Appendice - Associazione Figli della Shoah

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Appendice - Associazione Figli della Shoah
Laura Vergallo
Associazione Figli della Shoah
Appendice
Materiali didattici e testi
La storia di Hania
“Era un paradiso, tutta la cittadina era un campo giochi per noi. In estate, quando il
sole era caldo, facevamo il bagno nel fiume che attraversava il paese. Giocavamo
nei campi pieni di boccioli di fiore. E in inverno pattinavamo sullo stagno ghiacciato
e ci lanciavamo giù a picco da una collina. Eravamo sempre circondati da risate e da
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amore”.
“Non molto tempo dopo, nel mezzo della notte, mia madre, mia sorella e io
fuggimmo dalla nostra città alla ricerca di un posto dove nasconderci. Mia mamma
si ricordava della povera vedova di un fattore con quattro figli – comprava scarpe
nel negozio dei miei genitori – e trovammo la sua fattoria nella campagna. Mia
madre la pregò di darci rifugio ma ella rifiutò; alla fine, in cambio di denaro e di
oggetti preziosi, ci permise di nasconderci in un buio fienile sopra la casa, sotto un
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tetto di paglia”.
Dopo pochi mesi, quando fummo senza soldi e senza niente da dare alla donna, ella
cercò di mandarci via. Mia madre si rifiutò, sapendo che se avessimo lasciato il
nostro nascondigli saremmo state catturate e uccise. Fece credere alla donna che
anche lei sarebbe stata uccisa, per aver dato asilo a degli ebrei. Convintasi che
doveva salvarsi la pelle, la donna accettò … Con rabbia. Divenne violenta, portò via
la scala dal fienile e interruppe ogni contatto con noi, fatta eccezione per gli urli e
gli insulti che ci destinava ogni qualvolta scopriva che cercavamo di uscire dal
fienile.(…)”.
“A volte la paura era insopportabile. Quando il vento soffiava sentivamo rumori da
tutte le direzioni. Lo stormire dei rami e dei cespugli e il latrare dei cani ci
terrorizzavano, ci fermavamo immobili per sentire se qualcuno arrivava. Eravamo
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sempre in allerta”.
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Howard Greenfeld, After the Holocaust, Greenwillow Books, New York, 2001, pag.6. La traduzione italiana è mia.
Howard Greenfeld, op. cit., pagg. 9-10.
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Howard Greenfeld, op. cit., pag. 10.
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La paura
“In viaggio verso il convento alle 5 del mattino. Ero terrorizzata. Eravamo
terrorizzate. Perché avrebbero potuto trovarci. Avevo paura quando sentivo un
passo. Avevo paura della gente che mi guardava, mi domandavo se la persona
successiva mi avrebbe denunciata, e sarebbe stata la fine. Arrivammo al
convento in tram e non ci volle poi così tanto, ma quando ci ripensai in seguito
mi sembrò di averci messo delle ore. Quando giungemmo al convento e fummo
introdotte nell’ufficio della Madre Superiora, lei ci abbracciò e noi ci sentimmo
al sicuro per un po’. Era una donna incredibile. Alla fine della guerra nascondeva
dieci ebrei adulti, ventotto bambini, paracadutisti britannici, armi, combattenti
della resistenza. Lei stessa era uno di questi combattenti ed ebbe una
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decorazione alla fine della guerra. Ci ospitò per quasi due anni”.
“Stavano cercando i paracadutisti britannici. In uno dei campi era stato trovato
un guanto. Fummo portate fuori dall’edificio – ho sempre pensato che era così
grande, ma quando ci sono tornata ho capito che non lo era. Fummo portate
nel campo e ci nascondemmo dietro ai cespugli per tutto il giorno, quando i
tedeschi se ne andarono ci fu detto di tornare indietro – le suore ci stavano
cercando. Alle 5 del mattino, dopo aver messo insieme poche cose alla luce di
una candela, fummo costrette a sparire. Molti bambini furono portati agli
orfanotrofi (…) e io tornai con mia madre alla clinica dove eravamo state
nascoste la prima volta e quando suonai il campanello, la Madre Superiora
disse: ‘Non potrei buttare fuori un cane, come posso mandare via voi?’. Ci
nascose nel convento – nessuno vi mise mai piede e nessuno era al corrente
della nostra presenza, eccezion fatta per tre suore. Avevamo una scala che
portava a una cucina e un prete veniva qualche volta a raccontarci come
procedeva l’invasione, a darci speranza che la liberazione fosse vicina. E così
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rimanevamo, nel terrore, dietro a queste porte”.
