sue legnate, ha curato la raccolta differenziata, ha fatto della propria città minacciata un’arca di Noé, e l’ha provvisoriamente salvata dal diluvio. Una Fahrenheit degli ombrelli. Del 20/10/2014, pag. 28 Le vite rubate della Striscia così a Gaza si muore da spia FABIO SCUTO IL SOLE d’autunno illumina un cimitero di campagna compresso tra una fattoria e una fabbrica di salsa di pomodori, non distante da Khan Younis. Scavata nella sabbia c’è una fila di tombe senza lapidi. Un letto di cemento grezzo anonimo di due metri per uno, senza un nome, senza una data. Sono le tombe dei rinnegati, delle presunte spie giustiziate per strada dai miliziani di Ezzedin al Qassam alla fine della guerra dei 50 giorni che questa 10 estate ha devastato la Striscia. Ventidue palestinesi sospettati di aver passato informazioni sono stati uccisi davanti alla gente per la strada. Li hanno seppelliti in queste tombe senza nome perché le famiglie, per vergogna, non hanno chiesto indietro i corpi. Dal 2007, quando comanda Hamas nella Striscia, sono 57 le presunte spie palestinesi giustiziate per strada. Israele ha sempre fatto affidamento sui “collaboratori” per colpire i miliziani palestinesi. Interi apparati dell’intelligence dell’Esercito israeliano, come l’Unità 8200, sono votati solo a questa missione: raccogliere informazioni, frugare nelle vite della gente di Gaza. Una ricerca finisce per coinvolgere la vita persone innocenti, che nulla hanno a che vedere con il terrorismo di Hamas, ma che vengono schedate per preferenze sessuali, lo stato di salute e quello finanziario. Informazioni utili solo per estorcere altre informazioni e arruolare collaboratori. Perché non ci sono volontari in questo mondo di spie. Il fenomeno è carsico ma molto più numeroso di quel che si pensi, si stima che siano diecimila fra Gaza e la Cisgiordania. Un “ modus operandi” denunciato con una lettera pubblica lo scorso mese 43 ufficiali e soldati dell’Unità 8200 stanchi di «rubare le vite degli altri». La storia di Fadi Qatshan, 26 anni, la racconta suo padre Alì seduto sulla sua carrozzella elettrica sull’uscio di casa, un antro di cemento grigio nel campo profughi di Nusseirat dove abita con la famiglia. Alì ripercorre il periplo del figlio, le sue ansie, le sue paure, la sua scelta e infine la sua morte. Fadi era malato di cuore e in un lungo giro per ospedali palestinesi a Gaza e in Cisgiordania i medici possono solo constatare che ha bisogno di un’angioplastica ma non hanno strutture per quel tipo di intervento. Fadi approda così per motivi umanitari nel maggio 2013 al Tel Hashomer, una delle eccellenze del sistema sanitario israeliano a Tel Aviv. Subisce un doppio intervento che riapre le sue arterie e resta ricoverato per 45 giorni. «Alla dimissione», racconta il padre Alì, «gli hanno dato una lettera dell’ospedale che attestava il fatto che avesse bisogno di un altro intervento al cuore dopo un mese, è il requisito per ottenere il visto di uscita da Gaza». Dopo una settimana dal ritorno a casa riceve una telefonata da un cellulare israeliano, la voce al telefono si qualifica come un ufficiale dell’intelligence dell’Idf e dice: se vuoi tornare in ospedale devi lavorare per noi, pensaci, basta che richiami questo numero. Fadi chiude terrorizzato la conversazione e racconta tutto al padre. Il 2 luglio 2013 chiede attraverso il Liaison Office israeliano il permesso di uscita allegando la richiesta dell’ospedale, richiesta respinta. Una nuova richiesta viene presentata il 27 agosto 2013 e il 9 novembre, respinte. L’attestazione dell’ospedale scade, e la famiglia via fax ne ottiene un’altra che fissa la data di ricovero per il 6 gennaio 2014. Ma Fadi Qatshan, il ragazzo di Nusseirat che non voleva diventare una spia, viene dichiarato morto per arresto cardiaco il 16 novembre 2013 all’ospedale di Deir Al Balah. «Se avesse detto sì forse sarebbe ancora vivo», dice Alì mostrando il fascio di carte che documenta questa tragedia, «ma noi saremmo vissuti nel terrore, nella paura e anche nella vergogna». La chiameremo Suad perché non vuole dire il suo vero nome. Cinquant’anni mal portati, volto scavato e scarno, occhi grandi mai fissi su un punto, mani con un leggero tremolio. L’odore della paura nelle vesti modeste. Suo marito era uno dei sei “collaborazionisti” uccisi da Hamas per strada nel dicembre del 2012. Lei stessa, madre di sette figli, è stata arrestata per favoreggiamento e incarcerata. Condannata a sette anni è stata “graziata” lo scorso dicembre, i giudici di Hamas sono stati clementi solo per la sua prole. «Lui — racconta a proposito del marito — era già nelle mani degli israeliani prima del 2005, prima del loro ritiro. Aveva il permesso di lavoro in Israele e passava regolarmente per il valico di Erez, ma poi gli venne revocato». Spinto per necessità economica a tradire le confessò: «Non faccio del male a nessuno, passo qualche numero di telefono, un nome o un’informazione su un tunnel». Nel 2008 anche Suad diventa una “informatrice”, quando per la malattia grave di uno dei figli ottiene il permesso di andare in un ospedale israeliano. Descrive questi anni come un inferno, di paura, rabbia e impotenza. Al marito 11 nel 2011 venne descritta un’auto e la targa: doveva chiamare “un certo numero” quando l’auto sarebbe passata nella strada principale. Guidare l’eliminazione di due boss locali di Hamas in quell’auto fu l’inizio della fine, Suad e il marito furono arrestati qualche mese dopo. «Ci hanno rubato la vita — dice adesso la donna — mio marito è stato costretto, non avrebbe mai fatto del male a nessuno». INTERNI Del 20/10/2014, pag. 1-2 Cittadinanza italiana per bambini stranieri Bonus alle neomamme FRANCESCO BEI La cittadinanza italiana ai figli degli stranieri. Per Renzi «un fatto di civiltà», un vagone di quel treno dei diritti civili che partirà dopo la sessione di bilancio e la legge elettorale. I renziani ne parlano fin dai tempi della prima Leopolda e, a grandi linee, il progetto ormai è definito. Non sarà un’apertura indiscriminata, ma si passerà dallo ius sanguinis ( è cittadino solo chi nasce da italiani) a uno ius soli temperato: cittadinanza per i bambini che nascono in Italia da genitori immigrati, a patto però che concludano un ciclo scolastico. Il disegno di legge del governo arriverà a fine anno, stavolta alla Camera — mentre delle unioni civili se ne occuperà prima il Senato — e l’obiettivo di Renzi è farlo diventare legge nel 2015. Che ne abbia parlato in televisione dopo la manifestazione anti-immigrati della Lega a Milano non è nemmeno un caso. Attaccato da sinistra per il Job’s Act, con le unioni civili e il “ddl Balotelli” sulla cittadinanza il capo del governo punta a spiazzare i suoi avversari, senza farsi trovare là dove lo stanno aspettando. Così, per scrollarsi di dosso l’etichetta di destra che gli stanno cucendo addosso, rilancia su un tema dove aveva fallito la precedente ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge. «Con Matteo ne abbiamo parlato. A gennaio — conferma Matteo Orfini, il presidente del Pd — partiamo con i diritti civili e sblocchiamo anche le cose lasciate a metà, come ad esempio il ddl contro l’omofobia ». Un cambio di passo per dare l’idea di un esecutivo che non si occupa solo di economia ma ha una visione a 360 gradi della modernizzazione necessaria al paese. Il problema semmai si porrà con il nuovo centrodestra, nel momento di fissare i paletti per i nuovi cittadini. Scartata l’idea di un esame di «italianità» (che forse molti italiani doc non passerebbero), per il premier l’idea è quella di affidarsi al completamento di un ciclo scolastico. Scuola dell’obbligo per chi è nato in Italia, oppure la scuola secondaria superiore per chi è arrivato già adolescente. È, appunto, lo ius soli temperato. E del resto Dorina Bianchi, Ncd, ha già depositato un testo molto simile alla Camera dopo averne discusso con Angelino Alfano. Eppure, come sui matrimoni gay, gli alfaniani non intendono accettare il fatto compiuto. «Non siamo un partito xenofobo come la Lega — precisa Gaetano Quagliariello, coordinatore Ncd — e siamo d’accordo sul principio dello ius soli temperato. Il problema con Renzi è definire il grado di... temperatura». Intanto a Montecitorio sembra destinato per il momento a fermarsi, in attesa del disegno di legge governativo, il cammino di quella ventina di proposte che i vari partiti hanno presentato sullo stesso argomento. Marilena Fabbri del Pd e la forzista Annagrazia 12 Calabria, come relatrici, stanno studiando un testo unico da portare in aula, ma la commissione sarà ancora a lungo intasata dalla riforma del Senato. In più la grande incognita è l’atteggiamento del grillini, molto divisi al loro interno sul tema immigrazione. La linea post Circo Massimo sembrerebbe comunque quella dell’ostruzio- nismo su tutto, cittadinanza compresa. Inoltre proprio sul blog di Grillo, lo scorso anno, arrivò una bocciatura ufficiale (e non firmata, quindi attribuibile