Il grande fiammiferaio

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Il grande fiammiferaio
Il grande
fiammiferaio
di Franco Maria Puddu
Q
Parafrasando
il titolo di una vecchia
favola di Andersen
presentiamo ai lettori
un personaggio quanto
meno fuori del comune
uando, specialmente d’estate, godiamo
dello spettacolo offerto
da una spiaggia gremita di persone festanti,
di un porto rigurgitante di imbarcazioni da
diporto, di una nave
da crociera di passaggio, ci rendiamo conto,
anche a livello epidermico, di quanti siano
coloro che amano senza alcuna riserva il mare.
Tuttavia, queste gioiose immagini ci impediscono
di ricordare che, specialmente un tempo, una gran
parte di umanità, anche se conosceva il mare e pur
avendo per lui questo stesso amore, non poteva
goderne: parliamo di chi ne era impedito per motivi fisici, sociali o anche per il semplice fatto di viverne troppo lontano.
In fin dei conti, l’epoca dei viaggi low cost o degli
spostamenti facili in qualsiasi direzione è figlia dei
giorni nostri. Non troppi decenni fa (e diciamo decenni, non secoli), in Italia era ben nota una canzone che diceva “Mamma mia dammi cento lire, che
in America voglio andar”; ecco come molti vedevano il mare, con la valigia di cartone dell’emigrato
in mano e poche speranze di ritorno.
E allora tanti che non potevano dare sfogo a questo amore, lo sublimavano per la via più breve che
conoscevano, ossia divertendosi a costruire modelli di quanto rappresenta l’elemento più intimo
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e antico che leghi l’uomo al mare: la nave.
Modelli
antichissimi
Di modelli di nave, e
anche molto ben fatti,
ne conosciamo un gran
numero, sin dalle epoche più remote: in terracotta, bronzo, pietra
o, in periodi meno arcaici, anche in metalli
nobili. Quasi sempre, però, si trattava di oggetti
cultuali o votivi, spesso eseguiti con estrema accuratezza. Navi faraoniche, bronzetti sardi, bassorilievi romani, ex voto medievali e altro ancora.
I bambini di un tempo si accontentavano di poco:
un pezzo di legno da far galleggiare a un metro
dalla riva era per loro una splendida trireme, o un
galeone pronto a partire per le Indie o un insidioso drakkar, a seconda dell’epoca e di dove si trovavano; d’altronde, come i viaggi low cost, anche la
società dei consumi ha visto da poco la luce, con
tutta la sua sfavillante, e molto spesso inutile ed
esagerata paccottiglia.
Però ricordo ancora le ore passate a sospirare invano davanti al banco di un negozio di giocattoli
quando, accanito e squattrinato modellista quindicenne, rimiravo un costosissimo e gigantesco
modello in scatola di montaggio (era lungo circa
un metro e mezzo, una cosa inusuale) della Ditta
Lindberg che rappresentava la corazzata tedesca
Una bellissima nave a palo in bottiglia; un classico dei ricordi di mare di un tempo; in apertura, Philip Warren, ai giorni nostri, mostra alcune delle sue creazioni
Bismark, con le parti lavorate alla perfezione e,
addirittura, le quattro torri di grosso calibro (Anton, Bruno, Cesar e Dora, da prora a poppa) dotate
di piccoli motori elettrici per effettuare il brandeggio e l’elevazione degli impianti. La ricordo
perfettamente in tutti i particolari tranne che nel
prezzo, che una sorte benevola ha rimosso dalla
mia memoria.
Non solo i bambini “giocavano” con le navi, però.
Marinai, pescatori, naviganti, spesso, quando era
possibile nei rari momenti di ozio, si dilettavano a
intagliare pezzi di legno dando loro forma e sembianze della propria nave per poi donarli, al ritorno, alla prole che attendeva trepidando questi piccoli e ingenui doni.
Le navi in bottiglia
Qualcuno, dotato di grande fantasia e ancor maggiore inventiva, ideava il sistema di “mettere le
navi in bottiglia”, destando stupore e meraviglia.
In altre parole si preparava il contenitore e si infilava dentro il modello che doveva essere un po’
più stretto del tappo, con gli alberi incernierati allo scafo ma abbattuti; si incollava lo scafo al fondo
quindi, tirando uno spaghino, si rizzavano gli alberi in posizione normale.
Anche se qualcun altro, in tempi a noi più vicini,
prenderà la comoda e sleale scorciatoia di segare il
fondo della bottiglia, piazzarvi la nave e, rimessa
a posto e incollata saldamente la “porta”, ne dissimulerà il taglio con cordonature di stucco policrome.
Ma anche maestri d’ascia prima e ingegneri e progettisti poi, costruivano modelli di nave, per prova,
studio o esperimento, oggetti che avevano praticamente le stesse caratteristiche, beninteso in scala,
di quella che sarebbe divenuta poi la futura nave.