Un dolce di cioccolata
“Avevo qualcosa, non ricordo cosa, forse gli orecchioni. Mia zia venne a trovare
i suoi figli e mi portò la torta di cioccolato da parte della mamma, davvero uno
squisitezza. Me lo ricordo. Ero in isolamento – mi misero in una stanza a parte
perché ero malata – così non riuscii neppure a vedere mia zia. Qualcuno entrò,
mi diede la torta di cioccolato e disse: “questo è da parte di tua madre”. E mi
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Howard Greenfeld, The Hidden Children, Houghton Mifflin Company, Boston, 1993, pag. 35. La traduzione è mia.
Howard Greenfeld, op. cit., pagg. 36-37.
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ricordo che mi sedetti, mangiando la mia torta di cioccolato, con le lacrime che
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mi rigavano le guance”.
“Non sapevo cosa fossero le persone normali. Per me le persone erano preti,
suore o laici. Non ero molto sicura di cosa fossero gli adulti o le famiglie – molte
di queste cose per me non avevano senso. Non capivo cosa fossero le relazioni
anche se avevo un ricordo molto molto vivido di mia madre. Mi ricordavo che
mia madre mi aveva abbracciata, e questo era ciò che mi faceva andare avanti.
Di solito sognavo di essere di nuovo tra le braccia di mia madre. Una volta
arrivata lì, mi avevano tolto i miei vestiti e indossavo lo stesso grembiule che
avevano tutti i bambini. L’unica cosa che avevo ancora di mio era un cappotto
blu e il mio cappotto blu divenne una coperta che mi dava sicurezza. Lo
chiamavo il mio amico, mon ami. Era tutto ciò che avevo di mio, questo e le mie
scarpe, che indossai per un anno e mezzo.
Non riuscivo più a vedere il volto dei miei genitori. Provavo a dipingermeli ma
non ci riuscivo. Tutto ciò che ricordavo era la sensazione di loro, il contatto. Mi
trovavo in un istituto dove le persone non toccano i bambini. (…) Le suore erano
molto distanti, erano occupate a pregare tutto il giorno. Non avevano molto a
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che fare con noi”.
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Howard Greenfeld, op. cit., pag. 45.
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 48.
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Vivere sotto mentite spoglie – Questionario
•
Rifletti sulla tua identità, su chi sei, sulle caratteristiche che ti identificano come individuo. Che cosa fa di te
ciò che sei? ____________________________________________________________________
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Ecco alcuni suggerimenti (gli studenti possono aggiungere altre categorie e dovranno scegliere le tre a loro
parere più importanti):
•
Le tue idee e i tuoi pensieri
Ciò in cui credi
Le tue azioni
Il tuo nome e le tue caratteristiche fisiche
La storia della tua famiglia
Ciò che sai fare
La lingua che parli
La religione cui appartieni
I tuoi gusti personali (abbigliamento, hobby, amici …)
Puoi cambiare alcune di queste caratteristiche? Ce ne sono alcune che non ti è dato modificare?
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•
Conosci persone che cercano di essere ciò che non sono? A tuo parere, cosa motiva questo comportamento
e che risultati ne ottengono? _______________________________________________________
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(n.b. le domande che seguono sono necessariamente individuali)
•
Fai o hai mai fatto uno sforzo consapevole per cambiare qualcuna delle specificità che ti caratterizzano?
Perché e in quale circostanza?______________________________________________________
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•
Tu sei sempre te stesso o sei diverso, in base alle persone con cui ti trovi? Se ti accade di essere diverso in
mezzo a persone diverse, dentro ti senti sempre il medesimo individuo? Se le azioni sono ciò che ti definisce
come la persona che sei e se agisci diversamente trovandoti in gruppi di persone diversi, sei quindi un
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individuo differente in base a chi ti circonda?
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•
Conosci qualcuno con cui puoi sempre “essere te stesso”? Che cosa ti piace e cosa non ti piace dell’individuo
che sei?
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“Dentro di me stava avvenendo una lenta trasformazione. Era come se, in
determinate circostanze, avessi perso traccia di chi ero realmente e avessi
iniziato a pensare a me stessa come a una polacca. Divenni una persona
doppia, una in privato e una in pubblico. Quando mi trovavo lontano dalla
mia famiglia ero così assorbita dal mio io pubblico che non dovevo neppure
recitare un ruolo, mi sentivo realmente la persona che mi si chiedeva di
essere.
C’erano occasioni in cui pensavo davvero di essere la nipote di Stefa, polacca
come tutti i suoi parenti. Non dimenticavo chi ero, solo ero diventata capace
di mettere il mio vero io in quel dato contesto.
Mi piaceva il mio nuovo nome. Sentirmi e pensare di essere Krysia Bloch mi
rendeva la vita più facile e mi sentivo meno in pericolo quando si parlava di
ebrei. Potevo ascoltare racconti antisemiti con indifferenza e persino ridere
di cuore quando si parlava delle disgrazie degli ebrei. Sapevo che stavano
facendo del male al mio popolo ma una parte di me era come loro.