ai due fondatori) della proposta di ius soli temperato avanzata dall’allora governo Letta. La regola attualmente esistente della cittadinanza acquisita dopo il compimento della maggiore età, per Grillo e Casaleggio, avrebbe potuto essere cambiata «solo attraverso un referendum» nel quale si sarebbe dovuti spiegare bene agli italiani «gli effetti di uno ius soli dalla nascita». Perché «una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del paese non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari e di politici in campagna elettorale permanente». Proprio la contrarietà dei leader 5stelle per Renzi costituisce un motivo in più per andare avanti sulla proposta. Come ha dimostrato lo scontro sul reato di immigrazione clandestina, i gruppi parlamentari del M5s sui diritti civili sono infatti più aperti del vertice. Su una materia così incandescente, prevede il capo del governo, non è difficile ipotizzare altre spaccature interne se Grillo e Casaleggio dovesse imporre la linea dura. Del 20/10/2014, pag. 1-2 Matteo, Barbara (e un po’ di Silvio) FILIPPO CECCARELLI IN PARADISO c on i Santi, nella taverna con i ladri e a “Domenica live” con Barbara D’Urso. La moltiplicazione dell’immagine di Matteo Renzi sulle reti televisive Mediaset è pari solo alla sua naturalezza. ALL’ABILITÀ e comunque all’inconfessabile proponimento con cui egli si è ieri sottoposto al rito della consacrazione mediatica e spettacolare. Lei se lo mangia con gli occhioni, flapflap, miao-miao, un misto di meraviglia e di tenerezza; lui in cravatta e camicia bianca, maniche arrotolate di virile ordinanza, travolge qualsiasi record di tele-piacioneria predatoria, e insieme mettono in scena fra applausi scroscianti un duetto di reciproca soddisfazione che un pochetto allarma perché spontaneo e autentico nell’implicito messaggio e nei suoi immaginabili sviluppi. Si conclude ovviamente in piena euforia con il giovane premier che, preso ormai il sopravvento, presenta Nino D’Angelo, esprime le sue preferenze musicali e chiama la pubblicità. Lei orgogliosa e premurosa. Quindi si alzano e si danno il bacione. Poi la vita continua, all’imbrunire, e anche l’autunnale domenica dei telespettatori con le loro malinconie, le loro speranze, le loro allegre, rassegnate o atterrite suggestioni. Una di queste dice, secondo i più ribaditi canoni renziani, che la sinistra, certa sinistra, ha “la puzza sotto il naso”. Per cui andare dalla D’Urso, che di nome in realtà è Maria Carmela, è disdicevole. E invece serve. Ma un’altra più azzardata e complicata suggestione parte proprio da questi spettacoli e attribuendogli profondità psichica, addirittura, e abbondanza di contenuti, dice che il Partito della Nazione non solo sta prendendo il via, ma passa anche per Barbara D’Urso. “Anche” in quanto il giovane leader sta chiaramente facendo il giro delle tv Mediaset e l’esultante incoronazione di Carmelina è certo da mettersi in rapporto con l’entusiasmo manifestato da Porro a “Virus” e con il tripudio di Del Debbio a “Quinta colonna”. Sotto il dominio delle rappresentazioni, assai più che nelle parole il consenso si costruisce attraverso i riflettori, le inquadrature, le musiche, gli applausi, le scritte in 13 sovraimpressione, le immagini che si affacciano dai fondali; ma soprattutto la benedizione definitiva arriva al cuore dei telespettatori dall’atteggiamento di chi dialoga con gli ospiti e mena la danza dell’intrattenimento sulle varie reti. Ogni visibile fusione emotiva in questo senso, reca un segnale che al giorno d’oggi sarebbe sbagliato trascurare. La modifica della Costituzione, l’attacco simbolico all’articolo 18, le polemiche con la magistratura sulla riforma della giustizia non sembrano avere nulla a che fare con le sdolcinatezze sollecitate al premier da Barbara D’Urso. Su quello stesso trono bianco, nel dicembre del 2012, sedeva Berlusconi, con tutti gli onori del caso, del resto era anche a casa sua. Dopo averlo fatto chiacchierare a suo piacimento e per l’altrui sfinimento, Carmelina ricordò mamma Rosa e con una indimenticabile formula — «Mi si è fidanzato? » — gli chiese ingenua conferma dell’amore per Francesca. Per poi mettere un punto fermo all’apice della gioia: «Che carino! ». Due anni prima, la sera del compleanno del Cavaliere, gli aveva cantato in diretta “Happy birthday, Mr President”. Poco dopo, quando Berlusconi si sentì trattato male da Giletti, trovò ancora il modo di lodare Barbara D’Urso, «che è bella, brava e gentile ». Ora Renzi sa il fatto suo, conosce le tecniche del marketing e certamente se le gioca anche sul piano del target e a livello emozionale; ma il fatto che abbia coronato il suo pellegrinaggio televisivo da lei, pure con selfie sbaciucchione e contorno di bonus alle mamme e omaggi alle nonne, in qualche modo sanziona che un certo vasto pubblico lo avverta come il sostituto, il continuatore, il successore, l’erede, il vero figlio evoluto o reincarnato di Berlusconi. È plausibile che Renzi prosegua, almeno sul piano della narrazione, a colpi di ego, sorrisi, storielle, diete, metafore calcistiche, gelati, cerchi o gigli magici, bagni di folla, lanci, rilanci, supporti audiovisivi; è possibile che lasci a tratti anche trapelare quel fondo birbantesco, per non dire vagamente barbarico che accompagna il profilo dei più evoluti capi nell’era del tele-populismo. Questo eventuale “Partito della Nazione” è una faccenda ancora fuori dalle categorie interpretative della politica, ma forse è proprio tale indeterminatezza a renderlo particolarmente fecondo nella post-politica. Il nome suona in verità un po’ sudamericano, ma il modello di applicazione vira piuttosto, almeno a livello dell’immaginario, verso un inedito plebiscitarismo di cui si sarebbe portati a trovare qualche traccia nel recente Putin televisivo. Il partito del leader, frutto di una massiccia convergenza al centro, in una repubblica presidenziale fondata su una democrazia d’investitura. Magari si esagera, ma la versione italiana ha tutta l’aria di germogliare (anche) da spettacoli come quelli di ieri e da figure come Barbara D’Urso. Ci si può ridere, ci si può avvilire, come sempre sarebbe meglio capire, o almeno provarci, possibilmente in serenità. Del 20/10/2014, pag. 12 Rispunta il conflitto d’interessi ma rischia di insabbiarsi LAVINIA RIVARA ROMA . Rispunta la legge sul conflitto di interessi. In quota alla minoranza di 5Stelle e Sel, è attesa oggi in aula alla Camera, dopo infinite risse procedurali tra i grillini e il resto del mondo. Ma il rischio, concretissimo, è che neanche stavolta sarà quella buona e che il provvedimento, madre di tutte le battaglie del centrosinistra, torni ad inabissarsi. Magari fino a Natale, se tutto va bene, una volta terminata la sessione di bilancio. Oppure se ne riparlerà dopo le riforme costituzionali. Il primo ostacolo è il testo che, paradossalmente, 14 pur avendo avuto il via libera i tutti i gruppi (tranne i 5 stelle), sembra figlio di nessuno. Prende le distanze perfino il suo autore, il relatore e presidente della commissione Affari Costituzionali, Francesco Paolo Sisto, possibile candidato azzurro per la Consulta. «Ho unificato le cinque proposte presentate per adempiere alla richiesta della presidenza di andare in Aula. Ma non è il pensiero di Forza Italia nè tantomeno il mio» ci tiene a precisare Sisto. In altre parole Fi non ne vorrebbe proprio sapere di modificare la legge Frattini del 2004. Al massimo qualche ritocco, ha fatto capire in commissione anche Maria Stella Gelmini. Il Pd invece non può che proporre norme più severe di quelle attuali e considera «invotabile» la bozza Sisto, per dirla col segretario del gruppo Ettore Rosato. Quel testo prevede per i membri di governo in conflitto l’assegnazione di patrimoni superiori a 15 milioni di euro ad una gestione fiduciaria o, in casi non definiti esattamente, la vendita degli stessi. Viene creata una autorità ad hoc (5 esperti nominati dal presidente della Repubblica), ma non c’è l’ineleggibilità dei parlamentari. I dem vogliono introdurla, assicura Francesco Sanna, e nei loro emendamenti propongono anche che l’incompatibilità per le cariche di governo venga sancita con voto di sfiducia del Parlamento. Insomma distanze incolmabili e un ostacolo tutto politico: come fa il Pd a tenere in piedi il patto del Nazareno e al tempo stesso approvare insieme alla sinistra, e magari ai 5Stelle, una legge che è come un dito in un occhio per Forza Italia? Del resto quando Enrico Letta, pochi giorni dopo il patto del Nazareno, rilanciò non senza malizia la legge sul conflitto di interessi, ottenne dal braccio destro di Renzi, Graziano Delrio, una risposta lapidaria: «Non può chiedere la luna». Rosato sdrammatizza: «Oggi l’ultimo problema di Berlusconi è il conflitto di interessi. C’è la legge Severino che gli impedisce di andare al governo. Dunque siamo nelle condizioni migliori per affrontare il nodo. Ma certo non in 48 ore e comunque per noi vengono prima le riforme istituzionali ». Che sono in discussione nella stessa commissione. «Siamo nella solita situazione da larghe intese» incalza Pippo Civati, autore di una delle pdl presentate, assai critico verso il testo Sisto: «Manca un vero blind trust, sanzioni adeguate e l’incompatibilità post carica. Presenterò i miei emendamenti ma è chiaro che se tutto viene congelato protesterò anche io, non solo i 5Stelle». I grillini stanno col fucile puntato, vogliono dimostrare che il Pd non vuole fare la legge: «Questo è già chiarissimo — sostiene Fabiana Dadone, firmataria della pdl stellata —. Non hanno neanche depositato una proposta del partito, ci sono solo quelle di Civati e Bressa» . Come andrà a finire? Quasi tutti pensano che Sisto chiederà il rinvio in commissione della riforma. Ma lo stop potrebbe venire anche dall’avvio imminente della sessione di bilancio, che blocca ogni legge di spesa. E i grillini sono già pronti a rilanciare su tutti i social network quel passaggio della sfida tv tra Bersani e Renzi per le primarie, dove l’attuale premier prometteva una legge sul conflitto di interessi nei primi cento giorni di governo. 