12-22 - La Gazzetta del Medio Campidano

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12-22 - La Gazzetta del Medio Campidano
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1 ottobre 2015
San Gavino. Grande festa al liceo linguistico di via Paganini
Il massimo dei voti all’esame di Stato
per Fabio Matzeu, un ragazzo “speciale”
Fabio con la sorella Ylenia
H
a preso il massimo dei
voti all’esame di stato
ricevendo i complimenti della commissione. È la storia di
Fabio Matzeu, un ragazzo
“speciale” del liceo linguistico “Marconi-Lussu” di San
Gavino Monreale. A 19 anni
lo studente affetto dalla sindrome di Down ha già le idee
chiare sul suo futuro e ironizza sul significato delle parole: «Da grande? Voglio fare l’amministratore delegato di
qualche importante
società degli Stati
Uniti. Mi piacerebbe lavorare in città
come Los Angeles.
Io
non
sono
“Down” perché
questa parola (che non mi
piace per niente) in inglese
vuol dire sotto. Io sono “up”,
su”.
Così Fabio è riuscito a realizzare il sogno di una vita e
a conquistare l’ambito diploma in una scuola superiore
che si è sempre dimostrata
accogliente e che ha il mag-
gior numero di ragazzi “speciali” tra gli istituti del Medio Campidano. Nel liceo
linguistico e delle scienze
umane di via Paganini tutti
gli hanno voluto bene ed anche all’esame il diciannovenne non si è lasciato vincere
dall’emozione ed ha affrontato le prove scritte e il colloquio orale con estrema
concentrazione. «Mi piace racconta - studiare le lingue
e ringrazio in particolare i
miei professori di spagnolo,
francese e inglese. Ora mi riposerò un po’ e poi vedremo
il da farsi. Ho una grande
passione per gli animali.
Amo molto anche giocare
alla play station e andare
sott’acqua anche in piscina».
Fabio si ricorda di tutti gli
insegnanti e di ognuno ha un
ricordo: «La più bella? È la
professoressa Dore. Il docente più bravo? Ho un ottimo ricordo di Emanuele Melis».
A scuola Fabio Matzeu è stato adottato da tutti, più di una
volta si è presentato con il
collaboratore Bruno Mallica
di Gonnosfanadiga a distribuire le circolari nelle classi
ed è stato un assiduo frequentatore dei laboratori linguistici e della sala professori,
dove di solito scambiava due
chiacchiere con tutti i docenti. Felicissimi i genitori:
«Speriamo che Fabio - rimarca il padre Mario - possa essere inserito in qualche
azienda locale anche per un
piccolo lavoro o in tirocinio
come succede in altre regioni italiane. La scuola ha permesso a Fabio di crescere
tantissimo e i ringraziamenti
vanno a tutti a partire dalla
sua prima maestra Rita Pascalis fino all’insegnante di
sostegno degli ultimi anni
Sara Casula».
In altre regioni il lavoro dei
ragazzi “speciali” è una realtà, come racconta il sangavinese Francesco Caboni,
emigrato da anni in Veneto,
insieme alla moglie Ylenia
Matzeu, sorella di Fabio: «In
Veneto - precisa Francesco un ragazzo down lavora alla
Asl e ci sono molti altri casi
di inserimento lavorativo. in
Sardegna è tutto più difficile». Intanto a scuola nell’ultimo anno la professoressa
Sara Casula ha visto i grandi progressi di Fabio: «Anche per me è stata un’esperienza di crescita sia come
docente che come persona. I
ragazzi speciali danno tanto
e ti permettono di vedere il
mondo in maniera diversa.
Fabio ama gli animali, la natura e la sua famiglia. Gli piace ballare e stare in compagnia».
Felicissima la mamma Antonella, il fratello Nicolò con
la moglie Erica e la figlia
Ginevra (vivono a Londra),
Francesco e la sorella Ylenia:
«Auguriamo a Fabio - dice
quest’ultima - tutto il bene
del mondo e facciamo i nostri migliori auguri per questo importante traguardo».
Gian Luigi Pittau
GUSPINI
S’accovecada
Antonio Fanari (al centro). Lastricazione di via Roma a Cagliari
L
Dall’incendio del monte Margherita
riaffiora la storia degli Scalpellini
’incendio di questa estate nel Monte Santa Margherita ha rovinato
un importante parco naturale del
paese. Nei luoghi dove è stato appiccato
il rogo sono riaffiorati vari siti cari alle
memoria dei guspinesi: la fonte di Santa
Margherita, sa lisciadroxa, luogo di gioco e svago di tanti ragazzi negli anni ’60. È riapparsa anche
l’antica fonte dove le maestre e le suore salesiane portavano
i bambini a fare le “passeggiate e merende di fine anno scolastico” e sono riemersi i vecchi percorsi dove si inerpicavano i carri trainati da possenti bovini, i sentieri e le scalinate
in granito utilizzate dagli scalpellini per arrivare velocemente nelle cave, e in particolare le cave che mostrano, lì sul
posto, materiale già lavorato o in via di lavorazione.
L’arte di sbozzare il granito ha radici in tempi antichi, lo testimoniano le vecchie abitazioni e in particolare i portali
d’epoca del centro storico: un originale itinerario di arte della pietra fra nicchie e portali, cornici di finestre, il monumento ai caduti, vari muraglioni di sbarramento fra cui quello del Monte Granatico, iscrizioni, lapidi e decorazioni architettoniche. Alcune tracce archeologiche attestano come
questo mestiere nel paese fosse conosciuto da tempi antichi.
“Su ponti de sa damma” a Neapolis era una strada costruita
con lastre di granito presumibilmente cavate e lavorate nel
monte che sovrasta il paese. Pur con materiali diversi, l’arte
degli scalpellini riemerge nella storia del paese come per
esempio in occasione della costruzione della chiesa parrocchiale di San Nicolò nel 1600, che vide impegnati molti scalpellini guspinesi, accanto a mastri muratori provenienti da
altre parti della Sardegna.
I massi per la costruzione delle case provengono dalle cave
alle pendici del monte Santa Margherita, vicine al primo borgo
abitato. Dalle costruzioni ancora esistenti sappiamo che i tozzetti di granito prodotti dalle cave erano di eccellente qualità
e di vario colore: rosa chiaro, nero e bianco lucido, e che
quest’ultimo per la sua caratteristica era chiamato “il bianco
di Guspini” .
Nel paese, tra la fine del ’700 e gli inizi
dell’800, erano ben 430 i capi famiglia, tra
scalpellini, cavatori e tagliapietre, che si
guadagnavano da vivere sfruttando le risorse delle cave, facili da raggiungere a
piedi e con carri trainati da buoi. È proprio da queste famiglie che si otteneva un
indotto economico importante per il neo
Regno Italico (1807-1813) mentre le lavorazioni incrementavano la produzione
bovina destinata al trasporto, dato che innumerevoli erano “is carradoris” che si dedicavano al trasporto, e tra quelli in particolare i fratelli Ruggeri.
Agli inizi del ’900 il lavoro della pietra, che dava da vivere a
circa 300 scalpellini del paese, entra in crisi. Antonio Fanari
era in quegli anni uno dei tanti che nel 1910, complice una
grave crisi economica, lasciarono il paese alla ricerca di fortuna, dando vita a una migrazione lenta e silenziosa, che inizialmente volontaria diventa poi forzata, li porta in Europa e
al di là degli oceani, molte volte senza ritorno.
Purtroppo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale costringe
molti a rimpatriare dalla Francia, dall’Austria e dalla Germania e ad accrescere il numero dei disoccupati. Molti partono
per il fronte, con l’illusione di tornare presto e di trovare al
rientro una situazione migliore, che permetta loro di non dover più emigrare. Ma, finita la guerra, dopo anni di sofferenze e rischi, trovano una situazione ancora peggiore. Nel 1922,
quando vengono riaperte le frontiere europee, l’emigrazione
riprende a pieno ritmo e di conseguenza la lavorazione della
pietra e del granito entrano di nuovo in crisi. Nel 1924 infatti
Sa lisciadroxa
entra in funzione
la ditta Scanu
Ortu che con le
sue fornaci, alSa Mitza de Santa Mragreda
l’epoca rivoluzionarie, per la produzione dei mattoni, fornisce in quantità e a prezzi concorrenziali nuovi prodotti per le costruzioni.
Durante il periodo fascista molti scalpellini vanno e vengono, partono in primavera e tornano in inverno, mentre altri si
stabiliscono definitivamente all’estero con le loro famiglie.
La decadenza e l’abbandono delle cave si aggravano ancor
più al termine dell’ultima guerra mondiale e il numero dei
lavoratori si riduce ma, nonostante tutto, molte persone utilizzano il tempo libero dopo il lavoro in miniera cavando o
sbozzando il granito e i materiali necessari per costruire le
abitazioni per le proprie famiglie cooperando con altri e avvalendosi anche «de s’agiudu torrau ».
Mauro Serra
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SAN GAVINO
Michelangelo Sanna
e i suoi reperti dimenticati
A distanza di quattro anni dalla sua scomparsa,
il paese è ancora privo di un museo archeologico.
A
San Gavino, un paese situato nel cuore del Medio
Campidano, c’è un tesoro archeologico, risalente al periodo nuragico e punico, di valore inestimabile ritrovato da
un appassionato di storia tra gli anni ’60 e ’70 e che ancora
oggi non possiede una dignitosa sistemazione museale.
Michelangelo Sanna, uomo di straordinaria cultura e veterano di guerra, scomparso nel 2011, alla veneranda età di
novantuno anni, ebbe fin da piccolo la passione per l’archeologia. Nativo di Sardara, partecipò come volontario alla seconda guerra mondiale, combattendo in Africa e rimanendo
recluso in un carcere del Missouri come traditore della patria
(prigioniero di guerra). Terminata la guerra e dopo tre anni di
reclusione in America tornò nella sua amata Sardegna, precisamente a San Gavino, nella seconda metà del secolo scorso,
dove si sposò, mise su famiglia e, nel tempo libero, continuò
a dedicarsi alla sua grande passione.
Era un uomo di eccezionale intelligenza e cultura; in quanto
autodidatta possedeva anche una forte dedizione per la letteratura italiana, amava in particolare la Divina Commedia di
Dante Alighieri (conosceva a memoria molti canti dell’Inferno); scrisse inoltre diversi libri e fu un uomo molto attivo nel
paese, soprattutto dopo i ritrovamenti effettuati in un terreno
di sua proprietà, denominato “Funtàn’e canna”, situato nella
periferia del paese. Con degli scavi effettuati tramite l’aratura
a scasso, Michelangelo Sanna scoprì una miniera a cielo aperto. Riuscì a portare alla luce ben 5.226 resti del periodo
nuragico e punico, un’enormità per una zona così ridotta. «Si
tratta - spiega il figlio Bruno, che si è prestato gentilmente a
rispondere a qualche domanda - di oggetti in pietra, per lo
più materiale d’uso domestico come, ad esempio, macine
nuragiche. Tra questi anche tre menhir di grandi dimensioni,
diverse rappresentazioni, tra le quali una della dea Madre e
ventitré insediamenti nuragici». Questi, secondo le ricerche
del padre Michelangelo furono rasi al suolo durante gli scontri tra Punici e Romani nel 215 a.C.
Michelangelo Sanna considerava i suoi ritrovamenti beni storici, artistici e culturali che potevano rappresentare un patrimonio notevole per il territorio sardo. Il suo unico intento,
era, infatti, quello di riuscire a creare un “museo all’aperto”
per mettere in risalto ogni pezzo, assolutamente unico; il suo
fine era quindi di valorizzare i reperti e renderli accessibili a
tutti, lungi da ritenerli di sua proprietà. «Tuttavia - prosegue
Bruno Sanna - il suo impegno per lasciarli nel paese fu mal
interpretato dalle autorità». Queste, infatti, decisero di sequestrare tutti gli oggetti da “Funtàn’e canna” luogo di ritrovamento e che Sanna, per quarant’anni, aveva custodito con
passione e dedizione. I preziosi reperti archeologici furono
sistemati provvisoriamente in zone del paese non adeguate.
Da allora circa 1500 reperti sono ancora conservati e invetriati
nel sotto tetto del palazzo comunale; quelli più ingombranti
sono invece sistemati sottochiave nello stabile del Centro di
Aggregazione, in via Pascoli. «Per mio padre - conclude il
figlio - fu una grande umiliazione, non sopportava l’idea che
tutti quegli anni di ricerche fossero buttati al vento e che quei
preziosi reperti archeologici fossero abbandonati chissà
dove».
