Gli anni bui della nostra vita
Transcript
Gli anni bui della nostra vita
GLI ANNI BUI DELLA NOSTRA VITA Negli anni quaranta, a causa degli eventi bellici, ci avevano spogliato di tutto. Delle nostre cose, dei nostri ricordi affettivi, dei materassi e dei cuscini, degli oggetti d’oro, delle fedi di matrimonio e persino delle campane delle chiese. Gli abitanti del paese andavano in giro, mi ricordo, sempre con le facce scure. Gli ideali con il credo nel Futuro avevano, da molto tempo, preso il treno per lidi sconosciuti. Imperava in tutti la rassegnazione o l’arrivo della fine che veniva quasi invocata. In questo contesto si inserisce uno spaccato di storia di vita veramente vissuta che andiamo a raccontare. Una storia triste, vista dall’interno, come disse il Conte Ugolino a Dante, di scolastica memoria. Allora l’unica fonte di sopravvivenza era la campagna. Non c’era niente con cui sfamarsi. “Cè ma mangè jousce?” era la frase che usciva dalla bocca di tutti. Solo chi aveva la fortuna di possedere qualche lùc aveva degli ortaggi e soprattutto “ù minze sacch de farein” che le donne trasformavano in tutto. I proprietari terrieri avevano farina per tutto l’anno. Seminavano nei loro campi ma, anche, rubavano sul loro stesso raccolto. Ecco come. Quando a luglio arrivava il periodo della trebbiatura si preparava sul terreno in cui era avvenuta la semina un’aia, in cerca di terra battuta. Si innaffiava per renderla impermeabile, si lasciava asciugare e l’aia era fatta. Con molta cura si deponevano i fasci di spighe e si partiva. Questo lavoro di preparazione andava fatto prima dell’uscita del sole, vuoi per esigenze di calura estiva, vuoi per fare in modo che le spighe non avessero a perdere qualche chicco del prezioso frutto durante il trasporto. Una volta ultimati i preparativi, si faceva entrare sull’aia il quadrupede, asino o mulo o cavallo, affinché con gli zoccoli cominciasse a calpestare “i grègne dù grèn” e, mentre il contadino raggiungeva il centro dell’aia, il cavallo tenuto al guinzaglio ( rétn e capèzze) cominciava a girare, prima a passo e poi a trotto, secondo le volontà del guidatore. A breve distanza, nel frattempo, ad una decina di metri circa, uno o più contadini, fratelli o familiari, davano inizio ad un’altra operazione di alta maestria e precisione. Sceglievano un posto adatto a tale operazione dove era stato falciato il grano. Sradicavano con cura ù restucce e cominciavano con le vanghe a scavare una fossa larga un metro circa e lunga un paio, con profondità di circa cinquanta centimetri. A che cosa doveva servire? A seppellire e a nascondere al controllo della Milizia due o tre sacchi di grano del proprio raccolto, sudore di un intero anno di lavoro. La sera prima del giorno in cui si svolgevano queste operazioni, il proprietario del grano doveva personalmente recarsi presso l’Ufficio del Fascio per dichiarare quanto grano doveva produrre il giorno dopo, la località e l’ubicazione del fondo già schedato. Così gli Ispettori potevano andare a verificare. Alla fine della giornata tutto il raccolto, tutto, doveva essere portato in un determinato centro di raccolta, alla spalle del palazzo del Barone, chiamato “l’Ammasse”. I componenti dell’autorità che gestiva l ‘Ammasse elargivano, bontà loro, una parte minima di tutto il raccolto, un sacco e mezzo circa per il fabbisogno della famiglia. La provvista doveva durare tutto l’anno. Veniva anche dato “un attestato di benemerenza!”. Ecco perché lo stratagemma di rubare il grano dal proprio raccolto, rischiano molto, a volte anche il confino. Una volta effettuata la buca si procedeva a seppellire il grano trafugato, dopo averlo avvolto dentro i panni per la raccolta delle olive o delle mandorle. Poi la buca veniva coperta di terra. Fatto questo, arriva il tocco geniale.Tutte le piante du restucce prima sradicate venivano ripiantate ed allineate con molta maestria sulla buca in modo tale che nulla potesse trapelare agli occhi degli Ispettori. Poi si portava sul posto dell’operazione il traino facendo in modo che i seddanghe andassero a posarsi sulla buca. Verso mezzogiorno, ore 11,30 del Fascio, (anche l’ora fu cambiata), come una brutta cambiale a scadenza, arrivavano gli Ispettori, odiati ospiti che dovevano essere accolti con sorrisi falsi e bugiardi. Montavano due cavalli neri, vestiti di nero, con stivali e frustino: <<Salute! Viva il Duce>>. << Chère! Viva il Duce>> rispondevano i contadini dominando la rabbia. <<Tutto bene>> riprendevano i primi, scendendo da cavallo. <<Tutto bene?>>, rispondevano gli altri. <<Quanti sacchi?>>, continuavano quelli <<Sei, al netto>> era la risposta. <<Bene, i sei sacchi-continuavano quelli- come sapete, entro il tramonto all’Ammasse. Lo scarto a voi, compresa la paglia.