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Notiziario settimanale n. 626 del 17/02/2017 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace "Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri" don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù" Umiltà e fierezza – Lettera aperta di Renato Accorinti, sindaco di Messina (di Renato Accorinti).................................................................................. 7 Notizie dal mondo........................................... 8 La sentenza di primo grado del "processo Condor" (di Geraldina Colotti). 8 Turchia, in sette mesi espulsi 4.811 accademici (di Murat Cinar)..............8 Associazioni..................................................... 9 Casa di Accoglienza di via Godola a Massa: Report 2016 (di Associazione Volontari Ascolto Accoglienza).................................................................. 9 Editoriale Un patto scellerato contro i migranti Zanotelli) 17/02/2017: Chiese evangeliche: festa della libertà religiosa (si ricorda il riconoscimento ai valdesi dei diritti civili e politici nel 1848) 24/02/2017: Giornata del Risparmio energetico "M'illumino di meno" L’Alta Corte del Kenya blocca la chiusura del più grande campo profughi del mondo “Discriminatorio, eccessivo, arbitrario e sproporzionato”, nonché una sorta di punizione collettiva. Con queste parole perentorie, il 9 febbraio, il giudice dell’Alta Corte del Kenya JM Mativo ha bocciato il decreto con cui il governo di Nairobi intendeva chiudere il campo rifugiati di Dadaab, il più grande del mondo, dove si trovano attualmente oltre 260.000 profughi somali. Il giudizio dell’Alta Corte era stato sollecitato dalla Commissione Nazionale per i Diritti Umani e da Kituo Cha Sheria, due organizzazioni non governative kenyane ed era stato sostenuto da Amnesty International. La sentenza ricorda anche l’obbligo costituzionale e di diritto internazionale del Kenya di proteggere le persone che cercano riparo dalla persecuzione. Riccardo Noury [fonte: Pressenza: international press agency] Indice generale Editoriale......................................................... 1 Un patto scellerato contro i migranti (di Alex Zanotelli) ........................... 1 Evidenza...........................................................2 #8marzo Sciopero internazionale delle donne (di Nonunadimeno) ............2 La lettera di Michele è un sintomo (di Marco Rovelli) ............................... 3 Approfondimenti.............................................3 Le foibe e i crimini che le hanno precedute (di Predrag Matvejevic) .........3 Cedric Herrou: “Continuerò a battermi per aiutare i migranti” (di Piero Bosio)........................................................................................................ 5 Accordo Italia -Libia, ASGI all’Italia e all’UE : Così si tradisce lo spirito europeo (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)....................5 L’obiezione del priore (di Mario Lancisi).................................................. 6 1 (di Alex “Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica,- ha detto il Presidente della Commissione Europea, Tusk – possiamo ora chiudere la rotta libica.” Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro Presidente del Consiglio Gentiloni con il leader libico Fayez al Serraj, per bloccare le partenze dei migranti attraverso il canale di Sicilia. E’ la vittoria del cosiddetto Migration Compact (Patto per l’Immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto dall’allora Ministro degli Esteri , Gentiloni. “Lo stesso impegno profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, – aveva affermato Gentiloni lo scorso anno davanti alla Commissione Trilaterale,- va ora usato sulla rotta del Mediterraneo Centrale per chi arriva dalla Libia.” Gentiloni, ora che è presidente del Consiglio, lo sta realizzando. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo UE con la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro, regalati a un despota come Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani, iracheni, afghani in fuga da situazioni di guerra. “I 28 paesi della UE hanno scritto con al Turchia – ha affermato Hein del Consiglio Italiano per i Rifugiati – una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’ un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri.” Visto il successo (!!) di quel Patto, il governo italiano lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a nome della UE, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un paese oggi frantumato in tanti pezzi, dopo quella guerra assurda che abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e la UE hanno riconosciuto Fayez al Serraj come il legale rappresentante del paese, una decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar. Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a Tripoli. Il Piano della Commissione Europea prevede di creare in Libia una ‘linea di protezione’ (una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi di Stato della UE a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del Migration Compact, definito da G. Ajassa su la Repubblica “necessario, Gruppo di redazione: Antonella Cappè, Chiara Bontempi, Maria Luisa Sacchelli, Maria Stella Buratti, Marina Amadei, Daniele Terzoni, Federico Bonni, Giancarlo Albori, Gino Buratti, Massimo Pretazzini, Michele Borgia, Oriele Bassani, Paolo Puntoni, Roberto Faina, Severino Filippi, Studio 8 Elisa Figoli & Marco Buratti (photo) anzi urgente!” La UE vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui partono i migranti. Per ora la UE ha scelto cinque paesi chiave: Niger, Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo tanti soldi per lo sviluppo. Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora Ministro degli Esteri, Gentiloni ha visitato il Niger , Mali e Senegal. Si è soprattutto focalizzata l’attenzione su un paese- chiave per le migrazioni: il Niger. E’ significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella capitale del Niger, Niamey. “I ‘buoni’ sono la Ue, l’Italia, il Migration Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari – scrive il missionario Mauro Armanino che opera a Niamey- i ‘brutti’ sono migranti irregolari… Noi preferiamo stare con i ‘brutti’, coloro che ritengono che migrare è un diritto!” Che ipocrita quest’Europa che offre soldi all’Africa per “svilupparsi” e impedire i flussi migratori, mentre la strozza economicamente! La UE sta forzando ora i paesi africani a firmare gli Accordi di Partenariato Economico (EPA) che li obbliga a togliere i dazi doganali, permettendo così alla UE di svendere sui mercati sub-sahariani i suoi prodotti agricoli, affamando così l’Africa. Senza parlare del land-grabbing, perpetrato anche da tante nazioni europee nonché dalla macchina infernale del debito con cui strangoliamo questi popoli. Per cui la fuga di milioni di esseri umani. Ad accoglierli ora ci sarà il blocco nei vari paesi e poi quello navale. E se riusciranno ad arrivare in Europa, troveranno muri, filo spinato, campi profughi e lager. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, vuole infatti rilanciare i famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE) in tutte le regioni d’Italia, che sono veri e propri lager. ”Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi – ha detto Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti popolari lo scorso novembre – è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta dell’umanità”! Cosa succede al mondo di oggi che,’ quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarle, ma quando avviene questa ‘bancarotta dell’umanità’, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto! E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente.” Scioperiamo per affermare la nostra forza. Ribadiamo ancora una volta la richiesta a tutti i sindacati di convocare per quella giornata uno sciopero generale di 24 Ore, Non un’ora meno, e chiediamo alle realtà confederali ed in particolare alla Cgil di rispondere pubblicamente sulla convocazione dello sciopero generale. Scioperiamo perché La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali. I centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Rifiutiamo il cosiddetto Codice Rosa nella sua applicazione istituzionale e ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale. Pretendiamo che nell’elaborazione di ogni iniziativa di contrasto alla violenza vengano coinvolti attivamente i centri antiviolenza. Senza effettività dei diritti non c’è giustizia né libertà per le donne Scioperiamo perché vogliamo la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile contro le donne, da quella psicologica a quella perpetrata sul web e sui social media fino alle molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Pretendiamo che le donne abbiano rapidamente accesso alla giustizia, con misure di protezione immediata per tutte, con e senza figli, cittadine o straniere presenti in Italia. Vogliamo l’affidamento esclusivo alla madre quando il padre usa violenza. Vogliamo operatori ed operatrici del diritto formati perché le donne non siano rivittimizzate. Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi Non possiamo più tacere: è in ballo la vita, la vita di milioni di migranti, che per noi sono, con le parole di Papa Francesco.”la carne di Cristo.” Scioperiamo perché vogliamo l’aborto libero, sicuro e gratuito e l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Scioperiamo contro la violenza ostetrica, per il pieno accesso alla Ru486, con ricorso a 63 giorni e in day hospital. Scioperiamo contro lo stigma dell’aborto e rifiutiamo le sanzioni per le donne che abortiscono fuori dalle procedure previste per legge a causa dell’alto tasso di obiezione: perché ognun* possa esercitare la sua capacità di autodeterminarsi. Vogliamo superare il binarismo di genere, più autoformazione su contraccezione e malattie sessualmente trasmissibili, consultori aperti a esigenze e desideri di donne e soggettività LGBTQI, indipendentemente da condizioni materiali-fisiche, età e passaporto. (fonte: Comune-info - facciamo Comune insieme) link: http://comune-info.net/2017/02/un-patto-scellerato-migranti/ Se le nostre vite non valgono, scioperiamo! Davanti a queste parole così chiare e dure, mi sconcerta il silenzio della Conferenza Episcopale Italiana. Ma altrettanto mi sorprende il silenzio degli Istituti missionari: finora non c’è stata una presa di posizione unitaria e dura su quanto sta avvenendo, che ci toccano direttamente come missionari. Evidenza #8marzo Sciopero internazionale delle donne (di Nonunadimeno) 8 punti per l’8 marzo. È questa la piattaforma politica formulata dalle 2000 persone riunite in assemblea nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio, che hanno proseguito il lavoro sul piano femminista antiviolenza e stanno organizzando lo sciopero delle donne dell’8 marzo che coinvolge diversi paesi nel mondo. I punti esprimono il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e transfobia. L’8 marzo quindi incrociamo le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne non si combatte con l’inasprimento delle pene ? come l’ergastolo per gli autori dei femminicidi in discussione alla Camera ? ma con una trasformazione radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città con cortei, assemblee nello spazio pubblico, manifestazioni creative. 2 Scioperiamo per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà, perché non accettiamo che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro; un salario minimo europeo, perché non siamo più disposte ad accettare salari da fame, né che un’altra donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case e nella cura in cambio di sotto-salari e assenza di tutele; un welfare per tutte e tutti organizzato a partire dai bisogni delle donne, che ci liberi dall’obbligo di lavorare sempre di più e più intensamente per riprodurre le nostre vite. Vogliamo essere libere di muoverci e di restare. Contro ogni frontiera: permesso, asilo, diritti, cittadinanza e ius soli Scioperiamo contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà delle migranti, contro il razzismo istituzionale che sostiene la divisione sessuale del lavoro. Sosteniamo le lotte delle migranti e di tutte le soggettività lgbtqi contro la gestione e il sistema securitario dell’accoglienza! Vogliamo un permesso di soggiorno incondizionato, svincolato da lavoro, studio e famiglia, l’asilo per tutte le migranti che hanno subito violenza, la cittadinanza per chiunque nasce o cresce in questo paese e per tutte le migranti e i migranti che ci vivono e lavorano da anni. Vogliamo distruggere la cultura della violenza attraverso la formazione Scioperiamo affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università, per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere. Non ci interessa una generica promozione delle pari opportunità, ma coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità. Scioperiamo contro il sistema educativo della “Buona Scuola” (legge 107) che distrugge la possibilità che la scuola sia un laboratorio di cittadinanza capace di educare persone libere, felici e autodeterminate. Vogliamo fare spazio ai femminismi Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività. Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*, sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione. Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente. Rifiutiamo i linguaggi sessisti e misogini “vogliamo tutto” nasceva da una pratica: vogliamo-dunqueceloprendiamo. E il massimo è diverso dal tutto: il tutto è una circonferenza in cui c'è posto per tutti; il massimo sta in un immaginario che vede una scala sociale naturale, e se c'èun massimo c'è anche un minimo, c'è qualcuno che vince e qualcuno che perde, e se nonostante tutti gli sforzi siamo tra i perdenti non lo accettiamo. E tanto meno riusciamo ad accettarlo nella misura in cui i nostri legami sociali sono tenui, nella misura in cui siamo stati costretti nell'individualismo regressivo, nell'isolamento che è la forma di vita a cui il tempo presente ci vorrebbe costringere. Michele pretendeva (come potrebbe essere considerato tipico di una generazione in cui il Narciso ha sostituito l'Edipo, così ci dicono). Pretendeva che il mondo lo accogliesse (l'epoca “si permette” di accantonarmi: come può permettersi di ignorarmi? Perciò “imporrò la mia assenza”). Pretendeva che “l'altro genere” lo accogliesse: come fosse un suo dovere, per “l'altro genere” accogliere “il maschio”, e poiché non lo accoglie i sentimenti sono “sprecati”: dove sono sprecati solo sulla base di una concezione dei rapporti sociali come un dare-avere, come uno scambio, invece che una che legge i sentimenti come una donazione che non ha misura possibile. Questa pretesa può essere compresa solo sullo sfondo di quei sogni che questo tempo fa balenare, salvo poi sottrarsi e lasciare chi non coglie le promesse di felicit come un naufrago, fino a soccombere. Michele è una vittima di questo tempo. E una vittima deve essere ascoltata fino in fondo, per quello che dice e per quello che non dice. Perchè quello che non dice, e non lo dice perché lui stesso non lo sa, ci indica una via d'uscita. Quella che, ahimé, Michele non ha avuto la forza di cogliere. Marco Rovelli Post su Facebook del 09/02/2017 link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2700 Scioperiamo contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans. Rovesciamo la rappresentazione delle donne che subiscono violenza come vittime compiacenti e passive e la rappresentazione dei nostri corpi come oggetti. Agiamo con ogni media e in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri. Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo. #NonUnaDiMeno #LottoMarzo link: https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/02/08/8-punti-per-l8-marzo-nonunora-meno-di-sciopero/ La lettera di Michele è un sintomo (di Marco Rovelli) Ho letto la lettera di Michele, suicidatosi a trent'anni. Un fatto enorme, che non può non provocare la nostra empatia più profonda. Quella lettera l'ho vista ripresa più volte, riprodotta quasi fosse un manifesto rivendicativo generazionale. Ma quella lettera non è un manifesto: e non solo perché una dichiarazione di resa - che è diritto assoluto di ogni individuo . non può divenire un fatto collettivo, un legame sociale. Il fatto è che quella lettera è un sintomo. E un sintomo sta per qualcosa di cui è un'emergenza, e si manifesta nell'inconsapevolezza di ciò che lo determina. Il senso di una sconfitta non può essere un manifesto generazionale. La generazione dei precari non è questo. Ciò che compare nelle parole di Michele – nel suo dolore che le ha forgiate - è l'introiezione passiva (inconsapevole) di un modello vincente. Non c'è resistenza; ma se non c'è resistenza (il potere produce attrito) la storia è finita. Ed è questa nonimmaginazione che il potere presente vuole: vuole convincere tutti della mancanza di prospettive. Produce mancanza di immaginazione. Qui, in questa lettera, non c'è solo una stanchezza metafisica (questa iterazione: “sono stufo...”), un'esaustione che polverizza la stessa capacità di fare domande, ovvero la natura più propria dell'animale umano. Qui, soprattutto, c'è la rivendicazione di una serie di pretese non soddisfatte. Si pretende “il massimo”. E siccome non l'ho avuto, la faccio finita, mi consegno al minimo. Una volta si gridava “vogliamo tutto”: ma quel 3 Approfondimenti Fare memoria Le foibe e i crimini che le hanno precedute (di Predrag Matvejevic) Pubblichiamo questo articolo dello scrittore Predrag Matvejevic, docente all'Università La Sapienza di Roma, pubblicato il 12 febbraio 2005 sul quotidiano fiumano “Novi List”, con il quale interviene sulla questione delle foibe e del giorno del ricordo, condannando tutti i crimini e il rischio delle strumentalizzazioni. Queste righe sono state scritte nel Giorno del ricordo in Italia, 10 febbraio 2005 - quel dispiacere lo condivido con molti cittadini di questo Paese. I crimini delle fosse e quelli che in esse vi sono finiti, ciò che le ha precedute e che le ha seguite, l'ho condannato da tempo - mentre vivevo in Jugoslavia, quando di ciò in Italia si parlava raramente e non abbastanza. Ho scritto pure sui crimini di Goli Otok, di cui sono state vittime molti comunisti, Jugoslavi e Italiani che erano più vicini a Stalin e Togliatti che al "revisionismo" di Tito. Ho parlato anche della sofferenza degli esiliati italiani dall'Istria e dalla Dalmazia, dopo la Seconda Guerra mondiale l'ho fatto in Jugoslavia, dove probabilmente era più difficile che in Italia. Non so di preciso quanti scrittori italiani ho presentato, che allora erano costretti ad andare via e quelli che sono rimasti: Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Dilani, Diego Zandel, Claudio Ugussi, Giacomo Scotti, ecc. Non ricordo quanti articoli ho pubblicato sulla stampa delle minoranza italiana, poco conosciuta in Italia, così da poterla appoggiare, desiderando che fosse meno sola e meno esposta - e anche loro mi hanno appoggiato quando decisi di andarmene. Le fosse, o le foibe come le chiamano gli Italiani, sono un crimine grave, e coloro che lo hanno commesso si meritano la più dura condanna. Ma bisogna dire sin da ora che a quel crimine ne sono preceduti degli altri, forse non minori. Se di ciò si tace, esiste il pericolo che si strumentalizzino e "il crimine e la condanna" e che vengano manipolati l'uno o l'altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovacic ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono. La storia ingloriosa iniziò molto prima, non lontano dai luoghi in cui furono commessi i crimini. Prenderò qualcosa dai documenti che abbiamo a disposizione: il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non scelse a caso quella città). Annuncia: "Per la creazione del nostro sogno mediterraneo, è necessario che l'Adriatico (si intende tutto l'Adriatico, ndr.), che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di fronte alla inferiorità della razza barbarica quale è quella slava". Il razzismo così entra in scena, seguendo la "pulizia etnica" e il "trasferimento degli abitanti". Le statistiche che abbiamo a disposizione fanno riferimento alla cifra approssimativa di 80.000 esuli Croati e Sloveni durante gli anni venti e trenta. Non sono riuscito a confermare quanti poveri siano stati portati dalla Calabria, e non so da dove altro, per poterli sostituire. Gli Slavi perdono il diritto, che avevano prima in Austria, di potersi avvalere della propria lingua sulla stampa e a scuola, il diritto al predicare in chiesa, e persino l'iscrizione sulla tomba. Le città e i villaggi cambiano nome. I cittadini e le famiglie pure. Lo Stato italiano estesosi dopo il 1918 non tenne in considerazione le minoranze e i loro diritti, cercò o di denazionalizzarli totalmente o di cacciarli. Proprio in questo contesto per la prima volta si sente la minaccia delle foibe. Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l'appellativo vittorioso di "Giulio Italico", scrive nel 1927: "La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell'Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell'Istria" ("Gerarchia", IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: "A Pola xe arena, Foiba xe a Pizin" ("A Pola c'è l'arena, a Pazina le foibe"). Mutuo questo detto da Giacomo Scotti, scrittore italiano di Rijeka. Le "foibe" sono, quindi, un'invenzione fascista. Dalla teoria si è passati velocemente alla prassi. Il quotidiano triestino "Il Piccolo" (5.XI.2001) riporta la testimonianza dell'ebreo Raffaello Camerini che era ai lavori forzati in Istria, alla vigilia della capitolazione dell'Italia, nel luglio 1943: la cosa peggiore che gli successe fu prendere gli antifascisti uccisi e buttarli nelle fosse istriane, per poi cospargere i loro corpi con la calce viva. La storia avrebbe poi aggiunto a ciò ulteriori dati. Uno dei peggiori criminali dei Balcani fu di sicuro il duce ustascia Ante Pavelic. Jasenovac fu un Auschwitz in piccolo, con la differenza che in esso si facevano lavori perlopiù "manualmente", ciò che i nazisti fecero "industrialmente". E le fosse, ovviamente, furono una parte di tale "strategia". Mi chiedo se anche uno degli scolari italiani in uno dei suoi sussidiari poteva leggere che quello stesso Pavelic con le squadre dei suoi seguaci più criminali per anni godette dell'ospitalità di Mussolini a Lipari, dove ricevette aiuto e istruzioni dai già allenati "squadristi" fascisti. Quelli che oggi parlano dei programmi scolastici in Italia e sul luogo delle foibe, non dovrebbero trascurare di includere anche questi dati. E anche altro vale la pena di ricordare: il governo di Mussolini aveva annesso la maggior parte della Slovenia insieme con Lubiana, la Dalmazia, il Montenegro, una parte della Bosnia Erzegovina, l'intera Bocca di Cattaro. A quel tempo, tra il 1941 e il 1943, di nuovo, furono cacciati dall'Istria circa 30.000 Slavi Croati e Sloveni - e fu occupata la regione. Le "camicie nere" fasciste portarono a termine fucilazioni individuali e di massa. Fu falciata un'intera gioventù. I dati che provengono da fonti jugoslave fanno riferimento a circa 200.000 uccisi, particolarmente sulle coste e sulle isole. La cifra mi sembra che sia però ingrandita - ma anche se solo un quarto rispecchiasse la realtà, sarebbe già molto. In Dalmazia gli occupanti italiani catturarono e fucilarono Rade Koncar, uno dei capi del movimento, il più stretto collaboratore di Tito. In determinate circostanze hanno pure aiutato il capo dei cetnici serbi in Dalmazia, il pope Ðuijic, che incendiò i villaggi croati 4 e sgozzò gli abitanti, vendicandosi con gli ustascia per i massacri che avevano commesso contro i Serbi. Così da fuori prese impulso pure la guerra civile interna. A ciò occorre aggiungere l'intera catena dei campi di concentramento italiani, i più piccoli e i più grandi, dall'isoletta di Mamula nel profondo sud, davanti a Lopud nelle Elafiti, fino a Pago e Rab nel golfo del Quarnaro. Erano spesso stazioni di transito per la mortale risiera di San Sabba di Trieste, e in alcuni casi anche per Auschwitz o Dachau. I partigiani non furono protetti dalla Convenzione di Ginevra (in nessun luogo al mondo) così che i prigionieri furono subito fucilati come cani. Molti terminarono la guerra con gravi ferite, corporali e morali. Tali erano quelli in grado di commettere crimini come le foibe. Non c'è nessun dato in nessun archivio, militare o civile, sulla direttiva che sarebbe giunta dall'Alto comando partigiano o da Tito: le unità di cui facevano parte molti di quelli che avevano perso i familiari, i fratelli, gli amici, commisero dei crimini "di propria mano". Purtroppo, il fascismo ha lasciato dietro di sé talmente tanto male che le vendette furono drastiche non solo nei Balcani. Ricordiamoci del Friuli, nella parte confinante con l'Italia, dove non c'erano scontri tra nazionalità: i dati parlano di diecimila uccisi senza tribunale, alla fine della guerra. In Francia ce ne furono oltre 50.000. In Grecia non so quanti. In Istria e a