5. La forma ed il contenuto del contratto di lavoro part

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5. La forma ed il contenuto del contratto di lavoro part
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Organizzazione dell’orario di lavoro e lavoro part-time
Successivamente, il CCNL del terziario, stipulato il 3 novembre
1994, accorpava il CCNL dei viaggiatori e piazzisti prevedendo
espressamente l’applicabilità della disciplina del part-time anche agli
operatori di vendita. Conseguentemente, mutando il proprio orientamento, il Ministero del lavoro (circ. 17 aprile 1997, n. 59) ha ritenuto che l’attività dei viaggiatori e piazzisti possa essere espletata con
contratto a tempo parziale, ma esclusivamente mediante una riduzione delle giornate lavorative intere (part-time verticale) e cioè con
una prestazione lavorativa limitata ad alcuni giorni della settimana.
L’INPS, di conseguenza, si è adeguata con la circ. 30 dicembre 1998,
n. 269.
5. La forma ed il contenuto del contratto di lavoro part-time.
Le sanzioni per il difetto di forma o di contenuto del contratto
L’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 61/2000, conferma la previsione della vecchia normativa circa la necessità della forma scritta del contratto di lavoro a tempo parziale. Tuttavia, contraddicendo quanto stabilito dalla giurisprudenza sotto la vigenza dell’art. 5, legge n. 863/1984,
la quale riteneva che la forma scritta fosse richiesta ad substantiam,
viene ora specificato espressamente che essa è richiesta ai fini della
prova (forma scritta ad probationem) e non ai fini della validità del
contratto (art. 8, comma 1, primo periodo, D.Lgs. cit.).
A tal proposito, l’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 61/2000 (dedicato alle sanzioni) precisa altresì che qualora la scrittura risulti mancante è
ammessa la prova per testimoni nei limiti di cui all’art. 2725 c.c., ossia solo nel caso in cui la parte abbia smarrito incolpevolmente il documento che gli forniva la prova. Gli unici mezzi di prova ammessi
in mancanza del documento scritto saranno pertanto:
– un documento scritto (anche posteriore) dal quale risulti che
una volontà si è manifestata in qualsiasi modo;
– la confessione (art. 2730 c.c.);
– il giuramento decisorio (art. 2736, n. 1, c.c.).
Si ribadisce che, in ogni caso, il contratto anche in assenza di forma scritta è valido e quindi, se non dovessero sorgere contestazioni,
La normativa vigente: il D.Lgs. n. 61/2000
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esso svolgerà interamente la sua funzione e sarà assoggettato alla disciplina prevista dal D.Lgs. n. 61/2000, essendo la forma scritta ora
richiesta al solo fine di accertare eventuali utilizzazioni non corrette
dell’istituto.
A conferma che la prova scritta è richiesta nell’interesse esclusivo
del lavoratore, l’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 61/2000 precisa che in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, su richiesta del lavoratore (e quindi non d’ufficio), il
giudice del lavoro potrà dichiarare la sussistenza fra le parti di un
rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia stata giudizialmente accertata (con efficacia
non retroattiva, ex nunc). Si tratta di una vera e propria sanzione civile per il datore di lavoro che omette la stipulazione per iscritto del
contratto di lavoro part-time.
Resta comunque fermo il diritto alle retribuzioni dovute per le
prestazioni effettivamente rese antecedentemente alla data suddetta.
Tale precisazione appare pleonastica alla luce della disposizione generale che garantisce la retribuzione spettante al lavoratore per le
prestazioni di fatto rese con violazione di norme poste a tutela del
prestatore di lavoro (art. 2126, comma 2, c.c.).
Il contenuto essenziale del contratto di lavoro part-time è precisato dall’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 61/2000. Il contratto dovrà contenere:
– la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa;
– la collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno,
alla settimana, al mese e all’anno;
– le eventuali clausole flessibili, relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa, e le eventuali clausole elastiche, relative alla variazione in aumento della durata della
prestazione lavorativa (ai sensi dell’art. 3, comma 7, D.Lgs. n. 61/2000).