Questo ricco e importante sistema di beni culturali fu oggetto
di una serie d’interventi di recupero da parte del nucleo dei
SAN GAVINO. PICCOLO TEATRO UMORISTICO
carabinieri di Sassari, specializzato nella tutela dei beni culturali, che intervenne su richiesta della Sovrintendenza che
denunciò la magistratura. In una delle sue ultime interviste
(risalenti al 2010) egli stesso affermò: «Nessuna autorità si è
mai effettivamente interessata a questi straordinari dati. Ci
hanno ascoltato con indifferenza sostenendo che queste scoperte erano di loro competenza, ma noi siamo arrivati per
primi!». Secondo Sanna l’unica autorità che mostrò un vero
interesse fu il nucleo dei carabinieri di Sassari che denunciò
la magistratura, la quale fu incaricata di sequestrare tutto il
materiale. La magistratura, a sua volta, impose al Comune di
conservare alcuni reperti, una volta catalogati e registrati, in
due zone del paese. Fino alla fine dei suoi giorni,
Michelangelo Sanna, assoluto custode del passato, sperò che
le sue straordinarie scoperte fossero sistemate in una dignitosa collocazione museale, ma a distanza di quattro anni dalla sua morte e cinquanta dai suoi ritrovamenti ancora tutto
tace.
Diverse amministrazioni si sono succedute, diversi sindaci
hanno mostrato una parvenza d’interesse, ma i preziosi doni
della storia vivono ancora intrappolati all’interno del loro passato nell’interminabile attesa di una consona collocazione.
Insomma, una sistemazione a norma di legge, non solo volta
a valorizzare la storia del territorio sardo ma anche per far
fronte al problema disoccupazione tanto sofferto nel Medio
Campidano. Essa, infatti, offrirebbe maggiori spazi d’investimento, umano ed economico, contribuendo alla crescita
del settore turistico culturale.
Marcella Pistis
GONNOSFANADIGA
I ragazzi del Ptu hanno festeggiato il decennale Soppresso il servizio di scuolabus
La compagnia teatrale più longeva di San Gavino, a dispetto
dell’età media dei componenti, a settembre di quest’anno ha
compiuto 10 anni. «Ho un bel ricordo di tutte le mie commedie - ci spiega il regista e l’asse portante della compagnia,
Gianfranco Serra - e non saprei veramente scegliere qual è la
mia preferita, di tutte ho un ricordo speciale». L’esordio, nel
settembre 2005, fu con “Tutti insieme a… Passionatamente”,
allora erano quattro ragazzi partiti dal nulla ma con tanto entusiasmo e tanto amore per il teatro. Poi arrivarono Giuliekka &
Moreo, Il Miles, Fausta, Su Bandiu de Scabeccia. «Siamo cresciuti tanto - continua Gianfranco - ed è stato per me, così
come credo per tutti, un percorso di vita, oltre che artistico. Ho
conosciuto tante persone e per quanto le strade si possano essere separate ho un bel ricordo di tutti quelli che hanno fatto
parte del PTU». È cambiato quasi tutto intorno a quei quattro
ragazzi che volevano mettersi in gioco, loro stessi sono cresciuti e di commedia in commedia hanno saputo avvicinare
sempre più attori ma anche e soprattutto spettatori.
Quest’anno arriva la prova del nove (anche se sarebbe più corretto dire del dieci) e Gianfranco sa che il suo pubblico si aspetta
una sorpresa: «È in corso un cambiamento artistico, stiamo
studiando la lingua sarda, abbiamo aderito ad un circuito teatrale e proveremo ad affrontare questa prova. Sicuramente non
reciteremo esclusivamente in sardo, ma ci saranno inflessioni
per l’esiguo numero degli alunni
importanti rispetto al passato. Anche stilisticamente ci vogliamo evolvere, personalmente mi sono avvicinato molto alla figura di Eduardo De Filippo e ho provato a scrivere seguendo il
suo registro. Se in passato abbiamo rivisitato umoristicamente
personaggi storici, vicende e ambienti, le nostre commedie
avranno uno stile un po’ agrodolce, se vogliamo dire così.».
Un grande passo per questi ragazzi che sono continuamente
alla ricerca di attori e attrici e che si dimostrano di volta in
volta sempre più aperti alla comunità sangavinese e non. Noi,
che li seguiamo da tempo, attendiamo di vederli nuovamente
all’opera.
Lorenzo Argiolas
Il Comune di Gonnosfanadiga rinuncia allo scuolabus. Una
nota del servizio pubblica istruzione lo scorso marzo ha messo in evidenza “l’assenza dei presupposti legislativi per continuare ad assicurare il servizio di trasporto con la modalità
della gestione mediante affidamento in appalto”. Il motivo?
Il numero esiguo di studenti in possesso dei requisiti indicati
dalla legge. Da qui la decisione dell’amministrazione di sopprimere il servizio avvisando per tempo le famiglie.
A coloro che avrebbero avuto diritto allo scuolabus il Comune, con apposito regolamento, concederà un rimborso
chilometrico delle spese di trasporto sostenute dai familiari
che hanno utilizzato autovetture private. (step)
SIDDI
Nuovi orari di apertura degli uffici comunali
A partire dal prossimo 5 ottobre, gli uffici comunali di Siddi
resteranno aperti al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 11
alle 13, e il martedì dalle 16 alle 18. (m.p.)
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1 ottobre 2015
SERRAMANNA
Il museo di arte sacra riprende vita
Il museo delle arti e tradizioni religiose a Serramanna nasce
circa quindici anni fa, allestito all’interno della chiesa di
Sant’Angelo, lungo la via Cagliari ad angolo con Piazza Venezia. Il museo non è fruibile al pubblico se non sporadicamente ma ogni occasione di apertura ha sempre registrato
un gran numero di visitatori, l’ultima di queste in ordine
temporale è stata la manifestazione Monumenti Aperti, dello scorso maggio durante la quale il museo in oggetto è stato il sito in cui sono state rilevate il maggior numero di presenze.
L’arte sacra è il fulcro attorno a cui ruotano i principali studi di Storia dell’arte ed Architettura in Sardegna ed è proprio attorno a questi temi che tre ragazzi serramannesi, uniti
da un sentimento di amicizia e da uno spiccato interesse per
l’arte in tutte le sue forme, hanno deciso di unire le proprie
competenze e professionalità per costituire un’associazione
culturale completamente dedicata alla rifunzionalizzazione
ed allestimento del museo.
Federica Assorgia, classe 1981, laureata in Storia dell’arte
con una tesi in Archeologia Cristiana Medievale dal titolo
“Il Castello di San Guantino ad Iglesias” e Michela Arisci
classe 1976, laureata in Archeologia e storia dell’arte con
una tesi in Archivistica dal titolo “Complesso conventuale
di San Sebastiano a Serramanna” già impegnate in iniziative di valorizzazione di artisti locali, ed Ignazio Curreli, classe
1983, laureato in Ingegneria edile architettura con una tesi
dal titolo “Il recupero delle periferie urbane: un nuovo centro nel comune di Serramanna” uniscono le proprie forze e
danno vita all’associazione culturale “Aletheia”. Il nome
scelto non è casuale, è il termine greco con cui si indica
letteralmente “ciò che non è nascosto” quindi ciò che è conosciuto, ed è compito degli studiosi dell’arte, con una disciplina molto rigorosa, dopo un lungo lavoro di ricerca
spesso non semplice, rendere note origini e storia di un’opera. Così come ogni museo non è semplicemente un luogo di
esposizione ma è anche un luogo di didattica e di conoscenza.
La nascita dell’associazione rappresenta un punto di arrivo
naturale, le ragazze sono accomunate da un percorso di studi
e da una collaborazione rafforzatasi durante l’edizione di
“Sa Passillada” di fine estate nel settembre del 2014, quando accompagnarono con una lezione guidata i visitatori del
museo. La volontà di approfondire la conoscenza sulle statue esposte ha portato Federica e Michela ad avviare una
ricerca certosina presso l’archivio storico della Parrocchia
di San Leonardo di Serramanna. La costanza e la dedizione
non è passata inosservata al parroco don Giuseppe Pes, che
con grande disponibilità ha dato l’input ed il progetto ha
iniziato a nascere. Alle studiose ricercatrici si accosta la
professionalità tecnica di Ignazio e dopo cinque mesi, ottenuto l’accreditamento alla Sopraintendenza dei Beni culturali, avviata una collaborazione con la Curia e la Diocesi di
Cagliari, acquisiti preziosi consigli dell’economo della curia don Marco Orrù e di monsignor Caschili Ferdinando, il
progetto sarà presentato alla cittadinanza.
Il 4 ottobre alle 18.30 presso la chiesa di San Leonardo a
SAN GAVINO
“La Sardegna secondo noi”, un progetto
della Delfino per i ragazzi disabili
“La Sardegna secondo Noi” questo il titolo
del progetto promosso dall’associazione Delfino Onlus. Il progetto non è altro che una
serie di laboratori teatrali e artistici per ragazzi con disabilità, fisiche e mentali, provenienti dai comuni di San Gavino, Guspini e
Sardara. L’obiettivo è quello di mettere in
scena uno spettacolo teatrale e delle opere
pittoriche aventi come oggetto la Sardegna.
L’associazione Delfino Onlus nasce a San
Gavino nel 2003 grazie all’idea di un gruppo
di genitori con figli disabili e svolge attività
sociali a favore delle persone disabili, avviando, ogni anno, diversi laboratori (di pittura,
di ricamo, di teatro, di musica, di ballo), attività sportive e ricreative, la cura dell’ambiente e dell’orto. Quest’anno, i due laboratori di
pittura e di teatro, attivati grazie a un finanziamento della fondazione Banco di Sardegna, saranno strettamente connessi tra loro. I
ragazzi verranno seguiti dal noto pittore sangavinese Marco Pascalis per quanto concerne la pittura e di Simonetta Concu per il teatro, con esposizione pittorica e messa in scena finale previste per il giugno 2016.
L’esposizione dei lavori pittorici e la messa e
lo spettacolo teatrale saranno il culmine di
queste attività laboratoriali che consentiranno ai ragazzi di presentarsi ed affrontare il
pubblico. Proseguirà anche quest’anno l’attività sportiva e la cura sia dell’area verde in
piazza Giovanni XXIII che dell’orto sinergico del Sorriso. In previsione anche un nuovo laboratorio di ricamo a cura di Chiara
Atzori e da Erica Concas e un paio di visite
guidate per far conoscere ai ragazzi dal vivo
l’oggetto delle loro opere pittoriche. Il calendario prevede per il lunedì le attività teatrali, il laboratorio di pittura sarà il martedì e
il venerdì, l’attività sportiva si svolgerà il
giovedì (presso il capannone polivalente di
San Gavino) mentre il laboratorio di ricamo
avrà luogo nella giornata di venerdì presso
la sede di Piazza Giovanni XXIII. Sarà possibile ususfruire della sede che apre dal lunedì al sabato per i ragazzi e i propri educatori o accompagnatori.
Per ulteriori informazioni l’associazione è
presente su Facebook o contattare la mail:
[email protected] oppure Piero Antonio Follesa: 3401547432.
Lorenzo Argiolas
Serramanna, proprio nei giorni in cui ricade il culto dell’Angelo, la neo costituita associazione verrà ufficialmente
presentata e verrà illustrato l’ambizioso progetto volto da
un lato a rivitalizzare lo stesso museo e dall’altro a restituire sacralità alla chiesa. Il lavoro è ancora lungo, deve essere completato l’inventario e devono essere realizzati lavori
di ristrutturazione e soprattutto devono essere reperite le
risorse finanziarie. Con una nuovo allestimento volto a sfruttare al meglio gli ambienti ed una rifunzionalizzazione l’associazione culturale Aletheia si pone l’obiettivo di dar vita
al nuovo MAS, museo di arte sacra, moderno, funzionale e
dinamico, aperto a tante collaborazioni a partire dagli enti
ed istituzioni, fino alle associazioni ed ai privati. Troppo
spesso uomini e donne non credono alle propire capacità,
ma quando all’impegno si unisce la passione anche i progetti più ambiziosi prendono vita e tanto sono preziosi e
validi quanto più valorizzano una comunità e la sua storia.
Elena Fadda
Mostra d’arte contemporanea “Costruire la Sardegna”
Esposizione di opere dell’artista Giuseppe Pecorelli
Al Centro di Aggregazione
Sociale di San Nicolò d’Arcidano è stata in esposizione la mostra d’arte contemporanea “Costruire la Sardegna”, del pittore guspinese
Giuseppe Pecorelli. Quadri
dai contenuti particolarmente significativi in un percorso finalizzato al recupero
culturale della vita del passato a partire dai nostri lontani avi del neolitico e, attraverso il tempo, fino a noi.
La vita, la cultura, l’arte, le
tradizioni dei nostri progenitori, in questa ottica, danno consistenza, completano
e danno significato alla “coscienza” della realtà odierna al di fuori di contaminazioni riferite al relativismo
culturale oggi imperante e
per molti aspetti fuorviante.