Non ho mai parlato di questi cambiamenti con nessuno. Non ne ero
orgogliosa. Mi sentivo in colpa e in imbarazzo. Mi sentivo una traditrice. Era
come se, rinunciando al mio vecchio io, rinunciassi anche alla mia famiglia. A
volte questo mi spaventava a morte, perché la mia famiglia era tutto ciò che
avevo.
Queste emozioni , incoerenti e forti, combattevano continuamente dentro
di me e io non facevo nulla per bloccare questo processo, in parte non lo
volevo. Era più facile così. La vita continuò e venni assorbita sempre più da
ciò che mi circondava, opposi sempre meno resistenza a ciò che mi stava
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accadendo” .
•
Rileggi, nella scheda precedente, i tre elementi che hai indicato come distintivi della tua identità.
Cosa proveresti se fossi costretto/a a modificarli per poter sopravvivere?
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•
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Rinunceresti volontariamente a una di queste caratteristiche? Perché? Come cambierebbe la
percezione che hai di te stesso?
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Nechama Tec, Dry tears: the Story of a Lost Childhood, Oxford University Press, New York, 1984. La traduzione è mia.
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•
Hai mai cambiato nome per gioco, fingendo di essere qualcun altro?
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“Avevamo appena cambiato nome, io stessa avevo un altro nome. Quando
arrivò il postino e chiese di mia madre – lo ricordo con estrema chiarezza – io
ero fuori e dissi: ‘Questo è il nome che mia madre aveva prima’. Oggi non
avrebbe alcuna importanza, vero? Ma allora era importante e noi fummo
costretti a scappare. La donna con cui stavamo mi sentì di sfuggita. Forse il
postino non mi avrebbe tradita. Era un gioco di probabilità: forse il postino mi
avrebbe tradita, forse no. Ma siccome nessuno sapeva come avrebbe reagito
questo postino, noi fummo costretti a fuggire”.
“Non avevamo cibo. Ci davano un pane molto, molto cattivo. Le suore
mangiavano pane buono ma i bambini no. Noi avevamo le rimanenze di una
panetteria della città. In estate era così cattivo che non si poteva mangiare.
Era rancido. Ci servivano le aringhe sulle quali strisciavano i vermi: dovevamo
togliere la pelle e i vermi per mangiare ciò che si trovava all’interno.
Eravamo tutti magri e sporchi. Facevamo il bagno una volta alla settimana. E
le suore, si sa, erano cattoliche devote. Le ragazze più vecchie facevano il
bagno ai bambini più piccoli e io cercavo di essere sempre davanti alla fila, in
modo da essere la prima o la seconda nella vasca da bagno, perché non
cambiavano l’acqua. Ma sfortunatamente, essendo uno dei bambini più
piccoli, non riuscivo sempre a essere la prima, così dovevo lavarmi nell’acqua
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sporca”.
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Howard Greenfeld, op. cit., pagg. 38-39.
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“Padre Benoit portava alcuni di noi, bambini più piccoli, nei campi per farci
fare un’escursione. Era molto simpatico. Io ero uno dei bambini fortunati che
riusciva a uscire magari una volta al mese. Andavamo nei campi sotto la
pioggia e cercavamo bacche. Cercavamo le fragole solo per avere qualcosa da
mangiare. Eravamo affamati – semplicemente non avevamo cibo. C’era una
giovane donna – non ricordo il nome- che lavorava in cucina. Cucinava a
aiutava le suore. Questa giovane era così addolorata per i bambini piccoli, in
particolare per quelli di otto, nove o dieci anni. Ci dava una fetta di pane, vero
pane di campagna preparato lì per le monache, lo affettava e ci metteva un
po’ di miele e del burro. Ce lo dava di nascosto e noi dividevamo questa
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grande fetta di pane tra due o tre bambine. Ed era come la manna dal cielo”.
“Andavamo a messa la domenica (…). Tra noi c’erano anche delle ragazze
protestanti che non dovevano neppure presenziare alla messa. Le ragazze ebree
continuavano ad andarci, ci sentivamo protette dalla religione cattolica. Mi
vergognavo di essere ebrea, difficilmente lo ammettevo o pensavo a me stessa
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come a qualcosa di diverso da una ragazza cristiana” .
Bibliografia
Greenfeld, Howard, After the Holocaust, Greenwillow Books, New York, 2001.
Tec, Nechama, Dry tears: the Story of a Lost Childhood, Oxford University Press, New York, 1984.
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Howard Greenfeld, op. cit., pag. 39.
Howard Greenfeld, op. cit., pag. 41.
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