La norma che impone di indicare con precisione la collocazione
temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno risulta essere quella che più facilmente viene violata all’atto della stipulazione del contratto di lavoro.
Il Tribunale di Milano ha ritenuto di dover dichiarare la nullità di
una clausola che stabiliva in modo estremamente vago la distribuzione (collocazione) dell’orario di lavoro. Si trattava di un caso in
cui nella lettera di assunzione di un lavoratore part-time orizzontale
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si stabiliva che la prestazione «avrà una distribuzione settimanale su
6 giorni lavorativi» e «si articolerà con turni avvicendati a rotazione»
nell’ambito di tutte le fasce orarie comprese in ognuno dei 3 turni di
lavoro. Il Giudice di merito ha osservato nella fattispecie che:
Giurisprudenza
«L’indicazione (puntuale) della “collocazione temporale” dell’orario di lavoro, oltre
che della durata della prestazione lavorativa, mira a far sì che il lavoratore possa
organizzare il proprio tempo di vita ed eventualmente il tempo da destinare ad altra
occupazione lavorativa, sottraendolo ad una “disponibilità” di fatto, che altrimenti
rischierebbe di prolungarsi per l’intera durata del ciclo produttivo aziendale.
Ben vero che “clausole difformi sono ammissibili”, peraltro “solo nei termini di cui
all’art. 3, comma 7” [D.Lgs. n. 61/2000; la sentenza si riferisce alla possibilità di
stipulare clausole flessibili, su cui v. par. 9, n.d.a.].
La previsione, tuttavia, presuppone che l’essenziale clausola di “collocazione temporale” dell’orario sia già inserita nel contratto individuale di lavoro, conformemente alla lettera e alla ratio della legge, perché solo rispetto ad una clausola del genere possono eventualmente darsi meccanismi correttivi nel segno di una maggiore flessibilità.
La clausola, così come espressa nel contratto individuale di lavoro, è, pertanto, da
ritenersi viziata da nullità»
Trib. Milano, sez. lav., 19 dicembre 2005, n. 4498.
Conforme alla precedente è un’altra recente decisione del Tribunale di Milano (sent. 6 maggio 2006, n. 1374) che si riferisce ad un
caso in cui il contratto di lavoro prevedeva un elevato numero di
turni nei quali il datore di lavoro poteva collocare, di tempo in tempo e con limitato e breve preavviso, la prestazione lavorativa, con
conseguente violazione della norma che impone invece una precisa
collocazione temporale della prestazione lavorativa:
Giurisprudenza
«La ratio della norma, poi, è con tutta evidenza quella di consentire, da un lato, la
soddisfazione dell’esigenza aziendale di avere una prestazione limitata nel tempo;
dall’altro, quella di garantire al lavoratore di circoscrivere l’impegno lavorativo in
alcuni precisi limiti temporali, in modo da fare salvi gli altri spazi e da consentirgli di
dedicarli ad altre attività (familiari, personali, di lavoro, ecc.) e, comunque, ad attività liberamente determinabili.
Detta finalità è frustrata dalla incertezza sulla collocazione oraria della prestazione,
determinata – nel caso di specie – da una previsione ampia di fasce orarie, che
non consente al dipendente di programmare il tempo libero dal lavoro; né pare sufficiente a elidere tale inconveniente la previsione quindicinale dei turni di lavoro,
La normativa vigente: il D.Lgs. n. 61/2000
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poiché si tratta di una modalità anch’essa inidonea a consentire al lavoratore una
adeguata programmazione dei suoi tempi extra-lavorativi.
Del pari, non può essere utilmente invocata la circ. del Ministero del lavoro 18 marzo 2004, n. 9, poiché la possibilità di una previsione di “turni articolati” è pur sempre condizionata sia all’inserimento nel contratto di lavoro, sia alla compatibilità
con le rilevate esigenze personali del lavoratore [v. par. 9, n.d.a.].