Kras dalle foibe sono stati esumati fino ad ora 570 corpi (lo storico triestino Galliano Fogar ne riporta persino un numero minore, notando che nelle fosse furono gettati anche alcuni soldati uccisi sui campi di battaglia, non solo Italiani). Oggi possiamo sentire la propaganda che su svariati media italiani fa riferimento a "decine di migliaia di infoibati". Secondo lo storico italiano Diego de Castro nella regione furono uccisi circa 6.000 Italiani. Non serve aumentare o licitare quel tragico numero, come in questo momento sembrano fare i giornali italiani, con 30.000 o 50.000 uccisi. Bisogna rispettare le vittime, non gettare sulle loro ossa altri morti, come hanno fatto gli "infoibatori". Per ciò che riguarda invece i luoghi che tutti questi dati occupano nell'immaginario, non mi sembra che sia benvenuta la propaganda che come tale è diffusa dal film "Il cuore nel pozzo", che in questi giorni è stato visto in televisione da circa 10 milioni di Italiani, pubblicizzato in un modo incredibilmente aggressivo. Nessuna testimonianza storica parla di una madre che i partigiani portano via dal figlio e poi la buttano nelle foibe! Questa è un'invenzione tendenziosa dello sceneggiatore. Il cinema italiano ha una eccellente tradizione nel neorealismo, una delle più significative di tutta la moderna cinematografia - non gli servono dei modelli simili al "realismo sociale", dei film sovietici girati negli anni sessanta del secolo scorso. E nei preparativi, che in questi giorni sono stati organizzati, o nelle trasmissioni tv più guardate, sarebbe stato meglio se ci fosse stato qualche ministro che avesse, rispetto al fascismo, un diverso passato piuttosto che quelli che abbiamo visto in scena. Ciò sarebbe servito da modello e autenticità alle testimonianze. La Jugoslavia non esiste più. Croati, serbi, sloveni e gli altri nazionalisti si compiacciono quando la destra italiana gli offre nuovi argomenti per accusare lo Stato che essi stessi hanno lacerato. (Ricordiamoci che il film è stato girato in Montenegro, nella Bocca di Cattaro, con un attore serbo che interpreta il ruolo del partigiano sloveno...) Così di nuovo si feriscono i popoli le cui cicatrici ancora non sono state medicate. È questo il modo migliore - in particolare se se allo stesso tempo si nasconde tanto quanto non corrisponde a verità? Perché, non c'è una qualche via migliore? Il dispiacere che condividiamo può essere reso in un modo più degno e nobile, la storia in modo meno mutilato e difettoso? Non è fino a ieri che vicino a Trieste passava la più aperta frontiera tra l'Oriente e l'Occidente, al tempo della guerra fredda e della grande prosperità della città di San Giusto? Gli Italiani e i Croati in Istria, in questi ultimi anni, non hanno forse trovato un linguaggio comune per opporsi al nazionalismo tudjmaniano molto più di quanto non sia stato fatto altrove in Croazia? E alla fine a chi serve questa strumentalizzazione di cui siamo testimoni? Non siamo ingenui. Si tratta di una mobilitazione eccezionalmente riuscita del berlusconismo nello scontro con l'opposizione, con la sinistra e le sue relazioni col comunismo che, secondo le parole di Berlusconi, ha sempre e solo portato "miseria, morte e terrore", e persino anche quando sacrificò 18 milioni di vittime di Russi nella lotta per la liberazione dell'Europa dal fascismo. Questa campagna meditata è iniziata 5-6 anni fa, al tempo in cui fu pubblicato "Il libro nero sul comunismo", distribuito pubblicamente dal premier ai suoi accoliti. Essa è condotta, pubblicamente e dietro le quinte, abilmente e sistematicamente. Il suo vero scopo non è nemmeno quello di accusare e umiliare gli Slavi, ma danneggiare i propri rivali e diminuire le loro possibilità elettorali. Ma gli Slavi - in questo caso perlopiù Croati e Sloveni - ne stanno pagando il conto. Esiste una sorta di "anticomunismo viscerale" che secondo le parole di un mio amico, il geniale dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del peggiore comunismo. Il sottoscritto forse ne sa qualcosa di più: ha perso quasi l'intera famiglia paterna nel gulag di Stalin. Ma per questo non disprezza di meno i fascisti. Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Luka Zanoni Fonte: http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-icrimini-che-le-hanno-precedute-28246 Segnalato da: Ildo Fusani Predrag Matvejevic (Mostar, 7 ottobre 1932 – Zagabria, 2 febbraio 2017) è stato uno scrittore e accademico jugoslavo con cittadinanza croata naturalizzato italiano. Docente di letterature alle università di Zagabria, Parigi e Roma, è conosciuto per il saggio del 1987 Breviario mediterraneo, lavoro fondativo della storia culturale della regione del Mediterraneo, che è stato tradotto in oltre venti lingue. Conclude così questo testo pubblicato nel 2005: Esiste una sorta di "anticomunismo viscerale" che secondo le parole di un mio amico, il geniale dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del peggiore comunismo. Il sottoscritto forse ne sa qualcosa di più: ha perso quasi l'intera famiglia paterna nel gulag di Stalin. Ma per questo non disprezza di meno i fascisti. (fonte: Osservatorio sui Balcani - segnalato da: Ildo Fusani) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2702 Immigrazione Cedric Herrou: “Continuerò a battermi per aiutare i migranti” (di Piero Bosio) “Ora potrò continuare ad agire per alleviare le sofferenze dei migranti. Non saranno di certo le minacce di un prefetto o gli insulti di qualche politico a fermarmi. Continuerò, perché è necessario continuare”. Sono le parole di Cédric Herrou poco dopo la sentenza del Tribunale di Nizza che lo ha condannato a pagare 3000 euro di multa, con la condizionale, per aver aiutato alcuni profughi ad attraversare il confine tra l’Italia e la Francia e non “essersi accertato del loro status irregolare “. Al contadino francese ,che ‘semina umanità’, è stata inflitta una pena quasi simbolica, tanto che il suo avvocato ha detto: “è un verdetto giusto, la multa di 3000 euro rende evidente che Herrou ha agito per motivi esclusivamente umanitari”. e una restrizione dell’uso della patente. Ora Herrou è determinato a continuare la sua azione umanitaria. Cédric Herrou, contadino francese di 37 anni, da tempo aiuta a entrare in Francia, per motivi umanitari, i migranti sprovvisti di permesso di soggiorno. E il suo è ormai un caso politico, che ha superata i confini francesi, ne aveva parlato anche il New York Times. Già due anni fa era stato sorpreso alla guida della suo vecchio furgone con alcuni migranti eritrei. Il caso non aveva avuto un seguito giudiziario in quanto il giudice aveva valutato che Herrou non lo aveva fatto per soldi ma come atto umanitario, dunque non l’azione di un passeur, di chi con il pagamento di denaro, fa passare clandestinamente il confine. Herrou vive nella valle della Roja, una zona al confine tra la Francia e l’Italia, ad alcuni chilometri da Ventimiglia, dove si mantiene con la vendita dei prodotti della sua terra: uova, olio, olive, verdure. Nella valle tutti sanno cosa fa per aiutare i migranti, molti lo sostengono. Da quando la Francia ha chiuso la via d’ingresso di Ventimiglia sempre più migranti tentano di evitare il blocco passando per le montagne o altre vie, attraverso la valle della Roja. Herrou li aiuta, li accompagna, dà loro cibo e vestiti. Per questo era stata chiesta per lui la condanna per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Lo so che la legge è contro di me, contro quello che sto facendo per aiutare le persone in difficoltà, ma allora cambiamo questa legge – aveva detto Herrou – Le leggi devono essere fatte perché la società vada bene e la gente possa vivere insieme in armonia”. Il caso di Cédric Herrou ha riportato in primo piano i cosiddetti ‘reati di solidarietà’, che nascono da una norma europea del 2002 che prevede sanzioni contro chi accompagna, aiuta i profughi nel viaggio attraverso i confini dell’Unione. Una norma che mette sullo stesso piano scafisti e operatori umanitari. I casi dei ‘delitti solidali’ si moltiplicano, da Como a Calais, spiega in un articolo su Altraeconomia Ilaria Sesana che racconta diverse storie, tra cui quella italiana di Como. Un questione, quella dei reati di solidarietà, che un buona politica dovrebbe affrontare e risolvere. Herrou promette che continuerà la sua battaglia. Il contadino francese ha sempre sostenuto che tutto quello