Qualche volta, altri modelli ancora venivano realizzati con grande cura per farne omaggio alle Loro Maestà in occasione del varo di navi di particolare importanza o rilievo.
In pratica, come si vede, non sono stati pochi a calcare le orme pionieristiche del modellismo, anche
se questo, nella accezione hobbystica nella quale lo
conosciamo noi, ha visto la luce solo dopo la Grande Guerra, e si è trasformato in fenomeno di massa
dopo il secondo conflitto mondiale, quando, ai
modelli di navi che avevano già secoli di vita sulle
spalle, si aggiungeranno quelli di locomotive, poi
di aerei, quindi di mezzi militari, di automobili e
altro ancora. Ma la nave rimarrà sempre una pietra
miliare nella storia di questa attività.
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Un classico esempio di
modellismo “autarchico”
in cartoncino prestampato: il regio esploratore
Antonio Pigafetta in livrea
mimetica da guerra
Ne sono state costruite in legni di tutti i tipi, dal
mogano all’olivo alla balsa, in metalli normali e
preziosi, in marmo, in avorio, intagliate in denti
di tricheco e di narvalo e realizzate persino in poverissimo cartoncino.
A partire dagli Anni 40, ma fino a tutti gli Anni
50, le buone cartolerie vendevano infatti grandi
fogli con sopra impresse, già colorate e pronte,
tutte le parti di una nave, civile o militare che fosse; fiancate, ponte, scialuppe, cannoni; bastava ritagliarle e incollarle secondo le istruzioni stampate in un angolo del foglio e il modello era pronto.
C’era chi usava, poi, “rinforzarlo” con una o due
mani di coppale.
Arrivano i fiammiferi
Qualcuno è arrivato a pensare di utilizzare anche
materiali fra i più astrusi come gli stuzzicadenti e i
fiammiferi di legno, quelli quadrati e con la loro
brava capocchia incendiaria che a Roma, chissà
perché, vengono chiamati “prosperi”.
Qua da noi vengono (anche se oramai sempre meno) venduti in scatolette di cartone mentre un tempo, come in tutto il nord Europa, le scatolette erano
realizzate in lamelle di legno (dello spessore di un
millimetro circa) perfettamente tagliate, levigate e
assemblate per accogliere il piccolo cassetto dove
era ricoverato il prezioso carico incendiario. Su una
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(o tutte e due, a seconda della marca)
parete laterale era
incollata una striscetta di carta chimicamente trattata
contro la quale si
strofinava il fiammifero per determinarne l’accensione.
Bene, nel 1948, uno
studente inglese diciassettenne di nome Philip Warren
di Blandford, nel
Dorset, colto da irrefrenabile amore e interesse per
le unità della Royal Navy, decise di iniziare ad autocostruirne (nel modellismo si dice autocostruita
ogni realizzazione portata a termine senza far ricorso a scatole di montaggio) alcune utilizzando materiali vari, ossia un po’ di tutto quello che trovava,
senza far distinzioni.
La guerra era finita da poco e, anche se gli inglesi
l’avevano vinta, aveva lasciato una lunga serie di
strascichi e di problemi più o meno gravi; ci si può
immaginare quanto fosse difficile reperire i listellini di legno di balsa, faggio, mogano o altro che i
modellisti impiegano comunemente. Così, Philip
decise di utilizzare tutto quello che sarebbe riuscito a trovare e, casualmente, si accorse che i fiammiferi, nelle loro scatolette di legno, erano facilmente reperibili ovunque, in abbondanza e costavano poco; pertanto decise per questa opzione.
La sua “officina” comprendeva alcune lamette da
barba montate su un supporto da lui realizzato per
tagliare il legno, un paio di pinzette, qualche foglio
di carta vetrata fine e un buon collante. I fiammiferi, tagliati e lisciati ad arte, costituivano le ordinate
degli scafi e, adeguatamente lavorati, si trasformavano in puntelli, ringhiere, battagliole, ferroguide,
canne di cannoni, verricelli, riflettori e quant’altro,
mentre le pareti delle scatolette erano impiegate
come lastre di lamiera per coprire fiancate, costrui-
In questa foto del 1956,
invece, un giovane Philip
Warren mostra orgoglioso la sua ultima creazione ancora “sugli scali”; la
portaerei USS Forrestal
re coperte, impianti
di artiglieria, ponti
di comando.
Di parti acquistate
faceva scarso uso:
qualche catenella,
pochi fili metallici,
le necessarie vernici
e poco più, mentre
tutti i modelli che
avrebbe realizzato a
partire da quel momento sarebbero stati con lo scafo realizzato “a linea di galleggiamento” (o a bagnasciuga se vogliamo), ossia ne avrebbe costruito solo
l’opera morta in maniera che il modello, appoggiato su un adeguato supporto (un lenzuolo blu, un
foglio di carta, un ripiano di stucco lavorato e colo-
rato per simulare la superficie marina), sembrasse
navigare realmente.