Con la mostra sapientemente articolata e con una scelta oculata delle opere, per la
maggior parte ad olio su
tela, l’artista ha inteso valorizzare intenzionalmente la
storia, la cultura, il contesto sociale e i valori etici
della Sardegna.
L’autore parte da dipinti che
rappresentano oggetti d’uso
comune o rituale dell’uomo
del neolitico visti all’interno di un cromatismo di inizio ’900 con figurazioni di
tipo dadaistico con il cerchio che assume il significato di spirito ed insieme di
tempo in movimento.
Ed è qui il raccordo tra il
passato e il presente. Il passato è rappresentato nella
cornice dell’arte contemporanea con gli sfondi di colore, il cromatismo e le situa-
zioni dell’arte moderna.
Alcune opere recuperano il
carnevale della tradizione, il
“carrasegare” che fa riflettere sull’origine di questo e
sulle concezioni pre-cristiane in una società agro-pastorale come era e forse come
dovrebbe essere quella sarda.
Vasellame e statuine prodotte da popolazioni sarde, datate alcuni millenni a. C.,
utilizzate per riti funerari,
così come sono state riprodotte in alcuni quadri, erano funzionali ad attività socio-spirituali e apotropaiche
in occasione di nascite, morti ed anche oltre la morte.
Dalla storia sarda più antica
con i simbolismi della Dea
Madre, della Pioggia Neolitica su sfondo azzurro e
violetto, si arriva ai giganti
di Monti Prama recentemente scoperti; storia, quella della Sardegna, che nelle
manifestazioni artistiche e
soprattutto nella statuaria,
precede di gran lunga civiltà antiche universalmente
conosciute.
Il popolo sardo nelle intenzioni dell’artista è un popolo in cammino. Bene lo
esprimono le figure sacerdotali guida, le tradizioni, la
tomba dei giganti con il portello di accesso ad un’altra
vita oltre la morte. Altri quadri rappresentano il neolitico spirituale e funerario, il
famoso bronzetto della Madre dell’ucciso, Il pastore
orante, la Dea Madre, I giganti di Monti Prama, opere che precedono la statuaria greca e d’oltralpe.
Alla fine del percorso pittorico, l’autore rappresenta la
Sardegna al centro del Mediterraneo che irradia come
un sole la sua cultura, la sua
storia, le sue tradizioni, che
meriterebbero di essere meglio conosciute ed apprezzate, ben oltre i confini del
Mare Nostrum.
Antonio Corona
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GUSPINI
Le storiche attività commerciali della famiglia Manca
Giovani imprenditori: Nicola, Marta, Enrico, Andrea, Daniele, Massimo e Paola,
di Marisa Putzolu
Bar Gelateria
Armeria
I primi del Novecento Antonica Loi, mamma di Raimondo Manca, aveva avviato una bottega, nel
retro di quello che ora sono il bar gelateria Manca e l’omonima Armeria. «All’epoca, dove ora ci
sono i tavolini del bar racconta un fedele cliente - c’era il cortile della
bottega e nel seminterrato tenevano bibite e prodotti in fresco dentro un
pozzo». In casa Manca
entra la modernità negli
anni ’70, quando il figlio
Giuseppe, noto Peppino,
trasforma il cortile in salone da bar, lasciandolo
poi in eredità a suo nipote Carlo Antonio
Manca, papà di Marta,
Nicola, Andrea ed Enrico. «La gelateria artigianale - raccontano i figli
subentrati al padre nel 2010 - è stata introdotta da papà nel 1972, che ha poi partecipato a corsi,
conseguito attestati e ricevuto premi, uno dei quali al quarto concorso regionale del 1997». La
vena artistica nel realizzare gelati artigianali e dolci decorativi l’ha tramandata alla figlia maggiore Marta che, seguendo le orme dei suoi ascendenti, ha appreso l’importanza di collaborare uniti
per gestire un esercizio commerciale in tempi di crisi. «Frequentiamo questo locale da quando
eravamo ragazzini - racconta la giovane barista - solo Chicco ha intrapreso l’attività adiacente
dell’armeria. Come baristi invece siamo io, Nicola e Andrea e siamo intercambiabili. Ognuno di
noi riesce meglio in un determinato ruolo, cercando comunque di perfezionarci e presentare novità alla nostra clientela, che varia da persone di età avanzata alle famiglie con bambini». Le fa eco
il fratello Nicola, 27 anni, che, per affinare le potenzialità professionali e mettersi in discussione,
ha lavorato anche fuori Guspini. «Dal 2005 al 2010, durante le stagioni estive - dice Nicola - mi
sono formato in diversi locali turistici dell’isola, in particolare nella Costa Smeralda. Ora so preparare qualsiasi tipo di cocktail. Ho imparato che la miscelazione di bevande si deve adeguare ai
gusti del cliente e non il contrario. Quindi ora, come diceva Marta, ci compensiamo tutti. Lei
eccelle nella gelateria, io nella preparazione di cocktail e Andrea nella caffetteria». (m. p.)
Enrico Manca, noto Chicco e fratello dei tre baristi, invece ha preferito seguire le
orme di zio Camillo e da quattro anni è titolare dell’Armeria che in passato era il
negozio di generi alimentari del
nonno. «Le botteghe di una volta
vendevano di tutto. Non era come
ora e, tra le altre, nonno vendeva
anche alcune munizioni. Poi il fratello di mio padre costituì l’armeria e da ragazzino mi trasmise la
passione per il tiro al piattello.
Così quando ci riunimmo con i cugini per stabilire chi potesse acquisire l’attività, mi proposi io»,
racconta Chicco, 34enne con idee
innovative per incrementare la sua
attività, una delle quali quella di
impartire lezioni personalizzate e
di gruppo a ragazzi che devono
conseguire gli esami teorici e pratici per l’abilitazione dell’esercizio venatorio, basati non solo sul
maneggio delle armi da fuoco, ma
anche sulla conoscenza della fauna selvatica, sulle relative leggi
nazionali e regionali, su tematiche
ambientali, tutela della natura, salvaguardia delle produzioni agricole e norme di pronto soccorso.
Per queste ragioni, dallo scorso giugno e per i prossimi quattro anni, Chicco insieme
ad altri undici esperti d’armi del Medio Campidano fa parte della commissione provinciale d’esame per il rilascio del certificato di abilitazione venatoria. «Mi sento
fortunato - aggiunge - nonostante la crisi, sono un giovane imprenditore abbastanza
orgoglioso anche dei miei allievi, i quali vengono educati prima di tutto al rispetto di
uno sport che necessita di equilibrio ed estrema attenzione per se stessi e per gli
altri». (m. p.)
Gioielleria
“La Merceria del 1926”
A pochi metri, un altro esercizio commerciale della famiglia Manca si tramanda da almeno tre
generazioni: l’omonima Merceria, la cui apertura pare risalga al 1926. «Non si è riusciti a documentare la quarta - spiega Paola, titolare dal 2007 - anche se esistono diverse testimonianze della
sua esistenza già negli anni ’30, quando mia nonna Margherita Onidi in Manca (nota tzia Gesuina), lavorava assieme ad una zia per commercializzare filati per maglieria e merceria, tessuti per
abbigliamento, arredamento e biancheria per la casa, intima e per neonato». Da una visura camerale la data d’inizio attività risale ufficialmente al 10 febbraio 1948, ma la merceria era localizzata
in altra sede fino agli anni ’50. Nel 1987 fu venduta alla nuora Antonia Greggio, mamma di Paola,
che mantenne inalterate le tipologie di articoli in commercio lasciando in eredità alla figlia un
patrimonio storico inestimabile.
Seppure siano stati effettuati lavori edili per abbattere le barriere architettoniche ed ingrandire il
locale, portandolo da 40 a 76 mq, e pur offrendo articoli commerciali adeguati ai tempi, l’antica
merceria presenta ancora oggi arredi del primo Novecento. «La porta originale d’ingresso - continua Paola - con relativa insegna storica, posizionata superiormente e costituita da un vetro serigrafato con la dicitura “Mercerie”, e il banco da lavoro originale lungo circa tre metri in rovere
con vetrina frontale e adeguatamente ristrutturato, sono stati spostati all’interno del negozio e
dividono gli ambienti interni a riproduzione originale esterna degli anni sessanta». (m. p.)
Corre voce in paese che tzia Gesuina e suo marito Raimondo, passati alla storia
dell’imprenditoria guspinese, si fossero conosciuti proprio quando avevano due
esercizi commerciali
tra via Matteotti e
via Santa Maria. Un
fatto è certo, i coniugi Manca pensavano
le cose in grande e,
tra le altre, nel 1947
avviarono un’oreficeria, l’attuale Gioielleria Manca, acquisita nel ’64 dal figlio Marco Luciano.
Per sentirsi all’altezza del ruolo che
avrebbe ricoperto, il
giovane Manca lasciò il paese d’origine per studiare alla
scuola professionale
di Oreficeria a Valenza Po, dove rimase dieci anni. Cinque per conseguire il titolo e altri cinque svolti in laboratorio e a insegnare nei corsi di apprendistato.
Oggi la Gioielleria Manca è condotta anche dalla moglie Luisella e i figli Massimo e Daniele. Professione tramandata da papà Marco, anche i due giovani imprenditori seguono corsi di aggiornamento che consentono loro di offrire riparazioni e assistenza su tutti i prodotti in vendita, tra cui perle, diamanti e orologi.
«Cerchiamo di tenerci sempre al passo coi tempi - dice Daniele. - Anche se c’è la
crisi, si può lavorare bene se si soddisfano le esigenze del cliente, offrendo la
più ampia scelta possibile. Non a caso in questi giorni Massimo è a Vicenza Oro,
la fiera di gioielli più importante d’Italia. Va ogni anno per monitorare le nuove
tendenze».
Un articolo esclusivo, che sta attirando turisti e clientela da tutto il circondario,
è la fedina “S’Ave Maria” con incisa la preghiera in sardo campidanese. Irrompe
papà Marco a ricordare che la gioielleria della mamma stava dall’altra parte della strada. «Poi abbiamo adibito a negozio un angolo dello stabile dove risiediamo», ha precisato Marco Manca. Inevitabilmente viene in mente un antico pensiero filosofico secondo cui all’uomo occorre una pezza di terra da coltivare e un
tetto sotto il quale vivere.
E i nonni Manca forse, guardando oltre, è questo che devono aver pensato quando, oltre ai geni imprenditoriali, hanno lasciato alle loro future generazioni un
tetto “sotto il quale lavorare e sopra il quale vivere”.
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16
1 ottobre 2015
SERRAMANNA
Scrittori “uniti da un soffio di vento”
Negli anni del digitale e della tecnologia la scrittura resta
sempre lo strumento cardine della comunicazione. Nella lotta alla supremazia fra i mezzi di comunicazione, la potenza
delle parole scritte dal sintetico sms al più complesso dei romanzi regge all’urto delle immagini veloci degli schermi tv.
La lettura stimola la fantasia ed i sensi e solo chi legge è
consapevole dei profumi che si possono sentire, dei paesaggi
che si possono ammirare senza spostarsi un attimo da casa.
Solo chi ama la lettura e la scrittura può pensare da un lato di
organizzare e dall’altro di partecipare ad un concorso letterario. Francesca Murgia, Cristian Sanna e Valentina Spiga sono
stati selezionati e premiati dalla giuria ed hanno ottenuto la
pubblicazione del proprio racconto all’interno di una raccolta denominata “Uniti da un soffio di vento” e presentata lo
scorso mese di luglio anche a Serramanna.
Claudio Moica, poeta e scrittore, nonchè editore della “Pettirosso editore” ha sapientemente presentato la serata, introducendo gli autori di Serramanna presenti ed accompagnando il pubblico in una piacevole narrazione, mai lenta e sempre vivace.
Il tema del vento è il filo conduttore del concorso che ha
portato i nostri autori a partecipare ad un confronto sì selettivo
come concorrenti ma mai avversari, proprio come evidenziato
dall’intervento di Guido Carcangiu, consigliere comunale, che
nel suo discorso di benvenuto ed apertura ha evidenziato
quanto la collaborazione fra questi autori, nonostante ciascuno dovesse promuovere il proprio
libro, abbia prevalso e dato loro più forza, un
esempio per tutta la collettività.
I tre racconti degli autori serramannesi sono molto diversi l’uno dall’altro nello stile, nel contenuto, nel livello di introspezione e in ciascuno il
vento assolve un ruolo differente. Francesca lo
ha scelto come protagonista, con una scrittura che
conferma uno stile suo proprio, presente nel suo
primo libro e che lascia un’impronta in ogni suo
articolo pubblicato. Cristian individua il vento
come un mezzo per viaggiare in epoche differenti col fine unico di invitare ad una riflessione
e lasciare un messaggio, e non manca il richiamo ai templari
sua passione e protagonisti del suo primo romanzo. Valentina
scrive del vento come una forza interiore, alla sua prima pubblicazione arricchisce il racconto con elementi molto personali.
