numero 22 anno VII – 10 giugno 2015

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MILANO: UN BUON VOTO DI SCAMBIO
Luca Beltrami Gadola
Non voglio qui aprire un dibattito su
cosa si voglia punire esattamente
quando si fa riferimento al voto di
scambio ma nessuno mi contesterà
se dico che la locuzione “voto di
scambio” è usata in maniera ambigua e infelice: il voto è sempre
scambio. Ti do il mio voto perché “in
cambio” tu cercherai di promuovere
il mio bene, nell’accezione che io
attribuisco a questo termine e che tu
dici di conoscere, e lo farai con tutti
gli strumenti legittimi che l’ordinamento democratico repubblicano ti
consente. Dunque esiste un “buon”
voto di scambio, del quale poco o
nulla si parla.
Forse di questo buon voto di scambio potrebbero parlare i nostri ”11
del Consiglio” milanese che, a sentire le voci che circolano, sembra
debbano occuparsi sotto sotto delle
regole delle primarie, terreno torbido
di lotte di potere che si tenta inutilmente di far passare per scontro
ideologico. L’obiettivo dovrebbe essere un altro: fare in modo che attraverso le primarie i cittadini, consapevolmente informati, compiano
una scelta che potremmo chiamare
“buon voto di scambio”. Chissà, forse ne parleranno pensando alla desertificazione dei seggi elettorali.
Il caso milanese sembra un caso di
studio perfetto. Ci saranno le primarie e lo ripete quasi ossessivamente
Giuliano Pisapia. Dunque saremo
chiamati a scegliere tra più candidati e la lista si allunga di giorno in
giorno. Come si diceva delle truppe
francesi di Napoleone: “Ogni soldato porta nello zaino il bastone di maresciallo”. Tutti i candidati sembra
vogliano richiamarsi al programma
della Giunta uscente, anche solo
perché le critiche troppo pungenti
darebbero una mano all’opposizione
ma obbiettivamente di critiche radicali non ne vedo, salvo quello che
dirò più avanti.
Se la politica avesse nel suo DNA la
razionalità, la Giunta uscente dovrebbe lasciare il campo con un bilancio consuntivo, luci e ombre, cose fatte, ancora da farsi, raccomandazioni ai successori. Ci sarebbe
ancora tempo per farlo ma dubito lo
farà. Però un documento dal quale
partire resta ancora sul tavolo ed è il
Programma del candidato sindaco
Giuliano Pisapia e delle liste che lo
sostengono – Elezione diretta del
sindaco e del Consiglio comunale
15-16 maggio 2011. Sono 33 pagine che vale la pena di rileggere prima di avventurarsi nella stesura di
un nuovo programma e penso che
nessuno vorrà riscrivere qualcosa,
anche solo per non correre il rischio
di dire con altre parole quello che
c’è già lì dentro. Aspettiamo comunque il lavoro degli 11 per capire
bene cosa sia “un documento condiviso del centro-sinistra che sottoscriveranno i candidati alle primarie
e poi tutti i cittadini che vi parteciperanno” come dichiara il Pd.
Come ho fatto nel 2011 anche oggi
vorrei fare un’osservazione di merito: in quel programma, e ovviamente nel “documento condiviso”
c’erano e ci saranno molte pagine
dedicate al “cosa” e quasi nessuna
al “come”. Il “cosa” è convincente
ancora oggi e non voglio far perdere
tempo a nessuno riproponendo quel
che sta già scritto ma oggi la declinazione del “come” diventa il vero
argomento sul quale vale la pena di
aprire un dibattito.
Il Paese è cambiato, la crisi ha reso
tutto più difficile, la scarsità delle
risorse ha in parte alterato le priorità
nella allocazione di quelle disponibili. Come si vuol fare per il futuro?
Come si cercherà di risollevare le
sorti delle casse comunali? Come si
farà a rimettere in sesto una macchina burocratica che anche solo il
buon senso comune ritiene inade-
guata, inefficiente, demotivata e farlo pur dovendosi confrontare col
contratto collettivo dei dipendenti
pubblici e l’ottusità del sindacato?