15 Del 20/10/2014, pag. 13 Berlusconi: Fi vince da sola Ma i sondaggi nelle Regioni annunciano una débacle I report arrivati ad Arcore prevedono sconfitta in tutte le nove amministrazioni chiamate al voto tra autunno e primavera CARMELO LOPAPA Sogna di stravincere come un tempo, Forza Italia da “cappotto”, “sola al comando, senza alleati”. Ma dietro questo Silvio Berlusconi che accarezza la “follia”, come la chiama lui stesso telefonando ai militanti di Civitanova Marche, si nasconde un altro genere di cappotto. Quello delle imminenti regionali e del tracollo elettorale del partito. I sondaggi recapitati ad Arcore la scorsa settimana non solo inchiodano Fi ormai sotto il 15 — addirittura un 14 con trend negativo — ma aprono uno squarcio allarmante sulle due Regioni in cui si vota tra poche settimane: sconfitta scontata in Emilia Romagna, ma anche a sorpresa in Calabria. Scenario destinato ad aggravarsi con le regionali di primavera, per le quali i rilevamenti demoscopici prevedono al momento un 7-0 per il centrosinistra. Che poi si tradurrebbe in un 9-0 finale, con debacle perfino nelle piazze degli uscenti Caldoro (in Campania) e Zaia (Veneto). Ecco perché l’ex Cavaliere torna a farsi vivo con toni da campagna elettorale, parla di opposizione, nel giorno in cui Renzi spopola nella domenica televisiva nazionalpopolare dal “suo” Canale5 e gli industriali continuano a plaudire alla legge di stabilità. «Non mi sento come Nerone, ma anche su di me in questi anni hanno raccontato tante bugie» dice il leader di Forza Italia uscendo dal Teatro Manzoni di Milano, dove assiste allo spettacolo “Nerone — Duemila anni di calunnie”. «Comunque, io non sono arrivato a far tagliare le vene a nessuno» scherza salutando i fan. In mattinata aveva parlato del suo «sogno di vincere con una Forza Italia da sola, senza alleati, per avere una chiara maggioranza in Parlamento: so che è una follia, ma sono convinto si possa fare». Riconquistare i delusi, ma non più col suo vecchio cavallo di battaglia, la tv. Berlusconi prende atto di una rivoluzione copernicana. Gli elettori sono ormai «raggiungibili solo attraverso un contatto personale diretto » dice ai militanti marchigiani: «Non li possiamo convincere attraverso la tv, perché non la guardano più». Sogna improbabili maggioranze assolute, intanto al governo farebbe di tutto per entrarci fin d’ora. A modo suo. «I dieci senatori Ncd in transito? Io penso ci siano, che Berlusconi li tenga buoni e abbia lanciato il segnale a Renzi col passaggio di D’Alì — racconta Gianfranco Rotondi a margine della cerimonia del premio Balena Bianca in Irpinia —. Come dire: siamo determinanti per la sopravvivenza del governo, accetti il nostro sostegno o vai al voto?». Il fatto è che anche in Forza Italia hanno messo nel conto che a quel punto Renzi opterà per le elezioni. Prospettiva densa di incognite per il centrodestra alle prese con svolte pro-gay e con Renzi tendente al 40. «Dobbiamo recuperare i valori della destra» urlava sabato a una manifestazione romana Andrea Ronchi, tornato in pista con “Insieme per l’Italia” e indicando il leader leghista Matteo Salvini come «uno degli interpreti migliori del centrodestra italiano ». Il solo, guarda caso, in crescita nei sondaggi. 16 Del 20/10/2014, pag. 11 La svolta «nazionalista» della Lega Cosa c’è dietro la strategia di Salvini La lotta contro «i nemici degli italiani» tra CasaPound in piazza e la Fiom in fabbrica MILANO Salvini, l’ultimo situazionista, non vuole perdere tempo. Dopo il bagno di folla di sabato a Milano, si è convinto che questo è «il momento». Salvini «l’impolitico», tale lo considerava parte della Lega prima dell’elezione a segretario, non si cura di chi storce il naso per l’alleanza con la destra estrema: «Verde-nero, scrivete voi giornalisti. Ma la settimana prossima voglio portare da Maroni i segretari regionali della Fiom. Sulle crisi aziendali sono i più preparati. Pensi che bello: potrete scrivere Lega verde-rossa». E Salvini «il ragazzino», l’altro giorno era seduto con Vladimir Putin, che gli ha regalato un orologio e, pochi giorni prima, a Mosca l’ha fatto accogliere da una sorta di standing ovation da parte della Duma. Nel concreto: la Lega farà gruppo unico con il partito Russia unita di Putin al Consiglio d’Europa. Senza troppo parere, senza dare troppo nell’occhio, Salvini ha trasformato la Lega in qualcosa che nel dicembre scorso nessuno avrebbe immaginato. Anche se era già tutto lì, nel suo discorso d’elezione a leader. Addio di fatto al capo carismatico Umberto Bossi (sempre però pubblicamente omaggiato), addio al padanismo oltranzista («In questo momento i problemi più gravi sono italiani, non della Lombardia»), addio all’indipendentismo spinto: «L’indipendenza, dove non c’è più neanche una fabbrica, non mi serve. Non serve a nessuno». L’idea è che «esistono tre nemici comuni, che sono legati, e sono nemici dei veneti come dei pugliesi e dei piemontesi come dei lucani. Sono l’immigrazione clandestina, l’Europa e la crisi economica che dall’Europa è stata indotta. Nemici di tutti, nemici degli italiani e non solo del Nord. E dunque, nei prossimi mesi martelleremo su tutti i fronti». Insomma, è svolta «nazionale». Le due visite di Salvini in Italia meridionale, al di là dei fischi rimediati in più di un’occasione, non erano estemporanee come avrebbe potuto sembrare: «Il mese prossimo inauguriamo e lanciamo la Lega sorella, quella che ci affiancherà al Centro e al Sud. Nessuno si illuda che si tratti di qualcosa fatta tanto per fare: molti scopriranno di aver perso consiglieri comunali, qualcuno si troverà dei consiglieri regionali in meno, altri perderanno addirittura qualche parlamentare». Segni di nervosismo, ieri, se ne sono già registrati. Soprattutto da parte dei Fratelli d’Italia. Che hanno visto i militanti di CasaPound sfilare disciplinati alla manifestazione leghista e non alla loro di Reggio Calabria. Impensabile temere qualche fuga di voti a favore degli (ex) nordisti? Riccardo De Corato, già senatore e capogruppo in Regione Lombardia, sbuffa che «la Lega in piazza ha portato solo simboli di partito e insulti al tricolore, quando perfino il Front National di Marine Le Pen porta con fierezza il tricolore francese nella sua bandiera di partito». Pochissima voglia di parlare dell’argomento ha Giorgia Meloni: «CasaPound? E che c’è di nuovo? Avevano già fatto la campagna elettorale per Borghezio a Roma. Hanno fatto le loro scelte... Di che parliamo?». Parliamo di possibili alleanze per le future elezioni? «Noi saremo alleati con persone coerenti, che fanno scelte coerenti e non soltanto di tattica. Nulla è automatico, nulla è deciso. Vedremo…». Di sicuro, un’alleanza c’è. Quella tra Lega e Forza Italia per le elezioni in Emilia-Romagna. E dove il candidato, guarda il caso, è il leghista Alan Fabbri. Il luogo comune afferma che Salvini e Berlusconi non si prendano più di tanto? «Macché, il problema non è quello, anzi — dice Salvini — Io ho visto Berlusconi faccia a faccia soltanto due volte. C’è una grande simpatia umana e ci siamo sempre trovati d’accordo su tutto. Pensi un po’: anche sull’euro. Però…». Però? «Però il suo partito è un filo anarchico. 