Margherita Musella, curatrice del concorso, appassionata,
trasparente, vera, invita gli autori a cercare di descrivere il
proprio racconto con una parola o una frase e Valentina al
suo debutto si rappresenta col concetto di “mettersi in gioco”, quindi di tentare, provare, agire, senza paura di essere
giudicati, Cristian parla del contributo che ognuno può dare
per migliorare il mondo e Francesca riporta la frase “anche
con le piccole cose possono farsi grandi cose”. Tre concetti
di azione, diversi ma affini.
In fin dei conti gli scrittori con le proprie parole regalano e
condividono una parte di se stessi, e ogni giorno che passa,
ogni esperienza vissuta, come anche assistere ad una presentazione di un libro, così come più volte nei suoi interventi
asserisce Musella, ci lascia un po’ più ricchi del momento
precedente. E sicuramente la lettura del testo ci renderà più
ricchi di sentimenti e di spunti di riflessione.
Elena Fadda
Montevecchio: “Sa Mena” e la sesta ‘I carlofortini perseguitati dal fascismo’
giornata regionale d’incontro dei minatori
è il nuovo lavoro di Di Biase
Un evento per ricordare e ancor più conoscere. Questo è stato, nella solita cornice delle
officine di levante delle Miniere di
Montevecchio, la 6^ Giornata Regionale di
incontro dei minatori, promossa dall’Associazione “Sa Mena” (La Miniera) di Guspini.
La giornata è iniziata con la
santa Messa in memoria dei lavoratori morti in tutte le miniere del mondo e di quelli che lentamente per età o malattia hanno lasciato l’associazione. Alla
fine della celebrazione i minatori, i parenti, le autorità e gli
amici si sono recati presso la
stele posta tra due perforatrici, sovrastata da
una lampada ad acetilene, ornata da un mazzo di fiori, che ricorda quanti sono caduti.
La benedizione del celebrante ha chiuso il
momento. L’apertura della mostra sugli oggetti del lavoro ha dato la possibilità ai presenti di conoscere, guidati dai minatori, uno
spaccato della miniera. Gli stessi hanno voluto sottolineare che a nessuno era risparmiata la fatica e la sofferenza, lavorassero in
superfice o nelle viscere della terra. Hanno
raccontato della loro vita nei villaggi minerari delle loro famiglie, di momenti tristi, di
feste, di lotte e incontri. Storie di vita che si
sono intrecciate con quelle di minatori provenienti da altre regioni d’Italia o dall’estero, che hanno contribuito a dar vita ad una
cultura che ancora affonda le sue radici nel
territorio e che lo ha trasformato. Nella Sala
Modelli, quella nella quale si trovano gli
stampi in legno di moltissimi pezzi mecca-
nici usati in miniera, i saluti: quelli del presidente dell’associazione Ugo Atzori, del sindaco di Guspini Giuseppe De Fanti e dell’assessore delegato del comune di Arbus Carlo
Vinci. Poi i presenti hanno potuto assistere
alla proiezione di un raro filmato nel quale
Salvatore Usai, giunto all’età di
sette anni a Montevecchio, nelle case a bocca di pozzo attigue
al Pozzo San Giovanni a
Piccalina, ha ricordato gli anni
della guerra. Ha descritto gli
spazi lavorativi e quelli ricreativi, quelli maschili, quelli femminili e quelli selvatici dove giocavano i bambini e le bambine. Ha ricordato
i nomi e le famiglie che abitavano nei
cameroni a bocca di pozzo o poco lontani.
Ha descritto il campo dov’erano detenuti dei
prigionieri croati, serbi, slavi e montenegrini,
che si trovava a due passi dalle abitazioni e
dove i ragazzi, soprattutto durante la guerra,
si recavano alla ricerca di un po’ di cibo, quello che mancava in tutte le famiglie.
La premiazione del minatore più anziano con
una medaglia ricordo è stato un altro bel momento. Luigi Lampis, ottantaseienne, commosso e contento ha raggiunto la presidenza
e ha ricevuto il meritato riconoscimento. La
medaglia è in bronzo ed è uguale a quella che
ricorda il centenario dalla Montevecchio
(1848-1958). Utilizzando gli stampi di allora, è stata riprodotta dalla stessa fonderia S.
Johnson di Milano che aveva coniato quelle
in argento e bronzo del centenario.
Sandro Renato Garau
Con il suo nuovo libro, I carlofortini perseguitati dal fascismo, edito dall’ANPPIA Sardegna di Cagliari e dal Centro Studi SEA di
Villacidro, Lorenzo Di Biase, ozierese ma guspinese d’azione, propone una pagina inedita della storia dell’antifascismo nell’isola di
San Pietro. Un lavoro che testimonia non solo
la passione per la ricerca storica, ma soprattutto la scelta e lo studio di argomenti e episodi dell’antifascismo isolano e nazionale
mai affrontati precedentemente o poco noti
sia agli studiosi che al grande pubblico. Non
a caso, alcuni dei suoi precedenti lavori hanno ottenuto dei lusinghieri riconoscimenti in
Premi nazionali e internazionali. Nel 2012,
il volume Costantino Nivola. Un artista contro il regime fascista (ANPPIA Sardegna Centro Studi SEA, Cagliari - Villacidro 2012)
è risultato finalista al Premio “Mario Soldati” 2012, Sezione “Giornalismo e Saggistica”, e ha ottenuto una Menzione della Giuria
con Diploma di apprezzamento e una medaglia emblematica alla 26° edizione del Premio Internazionale di Letteratura “Phintia”
2012 di Licata (AG). Un anno prima, con
l’opera Don Francesco Maria Giua, unico
prete sardo confinato dal Regime fascista
(ANPPIA Sardegna - Centro Studi SEA, Cagliari Villacidro 2011) è stato finalista al Premio “Mario Pannunzio” 2011 di Torino, Sezione “Giornalismo e Saggistica”.
Il nuovo lavoro di Di Biase è un libro che si
legge tutto d’un fiato. Il suo narrare è semplice e diretto e non si rivolge a un pubblico
ristretto di appassionati di storia dell’antifascismo. Il volume, infatti, si rivolge a tutti,
ai lettori più giovani così come a quelli più
anziani. Non si tratta di un libro che annoia
ma di un testo che invita alla lettura e che ci
aiuta a conoscere storie e vicende che fanno
parte della nostra storia recente.
L’autore, attraverso un’indagine certosina
compiuta tra le “carte” dei Fondi “Casellario
Politico Centrale” e “Confino di Polizia”,
conservate all’Archivio Centrale dello Stato
di Roma, e tra i documenti dei Fondi “Distretto Militare”, “Prefettura Cagliari” e “Sotto Prefettura Iglesias”, custoditi all’Archivio
di Stato del capoluogo sardo, ricostruisce le
inedite vicende di otto dei trentacinque carlofortini che furono perseguitati dal regime
fascista nella loro isola natia, ma anche in
altri comuni della Sardegna e della penisola.
Si tratta di Leopoldo Biggio, confinato; dei
fratelli Carlo e Luigi Bonifai, il primo diffidato e il secondo iscritto in Rubrica di
frontiera; di Saturnino Bonifai, confinato;
di Agostino Luxoro, iscritto in Rubrica di
frontiera; di Gregorio Nicodemo Plaisant,
diffidato e ammonito; di Augusto Rossino,
condannato dal Tribunale Speciale per la
difesa dello Stato; di Silvio Rosso, ammonito.
Queste storie di vita raccontate nel terzo capitolo sono precedute da altri due capitoli.
Nel primo, Di Biase descrive quali sono gli
strumenti repressivi utilizzati dal fascismo
per “piegare” e perseguitare gli oppositori
al regime: l’Ammonizione; il Confino di
Polizia; la Diffida; il Tribunale Speciale per
la difesa dello Stato. Nel secondo presenta
un quadro generale del fascismo e dell’attività antifascista in Sardegna e, soprattutto, nell’isola di San Pietro nel corso degli
anni venti del secolo scorso.
Un libro, con inediti racconti di vita di uomini originari dell’isola di San Pietro perseguitati dal fascismo, che merita di essere
letto e diffuso, al quale auguriamo, come
per i precedenti contributi di Di Biase, di
varcare quanto prima i confini dell’isola,
con nuovi successi e nuovi riconoscimenti.
Martino Contu
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1 ottobre 2015
17
VILLACIDRO
Tra Fede e storia
Studi in onore di Don Giovannino Pinna
A
cura di Martino Contu, Maria Grazia Cugusi, Manuela
Garau è stato pubblicato per la AIPSA Edizioni di Cagliari il volume dal titolo “Tra Fede e storia. Studi in onore di
Don Giovannino Pinna”. Il libro è inserito nella collana “ Quaderni della Fondazione Mons. Giovannino Pinna”. I curatori
hanno dedicato il lavoro ad Angelina Pinna, sorella di Don
Giovannino, “che con amore ha dedicato, come una mamma,
nella gioia e nel dolore, la sua vita al fratello sacerdote”.
Il testo raccoglie 19 saggi “Tra fede e storia” e si sviluppa in
325 pagine. La copertina è impreziosita da una veduta di
Villacidro – Chiesa parrocchiale di Santa Barbara e Piazza
Zampillo – in una cartolina dei primi anni del Novecento.
Gli autori dei saggi sono Nunziatella Alessandrini dell’Università di Lisbona in Portogallo, Giampaolo Atzei dell’Università di Cagliari, Martino Contu dell’Università di Sassari
nonché Presidente della Fondazione “Mons. Giovannino Pinna”, Maria Grazia Cugusi dell’Università di Cagliari, Lorenzo Di Biase dell’A.N.P.P.I.A. Sardegna, Giuseppe Doneddu
dell’Università di Sassari, Paolo Galimberti di Vietri della
Diocesi di Salto in Uruguay, Manuela Garau dell’Università
di Cagliari, Victor Mallia-Milanes dell’Università di Malta,
Nicola Melis dell’Università di Cagliari, Carolina Munoz
dell’Università cattolica del Cile, Nelly Beatriz Nucci dell’Università nazionale di Cordoba in Argentina, Siv Oltedal
dell’Università di Stavanger in Norvegia, Carlo Pillai del
Centro Sardo Studi Genealogici di Cagliari, Tomasino Pinna
dell’Università di Sassari, Daniel Edgardo Ramada Piendibene
dell’Ambasciata dell’Uruguay presso la Santa Sede, Claudia
Reyes-Qquilondran dell’Università Cattolica del Cile, Lauro Rossi della Biblioteca Nazionale di Storia Moderna e Contemporanea, Susana Serpa Silva dell’Università di Lisbona in Portogallo, Margarida Vaz Do Rego Machado dell’Università di Lisbona in Portogallo, Giancarlo Zichi dell’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Sassari.
I saggi risultano scritti in lingua italiana, inglese, portoghese e spagnola. Trattano vari argomenti all’interno del percorso indicato dal titolo “Tra fede e storia”. Ecco alcuni
titoli: “ Maria Francesca Rubatto: la ‘prima Beata
dell’Uruguay’”, “Piero (Pietro) Ariu di Guspini: condannato per le sue idee comuniste dal regime fascista”, “The
Knights Hospitaller’s Service of Love”, “Os Italianos e a
expansao potruguesa: o caso do mercador Joao Francisco
Affaitati”, “Lo sport nei campi di prigionia durante la Grande
Guerra”, “La venerabile Elisabetta Sanna di Codrongianus
e la sua opera di carità tra preghiera e servizio ai malati e ai
poveri” , “Guida ai fondi documentari del ‘Monte di Pietà e
Redenzione’”, “Pitticcheddu ma tottu succi: Don
Giovannino Pinna, un sacerdote tra fede e passione per la
storia della Chiesa”.
La raccolta dei 19 saggi è preceduta da un contributo dell’artista capitolino Georges De Canino, appartenente alla Comunità Ebraica di Roma, dal titolo “Futuro e memoria dei
Giusti”. Nel suo scritto George scrive che Don Giovannino
“non si è mai rifugiato in un ruolo cristallizzato del potere e
del privilegio. Non si è mai spento malgrado le difficoltà di
rapporti con i superiori e mai si è piegato in ottuse visioni di
uomo di religione. Al contrario seppe alzare il tiro
dell’impegno verso obiettivi che fossero alti, gli esseri umani al centro del
mondo. […] Un uomo
senza confini. Era un sacerdote al servizio dell’umanità sofferente, nei
bisogni e nella solitudine”.