Una Royal Navy in scala
Bene, si dirà, un buon appassionato ma, in fondo,
un modellista come tanti che aveva avuto la stravagante idea di aver scelto i fiammiferi come ma-
Qua, invece, il nostro creatore di navi ci mostra una fase della lavorazione di un cacciatorpediniere; la realizzazione di una torre di artiglieria
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che siano state in servizio nella Royal Navy, da
quelle della marineria
velica ai moderni sottomarini nucleari che abbiano battuto l’Union
Jack. Comprendendo,
nella cifra, anche 60
unità US Navy (fra le
quali una splendida portaerei Nimitz) e 18 di altre Marine. A parte queste ultime unità, in pratica ha realizzato un
completo compendio
storico della Marina britannica.
Ha calcolato che, mediamente, per realizzare
una nave ha utilizzato
1.500 fiammiferi, montandoli in approssimatiLa “catena di montaggio” mostra, ben in ordine, torri di grosso e medio calibro, scialuppe, lance,
vamente un mese, ma
un aereo e uno scafo in costruzione
per unità di dimensioni
maggiori, come le porteria prima, niente di più. Vero, verissimo, ma si
taerei, sono stati necessari più di 5.000 fiammiferi
dà il caso che il giovane Philip avrebbe preso tanto
e almeno 200 scatolette da utilizzare nell’arco di
a cuore la sua passione che, pur vivendo una nortempo di circa un anno.
male vita, sposandosi e lavorando fino a diventare
Affinando le tecniche, è arrivato a realizzare una
direttore d’azienda, arriverà a costruire in 62 anni
sorta di catena di montaggio perché è vero che
(oggi ne ha 79) ben 432 unità militari di ogni tipo
ogni nave è diversa dall’altra, ma corvette e fregate,
o gli incrociatori o
ancora le navi da
battaglia coeve sono state in genere
armate con gli stessi pezzi d’artiglieria
e mitragliere; le lance, le baleniere, le
Notare la precisione e la
meticolosità con la quale sono stati realizzati
questi Tomcat, Hornet,
Intruder e altri velivoli
che rendono oltremodo
realistica l’immagine del
ponte di questa magnifica portaerei armata con
velivoli, realizzati anch’essi con fiammiferi
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Surprise, Illustrious, Daring, Invincibile e, dietro, Devonshire e tanti altri modelli ancora di questa grande squadra navale che sembra navigare grazie all’accorgimento dello scafo a linea di galleggiamento
zattere di salvataggio sono uguali fra loro e così è
anche per la maggior parte degli aerei imbarcati (di
questi, nei vari modelli, Philip Warren ne ha realizzati ben 1.200).
In Inghilterra, la sua figura è nota ed apprezzata e
spesso viene invitato ad allestire esposizioni con
decine dei suoi modelli. Nel 1989 presentò a Lady
Diana il modello del dragamine HMS Bronington, e
della fregata HMS Minerva, le unità sulle quali era
stato imbarcato in comando.
Direttori di museo, magnati, ricconi appassionati
hanno più volte tentato di chiedere quale potesse
essere il prezzo di questa collezione unica al mondo, ma mr. Warren si è sempre rifiutato di dare
una valutazione economica.
“Non si possono sostituire”
D’altronde, il rapporto che lo lega alle sue creature
è assolutamente particolare, se si considera che non
ha mai preso in considerazione l’idea di assicurarle;
“Le assicurazioni – ha detto una volta durante un’intervista – servono a sostituire una cosa quando si è persa, ma le mie navi non si possono sostituire.”.
Quale sarà il futuro della splendida Collezione
Warren (che qualcuno chiama Royal Matchsticks
Navy)? Non si sa, almeno per il momento, ma una
cosa è certa: sta arrivando ai suoi ultimi giorni, e
non certo perché il suo arzillo costruttore stia diventando troppo vecchio, ma per una singolare
serie di circostanze.
La prima è rappresentata dai pesanti tagli alle spese fatti dalla Royal Navy, che nei prossimi anni
non realizzerà nuove unità, privando quindi il nostro simpatico artigiano di modelli da replicare.
La seconda la possiamo riallacciare ad un antico
detto cinese: “L’acqua fa galleggiare le navi, l’acqua
le fa affondare”. In pratica, dei matchsticks utilizzati
da Warren sin dal 1948 (pare oltre 650.000), origine, forza e vanto della collezione, non se ne fanno
quasi più perché si preferiscono gli accendini e
perché si vogliono risparmiare gli alberi destinati
alla costruzione dei fiammiferi.
In questa maniera, quanto prima, la produzione, e
di conseguenza la loro vendita, cesserà, rendendo
impossibile una continuità nel futuro della piccola
■
grande flotta.
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