17 Lui dice “Fate A” e poi, a volte, il partito fa B». Parla delle indicazioni di voto? «E beh, sì… anche di quelle». I nemici di Bruxelles fanno sì che Salvini riservi un’attenzione alla politica estera speciale. Certo: per il militante della base politica estera significa soprattutto il no all’euro. Eppure, non è soltanto quello: ieri il deputato Paolo Grimoldi ha parlato della possibilità di formare un eurogruppo con i partiti contrari alle sanzioni alla Russia. La Lega ne avrebbe ricevuto in cambio la promessa, da parte di «alcuni ministri» di Mosca, di indirizzare i flussi turistici verso le aree d’Italia che hanno prodotto atti ufficiali contro le sanzioni: Lombardia e Veneto. Il modello dichiarato resta il Front National di Marine Le Pen. Con cui mercoledì Salvini sottoscriverà la richiesta di sospendere il trattato di Schengen. Mentre una nuova nota è apparsa sull’agenda di Salvini: a novembre è stato invitato al congresso del Front a Lione. Con una soddisfazione, anche rispetto agli alleati internazionali. La macchina della Lega sabato a Milano ha funzionato alla perfezione: dalla mobilitazione sede per sede, all’organizzazione dei pullman su base provinciale fino alla gestione della piazza affidata, come da ormai decenni a questa parte, a Maurizio Bosatra. Del 20/10/2014, pag. 6 Bruxelles perdona i conti dell’Italia Pronta una lettera: dateci chiarimenti ALBERTO D’ARGENIO La mossa di Bruxelles sulla Legge di Stabilità italiana è attesa tra domani e mercoledì. Sarà con una lettera, una richiesta di chiarimenti, che la Commissione europea aprirà formalmente quel negoziato che nelle speranze del governo italiano dovrebbe chiudersi senza troppi danni. Una missiva che nei canali informali tra Roma e la capitale belga viene preannunciata non troppo ostile, non ricca di “rilievi”, e quindi nel gergo comunitario preludio di una bocciatura. Piuttosto una richiesta di precisazioni tecniche sul contenuto della manovra da 36 miliardi notificata all’esecutivo Ue mercoledì scorso. Tutto ruota intorno alla decisione del governo di risanare nel 2015 il disavanzo strutturale (il deficit al netto del ciclo economico e delle una tantum) solo dello 0,1%, con la conseguenza di rinviare il pareggio di bilancio al 2017 e soprattutto di lasciar ancora correre la spesa pubblica. Questa scelta, pur restando con il deficit nominale appena sotto il tetto 3%, porta l’Italia in rotta di collisione con il Fiscal Compact, che appunto prescrive ai governi di tagliare lo squilibrio tra entrate e uscite. Roma sostiene di essere nel giusto visto che le stesse regole Ue prevedono la possibilità di uno scostamento temporaneo dagli obiettivi di bilancio per una serie di circostanze eccezionali: nel caso italiano il terzo anno di recessione, la deflazione e l’impegno sulle riforme strutturali. Per questo ieri il ministro Padoan tornava a dire che il governo ritiene «di essere assolutamente in regola, siamo all’interno delle regole e della flessibilità ammessa dal Patto di stabilità». Eppure la scelta di Roma è piuttosto hard da digerire per le autorità europee. L’obiettivo concordato era di un taglio dello 0,7%, mentre il target minimo al quale si devono comunque impegnare tutte le capitali è dello 0,5%. Per questo nelle telefonate degli ultimi giorni tra Roma e Bruxelles era emersa la volontà del presidente uscente della Commissione, Josè Manuel Barroso, di bocciare sonoramente la manovra e di rimandarla al mittente con la richiesta di una serie di modifiche. Intenzione che lo stesso portoghese ha comunicato la scorsa settimana a Renzi in una telefonata decisamente burrascosa. Ma il pressing di Juncker, successore di Barroso dal primo novembre, intenzionato a gestire il caso italiano in modo più soft, sembra avere avuto effetto. Almeno questa è l’impressione 18 che nelle ultime ore viene condivisa da Palazzo Chigi e dal Tesoro, anche se a dirla tutta i funzionari Ue non hanno ancora terminato l’esame della manovra. E un ruolo centrale lo avrebbe giocato anche il commissario agli Affari Economici Katainen, in passato descritto come un falco ma in queste ore secondo gli sherpa italiani già sintonizzato sulle frequenze di Juncker, del quale tra una settimana diventerà vicepresidente. Non per nulla ieri Padoan diceva che «Katainen è una persona simpatica, un finlandese freddo e gentile ». Dunque il governo si aspetta di ricevere una lettera nella quale la Commissione europea si limiterà a chiedere il perché della decisione di risanare solo dello 0,1%. A quel punto Renzi e Padoan si prenderanno qualche giorno per rispondere e nella lettera di ritorno oltre a elencare i motivi per cui ritengono di essere in regola ricorderanno a Bruxelles di avere già previsto nel testo della manovra una riserva di 3,4 miliardi per aumentare, se necessario, il risanamento del prossimo anno, lasciando intendere di essere pronti ad arrivare ad un taglio del deficit strutturale dello 0,25%. Quindi mettendo sul piatto 2,4 miliardi. Cifra non casuale visto che il taglio dello 0,25% (anziché lo 0,5) è stato individuato — ma mai reso pubblico — lo scorso agosto dai funzionari di Bruxelles incaricati da Juncker di immaginare quella flessibilità sui conti sulla quale su richiesta italiana e francese si era impegnato davanti al Parlamento europeo. Così il governo spera di allungare i tempi, di evitare quella bocciatura secca della manovra che, se imposta da Barroso, secondo le regole europee dovrebbe arrivare entro il 29 ottobre. L’obiettivo è di scavallare la fine del mese, proseguendo poi il negoziato con Juncker. E il governo è anche pronto a portare la correzione fino allo 0,35% del deficit strutturale, ultima offerta che Renzi e Padoan sono pronti a mettere sul piatto, anche se a Palazzo Chigi sperano di non essere costretti a sborsare tutti i 3,4 miliardi messi da parte nella Legge di Stabilità e di impiegare i soldi per altre misure di rilancio dell’economia. Se il negoziato andasse a buon fine, l’Italia eviterebbe una bocciatura della manovra che per quanto non definitiva (sempre ribaltabile da Juncker) manderebbe un pessimo segnale ai mercati, negli ultimi giorni già abbastanza irrequieti, e di fatto avrebbe imposto quell’idea di flessibilità reclamata da mesi. Poi si aprirebbero altre partite, come quella della procedura Ue per squilibri macroeconomici (sempre legata al debito e alla competitività dell’economia) che tra novembre e dicembre Roma farà di tutto per evitare e quella più classica che guarda direttamente al deficit e al debito: un confronto che si consumerà da qui ad aprile e nel quale oltre a pesare una eventuale bocciatura della manovra, il governo farà valere le riforme per ottenere l’ultimo, definitivo, via libera europeo alla sua politica economica 19 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 20/10/2014, pag. 3 Centinaia di migliaia i ragazzi nati qui ma senza passaporto VLADIMIRO POLCHI «Viviamo tutti dentro una contraddizione: ci sentiamo italiani, senza averne i documenti ». Mihai Popescu, 21enne, figlio di romeni, a lungo rappresentante degli studenti medi, oggi studia Scienze politiche a Roma. Nelle sue parole, il disagio delle seconde generazioni di immigrati in Italia: ragazzi e ragazze che vivono a cavallo di due identità, mezzi italiani e mezzi marocchini, o cinesi, o romeni. «Vivo e studio in questo Paese — racconta Mihai — e in Romania ho solo qualche vecchia zia e dei bisnonni». Come si diventa oggi italiani? In attesa della riforma più volte annunciata (e impelagata tra ius soli temperato e ius culturale) la nostra legge sulla cittadinanza resta ferma al ‘92. Per ottenere il documento italiano ci sono due strade. La prima si chiama “naturalizzazione”: l’immigrato deve dimostrare una residenza ininterrotta di dieci anni e un reddito minimo. La seconda è sposare un italiano. Per chi è nato qui da genitori stranieri, le cose non migliorano, anzi: il richiedente deve aspettare la maggiore età per poter presentare domanda, quindi dimostrare una residenza senza interruzioni fino ai 18 anni. Infine, ha solo un anno di tempo (fino al compimento dei 19 anni) per consegnare la domanda. E così resta alla porta un esercito di “nuovi italiani”. Il numero di minori stranieri in Italia è infatti in continua crescita. Al primo gennaio 2010 rappresentavano il 22% del totale della popolazione immigrata residente. Al primo gennaio 2012 sono arrivati al 23,9%. Quest’anno hanno toccato quota 1.087.016. Dei ragazzi stranieri, quasi il 60% è nato in Italia, il 21% è entrato prima dei 5 anni e il restante 20% in un’età compresa tra i 6 e i 17 anni. Mediamente la popolazione straniera è più giovane rispetto a quella italiana. Basta leggere i numeri della Fondazione Leone Moressa: tra gli stranieri l’incidenza dei minori è del 22,1%, mentre tra gli italiani è solo del 16,2%. Non è tutto. Gli alunni d’origine immigrata iscritti nelle scuole italiane (anno scolastico 2012/2013) sono sempre di più: 786.630, pari all’8,8% degli alunni totali. Rispetto all’anno 2006-2007, il loro numero è aumentato di oltre il 56%. Tradotto in numeri assoluti, fa 250mila ragazzi in più. Quasi la metà (47,2%) degli alunni stranieri è nata in Italia: incidenza che cresce ulteriormente nella scuola dell’infanzia (79,9%) e primaria (59,4%). «Una parte di questi ragazzi si sente pienamente italiana — spiega Asher Colombo, sociologo a Bologna e curatore della collana “Stranieri in Italia” dell’Istituto Cattaneo — altri vivono una doppia appartenenza. Dipende dal gruppo etnico e da fattori religiosi. L’Italia deve essere comunque pronta: il nostro è da anni un Paese di immigrazione e non più di emigrazione, non si può più attendere questa riforma della cittadinanza ». 