Le considerazioni che precedono determinano la dichiarazione di nullità della pattuizione del tempo parziale così come contenuta nel contratto individuale; e, poiché si tratta di una clausola che vitiatur sed non vitiat ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c., il contratto di lavoro deve essere mantenuto come valido e sorge la potestà del Giudice di provvedere alla sostituzione della clausola nulla con altra di
contenuto conforme alla legge»
Trib. Milano, sez. lav., 6 maggio 2006, n. 1374.
In un’altra sentenza (2 gennaio 2006, n. 8) il Tribunale di Milano
ha precisato che la normativa relativa alla puntuale indicazione della
collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, al mese, alla settimana ed all’anno deve considerarsi inderogabile non solo
da parte dei privati, ma anche delle parti sociali. Pertanto, anche
laddove i contratti collettivi regolino la materia del contratto a tempo
parziale, il datore di lavoro dovrà sempre indicare in maniera preventiva (una volta per tutte, salvo modifica concordata con il lavoratore) al lavoratore part-time le fasce orarie nelle quali svolgere la sua
attività lavorativa. Ed allora, il solo fatto che il CCNL del settore, ed
i successivi accordi integrativi, abbiano previsto la possibilità di inserire i lavoratori part-time in turni avvicendati non legittima il datore
di lavoro a operare una continua variazione di detti turni per ciascun
lavoratore in tutto l’arco della giornata lavorativa, anche se comunicata con anticipo. Le suddette previsioni delle parti collettive si pongono, infatti, in evidente contrasto con la ratio del contratto di lavoro a tempo parziale e devono pertanto ritenersi nulle. La sentenza
conferma anche che:
Giurisprudenza
«non pare in contrasto rispetto a tale impostazione la circ. 18 marzo 2004, n. 9 del
Ministero del lavoro […] secondo la quale “non integrano un’ipotesi di clausola flessibile le previsioni dei contratti collettivi, stipulati dai soggetti individuati dall’art. 1,
comma 3, D.Lgs. n. 61/2000 come modificato dall’art. 46, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003
che, nel determinare le modalità della prestazione lavorativa a tempo parziale, prevedano che la stessa possa essere programmata con riferimento a turni articolati su
fasce orarie prestabilite in modo che ove tale indicazione sia recepita nel contratto
individuale (per relationem) deve essere considerato soddisfatto il requisito della
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puntuale indicazione della collocazione temporale della prestazione con riferimento
al giorno, alla settimana, al mese e all’anno” [v. par. 9, n.d.a.].
Anche tenuto conto di questa circolare, che non a caso parla di programmazione
della prestazione lavorativa a tempo parziale in turni di fasce orarie prestabilite,
appare necessario che nel contratto di lavoro sia recepita una turnazione tale da
consentire al lavoratore (che l’abbia accettata con la sottoscrizione del contratto) di
conoscere preventivamente la collocazione oraria della sua prestazione anche in
un futuro non prossimo.
Orbene, il comportamento della convenuta [datore di lavoro, n.d.a.] non soddisfa il
necessario requisito della predeterminazione, non essendo sufficiente, a fronte di
continui cambiamenti della fascia oraria di collocazione della prestazione lavorativa, il mero preavviso di 15 giorni.
Non solo nulla è detto nei vari contratti modificativi dell’estensione del part-time,
ma altresì il continuo cambiamento dei turni all’interno dell’intera giornata lavorativa determina l’impossibilità per il lavoratore di programmare le attività da svolgere
al di fuori dell’orario di lavoro.
In base all’art. 8, comma 2, D.Lgs. n. 61/2000, la mancanza o l’indeterminatezza
della collocazione dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al
mese o all’anno, non determina la nullità del contratto, ma impone al giudice di
determinare le modalità temporali dello svolgimento della prestazione lavorativa»
Trib. Milano, sez. lav., 2 gennaio 2006, n. 8.