Scrive ancora il De Canino che “conoscere Don Giovannino è stata un’esperienza
di valore nel dialogo ebraico-cristiano, di conoscenza reciproca”.
Il libro è stato di recente presentato a Villacidro, in una sala
gremita di persone, da Georges De Canino, da Carlo Pillai e
da Lauro Rossi con il coordinamento dei lavori a cura del
Presidente della Fondazione Martino Contu. Il primo relatore
ha focalizzato il suo intervento sulla figura di Don
Giovannino Pinna del quale ha realizzato un bellissimo ritratto che impreziosisce i locali della Fondazione sita in
Villacidro al civico 4 della Via Roma. Gli altri due relatori
invece hanno analizzato alcuni dei saggi editi. Al termine
delle relazioni vi sono stati diversi interventi dal pubblico
ed alla fine dell’incontro un piacevo rinfresco offerto dalla
Fondazione “Don Giovannino Pinna”.
Lorenzo Di Biase
GONNOSFANADIGA. FINE
ESTATE
Perd’e Pibera: una località nel cuore di tutti
Applausi per il coro di Villamar
al Festival in Alta Pusteria
La partecipazione del coro polifonico Cantos e Melodias
di Villamar alla 18a edizione dell’International ChoirFestival, tenutosi in Alta Pusteria, si è conclusa tra applausi,
urla di gioia, sorrisi e l’immancabile bandiera dei quattro
mori. Al festival hanno partecipato più di 70 cori, provenienti da tutto il mondo, Australia e Americhe comprese,
che si sono incontrati e confrontati in numerose occasioni
con l’opportunità di vivere intensi momenti di scambi interculturali.
IL CORO DI VILLAMAR PROTAGONISTA La partecipazione a eventi di questa portata non solo ha accresciuto l’esperienza in campo musicale e corale di coloro che vi
hanno preso parte, ma ha offerto la straordinaria opportunità di diffondere oltremare e oltreoceano la cultura musicale tradizionale nostrana, appurando con immenso piacere quanto sia apprezzata.
FESTA PER SAN GIOVANNI BATTISTA. Intanto il
dinamico e sempre attivo Coro Polifonico Cantos e Melodias di Villamar, per il terzo anno consecutivo, ha organizzato i festeggiamenti in onore del santo patrono San Giovanni Battista. La serata, presentata da Stefano Floris, è
stata organizzata con il preziosissimo contributo della
Scuola di ballo “All Dance” di Giuliana Muscas, la Banda
musicale G. Puccini di Villamar diretta dal maestro Fausto
Vacca, il Gruppo Folk “Is fustis” di Villamar. Inoltre hanno debuttato, come ospiti speciali della serata, i piccoli
coristi del “Piccolo coro Voci Bianche”. Il “Coro Polifonico Cantos & Melodias” e il “Piccolo coro Voci Bianche”
sono stati diretti dal maestro Massimo Atzori. Poi fede e
partecipazione alla festa religiosa con la messa solenne
celebrata presso la Chiesa Parrocchiale San Giovanni Battista e animata dal Coro Polifonico Cantos & Melodias.
Gian Luigi Pittau
P
erd’e Pibera, parco comunale del comune di Gonnos, già
da lungo tempo non è solo nel cuore dei gonnesi ma dell’intera comunità sarda, tanto per la sua storia recente e passata di località mineraria, quanto per le sue prospettive odierne
e future, turistiche e ambientali.
Qualche ombra, però, offusca e incupisce queste prospettive
di carattere ecologico di salvaguardia dell’ecosistema del territorio. Chi conosce il circondario del Linas sa bene che la
lunga vallata del Parco di Rio Planu Is Castangias, o, appunto, Perd’e Pibera, si distende a budello, stretto serrato e allungato, dal rettilineo subito dopo il ponticello del Rio Piras
in prossimità dello slargo verso Zàiri, fin su, in direzione del
passo di Genna Farracèus. Questo si affaccia, attraverso una
strada sterrata lungo tutta la località dei caseggiati minerari
ristrutturati e, oggi, custoditi dall’Ente demaniale delle foreste sarde, sui monti di Villacidro; per proseguire quindi verso, da un lato alle punte di Santu Miali e, dall’altro, in direzione di Genn’e Spina, punta Cammedda, Genn’e Eidàdi,
Gen’e Empì, Punt’e Sa Cabaxètta, Punt’e sa Perd’e Sa Mesa,
a 1.236 metri di altezza.
Le vie di fuga, per terra o per improbabili tragitti aerei, dal
parco di Perd’e Pibera sono del tutto inesistenti nella prospettiva, non remota, che questo distretto territoriale sia colpito da gravi calamità naturali. O di carattere “umano”, quali
incendi dolosi che nella stagione estiva possono diventare
terribilmente pericolosi per le centinaia di villeggianti che vi
si recano a trascorrere qualche ora.
Negli anni scorsi, attraverso diverse iniziative, escursioni,
passeggiate ecologiche e via discutendo, l’amministrazione
comunale ha incentivato la “vivibilità” del monte Linas fa-
cendo del centro di Perd’e
Pibera l’incrocio culturale
di storia e di ambiente del
territorio, nella prospettiva
di lancio turistico, di indagine in loco degli antichi
sentieri, delle vie del carbone, del taglio del bosco,
della ricerca mineraria, dei
ricoveri e dei capanni
agro-pastorali, del progetto delle “Terre Alte”, eccetera.
Non altrettanto, il Comune e, ancor meno, l’Ente
sardo delle foreste, hanno
fatto in direzione della sicurezza e dell’incolumità
dei turisti. Se capita, anche in piccole e informali indagini, di
chiedere quali siano i piani di sgombero dei turisti nel caso di
calamità e avversità come gli incendi, alcuni dei quadri dirigenti ti rispondono che questi esistono ma, per non generare
panico o scoraggiare il turismo e l’escursionismo, che tali
piani sono totalmente segreti. E, per impressionare
l’interlocutore, giornalista o turista o villeggiante o altro, ti
dicono e aggiungono, sornioni come gatte morte, che ne hanno cura e responsabilità tanto l’esercito quanto la protezione
civile.
Balle più grosse del monte Linas! I non addetti ai lavori sono
considerati dei bambini ficcanaso che vanno “rieducati”, perché loro, i dirigenti, sanno bene come stanno la cose.
I fatti, è ovvio, non stanno nel modo in cui i reggenti ti vogliono far credere. È noto a tutti che se simili piani di sgombero esistono, questi devono essere pubblicati, pubblicizzati,
cartellizzati ed esposti su porte, bacheche, pareti o quant’altro sia valido al fine dell’informazione. Negli enti pubblici
statali e comunali, come scuole, ospedali, e via dicendo, si
fanno quasi annualmente le prove attive di fuga e di ritirata
col fine di evitare catastrofi e perdite di vite umane.
Si spera sempre che non accadano avversità e sciagure del
genere. Ma tutti abbiamo appreso che aspirazioni e ipotesi,
ogni tanto, sono smentite dai fatti. E, tanto per fare un riferimento proprio a Perd’e Pibera, molti sicuramente non hanno
dimenticato la mattinata del febbraio scorso quando dei venti
violentissimi hanno abbattuto parecchie piante che si sono
rovinosamente schiantate sul terreno circostante.
Augusto Tomasi
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1 ottobre 2015
L’ARTE DELLA COLTELLERÍA
È una Cuccagna
Parte I
È
una cuccagna! Una volta si sentiva e si diceva spesso,
quest’espressione esclamativa, quando ci si esaltava
di gioia, a voce alta, perché tutti o, almeno, tanti
potéssero ascoltare. Avveniva allorché la sorte, un evento
inaspettato, il risultato di un nostro impegno, di un nostro
sacrificio, ci si èrano presentati propízi e ci aveva raggiunto
una buona notizia e bastava anche un nonnulla per rènderci
felici. Anche una píccola conquista, persino una mínima soddisfazione, per gli altri insignificante, poteva farci gridare: È
una cuccagna!
La cuccagna è qualcosa di ben piú grande. È l’eliminazione di ogni preoccupazione. È una cuccagna. Come dire: quanto sto bene, vivo in un paese meraviglioso, sempre tranquillo
e felice, perché conosco molte cose, ho salute, amore, ricchezza, bevo e mangio beníssimo e sono in pace con tutti;
àbito proprio nel paese della cuccagna o, meglio, àbito nel
paese che si chiama Cuccagna, dove anche tutti gli altri abitanti vívono contenti. Vivo bene giorni sereni, con tanti interessi, con tanti divertimenti. In compagnía e in solitúdine. È
una cuccagna. È una Cuccagna.
È davvero una fantasía? Oppure questo paese c’è davvero,
in qualche parte della Sardegna o in qualche parte del mondo
vicino e lontano? È una magía del nostro desiderio?
È possíbile che, vicino ai nostri paesi semiabbandonati dagli
amministratori o sempre peggio amministrati, dove sono sempre meno crescenti numericamente e sempre piú
qualitativamente preparati i pochi che protèstano perché stanno malíssimo (come tanti altri che invece subíscono in silenzio o mugugnando fra loro e s’arrèndono alla stolta ubbidienza al ricatto e all’acquiescenza alla promessa dei potenti
mai mantenuta fin ora), e addirittura si accòrgono di esser
sempre meno ascoltati e per niente seguiti nei loro civili e
útili suggerimenti, ci sia il paese di Cuccagna? E dove sarebbe, in quale punto della nostra terra? Dov’è? verso il mare,
nella costa meridionale, a nord, a oriente, a occidente, nelle
valli, tra le colline, sulle alture, nei boschi? In una delle città
dell’ísola che ha un altro nome ben diverso o vicino a uno dei
paesi del Gocèano o della Trexenta o del Logudoro o altrove? o è un villaggio che continua a crèscere come un paese
che già si distingue perché la sua natura è di per sé diversa,
speciale, sempre da questa parte? È nel nostro stesso paese,
è il nostro stesso paese?
E mi domando che cosa signífichi “cuccagna”. Signífica
questo: situazione di benèssere. Ma cerchiamo di conóscere
il nome piú da vicino. E, dunque, poniàmoci altre domande.
È una sorta di paese del Bengodi, vivo solo nella fantasía del
Boccaccio, o è il paese che non c’è, anzi, che è soltanto nel
desiderio, come il paese dell’Utopía di Tommaso Moro che
c’è soltanto a parole, come si dice? o è un mítico Eldorado,
in cui l’oro è come un comune sasso, tanto vi è abbondante,
luogo raggiunto dal Càndido di Voltaire, alla ricerca della
sua Cunegonda? O è la sognata Jauja peruviana? o è davvero, invece, il paese dell’Eutopía, ossía il luogo reale dove si
sta bene, in modo eccellente, e che possiamo tentare d’individuare, per prèndervi residenza e cittadinanza per sempre?
La risposta non è soddisfacente: è l’una e l’altra cosa. Apparentemente la risposta è contraddittoria, in sostanza è una
verità fatta di due teste o di due code in cui l’una non esclude
l’altra. Ed è proprio il paese che c’è e che non c’è. C’è per
alcuni, per altri no. Un giorno c’è per questi, per quelli non
c’è e, magari, il giorno dopo, versa vice.
La parola signífica esattamente, dall’aggettivo latino
“coquinarius”, cucinario, dal sostantivo “coquina”, cucina,
con un altro probàbile aggettivo “cucaneus”, della cucina,
cioè riguardante il cibo ben cotto, proprio della buona cucina, “luogo dove è importantíssimo mangiar bene e conse-
guentemente bere beníssimo e
dove, perciò, si vive da
príncipi, senza alcuna preoccupazione”. Gli è molto vicino il sardo “cuccagna” e cosí
lo spagnolo “cucaña” che hanno il medésimo significato; e
cosí pure il francese “cocagne”
e l’inglese Cockaign (cucinare è propriamente “coking, to
cook”) e il tedesco per cui il paese della tranquillità ha un
nome totalmente diverso (Schlaraffenland), ma la cucina è
detta in maniera molto somigliante, Küke (kochen è cucinare), pur non essendo queste últime due di orígini neolatine.
Dalla stessa radicale vien fuori la “cuoca”, la “maga della
cucina” che ammalia, quella che a Villacidro e in tantíssimi
altri paesi della Sardegna chiàmano “coga”, la maga, la
maliarda, appunto, la strega. E nella lingua greca màgheiros
è il cuoco, magheirèion è la cucina e maghéuo vuol dire
“sono un mago, sono una maga, faccio incantésimi”. Quante corrispondenze tra cuochi e maghi, cuoche e maghe!