Come si gestiranno gli ultimi bachi
della precedente amministrazione
come la M4? Come sarà la gestione della trasformazione urbana e
urbanistica? Come cercheremo di
giocarci il lascito di Expo 2015?
Come sarà gestita la transizione
verso la Città Metropolitana? E come fare un passo avanti nella partecipazione di cittadini nella gestione
dei beni comuni?
Vedo con preoccupazione il rifarsi
strada l’idea che anche a livello locale si debba parlare ancora di
massimi sistemi, dove il politichese
nasconde la paura di manifestare
troppo chiaramente il proprio pensiero, limitandosi a discorsi gommosi adatti di volta in volta all’uditorio
nella speranza di piacere a tutti.
Per farla breve questa volta, prima
di andare alle primarie, vorrei che
per ogni candidato ci fossero su di
una piattaforma internet due o tre
paginette nelle quali ci indicasse,
sempre nell’ambito di idee generali
condivise, quali ritiene sia la manciata di problemi importanti per la
città, con quali priorità, come intenderebbe affrontarle e con quali risorse.
Se no, in base a cosa dovrei fare la
mia scelta? Subire quella frutto dei
pacchetti di voti organizzati dai circoli Pd? Non sarebbe un ”buon voto
di scambio”.
Al di là delle autocandidature la
caccia al candidato è aperta e, se
anche dal cilindro del centro sinistra
milanese più o meno allargato uscisse un coniglio sicuro vincitore
dello scontro finale - le Comunali del
2016 -, anche lui dovrà parlarci del
“come”.
IL NUOVO SINDACO E IL MEGLIO DI PISAPIA
Beppe Merlo
A Milano la sinistra governa ed è
legittimata a continuare senza il
soccorso di esegeti. Se si vuole uscire dalla schematica e conformista
narrazione della politica a Milano,
occorre affidarsi al non convenzionale ArcipelagoMilano, e in particolare nell’ultimo numero all’editoriale
di Luca Beltrami Gadola e le analisi
sul voto di Walter Marossi. La persistenza di una politica a debole influn.22 VII 10 giugno 2015
enza, esercitata dai partiti a trazione
nazionale, favorisce a livello locale,
l’inflazione di espressioni elettorali,
che più che a declinare valori civici,
sembrano essere rappresentazioni
elettorale dei tanti fai da te che la
politica, in versione semplificata,
stimola, quando non sono la riproposizione, a fini elettorali di esperienze nimby da contado.
I partiti nazionali nelle loro espressioni territoriali faticano a sviluppare
una capacità autonoma di elaborazione al fine di proporre visioni che
abbiano a riferimento le esigenze
del territorio e della sua comunità in
fatto di aspirazioni, esigenze, diritti
antichi e nuovi che in ogni comunità
si manifestano con intensità differenti: il non saperne tener provoca
impatti non positivi con il rischio di
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ricadute anche sulle esperienze nelle quali si è protagonisti attivi.
Il particolare stato di debolezza della politica è la conseguenza dell’essere rimasta orfana della legittimazione ideologica, soprattutto se interpretata e declinata con eccessiva
religiosità e faziosità, che oggi viene
inevitabilmente percepita come impreparata a fronteggiare la modernità, la destrutturazione dei vincoli territoriali che provoca la globalizzazione con la conseguenza di una
doppia negatività: quella di non risultare più credibile sia per quanto
riguarda lo sforzo illuministico di
presupporre di poter precedere i
grandi fenomeni sociali e sia soprattutto di non saperli accompagnare,
che è poi la vocazione di una politica riformista nelle moderne democrazie.
Il trend della disaffezione al voto, il
cui punto più alto coincide sempre
più con le elezioni regionali - Istituzione cui il popolo è sempre meno
affezionato - si sta estendendo anche alle elezioni nei comuni, a evidenza di quanto sia ormai venuta
meno, sia “la religiosità dell’impegno
a votare” e sia l’esigenza di identificarsi in un partito.