Anche il Tribunale di Lecce (ord. collegiale del 20-27 aprile 2006,
emessa a seguito di reclamo avverso l’ordinanza con la quale il giudice del lavoro aveva rigettato la richiesta presentata in via d’urgenza
da alcuni lavoratori part-time al fine di ottenere la determinazione in
unico turno della loro prestazione lavorativa) conferma la nullità, per
contrarietà a norma imperativa, delle clausole contrattuali che prevedono, in astratto, la variabilità della collocazione temporale della
prestazione lavorativa:
Giurisprudenza
«In sostanza, deve escludersi, perché in contrasto con l’art. 36 Cost. sulla condizione
del lavoratore e con le disposizioni di legge sopra richiamate [artt. 2, 3, comma 7 e 8,
D.Lgs. n. 61/2000, n.d.a.] la possibilità per il datore di lavoro di modificare unilateralmente la distribuzione giornaliera dell’orario di lavoro, soprattutto quando la modifica
non sia fondata preventivamente su esplicite ed imprescindibili necessità organizzative. L’invocata clausola contrattuale che prevede in astratto la variabilità di detta articolazione è certamente contraria alla legge e, quindi, nulla, sia perché rimette alla
sola volontà del datore di lavoro la facoltà di adeguare l’orario del dipendente ad una
turnazione non preventivamente precisata, sia perché, a causa di tale oggettiva indeterminazione e delle modalità con cui le variazioni dell’orario di lavoro vengono comunicate, comportano un aggravamento della penosità ed un aumento dell’onerosità
della prestazione lavorativa del tutto insopportabili.
Ci troviamo in presenza di una situazione assimilabile al lavoro con prestazione “a
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chiamata” in cui viene garantito soltanto il numero delle ore lavorative settimanali,
che il datore di lavoro può unilateralmente distribuire nell’arco dell’intera giornata,
assoggettando il lavoratore ad una disponibilità che eccede la normale onerosità e
penosità della prestazione ed incidendo gravemente sui suoi tempi di vita e sulla
possibilità di svolgere un’ulteriore attività lavorativa»
Trib. Lecce, sez. lav., ord. collegiale 20-27 aprile 2006.
Da ciò deriva che il datore di lavoro, al quale in genere spetta il
potere di variare la collocazione dell’orario di lavoro, in caso di lavoro part-time lo potrà fare solo in presenza di clausole flessibili, essendo preminente in questa forma contrattuale la libertà di programmare il proprio tempo libero da parte del lavoratore. In mancanza di
esse, la recente giurisprudenza di merito ha chiarito che:
Giurisprudenza
«In tema di variazione dell’orario di lavoro il datore di lavoro incontra limiti solo in
ipotesi di contratto part-time, poiché è solo in questo caso che la programmabilità
del tempo libero assume carattere essenziale che giustifica l’immodificabilità dell’orario da parte del datore di lavoro»
Trib. Milano, sez. lav., ord. 8 marzo 2005.
Anche la giurisprudenza di legittimità ritiene necessario (con riferimento a fattispecie ricadenti sotto la disciplina dell’art. 5, legge n.
863/1984) il mutuo consenso delle parti per potersi attuare una variazione dell’orario di lavoro (Cass. n. 13728/1991) in ragione delle
esigenze di vita e di libera organizzazione e programmabilità del tempo libero del lavoratore (Cass. n. 2382/1990; Cass. n. 11966/1991).
L’art. 8, comma 2, D.Lgs. n. 61/2000 (come sostituito dall’art. 46,
comma 1, lett. r), D.Lgs. n. 276/2003) precisa che l’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni sopra
citate, non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale (anche questa precisazione appare davvero superflua atteso che,
se la forma scritta è richiesta ai fini della prova, a maggior ragione in
presenza di un contratto scritto, pur mancando in esso talune indicazioni, non si può ritenere che esso sia nullo a causa di tali carenze).