Con certezza, perciò, possiamo dire che la Cuccagna è
ben ricca di tutto questo: benèssere, tranquillità, bellezza,
òttima cucina, magía. Ma di questa bella terra di Cuccagna,
fino ad ora o, meglio, fino a qualche tempo fa, abbiamo
conosciuto (almeno gran parte di noi) solo un bell’àlbero
altíssimo, un bel fusto senza radici e senza rami, infilato in
terra, con la testa in cielo, l’àlbero della cuccagna.
Credo che, almeno quelli che han superato i settant’anni, ricòrdino d’aver visto l’àlbero delle grandi feste piantato nella piazza principale del paese, un troncone alto e
grosso e liscio, un lungo palo terminante nella èsile punta
con la circonferenza rotonda, liscia e víscida, oleosa, per
uno strato di grasso che ungeva tutto il fusto (ollu de procu,
de bacca, de mascu, de séu, de perda), da lí fino a due
metri da terra. E su, nel punto piú alto, vi era fissata una
corona di metallo con una dozzina di lunghi raggi da cui,
ben legati, pendévano cotechini, zamponi, budelli di salumi, collane di rocchi di salsiccia, grandi torte, una cesta
d’arance o di pesche, diversi tipi di pane, di sèmola, su
moddizzosu, molto sòffice e spugnoso, un tempo cotto con
il fuoco del lentischio, sa moddizzi, che lo aromatizzava,
su civraxu, molto grande e fatto di cruschello oppure di
sèmola, il cui nome proviene da cibarium, che era il pane
nero, d’orzo e farina, destinato ai servi nel mondo della
Roma antica, ma c’èrano anche un proceddu, un porchetto
di venti o trenta giorni, dai tre ai cinque chili, con le
setolette bruciate e unto del suo stesso sangue, un bottiglione di mònica o di nasco o di nuragus, un giallo o un
amaro Murgia, un bustone di cartamonete, che era il premio piú ambito, che staccava e portava via il primo che
riusciva a salire e ad arrivare in cima. Questo, comune-
mente, era l’àlbero della cuccagna di Villacidro, ciò che
era rimasto di quel paese Cuccagna che, anche allora come
oggi, c’era e non c’era.
E Cuccagna è anche il nome d’arte di un atleta dell’último
Ottocento villacidrese, Salvatore Cuccu, lo scalatore d’àlberi
di cuccagna per eccellenza, l’imbattíbile, che saliva e scendeva per una buona mezz’ora, due o tre volte, maggiormente bravo nell’ascesa con la forza dell’interno delle cosce
con le quali si bloccava per qualche secondo per riprèndere
poi a salire. E soprattutto con i nervi e i tèndini delle gambe, che incrociava o, meglio, che quasi intrecciava abilmente
ai mallèoli interni, come corde ai nodi, con il dorso dei piedi intorno al palo e premendo coi ginocchi sul legno inzuppato d’olio ràncido e altre sostanze grasse, si inchiodava al
legno per non scivolare. Con equilibrio e tècnica, abbracciava il legno e si tirava su nel medésimo tempo, tratto
tratto, di centímetro in centímetro per poi, dopo aver ripreso fiato, continuare fino a raggiúngere il sommo. Contemporaneamente staccava, prendeva quanto era possíbile con
la mano líbera, mentre un solo braccio incredibilmente sosteneva tutto il suo corpo, trattenèndolo sospeso fino alla
presa estrema; e, infine, la discesa. Per poi riprender la salita, se il campione ancora si sentiva energíe da spèndere.
Era lui il Cuccagna villacidrese, il cui nipote Salvatore
Pinna, figlio della sua figlia zia Brabarina, “Cuccagna seconda”, divenne un buon atleta, un bravo calciatore della
squadra di Villacidro nel 1945 -1946, insieme con il
“talentuoso” Luigi Pusceddu dal tiro ultrapotente il quale,
come ricorda Salvatore Erbí nel suo originale, primo, e fin
ora único, libro di storia del calcio villacidrese, “Di tacco e
de puntera”, era noto con “l’appellativo di Giginu de porta
in porta”. Ma fu proprio “Cuccagna terzo” a esser, “per
quíndici anni … un indòmito difensore e, a piú riprese, capitano del Villacidro”, normalmente impareggiàbile come
mediano destro, dal colpo di testa preciso sul pallone, con
tutto il corpo silurato in alto, teso nello slancio oltre il capo
dell’avversario sfiorato dai suoi piedi. Non so se anche lui,
come suo nonno, fosse un àbile scalatore d’àlberi di cuccagna. Il suo nome d’arte, già diventato un soprannome familiare, da suo nonno per parte di madre, è già di quarta generazione, dopo la prima originaria. Ora, anzi, è di nuovo divenuto “nome d’arte”: Cuccagna. Chi se lo è scelto? Il primo maschietto di casa Pinna, Roberto, il facitor di coltelli,
l’ispirato eccellente coltellaio di Villacidro, di madre
guspinese, Anna María Manca, con metà del sangue
guspinese. Oggi, il Cuccagna, è lui.
A Villacidro, da decenni non si vede piú un àlbero di cuccagna, ma tutti ammírano e molti desíderano possedere un
coltello o, meglio, un coltello a serramànico, una resoja di
Roberto Pinna, perché essa, oggi, si chiama cosí, Cuccagna. Si chiama cosí perché è tutta sua, de màniga e de
framma. È un coltello speciale di lama e di mànico. Un’òpera
d’arte. È una Cuccagna. L’àlbero di cuccagna del bisnonno
Cuccagna primo è divenuto, nelle sue mani, un’impugnatura di coltello, un coltello intero, un gioiello.
Efisio Cadoni
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1 ottobre 2015
RACCONTI
IN SARDO:
SIDAS - SALVATOR ANGELO SPANO
SARDARA. IL
NUOVO LIBRO DI
19
ANGELO MASCIA
Quando i suoni si potevano toccare... “Le terme della principessa Sardara”
A
casa ha ritrovato
alcune musicassette
impolverate, buttate in un angolo in mezzo a tante cianfrusaglie.
Incuriosito, il figlio Giovanni le ha prese e
le ha messe a suonare. E cosa ci trova? La
voce di suo padre - Salvator Angelo Spano - che legge i suoi racconti, con la sua
voce profonda e rassicurante. Un’emozione indescrivibile e una stretta al cuore per
il figlio.
“Era la prima volta, dopo undici anni, racconta Giovanni - che riascoltavo la sua
voce! Asciugate le lacrime, superata la
confusione ho maturato la decisione di
metter mano a questo piccolo lavoro.
Mio padre voleva arrivare al cuore di coloro che non potevano leggere, o che legger non sapevano. Mi diceva sempre che
i suoi racconti dovevano uscire dalla carta e volare fino alle orecchie di chi non
poteva possederli!
Non aveva molta confidenza con la tecnologia, Salvator Angelo. Più di una volta mi fece la richiesta di preparargli un
registratore e io più di una volta - sciapo adolescente! - lo lasciai cantare perché non comprendevo l’importanza del-
le sue intenzioni. Ma grazie
al cielo lui, dàgli oggi e
dàgli domani, si mise
di buona lena e imparò a registrare da
solo!”
Ed è così che voce e testo si sono fuse in un libro di 112 pagine con
un CD con oltre 70 minuti di registrazione prefazione di Paolo Pillonca - in cui Salvator Angelo Spano racconta le storie di una Sardegna del secondo ventennio del ‘900.
Questo lavoro, con la voce che riporta
la parlata del Campidano di mezzo, e
con la grafia normalizzata secondo le Arrègulas po ortografia, fonètica, morfologia e fueddàriu de sa Norma Campidanesa de sa Lìngua sarda (Alfa editrice, Quartu S. E., 2009), con la collaborazione dell’Acadèmia de su Sardu
Onlus, verrà utile per accostare “il lavoro dell’occhio a quello dell’orecchio”; per aiutare coloro che vogliono
imparare a scrivere il Sardo ad affrontare i problemi che ci vengono dalla forte
differenza che esiste tra il parlare e lo
scrivere. Né più e né meno di quel che
accade con le lingue straniere a noi più
familiari: molto raramente un vocabolo
si scrive così come lo si pronuncia (es.
ingl. tough -> pron. taf; fr. qu’est-ce que
c’est -> pron. cheschessé; ted. fraulein
-> pron. fròilain; sardo crabàrgiu ->
pron. p. es. crabaxu)!
“Leggere e nel contempo ascoltare questi racconti - conclude Giovanni Spano
- sarà come fare una chiacchierata con
l’autore: la voce germoglierà sulla carta
umettata dall’inchiostro, restituendo significati noti a vocaboli apparentemente sconosciuti, tornando a lasciarsi palpare come una volta, quando l’oralità era
la concretezza intangibile della cultura”.
Gian Luigi Pittau
U
na storica serata letteraria
con la presentazione del
libro “Le terme della principessa Sardara” di Angelo
Mascia. Accattivante, partecipatissimo, elegante e coinvolgente appuntamento in una
delle strade principali del paese: via Umberto, fra la maestosa muraglia dell’Assunta ed il
bar letterario Carpe Diem di
Silvia Caddeo. Un angolo
qualsiasi, uno dei tanti della
cittadina termale, per l’occasione scenario di una rappresentazione della nascita di Sardara, recitata, mimata e danzata da due artiste: Carmen Porcu e Monica Tronci.
La leggenda racconta che il
principe Lesite e la principessa Sardara fondarono una nuova città che da lei prese il
nome. Con i Romani arrivarono poi le terme “Aquae Neapolitanae” ed il paesino diventò Villa Abbas. Nel 1830 Sardara riscattò le terme dal marchese di Quirra pagando 1610
lire. Finalmente le “acque calde” passarono ai sardaresi. Da
allora un susseguirsi di progetti e di speranze, finché nel
1900 Filippo Birocchi costruì lo stabilimento termale.
“La storia finisce qui. Nel libro non troverete la vicenda
legata agli ultimi eventi che
hanno coinvolto le nostre terme: volutamente”, dice l’autore. Un po’ come mettere le
mani avanti: Mascia, ex sindaco di Sardara, dal 1.991 al
2001, ha preferito non addentrarsi in quelle spinose
questioni che da tempo imprigionano lo sviluppo atteso dalla risorsa di Santa Mariaquas.
A prescindere da tutto questo, la presentazione è stata
una chiara ed indiscutibile
testimonianza: quando parla
la storia, la polemica e le
chiacchiere tacciono. Una
serata vissuta sino all’ultima
parola nell’ascolto e nella riflessione. Un ritorno a casa
arricchito ed un augurio:
“Aspettiamo il prossimo libro”. Un prossimo invito in
cui l’autore continui a tenere aperta la finestra sul passato, col ricordo di monsignore Abramo Atzori, e quella sul presente che vede Sar-
dara affidata a Monsignor
Corrado Melis, il concittadino vescovo, e ancora sul futuro, con la speranza che “Il
nostro amico Jonathan, emigrato a luglio in Germania,
torni presto fra di noi” e che
“giovani come Silvia trovino
la forza di restare”.
Prima di “Le terme della principessa Sardara”, Angelo
Mascia ha pubblicato “L’isola dalle vene d’argento” e “Le
terme di Sardara nella Sardegna dell’800", nel 2012 “Boe
Muliake, il re templare”.
Santina Ravì
SARDARA
U
na chitarra distorta scandisce un giro blues e si aggiungono, in un impasto sonoro che ricorda gli anni ’60, un
basso e una batteria molto secca. L’atmosfera prende forma,
e, per circa un’ora o poco più, all’ascoltatore sembra di essere stato catapultato in un sobborgo americano, per poter ascoltare quella musica essenziale, minimale, selvaggia, che ha
dato origine a tutto, l’ormai lontanissima primizia del
rock’n’roll.
I Nikita and the latecomers, costituitisi nel gennaio del 2014,
sono tre ragazzi di Sardara che da sempre arricchiscono le
proprie vite e quelle di chi vuole ascoltarli con la musica e
la voglia di comunicare. Spesso questo scenario underground passa in secondo piano, ma la vita musicale indipendente sarda è ricca di protagonisti che aspettano solo
che qualcuno abbia la decenza di puntare un riflettore su di
loro e dare alla loro arte almeno parte del rilevo che merita.
Alla ritmica sincopata e ossessiva del trio pensa
Marcello Caddeo, alla batteria. Il suo suono è
secco e semplice, privo di troppi fronzoli, in
modo che la struttura dei brani possa risultare
incalzante e ballabile. Daniele Montisci costruisce invece il solido manto di bassi che, andando di volta in volta a formare dei contrappunti con la batteria, costituisce il secondo elemento fondamentale alla riuscita della parte ritmica, parte che di fatto garantisce alle composizioni dei Nikita di entrarti nelle orecchie
e, propagandosi all’intero corpo, di ripercuotersi sui movimenti degli arti in specie, i quali assumono una conformazione insolita e simile a quella che si può osservare in alcune
danze tribali centro-africane, caratterizzate dalle convulsioni
che si susseguono in un loop continuo. A completare il quadro arriva Antonio Usai, responsabile della chitarra sia ritmica che solista e, infine, voce della band. Come i blues-man
del passato Antonio, con i suoi riff chitarristici a momenti ca-
remote, dei Faces. Di matrice più moderna sono invece band
quali i Replacements e i Georgia Satellites che a loro volta
influenzano la band nel suo complesso.