Vi è senz’altro un’oggettiva difficoltà
a comprendere, interpretare e dare
coerenti risposte alla “dinamica liquida” dei bisogni e dei diritti, una
dinamica sempre più accentuata
dalle soggettività, che ne alterano le
gerarchie in termini di priorità e che
caratterizza ulteriormente la declinazione del collettivo “noi” in una
sommatoria di tanti “io”; ciò rende
assai friabili i tentativi di fidelizzazione elettorale sia dei corpi intermedi, sia dei beneficiari di un esercizio del potere indirizzato alla prassi del voto di scambio, perché una
volta passata la festa il santo è
gabbabile.
Ci troviamo nel mezzo di una transizione tanto complessa quanto indeterminabile, che dovrebbe innanzitutto indurre a una lettura diversa
delle articolazioni del dinamismo
sociale e imporre l’imperativo di doversi rinnovare se si vuole essere
credibili rinnovatori.
Per farlo non vi sono comode scorciatoie, ed è sconsigliabile incorrere
in errori di interpretazione, scambiando espressioni elettorali di natura congiunturale in evidenze del
consolidamento di un processo di
rinnovamento che per essere tale
esige ben altre risposte, o peggio
ancora ricercare la legittimazioni
della rappresentatività della politica
venendo meno alle proprie responsabilità per ricercarne la credibilità
“opponendo all’uso politico della
giustizia l’uso giudiziario della politica” come lucidamente ammonisce
Ainis.
La comunità milanese è una comunità moderna, i suoi membri sono
quotidianamente segmentati e profilati non solo da chi intende promuovere prodotti e servizi ma soprattutto dagli inesauribili registi occulti dei
social network che selezionano gli
“io”, li profilano al fine della composizione dei diversi “noi”, nei quali
l’identità degli appartenenti tende a
riconoscersi, rendendoli sempre
meno permeabili sia alle iniziative
dei creatori di suggestioni nonché
alla presunzione di emozionalità per
scritturare leadership o sollecitarle
nella forma di autocandidature.
LBG, ha ragione a interrogarsi sul
“cui prodest” di un comitato di 11
saggi finalizzato alla perimetrazione
del campo di gioco e delle regole
per iscriversi al concorso per il candidato a Sindaco di Milano per il
centro sinistra, magari più che un
Sindaco un Podestà, il tutto prima
ancora che sia chiarito e condiviso a
che Milano ci si vuole riferire e
quindi se si condivide la visione di
Milano, che solo la politica nella sua
più vasta accezione può indicare,
nonché quali impegni si assumano
per assicurarne il perseguimento, e
quali garanzie assicurino in termini
di rinnovamento da declinare nel
segno della continuità.
Di una saggezza in nome dell’etica
forse non se ne sentiva il bisogno,
perché il meglio dell’amministrazione Pisapia è dato dall’aver ricostruito l’etica della governabilità che
si era smarrita a Milano, un’etica
politica che è servita a ricondurre i
partiti nei confini delle loro missioni,
di comporre una classe dirigente
che corrispondesse all’espressione
aperta della città emarginando i
pregiudizi, le corporazioni e le faziosità; un gruppo dirigente che al di là
dei giudizi di merito ha dato vita a
un governo che è stato percepito
come attento e solidale e orientato
alla tutela dell’interesse generale.
È la vera discontinuità, rispetto al
ventennio precedente di centro destra. Così Milano dispone di una
classe dirigente politica e civile legittimata e autosufficiente, non necessita di tutoraggi, e che può sin da
ora incominciare a pensare alla fase
due, fase che richiede di andare oltre all’esperienza attuale, sia per
oggettive esigenze di modificazione
istituzionale e sia perché sono cambiate e continuano a cambiare le
dinamiche delle esigenze sociali.