20 SOCIETA’ Del 20/10/2014, pag. 20 Eterologa, donne in rivolta “Noi over 43 respinte dagli ospedali pubblici” Ticket solo per le più giovani, tutte le altre pagano fino a 6mila euro “Le Regioni ci costringono ad andare nei centri privati o all’estero” MICHELE BOCCI CATERINA PASOLINI «Hanno vanificato la sentenza della Corte Costituzionale. Le coppie sono costrette ad andare nel privato o all’estero per fare l’eterologa». A sei mesi dalla caduta del divieto di fecondazione con gameti esterni alla coppia il servizio pubblico è praticamente fermo, come sottolinea l’avvocato Paola Costantini di Cittadinanzattiva. Negli ospedali il trattamento non è iniziato (salvo un caso a Firenze) e soprattutto quasi ovunque non verrà fatto alle coppie con donne di più di 43 anni. Secondo le linee guida della Conferenza delle Regioni quell’età rappresenta il limite alla rimborsabilità della prestazione: sotto si ottiene con il ticket, sopra si dovrebbe pagare la tariffa piena (3.500-6.000 euro). Si dovrebbe, perché in molte Regioni in questi giorni viene deciso di non intervenire comunque su chi ha superato i 43 anni, perché non è il caso che l’ospedale si occupi di prestazioni a pagamento e si vuole pensare prima alle coppie più giovani alle quali per motivi sanitari è stato riconosciuto il diritto a fare il trattamento al costo del ticket. La Toscana ha scritto il principio in una delibera ma la vedono allo stesso modo anche in Emilia Romagna o in Piemonte, per citare solo alcune Regioni. Il punto è che secondo gli esperti sono circa il 70% le over 43 che chiedono l’eterologa. Finiranno tutte dai privati. «La maggior parte delle pazienti saranno escluse dalla sanità pubblica», commenta Costantini, relatrice dei ricorsi che hanno portato alla sentenza. Ha raccolto la rabbia, il disorientamento delle migliaia di coppie che avevano sperato, dopo il 9 aprile di poter cercare un figlio con donazioni di gameti a pochi passi da casa in un ospedale pubblico. Le sue parole trovano conferma a Milano. Persino dal centro di consulenza genitoriale di Sos infertilità, organizzato con l’appoggio del Comune consigliano «alle coppie di andare oltreconfine ». I motivi? Innanzitutto il limite di 43 anni: «Se è sensato dal punto di vista medico nella fecondazione omologa, perché dopo quell’età c’è poca probabilità che i gameti femminili possano concepire, è assurdo in quella eterologa con donazione di ovociti », sottolinea Rossella Bertolucci. Finirà che i privati faranno ottimi affari con pazienti che il servizio pubblico non è in grado di seguire. Un altro problema riguarda le donazioni: quasi ovunque in Italia non è partita la raccolta di gameti e comunque al momento è molto difficile trovare persone, soprattutto donne, disposte a sottoporsi a trattamento ormonale ed intervento per aiutare chi ha problemi di infertilità. E non è un caso che l’unico trattamento di eterologa eseguito fino ad oggi nel pubblico, all’ospedale di Careggi di Firenze l’altra settimana, sia avvenuto grazie all’acquisizione di liquido seminale da una banca estera. Almeno all’inizio le altre Regioni dovranno percorrere la stessa strada. E c’è un altro problema che riguarda la donazione: i gameti crioconservati in questi anni per trattamenti di fecondazione omologa non si potrebbero usare per fare l’eterologa anche se le donne a cui appartengono vogliono donare. Andrea Borini, presidente della Società italiana di prevenzione della fertilità, fa notare come con le nuove linee guida tra gli esami che devono essere necessariamente fatti ai donatori ci sia il tampone vaginale. «Ma non è mai stato previsto in Italia — dice — e non lo è nelle 21 banche dei tessuti straniere, perché è inutile. Ma averlo richiesto rende inutilizzabili i migliaia di ovociti conservati nelle nostre strutture in questi anni». E ci sono dubbi anche per l’acquisizione all’estero. La sanità pubblica sta stentando ma le coppie sono battagliere e qualcuno, forte della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 e della nuova norma che regola la libera circolazione dei pazienti in Europa, va a farsi curare all’estero e chiede il rimborso delle spese alla propria Asl. Una coppia romagnola, assistita dal centro di Lugo Artebios ha vista riconosciuta la sua richiesta di copertura di parte delle spese sostenute per fare il trattamento in Spagna proprio ad aprile. Ma i ricorsi alle aziende sanitarie per avere i soldi spesi all’estero si stanno moltiplicando. L’avvocato Gianni Baldini, un altro dei legali che ha seguito molte cause contro la legge, 40 ne ha presentati cinque, a Puglia, Lombardia e Veneto. Del 20/10/2014, pag. 1-25 Se la democrazia bussa in Vaticano GIANCARLO BOSETTI È DIFFICILE sottovalutarne la portata. È il messaggio di una chiesa «che cerca» (Enzo Bianchi), è l’indicazione di un « work in progress » (secondo l’espressione del portavoce in inglese del Sinodo, Thomas Rosica di Toronto). Questo significa che le affermazioni contenute nel documento non hanno valore di magistero, non sono ancora dottrina, ma mostrano di poterlo diventare nel seguito del «lavoro da compiere», cui si riferisce, sollecitante, Papa Francesco, che ieri ha insistito sulla «sinodalità e la collegialità » della Chiesa e sulla necessità di non perdere il contatto con «le mutate condizioni della società». Quello cui assistiamo appare come l’opera in corso di un organismo bimillenario che mostra, dal vivo e con sofferenza, come i suoi approdi nella prassi e nella dottrina si sottopongano ai segni dei tempi, accettino esplicitamente di collocarsi nella storia, esponendosi ai venti del mondo e alle mutazioni cui questo la costringe. Le dimissioni di Benedetto XVI erano già un atto che faceva irrompere la mondanità e umanità del pontefice dentro la sacralità del ruolo, in modo anche più dirompente, di quanto non avesse già fatto la esposizione ai media della decadenza fisica e della malattia di Giovanni Paolo II. Con il Sinodo ora si è manifestato il carattere mutevole, evolutivo, aperto al nuovo, in una parola “storico”, della dottrina teologica. È una ricerca, quella della Chiesa, che si presenta come indirizzata ad un modo “migliore” di interpretare “la fedeltà ai vangeli”. Come sempre quando viene sfidata la ortodossia dei letteralisti (qui pronti a sfoderare San Paolo e le sue parole sulle relazioni «contro natura»), in qualunque religione c’è chi grida al «tradimento», come ieri il cardinale sudafricano Wilfrid Fox Napier: inammissibile per lui presentare le unioni gay «come se fossero qualche cosa di positivo». Eppure il tema della “natura” come norma dei rapporti sessuali è stato cancellato dal documento conclusivo, mentre l’approccio al problema del divorzio non intacca certo il principio dell’indissolubilità del matrimonio, ma sposta lo sguardo sulla misericordia di Dio capace di offrire un viatico a chi ha sbagliato. Dopo il Sinodo ce ne sarà un altro — dice Francesco fiducioso nei lavori in corso — come chi guida un organismo politico che ha i suoi tempi di reazione, le sue maggioranze e minoranze, le alleanze e le ostilità interne. I tradizionalisti si erano mossi per tempo con un libromanifesto contro ogni apertura a gay e divorziati. L’avevano sottoscritto cinque cardinali, Müller, Burke, Caffarra, Brandmüller e De Paolis. E l’arcivescovo di Milano, Scola aveva preso posizione dalla loro parte. Il fronte dell’opposizione ha cercato l’appoggio di Benedetto XVI dal suo ritiro, ma il pontefice dimissionario, come ha rivelato ieri Claudio 22 Tito su queste pagine, si è sottratto alla richiesta con determinazione, chiudendo a ogni possibilità di aprire una divaricazione che avrebbe avuto clamorose conseguenze sul Sinodo. Le “animate discussioni” e il “movimento degli spiriti”, caro alla concezione gesuitica della Chiesa di Bergoglio, non si spingerà dunque fino a un duello tra leader. L’omosessualità esce dalla condizione dottrinaria di “disordine morale”, anche se la nuova dottrina non è ancora scritta e aspetta di trovare un numero di voti sufficiente per diventarlo, nel corso del processo deliberativo che prosegue fino al prossimo appuntamento assembleare, da qui a un anno. La dottrina e la teologia della Chiesa mostrano di poter cambiare, manifestandosi come un fatto nel tempo, così come nel diritto la scuola giusnaturalistica un giorno ha lasciato il passo alla scuola storica. Non è d’altra parte una novità per una entità che ha visto concili, guidati da imperatori come Costantino o Giustiniano, scrivere il Credo e anatemizzare eresie. Non sappiamo ancora se sia prematuro spingere il paragone fin là. Certo è un segno eloquente della svolta, il commento di un cardinale come il filippino Luis Antonio Tagle, giovane di grande spicco, e finora molto cauto, secondo il quale «è tornato a soffiare lo spirito del Concilio». LA CHIESA dunque è in questi momenti un organismo