che sta facendo è per aiutare i migranti che fuggono da guerra, repressione, fame, e tra loro molti minori, persone che lo Stato, dopo aver chiuso la frontiera, lascia al suo destino. “Non è che mettendo in prigione me si risolve il problema- aveva detto nel primo processo a Nizza- il problema sono le donne, gli uomini che soffrono e non hanno voce. La democrazia ci impone di uscire per le strade e guardare negli occhi le persone che ci sono accanto e aiutarle anche quando non lo conosciamo”. Herrou è soddisfatto della sentenza, ma avverte: (fonte: Radio Popolare) link: http://www.radiopopolare.it/2017/02/continuero-a-battermi-per-aiutare-imigranti/ “La mia vera vittoria ci sarà quando non dovrò più fare questo e occuparmi dei miei campi. Per questo chiedo che i politici si assumano le proprie responsabilità, affrontando il dramma dei migranti, in particolare dei minori che vengono respinti dalla Francia”. Accordo Italia -Libia, ASGI all’Italia e all’UE : Così si tradisce lo spirito europeo (di Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) Herrou è stato invece assolto dall’accusa di aver occupato insieme a una cinquantina di eritrei una struttura dismessa delle ferrovie dello stato francesi e di aver favorito il movimento e la residenza di migranti irregolari in Francia. Gli imputavano il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver aiutato duecento migranti ad attraversare la frontiera e per aver dato da mangiare e da bere a 57 di loro. La Procura di Nizza aveva chiesto per Herrou una condanna a 8 mesi con la condizionale, il sequestro del suo furgone con cui trasportava i migranti, 5 Al Summit informale della Valletta del 3 febbraio 2017 l’Unione Europea conferma la politica degli accordi per la chiusura delle frontiere. L’Italia asseconda le richieste UE e stipula un vergognoso accordo con la Libia. La nuova politica estera della Commissione e del Consiglio UE: fondi allo sviluppo strumentalmente utilizzati come merce di scambio per siglare accordi e partenariati con paesi terzi finalizzati a respingere migranti e rifugiati L’Asgi condanna fermamente la vergognosa politica degli accordi con i Paesi terzi portata avanti dall’Unione Europea e dal Governo italiano. “L’Unione Europea tradisce i principi cardine della civiltà giuridica e viola la base democratica sulla quale si fonda la pacifica convivenza dei cittadini” afferma il presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, avv. Lorenzo Trucco. persecuzioni e conflitti. È necessario invertire la direzione delle politiche europee, promuovendo ad ogni livello un’agenda politica che renda effettivo e realmente accessibile il diritto d’asilo a partire dall’avvio di un reale e ampio Piano Europeo di reinsediamento dei rifugiati bloccati in Paesi terzi che non possono garantire loro adeguata sicurezza. L’Unione Europea e il Governo italiano aggirano il dovere di accogliere le persone in fuga da persecuzioni e guerre con una politica estera in materia di immigrazione in gran parte basata su accordi e partenariati stipulati con governi dittatoriali, come il Sudan, la Libia, il Niger o totalmente incapaci di garantire l’incolumità dei propri cittadini, come l’Afghanistan. Con questi accordi l’Unione Europea e l’Italia violano di fatto il principio di non refoulement in quanto esigono che i Paesi terzi blocchino con l’uso della forza il passaggio di persone in chiaro bisogno di protezione internazionale. Ciò in cambio di competenze e attrezzature militari oltre che dei fondi per la cooperazione, ossia di quelle risorse economiche che dovrebbero, al contrario, essere destinate alla crescita e allo sviluppo dei Paesi terzi, ignobilmente degradate a merce di scambio. ASGI evidenzia, altresì, che per superare le attuali politiche di gestione dei flussi migratori, arbitrariamente selettive e inique, è necessario rafforzare in modo consistente le operazioni di soccorso in mare, prevedere la possibilità di rilascio, nei Paesi di origine o di transito, di un visto di ingresso in relazione a conflitti armati o a gravi violazioni dei diritti fondamentali, che consenta l’accesso sicuro nel territorio europeo a chi è costretto a fuggire. Inoltre, il Governo italiano, in totale spregio del diritto di asilo consacrato nella Costituzione italiana e del dovere di rispettare i diritti umani previsti nel diritto internazionale e vincolanti per l’Italia, ha siglato il 2 Febbraio 2017 un Memorandum con il Governo libico con cui l’Italia si impegna a fornire strumentazione e sostegno militare, strategico e tecnologico, oltre a fondi solo teoricamente per lo sviluppo, ad un Governo sotto costante ricatto di milizie violente e armate, al fine di bloccare e controllare le partenze dei migranti in fuga. La Libia rimane un paese che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’ asilo e di rispetto dei diritti umani, e continua a sottoporre i profughi in fuga a trattamenti disumani e degradanti in centri di detenzione, come testimoniano innumerevoli rapporti e appelli delle più importanti organizzazioni internazionali, anche istituzionali. È una sfida cruciale: sono in gioco i pilastri della democrazia europea. È necessario che i movimenti, le forze associative e politiche si mobilitino, ad ogni livello, in difesa dei diritti fondamentali dello spazio europeo, attualmente sotto minaccia. Difficilmente ci sarà un’altra occasione. L’Asgi chiede all’ Unione Europea di interrompere le politiche basate sugli accordi con i Paesi terzi che mirano a rallentare e fermare il passaggio dei profughi, strumentalizzando i temi della salvaguardia della vita delle persone che tentano di raggiungere l’Europa e mascherando il reale proposito di una brutale ed illegittima chiusura delle frontiere. L’Asgi chiede di ridestinare i fondi della cooperazione all’effettivo sviluppo sostenibile delle economie dei Paesi terzi nel rispetto dell’ambiente e dei diritti degli uomini e delle donne. L’Asgi chiede al Governo italiano di dare piena attuazione alla Convenzione di Ginevra, e al principio di non refoulement in particolare, alla Costituzione italiana e più in generale di adempiere al dovere di accogliere chi fugge dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla violazione dei diritti fondamentali, revocando il memorandum appena siglato con la Libia e con gli altri Governi non democratici dell’Africa e sospendendo i finanziamenti e il sostegno militare ai Governi dei Paesi terzi (tra i quali il Sudan, la Libia, il Niger e la Nigeria), incaricati di bloccare violentemente i flussi dei profughi. Allo stesso modo, l’ASGI ritiene che l’Italia debba immediatamente interrompere il rimpatrio dei cittadini verso Paesi dove non siano rispettati i diritti fondamentali. L’Asgi fa appello alle grandi e piccole Organizzazioni non governative della cooperazione internazionale perché si rifiutino di assecondare questo utilizzo strumentale dei fondi, pretendendo che l’erogazione di questi ultimi non venga condizionata alle politiche di controllo della frontiera. L’Asgi fa appello, infine, all’UNHCR e all’OIM affinché si rifiutino di continuare ad accettare di svolgere per la Commissione Europea incarichi apparentemente finalizzati al sostegno e alla cura dei migranti e dei rifugiati, ma che sono in realtà fondamentalmente diretti a favorire il respingimento e il controllo degli uomini e delle donne in fuga da 6 È possibile costruire una nuova relazione tra spazio europeo e flussi migratori; per farlo bisogna ristabilire la centralità del diritto d’asilo come paradigma di un’Europa aperta e solidale, promuovendo altresì gli opportuni strumenti giuridici che consentano l’ingresso regolare per ricerca lavoro a chi migra per motivazioni economiche. link: http://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/italia-libia-accordo-ue/ Nonviolenza L’obiezione del priore (di Mario Lancisi) Cinquant’anni fa iniziava il processo a Don Milani per la lettera ai cappellani militari. L’assoluzione, poi la condanna in appello e un dibattito che portò all’approvazione della legge nel 1972 «Signori, entra la corte». Tribunale di Roma, 15 febbraio 1966, un martedì. Alla sbarra un prete e un giornalista. Il primo, don Lorenzo Milani, per aver scritto una lettera ai cappellani militari in difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, a quel tempo vietata dalla legge (non pochi gli obiettori finiti in galera). Il