I Nikita and the latecomers hanno suonato più volte a Cagliari, prima in un pub del centro e poi in alcuni concerti organizzati dai rappresentanti degli studenti cagliaritani all’inteno
del polo umanistico universitario di Sa Duchessa, inoltre si
sono esibiti a Serramanna, sempre in un pub. Il prossimo appuntamento per ora confermato sarà ad agosto, ancora a Cagliari, per il “Festival sulle strade del blues”, al Lazzaretto. Il
trio spera, inoltre, di registrare a breve le proprie composizioni, ma ancora non sono stati stabiliti gli estremi per la realizzazione del processo. È possibile ascoltarli sul loro canale
YouTube e venire a conoscenza delle date dei loro live sulla
loro pagina Facebook. In una realtà nazionale, regionale e
provinciale davvero penosa sul versante artistico, fa piacere scoprire che ci sono dei ventenni
capaci di distinguere l’attitudine musicale dalla,
assai più comune, propensione al lavaggio del
cervello post-talent show. Sarà altrettanto incoraggiante rendere noto che i Nikita non sono soli,
ma che insieme a loro si esibiscono in Sardegna,
di continuo e senza troppe attenzioni purtroppo,
tante piccole e giovani band locali che mettono
al primo posto la loro passione per l’arte. Nel Medio Campidano, poi (nota dolente), le realtà di questo genere sembrano
avere sempre meno spazio, tanto che sono costrette a cercare
fortuna in diverse zone dell’isola.
Non sarebbe forse il caso di concedere, a quei pochi giovani
che ancora circolano sul suolo della provincia e scelgono di
non passare il proprio tempo a sopportare attoniti il peso
della carcassa dei giorni vuoti, pensando piuttosto a costruire qualcosa di vero e nuovo, degli spazi e dei momenti in
cui potersi esprimere?
Paolo Onnis
Nikita and the latecomers:
il blues del Medio Campidano
denzati, più spesso esasperati, conferisce una forma al messaggio sonoro della composizione a cui si somma la sua voce,
vagamente dissonante e rauca, incanalata in un cantato a momenti quasi biascicato che incarna una cifra distintiva nel sound
della band, infondendo una piega originale e moderna.
Le influenze del trio sono da ricercarsi in primo luogo nel
country e nel blues di Chuck Berry, oltre che nel folk-rock
alla Dylan, si noti il cantato per alcuni versi molto vicino al
cantautore americano. Alla basilare influenza country-bluesfolk si associa poi quella più classicamente rock’n ‘roll dei
Rolling Stones e, per citare una band di origini ancora più
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1 ottobre 2015
Su sadru chi seus pedrendu
Su crabetòri giustu ...
Est su crabetòri giustu po donnia pingiàda… Aici nàrat u diciu sadru, ma a nci penzai
béi, si nàrat in totu su mundu. Sutzedit in familia puru candu ddoi est ua piciochedda o
piciocheddu pruaxu, totus, fradixeddus e sorrixeddas, cumenti cumbinant cuncu mabi,
po si ndi scrufì, cicant luegus su crabetòri: «No seu deu, est cussu.» Is mannus, botas
mèda, ddu creint e, cuddu poburu pagat, sen’e nd’ai nì còtu e nì papau.
Pedru Casu fut nasciu in d’ua familia pobura ma onesta, genti traballanti e arrispetòsa
de totus. De piticu si biat ca fut bonixeddu e prontu a agiudai is atrus. U annu, gioghendu
acant’e su carropu, u piciocheddu, no si scit cumenti, nci fut arrutu aintru. Pedru, sapìu
chi si fessat de su perigulu po su cumpangeddu, no nc’iat penzau duas botas a si nci
‘etai po ddu sravai, mancai fessat acanta de u puntu perigulosu nomenàu sa berría
poita ca s’acua giràt, giràt cument’e ua berría e nci ingutiat su chi ddi passat acanta. Iat
trumentau, ma fut arrennesciu a sravai su piciocheddu. Fiat de coru bonu e si biat. Sa
mama ndi fut cuntenta poita ca timìat sempiri chi a su pipiu no ddi fessat fèta s’umbr’e
s’ollu. In cussa bidda, cument’e in atras, candu su predi andàt, acumpangiau de su
sreghestãu sonendu sa minoredda, a potai s’Ollu Santu a ua pressõi in agonìa, totus is
mamas, intendendu s’arrepìcu, currìant a fai intrai in domu is piciocheddus chi fiant
gioghendu in sa ìa po no dd’is ferri s’umbr’e s’ollu, ca potat mabi.
Uota, issa, no iat acutu de ddu fai intrai in domu, ma biendu ca fut bonisceddu suspraxìat
de prexu: «Mancu mabi, a su pipiu no ddi fut fèta s’umbr’e s’ollu.» Su piciòcu crexiat
béi, currìat cument’e u
lepiri e incoxàt su cuaddu
chi nemus dd’abarràt
avatu. Candu fadìant isfida
sa bincida fut sa sua. Ma si
scit, piciocus aici abilis ndi
faint cabai is sabìas a genti
mèda, su mprusu genti
intregada a su mau. Tenìat
bint’annus candu dd’iat
frimau tziu Bissenti
Marras, proprietariu arricu,
mau, ladrõi e malifaidori.
«Pedru, cras’a mangiãu
acosta a medàu ca ti depu
fueddai.» «Sissi, tziu
Bissenti.» Atras botas
dd’iat donàu traballu. A
s’incrasi fut andau a su medau. Tziu Bissenti fut in cumpangia de atrus tres
proprietarieddus de sa propria arratza sua chi ddi giranta acanta cument’e callelleddus.
«Sa cosa est custa - iat inghitzau s’omini - Onoriu Loi no téit a fréu is brabeis e nc’intrant
in su cungiàu miu, dd’apu avètiu botas mèda, ma no nc’intendit a cuss’origa. Su sabudu
a noti s’imbriagat i est fazili a nde ddi furài sa sxedda. Tui andas cun custus amigus
mius e fais s’afariu.» «Tziu Bissenti - iat arrespostu Pedru - po bivi no mi srebit a furai
is brabeis a u poburu, o fai mabesa a is atrus, nossi deu no ddu fatzu. Cichit cuncuantru!»
«Cument’ois, Pedru. Ma no nerast mai de cust’acua no ndi bufu, poita ti ndi podis
prandi» d’iat arrespostu issu. Su piciocu si fut intristau po custu fastimu e si ndi fut
andau.
A mesi infatu sa xedda de Onoriu Loi fiat sparessia e cussu poburu mòtu, apicau a ua
màta. Tziu Bissenti, ca tenìat amigus in sa dustizia, cun is atrus tresi po testimongius,
iat acusàu a Pedru. Su piciocu, ca depìat amostai s’innocentzia sua, in su mentris chi
cicàt testimongius, si fiat cuau in su sàtu. Sa nòti de su torrobatoriu fut assistendu sa
mama mobadia mèda, ma a issa no dd’iant cretia. Sa beridadi fut ca in domu sua cun sa
mama ddoi fut cussu scéti e testimongius po ddu difendi no nd’agatat. Sa speranzia fiat
chi cuncunu de is testimongius frassus essant cunfessau sa beridadi, ma nemus si bisàt
de andai contras a Bissenti Marras.
E aici Pedru, sen’e dd’olli e ddu minesci, iat cumentzau a bandidai. Iat agatau ua gruta
in monti e ingúi iat fatu su cuebi suu. Depìat bivi e medas pastoris de cussas carreras,
ca ndi connoscìant s’onestadi, ddi onant apigu e cos’e papai. Apustis tres mesis iant
fàtu ua fura manna de bestiamini in d’u medau de ua bidda acanta: «Cuss’est Pedru
Casu cun sa banda sua» iat nau cuncunu. «Crabetòri giustu po cussa pingiàda- iat aciuntu
cuncuantru - Pedru no téit banda ma est sou.»
Passat tempus e bòcint unu de is tres testimongius frassus e, cust’ota puru: «Cuss’est
Pedru Casu.» Crabetòri giustu! Passat u annu e ua dì Pedru fut caminendu me in is
arrocas de su monti candu tot’a uota atòbiat su segundu de is testimongius frassus:
«Ahn! Cassau t’apu bandideddu» iat nau sparendu ua scupetàda. Ma, po tropu pressi o
mira maba, no dd’iat fètu. Pedru iat arrespostu a su fogu po si difendi e dd’iat mòtu.
«Cuss’est Pedru Casu po si vengai de cussu testimongiu.» naràt sa genti, ma mèdas no
ddu credìant.
Dex’annu fiat abarrau bandidendu e a pati sa mòti de su testimongiu, po si difendi, no
iat mai fatu mabi a nemus. Sa mama, morrendu de disprexei, iat nau: «Custu fillu
disfortunàu parrit batiàu sen’e ollu santu!»
Ua dì cumenti fiat spostendusì, cua cua, de u logu a uantru iat intendiu u tzerriu mau de
agitoriu, generosu cumenti fudi, fiat cùtu luegus a su logu de anca benìant is su tzerrius.
U omini fiat aferrau cun d’ua mãu a ua arrexin’e mata chi ndi ‘essiat apitzus de u
sperevundu; bastat chi essat mollau sa mãu o s’essat truncada s’arrexini e cuddu nc’iat
essi arrutu a basciu sxrebeddendusì. Pedru no nc’iat penzau duas botas, iat acapiàu sa
fúi, chi potat sempiri avatu, a ua màta e fut cabàu a sravai s’omini, ponendu su pei in
d’u spuntõi de arroca. Ma candu fiat tocau a cussu a nci pesài dd’iat lissiau u pei,
mollau sa fúi, e nci fiat arrutu a su sperevundu.
Custu piciocu bonu de animu e de coru, tocau de maba sòti po no ai postu menti a u
omini de coru mau, fut diventau: Su crabetòri giustu po donnia pingiàda… E srebìat
chi teniat cosa de cuai a sa lei de is ominis. Ma nudda si podit cuai a s’ogu giustu e
bonu pagadori de Deus!
A si ‘ntendi mellus. tziu Arremundicu.
Scracàlius
di Gigi Tatti
Ci funt momentus chi unu contixeddu allirgu fai beni gana bella e fai praxeri. Po cussu, custus
“scracàlius” serbint po ci fai passai calincunu minutu chene pensai a is tempus lègius chi seus
passendi in custus annus tristus e prenus de crisi. Aici, apu pensau de si fai scaresci calincunu
pensamentu, ligendi e arriendi cun custus contixeddus sardus chi funt innoi. Sciu puru, ca
cussus chi faint arrì de prus, funt cussus “grassus” e unu pagu scòncius, ma apu circau de poni
scèti cussus prus pagu malandrinus, sciaquendiddus cun dd’unu pagheddu de aqua lìmpia.
Bonu spassiu. Est bellu puru, poita calincunu, circhendu de ddus ligi imparat prus a lestru a
ligi in sa lingua nostra. E custa, est sa cosa chi m’interessat de prus.
Marieddu domandat a su Babbu
Marieddu: Babbu, est berus ca seu nàsciu in “Viaggio di nozze”?
Su babbu: Chi ti dd’at nau?
Marieddu: Mi dd’at nau mamma.
Su babbu: Ge est berus. A s’andada fiasta cun mei e sa tororrada cun mamma tua!
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Unu lupu intrat in dd’unu bar
Su barista: (Impaurito) Ita ddi potzu serbì?
Su lupu: Donimì unu Capuceto e una pasta cun sa crema!
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Tzia Geronima est viuda, e fueddendi cu sa gomai Ersilia
Ersila: Comenti fias narendi de arisenoti? Ita nanca t’est capitau?
Tzia Geronima: Balla ca custa aventura no parrit vera.
Ersilia: E ca a su noti no fait a si fidai prus de nemus.
Tzia Geronima: Tui pensa ca cussu piciocu fiat prus de un ora bussendumì sa porta.
Ersilia: Po intrai berus?
Tzia Geronima: Ma cali po intrai! Ci boliàt bessì amarola!
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Briziu est fueddendi de fueddus difìcilis cun s’amigu Luca
Luca: Comenti si narat cussu fueddu po chi tenit duas pobiddas?
Briziu: Si narat bigamia.
Luca: Bravu. E cussu chi ndi tenit prus de duas.
