La musica in Italia? Una catastrofe

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La musica in Italia? Una catastrofe
01-02-2015
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«La musica in Italia? Una catastrofe»
Nonino
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Nel suo Olimpo c'è Pasolini più che Eduardo, Pino
Daniele e Francesco Rosi meglio di Giorgio
Napolitano. E una sconosciuta monaca
ammazzata dal capitano nazista Schultz per aver
nascosto giovani che egli voleva reclutare piuttosto
che Padre Pio, "oggetto di devozione
consumistica" come scrive nel suo libro da poco
uscito, "Satyricon a Napoli '44". Roberto De
Simone - 82 anni, musicista e musicologo,
fondatore della Nuova Compagnia di Canto
Popolare nonché autore di "La gatta Cenerentola" non fa mistero dei suoi malumori. Anzi, traccia un
ritratto impietoso dell'andazzo, di Napoli e
dell'Italia. E lo sbozza per Il Tempo mentre riceve
da Claudio Magris, a Percoto-Udine, il Premio che
gli sta a pennello: il Nonino Risit d'Aur, che da 40
anni celebra la civiltà contadina.
Maestro De Simone, che cosa è cultura
popolare?
«È un modo di agire, un'operatività nuova e mai
cristallizzata di esperienze desunte dal passato.
Posso restituire un canto del '500, di cui ho
ritrovato lo spartito, ma poi lo innesto nel sentire di
chi lo esegue ancora, senza nulla concedere a
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schemi precostituiti. Insomma, la tradizione è una
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cosa che si vive e si vivifica, espressione di
coralità collettiva. Pasolini, al quale ho dedicato un
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Requiem, ha rappresentato il fermento di una
rivoluzione culturale in questo senso.
Rinnovamento fallito, come poi il poeta friulano denunciò, criticando il formalismo delle forme
intellettuali, espresso anche a sinistra».
Oggi le cose come stanno?
«Peggio. Imperano i mercanti della tradizione, che su essa speculano per destinare denaro pubblico ai
clientes. Guardi Napoli: i politici dicono di spendere miliardi per la cultura, in realtà foraggiano pochi».
Si spieghi meglio.
«Allo Stabile, per esempio, il direttore mette in scena le proprie regie, ingaggia sempre gli stessi
produttori. Idem fece Bassolino al Mercadante, che inaugurai negli anni '80 pensando di realizzarvi una
scuola di teatro di tradizione orale derivata dagli ultimi esponenti della commedia dell'Arte. Non mi fu
concesso, il palcoscenico fu riservato alla solita compagnia di giro».
Lei ha studiato e diretto il Conservatorio di San Pietro a Majella. Qual è lo stato della musica
in Italia?
«Catastrofico. Nei conservatori la formazione è aberrante. Ai miei tempi gli insegnanti individuavano gli
elementi più promettenti dedicandosi a loro anche fuori orario. Oggi pare timbrino il cartellino, aizzati
dai sindacati. Hanno perso di vista la missione del musicista».
Lei ha anche diretto il San Carlo di Napoli.
«Declassato negli ultimi anni. L'acustica, che lo collocava tra i migliori nel mondo, è stata rovinata dai
lavori di ristrutturazione. Ho protestato, mi hanno messo a tacere come visionario. Il sindaco De
Magistris ha fatto spallucce immagino dicendo fra sé: chi paga i danni? Quanto alla programmazione,
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De Simone: nei conservatori gli insegnanti timbrano solo il cartellino «L’acustica del San Carlo è rovinata. Direttori
artistici incompetenti»
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direttori artistici incompetenti, impresari che impongono i cantanti, regie pseudo moderne che
trasformano un Trovatore in SS o fanno aggirare la Violetta verdiana nei night di Chicago. Sono
alienazioni che allontanano il pubblico».
Pino Daniele e Francesco Rosi, appena scomparsi. Che pensa di loro?
«Daniele ha vivificato l'oralità nel momento in cui Napoli perdeva la sua tradizione musicale. Il suo è un
linguaggio ferroso, graffiante, basato su una sillabazione che non accumunerei al blues ma alla
fonetica della lingua parlata napoletana. Di Rosi è indiscutibile il valore storico e artistico di Mani sulla
città. Negli anni Ottanta avremmo dovuto fare insieme un film, C'era una volta, sul mondo favolistico
napoletano. Ma il progetto non si realizzò».
Rimpiangeremo Napolitano al Quirinale?
«A parte la sua onestà intellettuale, a me non piace il sistema nel quale si inserisce l'elezione del Capo
dello Stato. Mi pare un discorso di plastica, ha lo stesso sapore dei biscotti distribuiti in aereo: tutti
uguali, sanno di conservanti».
Anche su Eduardo ha dei distinguo.
«Guardi, non contesto De Filippo, egli ha fatto ciò che il proprio iter morale gli ha suggerito. Invece ce
l'ho col modo subdolo con quale il suo teatro viene usato per finanziare chi ne riproduce
meccanicisticamente mito letterario. Eduardo è sempre e comunque ok. Nessuno ne stimola la
visione critica, ne scava l'eventuale modernità. In questo modo lo riducono al malinconico ricordo di
una borghesia che si ricicla».
Cosa fa oggi De Simone. Ha discepoli, progetti?
«Discepoli fugaci, quando si aggregano attorno a qualche piccolo gruppo di spettacolo che poi si
scioglie. Il tempo lo passo tra lavoro immaginativo e lavoro scritto. Suono poco, perché la cattiveria
dell'età mi ha provocato problemi motori. Ma le musiche che la memoria mi rimanda più spesso sono
di Mozart, Bach, Stravinskji. Ad aprile, durante la Settimana Santa, al San Carlo di Napoli verrà
eseguito un mio lavoro nuovo, "Stabat Mater da Giovanni Sebastiano a Giovanni Battista". Bach due
anni prima di morire trascrisse Pergolesi e mi ha intrigato il rapporto tra la sua sapienza armonica e
l'istinto melodico del compositore di scuola napoletana. Due geni diversi e complementari che intreccio
attraverso tre cori: accademico, di voci bianche e gospel».
Già, il gospel. Allora, che cos'è la religiosità popolare, che lei ha tanto indagato?
«È un modo di organizzare la collettività secondo riti, derivata dal mondo contadino, laddove nelle
moderne società la religione è mera convenzione da rispettare. Per la religiosità popolare il tempo è
circolare, con eterni ritorni: di stagioni, di feste. La vita così è fatta di anelli che si rigenerano, anche
dopo la morte, ecco perché è centrale il culto dei morti. Cantare poi non è un momento ludico, ma
necessità espressiva della collettività. Invece l'idea del tempo della società dei consumi è lineare, va
dalla nascita alla morte, al massimo inframmezzata dalle vacanze alle Seychelles. Un vettore che
corre disumanamente verso il progresso, invece che riannodare i cicli della storia e della tradizione e
imparare da essi».
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Ultimo congresso della Margherita, anno
2007. Presiede i lavori Sergio Mattarella.
Al suo fianco c’è Francesco Rutelli, che
dà la parola a un giovane Matteo Renzi.
Quasi un passaggio di testimone.
Lidia Lombardi
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