secondo, Luca Pavolini, direttore di Rinascita, settimanale del Partito Comunista Italiano, per aver pubblicata la lettera dello scandalo. Accusa? Apologia di reato, di incitamento alla diserzione e alla disubbidienza civile. Pavolini partecipa all’udienza, don Milani no, troppo malato, il tumore lo stava divorando. Per questo il priore aveva deciso di scrivere una lettera ai giudici: «La malattia è l’unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini». È questo l’incipit di uno scritto talora erroneamente scambiato per un elogio della disobbedienza alle leggi. L’aula del processo è affollata di giovani, di giornalisti e anche di qualche prete. Don Lorenzo segue il dibattimento da Barbiana. Attorniato dai suoi ragazzi attacca un piccolo registratore al telefono. Dall’altro capo del filo l’amico Mario Cartoni, cronista giudiziario della Nazione, che alterna gli appunti del dibattimento alla cronaca telefonica del processo. Il primo a prendere la parola è il pubblico ministero Pasquale Pedote. Che si scaglia contro il priore di Barbiana, lo accusa di aver insegnato ai suoi ragazzi la disobbedienza alle leggi, e conclude l’arringa con la richiesta di una condanna a otto mesi di reclusione. A Barbiana il priore e i ragazzi fremono, Cartoni cerca di rassicurarli. «Ora tocca al Gatti», avvisa il giornalista. Adolfo Gatti è il difensore di ufficio di don Milani. Al priore non piace: «È un avvocato borghese che difende giornali intellettuali come L’Espresso e il Mondo…”. La sua difesa è nella lettera ai giudici, avvocati non li vuole, alla fine però accetta quello di ufficio. L’arringa del giovane Gatti scuote i giudici, che richiama al dovere di senso politico delle leggi: «Don Milani ha posto un problema al quale non si può dare una risposta formale. Qui signori giudici occorre un colpo d’ala», conclude Gatti. E il colpo d’ala arriva con la sentenza di assoluzione. «Don Lorenzo, assoltoooo…», grida a squarciagola Cartoni. «Assolto come?», domanda di rimando il priore. Cartoni: «Formula piena: perché il fatto non costituisce reato. Contento?». L’assoluzione di don Milani trasforma l’aula del processo in un tripudio: giovani che applaudono e persino il compassato avvocato Gatti si mette a saltare come un ragazzino. È la gioia che segna un progresso sociale. L’obiezione al servizio militare, entrata nella coscienza civile della società italiana, per la prima volta veniva compresa e fatta propria dai giudici di un tribunale. Erano maturi i tempi per l’approvazione legislativa, alla quale contribuì molto il giovane parlamentare fiorentino Nicola Pistelli. E con lui gran parte della Firenze cattolica degli anni Sessanta. Da Giorgio La Pira a padre Ernesto Balducci. Un gesto scandaloso per i tempi fu ad esempio la decisione del sindaco Giorgio La Pira di organizzare, il 18 novembre 1961, la proiezione privata del film del regista francese Autant-Lara Tu ne tueras point, Non uccidere. Un film simbolo sull’obiezione di coscienza, che all’inizio degli anni Sessanta venne «proibito» dalla censura in diverse nazioni, fra cui l’Italia. Due anni dopo Balducci, in un’intervista al Giornale del Mattino, sostiene la legittimità dell’obiezione al servizio militare. Il padre scolopio viene denunciato per apologia di reato. Assolto in primo grado viene condannato in appello, il 15 ottobre del 1963, a otto mesi con la condizionale. La stessa sorte viene riservata a don Lorenzo Milani in appello. Per giustificare la sua assenza, il priore scrive di nuovo ai giudici una lettera di poche righe: «Caro presidente, io ho la bua. Tanta bua. Che sei bischero a farmi venire a Roma? Se mi vuoi vedere vieni te. Un bacio anche a tua moglie». Righe ironiche. Di chi con l’anima si sente già di là. Il priore muore infatti il 26 giugno 1967 mentre l’appello si tiene, quattro mesi e due giorni prima della sentenza, in cui don Milani viene condannato. «Il reato è estinto per la morte del reo», scrivono i giudici. La strada per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza torna a farsi lunga e accidentata. La legge verrà approvata soltanto nel 1972 . Ma i migliaia di giovani che, a partire da quella data, ne hanno usufruito sicuramente avranno provato un sentimento di gratitudine nei confronti del «reo» don Milani. (fonte: Corriere Fiorentino - segnalato da: Coordinamento Comasco per la Pace) link: http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/arte_e_cultura/16_febbraio_12/ob iezione-priore-8b7a9748-d19d-11e5-ac58-cce880070ff3.shtml?refresh_ce-cp Politica e democrazia Umiltà e fierezza – Lettera aperta di Renato Accorinti, sindaco di Messina (di Renato Accorinti) Ogni volta che perdi, o intravedi il rischio di perdere, qualcuno o qualcosa ti accorgi all’improvviso del suo valore. E ti svegli, prendi coscienza e riscopri la preziosa ed imperfetta bellezza della sua interezza, senza più concentrarti sui particolari, sui difetti che non sei mai riuscito ad accettare. Oggi ci troviamo di fronte alla possibilità che il Consiglio Comunale voti la sfiducia all’azione amministrativa della giunta Accorinti. Per questo molti cittadini, anche quelli con posizioni critiche, si stringono forte a questa esperienza collettiva e la difendono da un atto di forza che vorrebbe porre fine a essa in modo anticipato. La mozione di sfiducia 7 mette a nudo quella “politica” che politica non è. Fa gola tornare adesso, nel tempo del raccolto, dopo la durissima e instancabile semina di questi tre anni e mezzo, fatta passo dopo passo, risalendo con fatica e a mani nude quell’abisso dentro il quale la città è stata sprofondata per decenni da sporchi affari e clientelismo. Questo gesto mette a nudo quella politica che è solita agire non avendo scrupolo di compiere azioni nefaste per la città di Messina, senza pensare un solo attimo alle conseguenze di un possibile ennesimo commissariamento, paralizzando così gli atti di rinnovamento e tutti i delicati processi in corso che hanno bisogno di continuità e cura. C’è chi vive dentro confini ristretti, avendo cura solo del proprio tornaconto di bottega, bramando le prossime elezioni, studiando a tavolino i propri posizionamenti, passando da uno schieramento all’altro in base agli accordi più vantaggiosi, senza nessuna idea o ideale. Io, “scusate, non mi lego a questa schiera, morrò pecora nera”. C’è poi chi prova a vivere il proprio ruolo in politica come un servizio, una missione, pensando a valori alti di comunità. De Gasperi diceva: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alle prossime generazioni”. Certamente non sono uno statista. Nel mio piccolo, cerco di agire col cuore nel cielo e i piedi ben piantati per terra, col desiderio di dare intensità e profondità a un cammino di comunità. Cerco di compiere lo sforzo emozionante di darci, tutti insieme, la possibilità di umanizzare la politica. Stiamo amministrando impegnandoci a togliere le montagne di macerie, a rimediare all’immane disastro della macchina amministrativa, delle partecipate e dei bilanci. Ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo ricostruito le fondamenta, abbiamo creato la possibilità di fare le opere più importanti che cambieranno per sempre il futuro della città. Siamo stati “concreti come dei sognatori”. Per questo sono sereno pensando che, sfiducia o non sfiducia, sono comunque arrivati troppo tardi. Noi abbiamo già vinto. Abbiamo già cambiato i connotati della politica, restituendo valore alla parola “politica”, provando a mettere al centro l’uomo e il cittadino nei suoi fondamentali diritti a partire dagli ultimi. L’avvio di una rivoluzione culturale. Lo abbiamo fatto noi, liberi cittadini messinesi, società civile che ha scelto di compattarsi, non con vuoti slogan, ma con la pienezza e la forza degli ideali, fino a vincere un’elezione, sconfessando tutti i pronostici, irrompendo come un fiume in piena dentro il Palazzo, scardinando come arieti tutte le porte delle stanze del potere. Abbiamo fatto rinascere la fiducia nella politica, dimostrato che davvero nulla è ineluttabile, che tutto può essere ribaltato. Che anche oggi si possono fare le rivoluzioni. Che i sogni possono diventare realtà. Soprattutto se sognati da una intera collettività. E questo è il senso di Cambiamo Messina dal Basso. Abbiamo dato l’opportunità di riflettere a milioni di persone, in Italia e in Europa. A loro abbiamo detto e diciamo ancora: “Noi non sapevamo che era impossibile, quindi lo abbiamo fatto. Ci ha guidato l’Utopia, ora provateci anche voi!”