deliberante, come un parlamento con maggioranze semplici e maggioranze qualificate. I paragrafi cruciali sulla comunione ai divorziati e sull’accoglienza pastorale degli omosessuali hanno avuto un largo consenso nel Sinodo, ma non sufficiente a raggiungere i due terzi. Nell’organo collegiale, che fu istituito da Paolo VI per dare seguito all’esperienza del Concilio Vaticano II, c’è dunque una divisione, una frattura, e si è manifestata una minoranza conservatrice. Non si parla più dei «doni» e delle «qualità » che i gay possono offrire alla comunità cristiana, come nella relazione post disceptationem del cardinale ungherese Erdo, ma bisogna ammettere che la versione più tenue, dell’accoglienza nella Chiesa «con rispetto e delicatezza» di uomini e donne con tendenze omosessuali (118 sì contro 62 no) mostra un cambiamento in corso. Del 20/10/2014, pag. 5 Unioni gay, sì da tre italiani su quattro Sul matrimonio il consenso è del 35% Favorevoli alle nozze (24%) o ai diritti (32%) anche molti tra i cattolici più assidui Il Sinodo straordinario sulla famiglia convocato da papa Francesco ha mostrato un volto della Chiesa a cui non eravamo abituati. Una Chiesa pronta ad affrontare e discutere temi scomodi, come l’ammissione dei divorziati al sacramento dell’eucarestia o l’omosessualità. A conclusione del Sinodo, aldilà di alcuni aspetti che rimangono controversi, sembrano lontani i tempi della Chiesa «del no», dei valori «non negoziabili». Queste aperture appaiono in forte sintonia con le opinioni prevalenti nel nostro Paese, una sintonia testimoniata dall’impennata di fiducia nella Chiesa dopo l’elezione di Francesco (passata dal 54% del febbraio 2013 al 76% dei mesi scorsi) e dai risultati del sondaggio odierno. Vediamoli in dettaglio. La definizione di famiglia nella quale ci si riconosce maggiormente (53%) è quella di una «qualunque coppia legata da affetto che voglia vivere insieme»; un italiano su quattro (28%) considera la famiglia solo se è composta da un uomo e una donna sposati e 18% se è composta da un uomo e una donna anche se non sposati. Tra i fedeli assidui, cioè tra coloro che partecipano alla messa domenicale regolarmente, quasi uno su due (46%) ritiene che la famiglia sia composta da uomo e donna sposati ma una 23 importante minoranza (uno su tre) si riconosce nella prima definizione. Su questo tema, com’era lecito attendersi, le opinioni variano in relazione all’età: tra le persone di oltre 60 anni e i pensionati infatti prevale una concezione più tradizionale della famiglia. Riguardo alla possibilità di dare la comunione ai divorziati si registra un larghissimo consenso: nel complesso 84% si dichiara molto (55%) o abbastanza (29%) d’accordo. In questo caso il favore è nettamente prevalente anche tra i fedeli assidui (83%). Il Sinodo sulla famiglia nell’ultima settimana ha suscitato un confronto politico e mediatico più ampio sui diritti delle coppie di fatto rispetto a cui l’Italia appare in una situazione diversa rispetto a molti altri Paesi. A tale proposito prevale l’idea che su questa spinosa materia la legislazione italiana sia arretrata. La pensa così il 56% degli intervistati, mentre il 21% ritiene che la nostra legislazione abbia il giusto approccio al problema non essendo né troppo avanzata né troppo arretrata e il 14% considera la nostra legislazione fin troppo permissiva. Tra i fedeli assidui, sebbene prevalga l’idea che la nostra legislazione sia arretrata (36%), le opinioni sono decisamente più diversificate mentre tra i fedeli che partecipano saltuariamente alla messa i pareri sono sostanzialmente in linea con la totalità della popolazione. Da ultimo la questione più spinosa, rappresentata dai diritti delle coppie omosessuali. Tre intervistati su quattro sono favorevoli al riconoscimento dei loro diritti: il 35% si dichiara favorevole al matrimonio e il 39%, pur essendo contrario al matrimonio, è favorevole alle unioni civili. Viceversa, il 23% è contrario sia all’uno che alle altre. L’apertura ai diritti delle coppie gay prevale indistintamente tra tutti i segmenti sociali, sia pure con accentuazioni diverse. Infatti i giovani fino a 30 anni, gli studenti, gli impiegati e gli operai, i residenti nelle regioni del centro nord e gli elettori del Movimento 5 Stelle si esprimono nettamente a favore del matrimonio. Sul fronte opposto si osserva maggiore contrarietà tra le persone meno giovani, meno istruite, tra i pensionati, i residenti nelle regioni meridionali tutti con valori compresi tra 33% e 37%. Gli atteggiamenti di maggiore chiusura si registrano tra gli elettori di Forza Italia (42%), nonostante il dialogo avviato su questo tema da parte di Silvio Berlusconi che nei giorni scorsi ha ospitato a cena ad Arcore Vladimir Luxuria, uno dei simboli della lotta per i diritti degli omosessuali, e soprattutto dalla sua giovane compagna Francesca Pascale che nei mesi scorsi si è iscritta all’Arcigay e ha fatto scalpore chiedendo scusa per tutti coloro che dal centrodestra hanno insultato e maltrattato i gay. Nel mondo cattolico gli atteggiamenti sono abbastanza variegati: tra i fedeli più assidui la maggioranza assoluta (56%) è a favore del matrimonio (24%) o delle unioni civili (32%), tuttavia con valori meno elevati rispetto ai fedeli saltuari (75% a favore dei diritti) e ai non praticanti e ai non credenti (85% a favore). Il Paese sta cambiando, sia pure in modo graduale e non univoco. E trova conforto nel fatto che un’istituzione come la Chiesa, tradizionalmente poco incline al cambiamento, stia affrontando di petto alcune questioni delicate, fino a poco tempo fa considerate dei veri e propri tabù. Tutto ciò rappresenta una sfida per le nostre istituzioni e il nostro legislatore che, quanto ad innovazione, oggi sembrano scavalcati dalla chiesa di papa Francesco. 24 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 20/10/2014, pag. 1-18 EDITORIALE Investiamo nel territorio e non in grandi opere inutili Come evitare le alluvioni e creare sviluppo di Ferruccio Sansa È più urgente investire 10 miliardi nell’autostrada Mestre- Orte oppure spendere un decimo e mettere in sicurezza la Liguria? È meglio puntare su cemento e asfalto, come propone il Governo, o salvare il territorio dando impulso al turismo che vale l’11% del pil? L’acqua si ritira da Genova. Per fortuna. Anche l’indignazione. Purtroppo. Finiremo ancora una volta per affidarci alla sorte e alle preghiere, che sono più utili delle previsioni meteo. Eppure è proprio questo il momento per cominciare a lavorare perché non accada più. Chissà se il premier Renzi ci leggerà. Probabilmente no, e forse è giusto così. Magari, verrebbe da dire, è troppo impegnato a scrivere tweet ed sms, ma lasciamo da parte le polemiche. Ha davvero compiti e responsabilità da far tremare i polsi. Però proviamo a far arrivare qualche dubbio fino a chi ci governa e quindi ha in mano letteralmente la nostra vita. Il Governo ha recentemente annunciato il lancio di nuove grandi opere come occasione di modernizzazione e motore dell’economia. Facciamo un esempio: l’autostrada Mestre-Orte, che costerà oltre dieci miliardi. Un’opera voluta da tutti: dal presidente Giorgio Napolitano a Pierluigi Bersani, passando per Vito Bonsignore, politico Pdl con amici a destra e a sinistra, nonché imprenditore impegnato nel progetto. Ecco, prima di realizzare un’opera tanto discussa non sarebbe il caso di investire un ventesimo delle risorse per salvare l’intera Liguria intrisa di acqua e di cemento? La domanda è secca: è più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro. Ancora: il decreto Sblocca Italia (come ha spiegato Tomaso Montanari anche nel libro Rottama Italia scaricabile dal sito altraeconomia.it) introduce novità insidiosissime per il nostro ambiente. Non vogliamo negare - anche se abbiamo molti dubbi - che lo spirito sia quello di dare un impulso all’economia. Non ci interessa affermare che si vogliano favorire le lobbies del cemento e dell’asfalto. Ma di fatto il risultato rischia di essere devastante: in nome di un malinteso criterio di speditezza nella sostanza si eliminano i controlli, si riduce a semplice simulacro il ruolo di amministrazioni locali e Soprintendenze. Così, al di là di tante belle e facili parole, si preparano le alluvioni di domani. Non basta: se non vogliamo recuperare il territorio per salvare delle persone e vivere meglio, facciamolo perché ci conviene. Bonificare e recuperare le zone a rischio sarebbe occasione di lavoro per migliaia di imprese. Di più. Il paesaggio è la materia prima della nostra più grande industria: il turismo, che vale l’11% del pil e tre milioni di posti di lavoro (e potrebbero essere molti di più, perché oggi siamo quinti nella classifica del turismo, con trenta milioni di presenze meno della Francia). Evitare le alluvioni, vivere meglio e dare insieme impulso all' economia si può. 25 INFORMAZIONE Del 20/10/2014, pag. 1-10 Sfida di Sky a Mediaset pronti canali gratis e in chiaro Berlusconi