Milano, come già nel suo passato
ha l’esigenza: di una sua autonomia, di confermare orgogliosamente di
poter fare da sola, e che la priorità
non è tanto quella della selezione
del candidato sindaco, quanto le
convergenze necessarie per dare
sostanza a un modello ambrosiano
per governare la Milano nel prossimo decennio, con il paradigma
dell’impegno a perseguire la realizzazione del Diritto di Informazione,
la cui prima manifestazione non potrà che essere la realizzazione di
una copia intellegibile del bilancio
da recapitare a ogni milanese già a
partire dalla edizione del bilancio
2015.
Infine, più che di regole, peraltro assai ben definite dalla Costituzione,
l’etica che dovrebbe sovrintendere il
percorso democratico di selezione
degli aspiranti sindaci, dovrebbe circoscriverne il perimetro alle sole
candidature di chi nel quinquennio
abbia realmente dedicato interesse
civico e impegno politico per la comunità milanese, che siano scoraggiate le auto candidature estemporanee e la volatilità nell’impegno istituzionale da parte di chi è stato votato dai cittadini, per ricercare nuove
opportunità di candidature, portare a
termine gli impegni assunti è l’ABC
di un comportamento etico nonché
rispettoso nei confronti del movimento o del partito che lo ha proposto e sia di coloro che lo hanno eletto.
PD MILANO. LA SMART CITTADINANZA O IL CONSIGLIO DEGLI 11?
Giuseppe Longhi
A questo punto come interpretare la
scelta del “Gran consiglio degli 11
saggi?”: un ritorno a metodi pre anni
'70?, la volontà di eludere metodi
proattivi di far politica?, un'incapaci-
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tà di comprendere realtà nuove?. Il
segnale non promette bene, dopo il
drastico dimagrimento del Pd nelle
elezioni locali di Emilia Romagna e
Veneto.
È utile una premessa per comprendere la situazione attuale, dove il
progresso dei sistemi cibernetici e,
sopratutto, l'alta connettività, contribuiscono a trasformare la città in
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una molteplicità di piattaforme interattive per lo scambio di conoscenze, per sperimentare nuove forme di
democratizzazione della produzione
di sapere e nuove forme di generazione di valore. In questo contesto, i
cittadini hanno sempre più la possibilità di modellare e ottimizzare il
proprio ambiente urbano e di collaborare con gli altri per raggiungere
obiettivi comuni, realizzando in gran
parte l'utopia dei pensatori degli anni '70.
Karl Sharro in un editoriale su Architectural Review del maggio scorso
(Abolish planning policy to liberate
creativity) ritorna su un vecchio tema: il carattere impositivo dei processi di pianificazione, frutto della
pretesa dei burocrati di modellare la
città, e con essa, la vita dei cittadini.
L'approccio alternativo è il ruolo attivo dei cittadini nel plasmare le loro
città.
Karl Sharro riprende la famosa questione della progettazione e della
governance top-down mitigata dai
processi di consultazione e di partecipazione, sollevata da Cedric Price,
Peter Hall, Reyner Banham e Paul
Barker con Non Plan: an experiment
on freedom (1969, New society) i
quali non chiedono l'abolizione della
pianificazione, ma sottolineano come questa parola sia usata impropriamente per l'imposizione di soluzioni arbitrarie. Nella loro visione la
pubblica amministrazione dovrebbe
stimolare il desiderio di conoscere
invece di imporre arbitrariamente,
con il fine di promuovere un piano di
investimenti che sarà gestito dalla
comunità. Propongono quindi il passaggio da una governance ordinativa a una proattiva, questione ripresa da Harvey (1973, From Managerialism to Entrepreneurialism: The
Transformation in Urban Governance in Late Capitalism).
Negli stessi anni il ruolo attivo dei
cittadini è l'argomento guida di un
gruppo di straordinari architetti - ci-
berbetici - anarchici (Nicholas Negroponte, Cristopher Alexander, Alan Kay) i quali vedono nelle capacità accresciute dell'uomo grazie alle
nuove macchine cibernetiche la via
verso forme di progetto e di governance egualitarie.