Le conseguenze, tuttavia, sono diverse a seconda degli elementi
omessi nel contratto scritto:
1. se l’omissione riguarda la durata della prestazione lavorativa,
su richiesta del lavoratore, anche in questa circostanza, il giudice del
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lavoro può dichiarare la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento
(con efficacia quindi non retroattiva, ex nunc);
2. se invece l’omissione riguarda la sola collocazione temporale dell’orario, non si verificherà la conversione in contratto di lavoro a tempo pieno (essendo certa la durata ridotta della prestazione lavorativa),
ma il giudice si limiterà a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale facendo riferimento alle previsioni dei contratti collettivi in materia di clausole flessibili.
In assenza di tali previsioni nella contrattazione collettiva, il giudice
dovrà provvedere a determinare le modalità temporali di svolgimento
della prestazione lavorativa con valutazione equitativa, tenendo conto
in particolare delle responsabilità familiari del lavoratore interessato,
della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal rapporto a
tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa,
nonché delle esigenze del datore di lavoro. In altre parole, il giudice
dovrà supplire e colmare la lacuna contrattuale. Nel corso del successivo svolgimento del rapporto è fatta salva la possibilità che le parti
concordino per iscritto clausole elastiche o flessibili.
In entrambe le ipotesi sopra esaminate, il lavoratore ha diritto per
il periodo antecedente alla data della pronuncia della sentenza, in
aggiunta alla retribuzione dovuta, alla corresponsione di un ulteriore
emolumento a titolo di risarcimento del danno (così espressamente
qualificato dall’art. 8, comma 2, D.Lgs. n. 61/2000) da liquidarsi con
valutazione equitativa.
Ad esempio, il Tribunale di Milano (sent. 19 dicembre 2005, n.
4498), in un caso che riguardava la mancata collocazione temporale
dell’orario di lavoro, ha ritenuto equo liquidare una somma pari al
40% delle retribuzioni effettivamente erogate al dipendente nel corso del rapporto di lavoro; in altra circostanza, lo stesso Tribunale di
Milano (sent. 6 maggio 2006, n. 1374) ha invece ritenuto equo liquidare il danno in misura pari al 20% della retribuzione corrisposta
dal momento dell’assunzione fino a quello dell’assegnazione al lavoratore del turno indicato nello stesso dispositivo della sentenza.
Più articolata, sempre in merito alla liquidazione del risarcimento
del danno in caso di non puntuale indicazione della collocazione
temporale della prestazione lavorativa, è la sentenza del Tribunale di
Milano (2 gennaio 2006, n. 8) la quale precisa preliminarmente che,
pur in mancanza di specifiche allegazioni, non si può non ritenere
La normativa vigente: il D.Lgs. n. 61/2000
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certa la sua sussistenza essendo il risarcimento intrinsecamente collegato all’impossibilità di organizzare il proprio tempo anche a breve
termine, atteso che l’orario settimanale – nella fattispecie concreta
sottoposta a giudizio – veniva comunicato con solo 15 giorni di anticipo. Dallo stesso tenore letterale si evince – continua il giudice milanese – che il legislatore ha ritenuto che alla compromissione del diritto del lavoratore a organizzare il proprio tempo, consegua inevitabilmente un danno da ritenersi pertanto certo nell’an. La discrezionalità del giudice – deduce il Tribunale di Milano – deve rivolgersi
alla determinazione del quantum. La soluzione concreta accolta dalla
sentenza è la seguente:
Giurisprudenza
«In proposito occorre premettere che, […] trattandosi di somme da riconoscersi a
titolo risarcitorio per fatto illecito, deve trovare applicazione il comma 1 dell’art.
2947 c.c. che fissa in cinque anni il termine prescrizionale che, nel caso di specie,
decorre a ritroso dalla data del primo atto interruttivo della prescrizione rappresentato dalla notifica del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Poiché non di rado la ricorrente ha svolto la propria attività lavorativa proprio nella
fascia oraria oggi richiesta; tenuto conto che l’orario della ricorrente è passato dalle 18 ore settimanali alle 28 ore settimanali e quindi, da ultimo, occupava parte considerevole della giornata, ed infine che la ricorrente sino al deposito del ricorso
non risulta essersi mai lamentata della mancata predeterminazione dell’orario di
lavoro, si ritiene pertanto equo determinarlo nel 15% della retribuzione percepita
per le ore effettivamente lavorate dal 2 agosto 1999 al 31 ottobre 1999, periodo in
cui la ricorrente aveva un orario di lavoro di 18 ore settimanali, al 10% da tal data
al 10.10.2000, periodo in cui lavorava per 24 ore settimanali, e nel 5% da tale data
sino al dicembre 2004 (data di deposito del ricorso) […].