. Ormai niente sarà più come prima, perché questa esperienza ha dato prova che si può realizzare l’irrealizzabile. Perché da una presa di coscienza collettiva indietro non si torna. Questa è la nostra vera vittoria. Nonostante i limiti, gli errori e le imperfezioni. Renato Accorinti (fonte: Pressenza: international press agency) link: https://www.pressenza.com/it/2017/01/umilta-fierezza-lettera-aperta-renatoaccorinti-sindaco-messina/ Notizie dal mondo America Latina La sentenza di primo grado del "processo Condor" (di Geraldina Colotti) Come valutare la sentenza di primo grado sul processo Condor a Roma? La Corte ha condannato all'ergastolo 8 ex alti ufficiali o presidenti in carica durante le dittature del Cono Sur per la morte e la scomparsa di cittadini italiani durante l'attività criminale del Plan Condor, la rete a guida Cia che serviva a liberarsi degli oppositori senza leggi né frontiere durante gli anni '70 e '80. Le assoluzioni sono state 19. Un documento declassificato dalla Cia e datato 23 giugno 1976 spiega la nascita del Condor, dopo una riunione che si svolse a Buenos Aires tra le intelligence dell'Argentina, del Cile, dell'Uruguay, del Paraguay e della Bolivia. Poi si aggiungeranno Brasile, Perù e Ecuador. L'Argentina, che conta 30.000 scomparsi, sarà l'epicentro del Condor. Il processo in Italia ha avuto origine da un'inchiesta del Pm Giancarlo Capaldo, messa in moto dalle denunce dei famigliari delle vittime nel '99, molte delle quali argentine, in un paese che, allora, era ancora sotto il blocco delle leggi di impunità ai repressori. Su 146 accusati inizialmente dal Pm - tra i quali 61 argentini, il tribunale ha finito per processare 34 militari e civili provenienti dalla Bolivia, dal Cile, dal Perù e dall'Uruguay. Le condanne, emesse dalla presidente del tribunale, Evelina Canale, hanno riguardato gli ex dittatori boliviani Luis Garcia Mesa e Luis Arce Gomez, i cileni Hernan Jeronimo Ramirez e Rafael Ahumada Valderrama, i peruviani Francisco Morales Bermudez, Pedro Richter Prada e German Ruiz Figueroa, e l'ex ministro degli Esteri uruguayano Juan Carlos Blanco, già in carcere nel suo paese insieme a una trentina di responsabili. La maggior parte degli assolti è uruguayana. Tra questi, Pedro Mato, che si è rifugiato in Brasile e Jorge Troccoli, che vive in Italia e per cui è stata negata in precedenza l'estradizione. Assolti anche dei cileni e un peruviano. Il primo processo al Condor si è svolto in Argentina e si è concluso il 27 maggio dell'anno scorso con la condanna di 14 capi militari e ufficiali di intelligence argentini e un uruguayano, con pene tra gli otto e i 25 anni di carcere per oltre un centinaio di delitti di lesa umanità. Per Jorge Ithurburu, infaticabile presidente dell'associazione 24 marzo, che ha accompagnato i processi e le vittime in questi anni, si è trattato di un risultato altamente positivo nel suo complesso, che per la prima volta ha evidenziato l'articolazione della rete criminale nelle sue responsabilità e diramazioni. Un risultato che, dopo il processo al Condor che si è tenuto in Argentina, rafforzerà le iniziative di quei paesi che, come la Bolivia, stanno per votare una legge per l'istituzione di una Commissione per la verità sui desaparecidos, "e renderà più difficile l'uscita dal carcere di alcuni repressori già condannati". Anche per le associazioni dei famigliari del Brasile, dove una Commissione per la verità voluta da Dilma Rousseff non è mai andata avanti, il processo aprirà delle porte: in attesa che arrivi anche una sentenza specifica relativa ai delitti del Condor contro cittadini italobrasiliani in Brasile, un procedimento stralciato dal filone principale. Pur condividendo l'amarezza degli uruguayani e la delusione dei loro avvocati, Ithurburu ritiene in attivo il bilancio, e confida che le motivazioni delle sentenze forniranno materia di ricorso in appello, volontà che molti famigliari hanno già manifestato. Nonostante la linea seguita dalla Corte, che ha cercato soprattutto la catena di comando, negando il funzionamente criminale, relativamente autonomo nelle varie strutture repressive, la sentenza potrebbe anche portare elementi utili all'apertura del processo contro l'attacco al palazzo della Moneda in Cile, che portò al suicidio di Salvador Allende, durante il golpe dell'11 settembre 1973. L'ex dittatore Augusto Pinochet, pur essendo stato un uomo-chiave del 8 Plan Condor dal novembre del 1975, ne ha sempre negato l'appartenenza. Quando perse l'immunità parlamentare, fu processato e detenuto per la sua partecipazione al Plan Condor e giudicato per 75 assassinii attribuiti alla Carovana della morte, che ha attraversato il Cile eliminando gli oppositori dopo il golpe. Ma non fu mai condannato. Secondo le ricostruzioni, l'assassinio dell'ex comandante in capo dell'esercito cileno, Carlos Prats e di sua moglie, commesso a Buenos Aires nel 1974 sia stato uno dei primi delitti del Condor. E anche l'omicidio dell'ex ministro degli Esteri cileno Orlando Letelier e della sua segretaria statunitense Ronnie Moffitt, fatti saltare in aria a Washington nel 1976 è attribuito al Condor. La dittatura di Pinochet ha provocato oltre 3.000 vittime. (fonte: Il Manifesto del 20/01/2017 - segnalato da: Aldo Zanchetta) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2699 Turchia Turchia, in sette mesi espulsi 4.811 accademici (di Murat Cinar) In Turchia, dopo il tentativo del colpo di stato del 15 luglio 2015 le università attraversano un periodo molto difficile. Pochi giorni dopo il tentativo di golpe, il 20 luglio, è stato dichiarato per la prima volta lo stato d’emergenza, che ha avuto una durata di tre mesi ed è stato poi rinnovato per tre volte consecutivamente. Il paese vive quindi ancora oggi in questa condizione straordinaria. La presenza di numerosi controlli, l’impossibilità di svolgere manifestazioni di protesta, l’annullamento di numerose manifestazioni culturali sono soltanto alcune conseguenze dello stato d’emergenza. Attraverso i decreti legge il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro e il Consiglio dei Ministri hanno trasformato il paese su più fronti adducendo “motivi di sicurezza”. Cambiamenti radicali nella gestione degli enti pubblici, interventi straordinari nella gestione dei fondi pensionistici, apertura di nuovi cantieri edili per i privati, oppure per le grandi opere pubbliche in terreni prima appartenenti alle forze armate ed espulsione di numerosi impiegati statali presso vari ministeri. Tra queste persone allontanate dal posto di lavoro e finite sotto indagine ci sono 4.811 accademici universitari. Dal 20 luglio fino a oggi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale cinque decreti legge che riguardano i lavoratori dell’informazione e sono state chiuse 15 università su 191. Secondo i dati diffusi dalla Rete dei Giornalisti Indipendenti (BiaNet) queste strutture davano lavoro a 2.805 persone ed erano frequentate da 64.533 studenti. Oltre alle università chiuse definitivamente, perché accusate di appartenere alla rete della comunità di Gulen – accusata a sua volta di aver progettato e messo in atto il tentativo di colpo di stato del 15 luglio – in diverse atenei sono stati licenziati e indagati 4.811 accademici. Osservando i nomi si nota che molti compaiono tra i firmatari dell’appello per la pace lanciato nel gennaio del 2016 da 1.128 accademici appartenenti a 89 università in Turchia e all’estero, con la richiesta allo Stato di porre fine al massacro e alla politica di espulsione contro la popolazione delle regioni del sud est della Turchia e di punirne i responsabili. Il conflitto tra le forze armate turche e la guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è ricominciato nel luglio del 2015 dopo due anni di tregua. I firmatari dell’appello hanno subito numerosi attacchi politici e mediatici da parte del Presidente della Repubblica, del Primo Ministro, di numerosi esponenti del governo e di vari giornali e canali televisivi allineati con le politiche del governo. Nel giro di poche settimane alcuni accademici sono stati sospesi e denunciati e alcuni hanno passato parecchie settimane in detenzione cautelare. In base al decreto del 7 febbraio 2017 sono stati sospesi 330 accademici. Tra questi c’è anche la Professoressa Oget Oktem, la prima neuropsicologa del