Briziu: Mi parrit chi si tzerrit poligamia. Ma inveci, tui naramì su fueddu po unu chi ndi tenit
scèti una.
Luca: Cussu fueddu, si tzèrriat monotonia!
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Tziu Giovanninu prima de si morri iat racumandau a is tre fillus Ginu, Nicu e Felicinu de ddi
poni onniunu milla eurus in su baullu, a bortas no serbessant po pagai sa dogana, po intrai in
su Paradisu.
Ginu ce dd’iat postu milla eurus a centu a centu.
Nicu milla eurus interu.
Felicinu, inveci, ce dd’iat postu un assènniu de tremilla eurus e nd’iat pigau duamilla de restu.
......................................................................................................................................................
Severina est ananti de s’abogau po discuti de su divòrtziu de su pobiddu
S’abogau: Signora Severina, spighit beni po cali motivu bolit divortziai de su maridu.
Severina: Poita pobiddu miu mi tratat coment’e unu cani.
S’abogau: Poita dda scudit, da maltratat, dda lassat chene dinai o chene papai?
Severina: Nossi. Cussu gràtzias a Deus no.
S’abogau: E insaras nerimì su veru motivu chi dda spingit a fai custu passu.
S’abogau: Poita bolit chi ddi sia sempri fideli coment’e unu cani!
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Gelasia incontrat s’amiga Giorgetta incinta
Gelasia: No mi neris ca ses torra in atesa.
Giorgetta: M’at torrau a frigai.
Gelasia: Balla ca mei no mi frigat prus.
Giorgetta: Ma tui comenti fais a teni raportus cun pobiddu tuu chene fillus?
Gelasia: Deu tengu unu modu infallibili.
Giorgetta: Scoviamiddu ca ddu fatzu deu puru.
Gelasia: Impara, ca po teni raportus chene fillus bastat a ce ddus mandai a crocai a domu de
is nonnas!
.............................................................................................................................................................
Virgiliu est in su bar fueddendi cun s’amigu Vitu
Vitu: Custu mangianu, apu incontrau a pobidda tua, dd’apu bia unu pagu ingrassada.
Virgiliu: Ge est berus, at pigai cinquanta killus de tropu… de sroga mia!
…………………………………………………………………………………………………….
Pierinu est in dd’una batuta de cassa manna in sa posta. Tziu Mansuetu su capu cassa ddu
tzèrriat
Tziu Mansuetu: Pierinu as sparau? Ddas mortu su sirboni?
Pierinu: Su sirboni no. Ma at bogau pinna.
Tziu Mansuetu: Ma ita as sparau unu pilloni?
Pierinu: No, apu picigau a s’abogau Pinna!
..........................................................................................................................................................
Giovanni est discutendi cun su connau Sergiu
Sergiu: Ma tui andas de acòrdiu cun sorri mia?
Giovanni: Insoma. Cun sorri tua, seus stètius felicis po bint’annus.
Sergiu: E a pustis?
Giovanni: E a pustis, purtropu... si seus incontraus!
.................................................................................................................................................
Segundu una statistica is òminis sardus a pustis fatu s’amori si comportant aici:
Su 5% si girat a s’atra parti e si dromit.
Su 9% andat in coxina, aberrit su frigoriferu e si bufat una birra.
Su 15% si fumat una bella sigareta.
Su 71% Si bistit e torrat aund’e sa pobidda!
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1 ottobre 2015
LA SARDEGNA NEL CUORE
21
di Sergio Portas
S
i fa presto a dire Expo. Chi l’ha provato una volta (parlo di quello milanese) non ci rimette piede neanche da
morto. Sarà che domenica 13 Giove pluvio aveva deciso di farsi sentire con una cascata di pioggia battente che
pareva non avere fine (in realtà al primo pomeriggio l’avrebbe finalmente piantata lì), lasciando senza copertura alcuna
le code davvero interminabili (si parla di due, tre ore di fila)
dei testardi che a tutti i costi volevano sapere dei misteri del
padiglione Italia o di quello Kazako, le meraviglie celate dal
Giappone, le dune dei favolosi Emirati Arabi. Dicono le cronache del cittadino “Corriere della sera”che in quel giorno si
aggiravano pei padiglioni del decumano qualcosa come
duecentomila persone. E un bel po’ di queste erano sardi.
Venuti da Torino e Vicenza e da tutti i paesini e città di Lombardia, Milano compresa ovviamente, per un’inedita “Die de
sa Sardigna”, che questa settimana è stata quella dell’Isola
nostra, dentro e fuori i cancelli sorvegliatissimi dell’esposizione universale: cibo sardo per tutti ai chiostri di San
Barnaba, con vino che scorreva davvero a fiumi, film di registi sardi al cinema “Beltrade” (gratis), la prestigiosa mostra
sulla civiltà nuragica al Museo Archeologico, coi giganti di
Mont’e Prama a fare da padrini a ogni evento, in spirito tridimensionale e virtuale, come è d’uso di questi tempi digitali.
Pure io vestivo “alla sarda”, corpetto di vellutino nero su camicia bianca candida, calzoni, calze e scarpe neri, che “Sa
Oghe de su coro”, su invito della Fasi, federazione delle associazioni sarde italiane, presidentessa Serafina Mascia,
avrebbe cantato nel pomeriggio, dopo la sfilata dei
centosessanta “figuranti” in costume , una replica in minore
di un primomaggio cagliaritano senza la statua di Sant’Efisio.
Il coro che dirige Pino Martini Obinu (i suoi sono di Carbonia
e Paulilatino, lui ha casa a Seneghe, campa la vita insegnando nelle scuole di Milano) è davvero meticcio: ci sono sardi,
figli di sardi ma anche lombardi e pugliesi; Svetlana poi è
bulgara e con lei ci scambiamo le notizie provenienti dal circolo sardo di Sofia dove, dicono loro, un pensionato nostrano di Siddi o di Ollolai, con ottocento euro al mese, vive
come un pascià. In aumento quindi il numero dei soci.
Comunque sia, metà dei coristi oggi è “assente giustificato”
poiché le modalità che hanno preceduto lo svolgersi dell’evento sono state alquanto farraginose, nel loro svolgersi, le misure di sicurezza imponevano un elenco dettagliato di chitarre e tamburi che avrebbero dovuto superare i raggi X dei cancelli (del resto in tutti i film di gangster i mitra sono trasportati in custodie di violino o chitarra), per non parlare del leggio delle pagine musicali, in metallo leggero ma duro, simile
a uno spadino capace di bucare pance e toraci, insomma il
coro sarebbe stato fatto entrare sì ma da cancello particolare,
alle quindici. Nel mattino del diluvio, in attesa che mi venissero consegnati i biglietti-omaggio per la restante “banda
Martini”, sono andato allo stand Sardegna dove fortunatamente la folla dei sardi che lo avrebbero preso d’assalto per
tutto il giorno ancora non si era palesata. Jacopo Ruggeri (ha
una mamma impegnativa: Daniela Ducato) e la banda
guspinese-cagliaritana stava preparando il “social carpet”, il
Si fa presto a dire Expo
tappeto sociale che veniva dato da cardare ai moltissimi curiosi che si soffermavano a rimirare il tessuto in lana di pecora sarda che veniva decorato mediante ciuffi multicolori (sempre di lana) appiccicati con aghi ad uncini speciali che agganciano l’uncino del ferro con quello delle proteine del filo
di lana (c’è anche se non si vede) ad eseguire figure che sono
fantasie di chi maneggia l’attrezzo. E, mi dice Rossella Lupo,
guspinese doc che si è presa una laurea in lingua e letteratura
russa (per specializzarsi sei mesi di Siberia), i più affascinati
sono proprio i bimbi che mai vorrebbero staccarsi dal gioco.
L’idea del tappeto è di Daniela Ducato, che qui è testimone
per la regione Sardegna, sue anche le ceramiche - Edilana,
come fossero quadri multicolori, alle pareti del padiglione, i
colori ottenuti dagli scarti di ortaggi e vinacce, la lana di pecora a coibentare l’ambiente, i campanacci di greggi nel colore dell’oro, di svariate dimensioni, posti a ricoprire le pareti, e finora non ne è sparito neppure uno, nonostante la calca.
Alla fine di uno stretto corridoio, l’immancabile postazione
dei giganti cabrarissi in virtuale, si accede ad uno spettacolo
altrettanto virtuale: muniti di appositi occhiali e spenta ogni
luce, pare di nuotare nel cristallino mare sardo in compagnia
di pesci affusolati e argentati, di carpe giganti che sembrano
volerti ingoiare, tra una vegetazione di coralli policromi; dura
solo quattro minuti, ma fa l’effetto di una grande magia. Il
guaio è che si possa vedere con una ventina di spettatori per
volta e quando quelli che premono dietro sono centinaia l’effetto imbuto è inevitabile. Perfino i tenores di Bitti qui si devono esibire stretti da una mare di folla, tutta che vuole immortalare l’evento coi benedetti telefonini, per “postare” in
diretta in internet ad amici e parenti, come è uso dei tempi.
Arrivano intanto sempre più numerosi gruppi in costume,
taluni in verità bagnati fradici, capita di girarti e di trovarti
circondato dai ragazzi di Iglesias, e dalle donne in costume
sgargiante di Oristano e di Terralba.
I più informati (molto pochi in verità) potevano seguire il
convegno “Sapori e saperi in valigia, la cucina sarda nel
mondo” che contemporaneamente si svolgeva nel padiglione
di Confagricoltura, presenti tra gli altri Franco Siddi, fresco
di nomina nel consiglio di amministrazione della RAI,
Bachisio Bandinu, il bittese che ha scritto libri importanti di
antropologia sulle maschere di carnevale barbaricine e sui
costumi di vita della Sardegna tutta, Giacomo Serreli giornalista cagliaritano che da anni segue e racconta la scena musicale sarda con una speciale attenzione a quella legata al
recupero delle matrici tradizionali (ci farà l’onore più tardi di
presentare “Sa oghe de su coro” al pubblico dell’Expo). Ci
sono anche gli “chef” sardi che raccontano del successo della loro cucina, e la coda che si deve fare a Eataly per poter
assaggiare un piatto di malloreddus a dieci euro, una seada
ne costa ben nove, sfida, vi giuro, quella che si deve fare per
accedere al padiglione francese. La sfilata dei centosessanta
in costume parte alle quindici tra due ali di folla che debbono
discernere il suono delle launeddas dai continui annunci degli altoparlanti. Le bandiere dei quattro mori in ogni dove,
gli orpelli d’oro e d’argento dei costumi femminili, le barrittas
nere e i gambali dei maschi, i gruppi di ballu tundu che si
formano spontaneamente prima del gran finale presso l’Albero della vita. Nel frattempo ho recuperato i coristi al cancello di Roserio, un salto a lasciare un segno sul tappeto sociale dove anche Iu Bing (la g finale non si pronuncia) cinese-guspinese si dà da fare per attirare gente a definire il “tappeto volante” le cui dimensioni sono proiettate verso i quaranta metri lineari, e ci si reca verso il salone biomediterraneo
davanti al quale è prevista l’esibizione del nostro coro e, successivamente, l’esibizione dei “Sos Emigrantes”, un gruppo
di cantori a tenore che nel giro di poco tempo è riuscito a
portare le melodie della tradizione sarda in mezza Europa. Si
canta in uno spazio ampio che la gente traversa di continuo,
con musiche di sottofondo che rendono la concentrazione
ancora più precaria. Abbiamo più pubblico durante le prove
che nell’esibizione vera e propria. Meno male che anche “Sos
Emigrantes” fanno un’interpretazione di “Procura de moderare” (bellissima la loro!) perché la nostra è davvero di basso
livello. Ci dicono che siamo in “streaming”, collegati con più
di sessanta paesi e non so bene quante centinaia di radio private. In effetti digitando un impossibile indirizzo farcito di
numeri e di “http//” mi ci vedo pure io in una foto di gruppo
con dietro scritto “Expo”, me la farò stampare sui biglietti da
visita, ammesso che riesca mai a “scaricarla” dal web.
Dal convegno dei sapori e sei saperi è emerso che la Sardegna possiede circa l’80% dei pani tipici italiani, bravo Paolo
Pulina a ricordare, sul blog di “Tottus in Pari” che fin Nino
Gramsci, scrivendo dal carcere, magnificava il sapore del
grano duro sardo con cui era fatto il pane che la mamma gli
aveva inviato per il Natale del 1930. Noi de “Sa Oghe de su
coro”, più modestamente, ci congediamo cantando e chiedendo a tale Giovanna se preferisce il pane “duro” di Fonni a
quello “molle” appena sfornato (si cantava negli tzilleri, osterie): “ A nde cheres de cozzula, Jubanna? Si no t’amus a dare
pane lentu...”.