in trincea “Anche Renzi ci difenda” CLAUDIO TITO La pax televisiva sta per saltare. In questi anni la tregua era stata prima firmata da Rai e Mediaset. Poi con gli anni si è aggiunta Sky. Ma nel 2015 tutto cambierà. Anzi, tutto sarà rivoluzionato. Anche con il possibile “trasferimento” in “chiaro” dell’emittente, ora a pagamento, di Murdoch. Gli uomini del magnate australiano, infatti, hanno iniziato a valutare rischi e opportunità di una trasformazione completa di Sky Italia. Non una decisione per il momento ma un’opzione concreta. Che nella sostanza prevederebbe una graduale “gratuità” per una parte dei suoi canali. Seguendo di fatto le orme di Cielo e aumentando probabilmente la presenza anche sul digitale terrestre. Il quartier generale della pay-tv di certo vuole lanciare il guanto di sfida all’ex amico Silvio Berlusconi. Contemplando anche l’idea di competere sul suo stesso terreno. Contendendo spazi, audience e quote pubblicitarie. E quindi riaprendo una battaglia che sembrava ormai finita. La guerra è tra Murdoch e Berlusconi, ma inevitabilmente coinvolgerà anche la Rai. Certo, si tratta ancora di un’ipotesi e non ancora di una scelta. Eppure, le valutazioni della principale pay-tv italiana non sarebbero un fulmine a ciel sereno. Il mercato televisivo sta diventando sempre più complicato. La sua saturazione «tecnologica» è per tutti un dato di fatto. Aggravato negli ultimi anni dalla crisi economica e dalla flessione senza precedenti della raccolta pubblicitaria. Tutti i soggetti in competizione sono quindi alla ricerca di nuovi orizzonti. Anche perchè per il prossimo anno tutti dovranno fare i conti con un nuovo «competitor», Netflix. Il campione della tv su internet è già sbarcato in Germania e in Francia. E ora si prepara a «invadere» anche il nostro Paese. Con un’offerta sconfinata sui film e con canone piuttosto basso. Ecco, la società americana con la sua possibilità di fare vedere i programmi su tv o tablet sta diventando il vero incubo della tv «tradizionale». Anzi, molti lo considerano il grimaldello per far saltare l’attuale assetto televisivo e trasformarlo in toto. Con nuovi soggetti e nuovi protagonisti. Senza contare che i risultati economici di Mediaset, Rai e Sky negli ultimi anni sono stati pesantemente condizionati dalla crisi economica. Il Gruppo dell’ex Cavaliere, ad esempio, soffre ormai da tempo di una strutturale problematicità. L’ultimo bilancio è stato chiuso con un netto calo dei ricavi e ancora una volta non è stato distribuito il dividendo. La pubblicità non da segni di risveglio e l’ultimo dato certificato, quello del 2013, ha registrato una contrazione di oltre 230 milioni rispetto all’anno precedente. E le previsioni per il 2014 certo non sono ottimistiche. Non a caso negli ultimi mesi proprio Berlusconi ha ricominciato ad occuparsi del suo core business a tempo pieno. «La politica — ripete a tutti — in questo momento è la cosa meno importante. Almeno per quanto riguarda Forza Italia. Io devo pensare ad altro». E l’»altro» è appunto il futuro delle sue aziende. Dal punto di vista della «successione imprenditoriale» ma anche degli obiettivi strategici. «Non siamo messi bene — si è lasciato andare qualche giorno fa Fedele Confalonieri con un ex parlamentare di 26 centrodestra nella saletta vip di un aeroporto — i conti continuano a peggiorare. Dobbiamo inventarci qualcosa, proprio come fece Silvio negli anni `80». L’ex Cavaliere dunque sembra preso proprio dalla battaglia che si preannuncia con Sky. «Dobbiamo prepararci», è il suo refrain. E questo impegno, in realtà, ha anche un riflesso indiretto sulla politica. L’intero vertice del suo gruppo, dalla figlia Marina a Confalonieri a Doris, gli ripete che in questa fase la tattica migliore consiste nel «rimanere attaccati al governo Renzi». L’ex Cavaliere è ormai convinto che non è più nelle sue forze aprire contemporaneamente due fronti bellici: con lo Squalo australiano e con il presidente del consiglio. «L’esito — ripete ai suoi fedelissimi — sarebbe disastroso». E in più è convinto che finchè Forza Italia non aprirà le ostilità contro l’esecutivo «almeno Palazzo Chigi non farà leggi contro di noi. Da Renzi non mi aspetto aiuti ma nemmeno svantaggi ». Spera quindi in una sorta di imparzialità. E anche nell’uso della cosiddetta Golden power, la ex golden share. Per bloccare eventuali scalate ostili da parte di soggetti esterni all’Unione europea. Sebbene l’uso della golden power per le tv non sembra assolutamente praticabile: non rientra proprio nel novero dei casi in cui è utilizzabile questo strumento. Ma le sofferenze riguardano anche Sky e Rai. I tagli al «superfluo» cui sono state obbligate molte famiglie italiane si sono fatti sentire. La rete a pagamento ad esempio ha visto un decremento di quasi 200 mila abbonati negli ultimi due anni. L’ultimo bilancio si è chiuso con un meno 2,2 miliardi nei ricavi e un rosso di 8 milioni. Anche la tv pubblica ha visto flettere gli incassi pubblicitari senza una adeguata compensazione del canone e della lotta alla sua evasione. Il guanto di sfida, però, l’ha lanciato per primo il gruppo dell’ex Cavaliere. L’atto che ha dato il via alla nuova guerra dell’etere è stata l’assegnazione dei diritti tv del calcio. In particolare per la Champions league nel triennio 2015-2018. Una riserva di caccia da sempre nel carnet di Sky e che appunto dal prossimo anno passerà ai canali berlusconiani. L’emittente di Murdoch, allora, non intende rimanere a guardare. Il «passaggio» in chiaro, anche se la scelta non è ancora definitiva, è la prima opzione. Proprio per sfidare il Cavaliere nel suo «territorio storico». Contendergli lo share e soprattutto la raccolta pubblicitaria. Negli studi fatti nel quartier generale è previsto un graduale e progressivo «trasloco» a cominciare dai canali all news. Lo scontro dunque è aperto. Sebbene siano previste delle subordinate. Che riguardano il destino di un’altra pay-tv: la berlusconiana Premium. Che vive una fase di incertezza ancora più pesante rispetto alle «sorelle » in chiaro. Non è riuscita a sfondare il muro della concorrenza di Sky in modo significativo. Basti pensare che i canali Sky coprono una quota di questo mercato pari al 77,8% e Mediaset arriva al 19,1%. Le strategie della tv di Murdoch, quindi, potrebbero ad esempio cambiare se da parte di Berlusconi ci fosse un passo indietro proprio su Premium. Lasciandogli il monopolio di fatto delle reti a pagamento. Ma anche la Rai sta mettendo in moto delle contromisure. La possibile riorganizzazione, infatti, dovrebbe proprio rispondere all’esigenza di affrontare le nuove sfide di un mercato in completa evoluzione. E soprattutto dovrebbe mettere in campo una nuova strategia per combattere l’evasione del canone. La guerra delle tv, dunque, è solo l’inizio. Ma il 2015 sarà l’anno delle prime battaglie. 27 CULTURA E SCUOLA Del 20/10/2014, pag. 33 Concerti, opere liriche, documentari Al cinema non si vedono più solo i film Incassi record per lo show degli One Direction. La Prima della Scala in testa al box office Si può andare al cinema ma non per vedere un film? Sì, e piace sempre di più. Musica dal vivo (da Vasco ai Queen a Bruce Springsteen), lirica (dalla Royal House di Londra al Met di New York, alla Scala) e balletto (Bolshoi di Mosca), teatro (i successi del National Theatre di Londra), documentari (da Leonardo a Pompei) e, new entry, serie tv («Gomorra»), chiamati tecnicamente «contenuti complementari», non sono più una novità ma la nuova tendenza sul grande schermo. Grazie all’altissima qualità cinematografica e alla diretta via satellite, i «complementari» hanno generato un incremento di pubblico che oscilla tra il 60% e il 90%, rivelandosi un prodotto vincente con cui convincere una platea sempre più differenziata ed esigente ad andare al cinema, e su cui puntare per invertire la direzione di un trend al ribasso. Lo conferma il trionfo da record stabilito dal film-concerto degli One Direction proiettato nello scorso weekend. Where we are è stato l’«evento al cinema» più visto di sempre in Italia: 120 mila spettatori, 288 sale coinvolte, un box office di 1.350.000 euro. Nel periodo ottobre 2013 – ottobre 2014, la società di produzione e distribuzione di complementari Nexo Digital ha messo a segno un brillante +62% di pubblico. Eccellenti anche i risultati registrati da QMI Quantum Marketing Italia (specializzata nell’ideazione e sviluppo di attività di comunicazione nell’ambito dell’intrattenimento), il cui pubblico, nel biennio 2011-2013, è triplicato passando da 319 mila a 963 mila presenze (incassi 2,8 mln – 7,2 mln, dato Cinetel). Per Microcinema (network europeo di sale digitali via satellite) i dati degli incassi al box office del 2013, rispetto al 2012, hanno totalizzato un aumento dell’86% — solo i tre film live su Doors, Rolling Stones e Queen hanno incassato oltre un milione di euro — mentre l’affluenza del pubblico è cresciuta di un vertiginoso +93%. «La Prima