>>. Quindi sigillavano i sacchi e dopo aver dato un’occhiata in giro rimontavano a cavallo e ripartivano per altre terre con grande sollievo dei presenti. Tutto questo avveniva sotto i miei occhi muto spettatore (non devi dire niente! Mi veniva detto. Chiaro?). Il sole era alto all’orizzonte quando il traino con la preziosa merce ed i contadini silenziosi tornavano al paese. Si passava a consegnare tutto all’Ammasse e si tornava a casa con un sacco e mezzo di grano… e le facce tristi. Che fine facesse il grano dell’Ammasse? Ufficialmente andava ai soldati in guerra. Rimaneva il problema di disseppellire il grano dalla buca e portarlo a casa. Nei giorni seguenti non si andava a lavorare a cudde lùke! per non dare nell’occhio agli spioni che ve n’ erano tanti per farsi belli e collaborare. Sul luogo del misfatto si tornava di notte. La sera tardi il, proprietario assieme ad altre due o tre persone generalmente di famiglia attraversando i vari fondi, raggiungevano la “fossa“ dove era stato nascosto il grano. Prelevavano un quantitativi tale da poterlo trasportare sulle spalle e si mettevano subito sulla strada del ritorno. Dovevano raggiungere il paese prima dell’alba. Si tornava a casa e si nascondeva subito il grano sotto il “lettone “. Dopo aver caricato gli arnesi da lavoro si andava in campagna a lavorare. L’operazione avveniva due o tre volte nel giro di un mese. Finalmente il grano era in deposito presso la casa. A questo punto bisognava trasformare il grano in farina. Il “grano legale“, quello ricevuto dall’ammass si poteva portare in due mulini. Il primo, chiamato “ ù granne” era ubicato sulla via per Altamura, all’estrema periferia. Oltre c’era soltanto l’edicola di San Michele che ancora esiste. Il secondo, invece, molto più piccolo, si trovava sulla strada parallela, molto prima della “neviera”. Si andava quasi sempre al secondo. Era gestito da marito e moglie venuti da paese limitrofo, non ricordo quale. L’operazione di “scejie a sfarenè u grène” avveniva nei giorni in cui non si andava in campagna per il maltempo. La padrona del mulino ti accoglieva con un sorriso e qualche volta, quasi sempre, aggiungeva al sacco della farina un sacchettino di cruschella con cui si facevano “ù cicce” o i “cavatidde nigre”. L’alta digeribilità della cruschella portava subito ad aver di nuovo fame. Per la trasformazione del “grano risuscitato o trafugato”, occorreva una gestione molto più complessa e pericolosa. Cominciamo subito col dire che il mulino che si prestava a questa forma di contrabbando si trovava a Cassano delle Murge. Si doveva raggiungere la località, con la mercanzia, di notte per prendere il posto. Il mulino lavorava solo due ore per i forestieri. Si trovava alla via del Convento. Appena arrivati, si depositavano i sacchi di grano in un posto indicato, si applicava su ciascuno di essi un segno con un pezzo di stoffa o altro per identificarlo e ci si doveva allontanare in attesa di essere chiamati. Se arrivava la milizia fascista per qualche retata, sequestrava solo la merce non potendo così identificare il proprietario. Un grave rischio. Prima di partire dal paese per questa operazione, gli interessati cominciavano alcuni giorni prima ad indagare, a chiedere con le dovute cautele se la situazione tranquilla, se, insomma, non c’erano state retate. Verso le ore ventidue del giorno prefissato, si caricava di corsa il grano sul traino e si partiva. Si andava da “reta a ret” passando davanti a san Crepinoe San Cristiano rivolgendo loro, ovviamente, una preghiera per la buona riuscita. E così, se tutto filava liscio, alle due del mattino, aiutato da qualche angelo di passaggio, si tornava a casa. Si scaricava in un lampo la “merce”. Mezzo sacco di farina andava a finire sul magazzino sotto “ò mendaune di aminue”, un’altra parte nella cassapanca coperta da indumenti vari e un quantitativo più piccolo sotto il lettone da tenere per le mani. Una volta concluse le operazioni, si caricava sul traino l’aratro e gli altri attrezzi da lavoro e si andava in campagna come se niente fosse accaduto. Vi ricordate le buche scavate sull’aia per nascondere il grano? Che in quelle buche siano andati a finire per sempre, sepolti nell’oblìo, negli abissi del tempo, le brutte cose vere raccontate. Diceva Guareschi :”…Amici, quando in una storia potete mettere un tocco di poesia non esitate…Noi abbiamo bisogno di credere in un mondo migliore che, purtroppo, non può essere di questo mondo e, allora, bisogna chiedere aiuto al Cielo”. LA SEMINA A tirare l’aratro Nella terra in maggese Fumano le narici Del cavallo al tramonto. Fuma la terra Tagliata dal vomero. La giornata è finita La tenue luce Disegna le ombre Oranti in preghiere Alla luce del falò Che squarcia la sera. Mauro Panza Tratto dal periodica parrocchiale “L’Incontro”n.231 novembre 2005 e n. 233 gennaio 2006