Anche se i nuovi processi tendono a
essere contrastati dalle forze politiche locali, la soluzione non può essere la conferma di modelli di governance appartenenti al passato,
ma la sperimentazione di nuovi modelli che permettano di trasformare
la tensione tra le iniziative bottomup dei gruppi informali di cittadini e
top-down della governance istituzionale in un processo d’innovazione sociale aperto, collaborativo e
generatore di nuove opportunità. A
questi principi s’ispira il modello di
governance dell'Urban Living Lab,
fortemente sostenuto anche dall'Unione europea.
Attraverso l'applicazione dei principi
dell'Urban Living Lab il Pd darebbe
un segnale forte della sua volontà di
favorire i processi innovativi promossi dalla comunità e della sua
capacità di calibrare i processi di
innovazione metropolitana rispetto
alle esigenze dei cittadini, stimolando processi collaborativi con una
molteplicità di stakeholders. Darebbe il segnale di voler attivamente
facilitare lo scambio di idee e abbassare le barriere tra i diversi attori
sociali, applicando il modello della
quadrupla elica, ossia delle iterazioni fra l'amministrazione locale, il
mondo della ricerca, le imprese, i
cittadini per sviluppare un palinsesto
concentrato sulla creazione di valore sociale e sull'impegno civico.
La scelta dell'Urban Living Lab sarebbe un chiaro segnale verso una
progettazione della città più centrata
sulla “Smart Cittadinanza” che sulla
“Smart City“, con progetti “usercentric”, attenti all'innovazione a
servizio degli utenti, la co-creazione
e la collaborazione fra una grande
varietà di stakeholders. I progetti e
le strategie per la “Smart Cittadinanza” mirerebbero quindi ad aumentare la qualità della vita urbana,
usando metodi organizzativi e progettuali innovativi basati sulla collaborazione, la partecipazione e un
impegno “multi stakeholder”, nei
quali le tecnologie innovative servono come enabler piuttosto che come
driver.
Operando attraverso la struttura
dell'Urban Living Lab secondo la
filosofia della “Smart cittadinanza” si
darebbe un chiaro segnale della volontà di operare in simmetria con i
programmi dell'UE e, di conseguenza, stimolare quelle politiche e quelle visioni sottovalutate nella recente
tornata amministrativa.
Velocemente si possono ricordare
le seguenti urgenze: l'attivazione di
un sistema di big data da parte della
pubblica amministrazione, essenziale per l'avvio di Internet delle cose.
Con questo la municipalità sarà in
grado di rinnovare la sua capacità
storica di supportare l'innovazione;
avviare un piano strategico metropolitano 'aperto', basato sull’attiva e
informale collaborazione di un ambito che coinvolga otto milioni di abitanti, per compensare l'infelice processo istituzionale promosso dalla
Legge Delrio; coordinare un armonico sviluppo delle tecnologie abilitanti, per facilitare l'ammodernamento del sistema produttivo metropolitano e avviare nuovi processi
occupazionali; sviluppare iniziative
per attrarre nuovi saperi, per accelerare il livello di integrazione con il
sistema internazionale della ricerca;
avviare una riflessione sui processi
locali di gestione della ricchezza, a
tutela della comunità.
I cittadini della megalopoli milanese
più di gran consigli sono alla ricerca
di nuove infrastrutture civiche capaci di fornire visioni stimolanti e proattive per il futuro.
UNA SINDACA PER MILANO. IL MODELLO SPAGNOLO
Michela Barzi
Le elezioni municipali che hanno
segnato una svolta nel governo di
Barcellona e Madrid hanno forse
qualcosa da dire a Milano in vista
dalla prossima tornata elettorale?