della Scala — sottolinea Roberto Bassano, presidente di Microcinema —, il nostro fiore all’occhiello, fa concorrenza ai grandi blockbuster: nel 2013, La Traviata con un solo spettacolo, ha scalato il vertice del botteghino». Una valutazione corretta dell’andamento del 2014 si potrà fare solo dopo il tradizionale appuntamento del 7 dicembre; ma, chiosa Bassano, «quest’anno il contenuto complementare da noi proposto potrebbe superare i 250 mila spettatori. Sfiorando, come box office, 3 milioni di euro». Live, lirica, teatro, balletto sono spesso programmati nei giorni feriali, quando l’affluenza nelle sale è più ridotta. «Una scelta strategica — spiega Bassano — che da un lato permette al pubblico di continuare a frequentare con interesse crescente e soddisfazione i cinema; dall’altro, grazie al digitale, di concedere una boccata di ossigeno agli esercenti». Attingere a un catalogo che dalla tradizionale programmazione cinematografica si apra sempre più a una gamma di contenuti destinati ad ampliare e rafforzare le potenzialità della sala, intesa anche come centro di intrattenimento e di aggregazione, è la sfida da vincere. «Gli over 30 — osserva Giovanni Cova, presidente di QMI — spesso scelgono il film in base al cinema che li garantisce nel complesso dei contenuti offerti; gli under 30 preferiscono invece, in linea di massima, i multiplex. Che, con l’offerta di film commerciali, si trasformano anche in luogo di incontro tra amici». 28 E se tra le novità pop in arrivo c’è attesa per il film sugli Spandau Ballet (domani e dopo nelle sale), e per il concerto dei Modà a San Siro (11 e 12 novembre), anche il palinsesto cinematografico dedicato all’arte ha in serbo delle vere chicche. «Nella nuova stagione ci presentiamo con una serie di tour dei più grandi musei e delle più importanti mostre d’arte del mondo — anticipa Franco Di Sarro, ad di Nexo Digital —. Con la “visita” all’Hermitage di San Pietroburgo, il 14 ottobre scorso, abbiamo conquistato il podio del box office (15 mila spettatori, 150 mila euro di incasso) superando The Equalizer , l’action thriller con Denzel Washington. Un successo che speriamo di replicare il 4 novembre con il tour guidato dei Musei Vaticani e della Cappella Sistina, prodotto da Sky 3D e Sky Arte HD». Laura Zangarini AFFARI e FINANZA Del 20/10/2014, pag. 28 “La musica è una grande industria e l’Europa deve tutelarla sul web” PARLA FILIPPO SUGAR, IL VICEPRESIDENTE SIAE: “LA CREATIVITÀ È IL TERZO SETTORE ECONOMICO DELL’UE DOPO EDILIZIA E FOOD. CREA RICCHEZZA MA SEMPRE PIÙ A VANTAGGIO DELLE LE GRANDI INTERNET COMPANY. ECCO COME RIEQUILIBRARE LE COSE” Stefano Carli «Il mercato della musica continua a ridursi. Nel primo semestre di quest’anno sono ancora scese le vendite fisiche di musica, ma è sceso anche il download, iTunes, per intenderci. L’unico segmento di mercato che sale è quello delle subscription, gli abbonamenti tipo Spotify o Deezer. Le proporzioni sono preoccupanti: si può dire che gli abbonamenti stanno cannibalizzando il download. Ma questo aumento di abbonamenti non compensa il calo dei ricavi dagli altri canali e il mercato si sta impoverendo». Filippo Sugar, presidente e ad di Sugar Music Group e vicepresidente della Siae è pessimista. «Manca una visione strategica europea su questo settore. L’Europa e l’Italia devono rilanciare la loro industria creativa, creare le condizione per un nuovo rinascimento culturale». Perché dice che è un problema europeo? «Perché c’è un dato di fatto evidente- seppure spesso ignorato e trascurato». Quale? «Che l’industria della creatività, in cui non c’è ovviamente solo la musica, ma di cui la musica è un segmento rilevante, vale in Europa 638 miliardi di euro, ossia il 7,5% del pil europeo. E dà lavoro a quasi 10 milioni di persone. E’ il terzo comparto economico dell’Unione dopo le costruzioni ed il food, e molto prima dell’auto. Ecco perché mi pare evidente come sia una priorità per l’Europa trovare una forma di tutela di questa industria». Perseguendo quali obiettivi? «Non possiamo rincorrere il modello Silicon Valley. In Europa non abbiamo un grande motore di ricerca, non abbiamo più nemmeno produttori di smartphone. Ma abbiamo una grande industria di produzione di contenuti e dobbiamo tutelarla. Mettendo a frutto le opportunità che le grandi Internet company ci danno senza rinunciare all’adeguata remunerazione. Se le risorse che la nostra industria produce vengono assorbite da società che non danno lavoro in Europa e non pagano tasse in Europa, a perderci saranno tutti i cittadini europei e la nostra industria non avrà più risorse da investire. Nel nostro settore, 29 la musica, ciò vuol dire anche non avere più la forza di fare scouting di nuovi talenti, di scoprirli e di farli crescere». Avete già delle proposte o siamo ancora alla sola presa di consapevolezza? «La consapevolezza di essere un settore è già un passaggio fondamentale, un passo importante sarà il recepimento della direttiva Ue che entrerà in vigore ad aprile 2016: un grande passo avanti che fissa i nuovi criteri di trasparenza e di governance delle collecting society come la Siae in Italia, la Sacem in Francia e le altre omologhe in Germania, Olanda, Spagna. La direttiva spinge le grandi società di diritto d’autore verso aggregazioni ed alleanze internazionali per rendere più efficiente da un lato la raccolta dei diritti, dall’altro facilitare gli utilizzatori». Cosa succederà? Si contrasterà la situazione attuale in cui c’è una specie di monopolio su ogni mercato nazionale, come con la Siae in Italia? «Non è un monopolio vero e proprio. O meglio, lo è di fatto ma solo perché è più efficace che ci sia una sola società a raccogliere i diritti perché così sia chi li deve pagare, sia che li deve riscuotere, gli artisti, ha un solo interlocutore e ciò fa risparmiare tempi e costi. E’ così ovunque, anche in Francia, in Germania, in Olanda. La Siae è impegnata a rinnovarsi e a vincere la sfida per rimanere la casa dei creativi italiani anche nel futuro. Chi sostiene la parcellizzazione di società di collecting con scopo di lucro nei singoli paesi non fa certo l’interesse degli autori italiani». E poi? «Poi c’è un obiettivo già raggiunto, l’aumento delle tariffe sulla cosiddetta “copia privata». Che vi ha attirato addosso molte polemiche in estate, quando è stata varata. «Sì, ma resto convinto che sia un’ottima soluzione: se acquisto un cd oppure un file musicale dal mio pc devo poterlo copiare sul mio smartphone, sul mio tablet e poi ancora sul mio prossimo smartphone. Come consumatore voglio questa libertà. Tuttavia è giusto che questo diritto di copia venga ricompensato. I produttori di hardware versano un compenso forfettario in base a tariffe, e queste tariffe sono state adeguate a giugno. La copia privata è uno strumento di riequilibrio tra i produttori di contenuti e l’industria della tecnologia. Aggiungo poi un problema: vige un totale disequilibrio tra il valore che portano i contenuti e quanto piattaforme come Google e TouTube riconoscono agli stessi. La “benzina” di queste piattaforme sono i contenuti». Ma non paga certo Google, pagano i produttori di terminali. E forse, alla fine, gli utenti stessi. «No, questo no. L’aumento è scattato a luglio e i primi dati aggregati per capire la consistenza dei flussi per la Siae li avremo da gennaio ma già ora vediamo che non ha inciso sui prezzi dell’hardware. Gli I-Phone francesi pagano un diritto di copia privata più alto che in Italia ma in Francia gli I-Phone costano meno che da noi». Basterà a ridare ossigeno al mercato musicale, anche in Italia? «Certamente è un passo importante. Vede, spesso un’industria regredisce perché il prodotto che crea non interessa più. Ma nel caso di quella musicale, la situazione è opposta. Non c’è mai stato nella storia un appetito e un consumo di musica come quello odierno». Ma allora qual è il problema di promuovere e lanciare nuovi talenti? «La mancanza di risorse dovute ad un mercato troppo piccolo non solo riduce la nostra capacità di investire rispetto al passato, ma ha molte conseguenze anche su altri aspetti del nostro lavoro. Per esempio, oggi c’è una grande differenza nella classifica dei dischi più venduti. La classifica tradizionale del prodotto fisico è ancora fortemente caratterizzata da artisti italiani. Quella dei servizi digitali ne vede invece una presenza molto minore. Credo che il processo di localizzazione di molti servizi di distribuzione digitale in Italia sia ancora agli inizi. Questo comporta maggiori difficoltà per promuovere artisti locali. Se sui 30 media tradizionali troviamo sempre attenzione per il prodotto italiano, sui media digitali che spesso hanno una presenza in Italia ancora embrionale si fa più fatica. Quindi la chiave è sempre quella di far crescere il nostro mercato, in modo che aumentino le opportunità per i nostri talenti e si creino adeguati ritorni affinché si possa aumentare gli investimenti dell’industria musicale». 31