È evidente, infatti, che maggiore è l’impegno lavorativo, minore è il tempo a disposizione del lavoratore con minori necessità di organizzazione.
Si precisa inoltre che tali percentuali debbono essere calcolate sulle ore effettivamente lavorate e non sulla retribuzione percepita, essendo pertanto da escludersi gli
emolumenti a titolo di 13a e 14a mensilità, indennità di malattia, ferie, permessi, ecc.
Le somme così determinate andranno maggiorate degli interessi e della rivalutazione dalla data della presente pronuncia al saldo»
Trib. Milano, sez. lav., 2 gennaio 2006, n. 8.
È infine prevista la possibilità che le parti possano risolvere le
controversie insorte per la mancanza del contratto scritto (art. 8,
comma 1, D.Lgs. n. 61/2000), o per la mancanza o indeterminatezza
delle indicazioni richieste (art. 8, comma 2, D.Lgs. n. 61/2000) promuovendo, in luogo del ricorso all’autorità giudiziaria, le procedure
di conciliazione ed eventualmente di arbitrato previste dai contratti
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collettivi nazionali di lavoro ai quali (ai sensi dell’art. 1, comma 3, D.Lgs.
n. 61/2000) è demandata la determinazione delle condizioni e delle
modalità della prestazione lavorativa.
6. L’abolizione dell’obbligo di invio della copia del contratto
alla D.P.L. Gli altri obblighi informativi
L’art. 2, comma 1, secondo periodo, D.Lgs. n. 61/2000 obbligava
il datore di lavoro a dare comunicazione dell’assunzione a tempo
parziale alla Direzione provinciale del lavoro competente per territorio mediante invio di copia del contratto entro 30 giorni dalla stipulazione dello stesso. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva
escluso (sin dalla vigenza della precedente disciplina che prevedeva
identica disposizione) che l’invio della copia del contratto costituisse
condizione di validità del contratto stesso (così Cass., sez. lav., 24 giugno 1998, n. 6265). Conformemente al suggerimento contenuto nel
Libro bianco di eliminare inutili incombenze burocratiche, quest’obbligo è stato soppresso dall’art. 85, comma 2, D.Lgs. 10 settembre
2003, n. 276.
La mancata comunicazione alla D.P.L. era punita dall’art. 8, comma 4, con una sanzione amministrativa pecuniaria di € 15 per ciascun
lavoratore interessato ed ogni giorno di ritardo. I corrispondenti importi venivano versati a favore della gestione contro la disoccupazione
dell’INPS. Anche la sanzione, precisa la circ. n. 9/2004 del Ministero
del lavoro, si deve ritenere che sia stata implicitamente abrogata per il
venir meno dell’obbligo di comunicazione. Pertanto, per le violazioni
antecedenti al 24 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n.
276/2003), trova applicazione il principio di irretroattività delle leggi
che prevedono sanzioni amministrative (art. 1, legge n. 689/1981). Ne
consegue che, anche nel caso di emissione di ordinanza ingiunzione,
avente ad oggetto violazioni anteriori all’entrata in vigore della nuova
disciplina, troveranno applicazione le sanzioni riferite alla violazione
dell’obbligo di comunicazione alla D.P.L. Sulle sanzioni amministrative in generale, cfr. par. 10 dell’Introduzione.
Permane, invece, l’obbligo generale (per i datori di lavoro privati,
ivi compresi quelli agricoli, gli enti pubblici economici e le pubbliche
amministrazioni) di comunicare l’assunzione (ossia l’instaurazione di