paese, conosciuta anche per aver aperto il primo studio di neuropsicologia in Turchia. Tra gli accademici espulsi c’è anche la Professoressa Nur Betul Celik, che insegnava presso la Facoltà di Comunicazione dell’Università di Ankara. Secondo Celik queste espulsioni non prendono di mira soltanto i firmatari dell’appello, ma anche la cultura accademica e la ricerca scientifica del paese. “Non siamo soltanto noi le vittime di questa situazione, ma anche le future generazioni”, ha dichiarato Celik nell’intervista rilasciata al portale di notizie T24. Nella Facoltà di Lingue, Geografia e Storia dell’Università di Ankara presso il corso di laurea in Teatro a causa delle numerose espulsioni sono rimasti solo tre insegnanti di recitazione e un professore per il corso di scrittura creativa. Nella Facoltà di Scienze Politiche della stessa università con l’ultimo decreto sono stati espulsi 23 accademici. Secondo il Professor Ayhan Yalcinkaya grazie a questa situazione per il momento 50 laureandi sono rimasti senza tutor e circa 40 corsi sono stati interrotti per mancanza di insegnanti. E’ stata l’Università di Suleyman Demirel della città di Isparta a subire la maggior parte dei danni sin dall’inizio dei primi decreti, perdendo 193 accademici, seguita dall’Università di Istanbul con 192 espulsi, dall’Università di Gazi ad Ankara con 169 professori e dall’Università di Pamukkale a Denizli con 164 accademici sospesi/espulsi. Secondo un’intervista realizzata dalla BBC Turchia con Sener Aslan, responsabile relazioni con la stampa del Consiglio per l’educazione superiore (YOK), non è quest’ente a decidere i nomi degli accademici espulsi. Secondo Aslan in questo periodo sono stati istituiti dei consigli indipendenti presso ogni università; sono stati i membri di questi consigli a decidere i nomi e i provvedimenti da prendere. Aslan ha precisato che gli accademici espulsi potranno appellarsi alle decisioni rivolgendosi a queste commissioni. In un intervento televisivo presso TELE1, Erdogan Boz, professore presso la Facoltà di Lingue Straniere dell’Università di Ankara, espulso anche lui con l’ultimo decreto, ha dichiarato: “Coloro che ci spingono verso la povertà e la fame pensano che rinunceremo a ciò che abbiamo detto, ma si sbagliano. Tutto questo prima o poi avrà delle ripercussioni e dei riscontri. Questa situazione non è sostenibile sia per il paese che per il governo. Se si continua così questo paese diventerà invivibile anche per chi mette in atto questa persecuzione”. Uno degli espulsi in base all’ultimo decreto legge è Ibrahim Kaboglu, Presidente del Corso di Laurea in Giurisprudenza dell’Università di Marmara, che nel 2002 era stato nominato dallo stesso governo come Presidente del Consiglio per i Diritti Umani del Primo Ministro (attuale Presidente della Repubblica). In un’intervista rilasciata all’agenzia di notizie DHA, Kaboglu ha affermato: “In questi mesi sono stati messi in atto diversi provvedimenti che non c’entrano con il tentativo di colpo di stato. Uno di questi è la distruzione delle università. Non è accettabile che vengano prese delle decisioni contro la Costituzione e contro una serie di convenzioni internazionali, di cui la Turchia risulta la firmataria e si coinvolgano scienziati che non fanno altro che portare avanti le loro ricerca. Si tratta di un errore molto grave, che potrebbe portare il paese a errori ancora più gravi”. Pubblichiamo la premessa al "Report 2016" redatto, come avviene ormai ogni anno, dall'Associazione Volontari Ascolto e Accoglienza che dal 1987 ospita persone senza dimora presso la Casa di Accoglienza di via Godola a Massa. Tale documento vuole essere l'occasione per riflettere sulle realtà e sulle conseguenze dell'esclusione sociale. in campo il proprio bisogno di esprimere gesti concreti di solidarietà nei confronti degli esclusi, dall'altro però è anche un indicatore di un territorio che delega completamente al volontariato la realizzazione di servizi che necessiterebbero anche una presenza diversa, nella quale la disponibilità personale si intersechi con un impegno istituzionale, per evitare che il volontariato assuma un ruolo suppletivo rispetto all'impegno necessario del pubblico. Una riprova di questo è il fatto che la Casa di Accoglienza generalmente rimane chiusa nei mesi di luglio e agosto e nel periodo tra natale e l'epifania, periodi nei quali non è possibile chiedere un ulteriore sforzo alla già significativa disponibilità dei volontari. Inoltre il fatto che l'apertura della Casa di Accoglienza sia garantita esclusivamente grazie ai volontari espone questa realtà ad una precarietà continua, tanto che nel 2016 abbiamo faticato non poco a riaprire ad ottobre dopo la pausa estiva e, in occasione dell'emergenza freddo dei primi giorni del 2017, ci siamo trovati impreparati con la Casa di Accoglienza chiusa, come previsto. Crediamo che un rapporto diverso tra la Casa di Accoglienza e le Amministrazioni Pubbliche e le altre realtà associative potrebbe assicurare un servizio migliore. Ciò premesso, invitiamo a leggere questo report con la consapevolezza che la Casa di Accoglienza è una minuscola realtà che, assieme ad altri servizi quali le Mense per i Poveri e i centri di ascolto, può offrire una prospettiva parziale e limitata di quella realtà dell'esclusione che tendiamo a rimuovere e ad allontanare dai nostri sguardi. Dietro ai numeri ci sono persone, i loro volti, le loro fatiche... ma quegli stessi numeri rappresentano, dal nostro piccolo osservatorio, anche i limiti del nostro sistema sociale che, di fatto, tende volentieri ad escludere più che ad essere accogliente, sapendo che l'accoglienza non è solo erogazione di un servizio primario, ma un processo nel quale fare sentire una persona parte di una comunità. Esporremo, come di consueto, prima i dati del Centro di Ascolto e, successivamente, quelli della Casa di Accoglienza, per concludere con il capitolo finale relativo alle/ai volontarie/i. Come si può osservare, non vi è molta differenza tra i dati del Centro di Ascolto e quelli relativi alla Casa di Accoglienza in considerazione del fatto che da due anni è stato deciso di accogliere esclusivamente le persone che fanno il colloquio il lunedì al Centro di Ascolto, ad eccezione di situazioni particolari richieste dai servizi sociali o da altre associazioni. Un elemento che desta attenzione è la diminuzione dei colloqui fatti al Centro di Ascolto (-16,81%) e delle ospitalità alla Casa di Accoglienza (8,54%). Poiché i dati relativi alla situazione economica e occupazionale, a livello sia locale che nazionale, indicano un aumento delle fasce di povertà e dei livelli di disuguaglianza, questa diminuzione non può essere intesa come un miglioramento delle condizioni delle persone che si trovano in stato di disagio estremo. Difficile, almeno per noi decifrarne le cause. Forse potrebbe essere di aiuto anche un confronto con le analoghe strutture vicine (La Spezia, Viareggio, Pisa, Livorno...). Tuttavia questa diminuzione potrebbe essere l'indicatore sociale dei limiti e forse inadeguatezza che ha il servizio offerto dalla Casa di Accoglienza rispetto alle richieste di aiuto. Escluso quindi che la diminuzione dipenda da una soluzione delle difficoltà degli ospiti, forse sarebbe utile riflettere sulla necessità, anche nel nostro territorio, coma già avviene nello spezzino e nel pisano, di realizzare strutture di accoglienza non solo di bassa soglia, ma anche per periodi più lunghi, costruendo progetti di inclusione che vadano ad incidere invece nelle normali prassi di esclusione che respiriamo nelle nostre società. Premessa Il Direttivo AVAA Prima di presentare il consueto report annuale sulla realtà della Casa di Accoglienza, crediamo sia doveroso un ringraziamento particolare a tutte/i le/i volontarie/i che con il loro impegno assicurano l'apertura di questa realtà, presente nel nostro territorio dal 1985. Un impegno significativo che da un lato testimonia la volontà di mettere Massa, 25 gennaio 2017 (fonte: Pressenza: international press agency) link: https://www.pressenza.com/it/2017/02/turchia-sette-mesi-espulsi-4-811accademici/ Associazioni Casa di Accoglienza di via Godola a Massa: Report 2016 (di Associazione Volontari Ascolto Accoglienza) 9 Casa di Accoglienza di via Godola a Massa: Report 2016 http://www.aadp.it/dmdocuments/doc2436.pdf link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2701