Probabilmente sì, almeno se si vuole seguire il consiglio del Premio
Nobel Paul Krugman, che al Festival dell’Economia di Trento ha suggerito di partire dalle metropoli e
dagli agglomerati urbani per risolvere il problema delle disuguaglianze.
Nei programmi di Barcelona en
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Comú e di Ahora Madrid la sfida
ambiziosa - probabilmente la ragione del maggiore afflusso alle urne
rispetto ad altre elezioni - è una politica municipale che contrasti le disuguaglianze attraverso un’idea di
città in cui lo spazio pubblico sia al
servizio dei cittadini, venga migliorata la vivibilità dell’ambiente urbano e
l’accessibilità dei servizi di base,
dove i quartieri tornino a essere il
centro dell’azione di governo, anche
stimolando la partecipazione dei cittadini.
Il cambiamento nelle due metropoli
spagnole ha i volti femminili di Ada
Colau e Manuela Carmena. La prima è la nuova alcaldesa (parola che
indica il genere femminile di chi
svolge la funzione di sindaco evitando le storpiature) di Barcellona,
mentre la seconda potrebbe ricoprire la stessa carica a Madrid, se la
coalizione che l’ha sostenuta riuscirà a dare corpo a un accordo di
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maggioranza con il PSOE. Sono
donne molto diverse per età e percorso esistenziale ma accomunate
dall’aver proposto una piattaforma
elettorale segnata da una forte idea
di governo municipale come alternativa alle politiche nazionali, soprattutto riguardo a una materia decisiva come il diritto alla casa.
La questione ha a che fare con le
conseguenze dell’esplosione della
bolla immobiliare in Spagna: chi non
riesce più pagare il mutuo viene buttato fuori casa dalla banca che poi
la lascia vuota ma continua a chiedere il pagamento delle rate. Numerosissimi sono stati i cittadini che
dopo aver perso l’abitazione hanno
in fine deciso di rinunciare alla vita.
Il contrasto delle espulsioni attuate
dalle banche è l’aspetto che ha caratterizzato in particolare la campagna elettorale della lista civica Barcelona en Comú, scaturita dalla fusione della rete di comitati e associazioni Guanyem Barcelona con
una serie di partiti. Non è un caso
che Ada Colau sia fondatrice del
movimento Plataforma de Afectados
por la Hipoteca (PAH), che dal 2009
si batte per una diversa legislazione
sull’insolvenza dei mutui ipotecari.
Tornando a Milano, Francesco
Spadaro su questa testata a ragione
si è felicitato per la straordinaria misura civile della restituzione ai cittadini della Darsena - il waterfront che
finalmente Milano ha così come altre città affacciate o attraversate
dall’acqua - uno spazio pubblico fruibile all’interno un importante contesto ambientale. A suo parere si tratta del miglior risultato dei quattro
anni di governo della giunta Pisapia
e, a un mese dalla sua inaugurazio-
ne visto il gradimento che sta suscitando, non si può che concordare.
Tuttavia – aggiunge - Milano ha anche bisogno di recuperare le periferie, di assicurare un’offerta di abitazioni a costi ragionevoli senza dimenticarsi del patrimonio edilizio
invenduto, sfitto e sottoutilizzato che
sta soprattutto nella sua area metropolitana. È un ragionamento che,
partendo da quel luogo adeguato,
sembra suggerire per la prossima
tornata elettorale una reinterpretazione del municipalismo ambrosiano, nel frattempo in qualche modo
resuscitato dalle mobilitazioni No
Tag .
A questo riguardo i temi dai quali
partire possono trovare qualche
spunto dai suggerimenti di Krugman: una politica della casa che si
confronti con il mercato immobiliare
mettendo al centro i redditi che non
riescono ad accedervi, interventi
che favoriscano l’utenza del trasporto pubblico per attenuare le disuguaglianze tra centro e periferia e
che stabiliscano salari minimi a livello locale come soluzione per far
crescere le retribuzioni. Un’ottima
base per una piattaforma elettorale
sulla quale avviare un confronto con
la cittadinanza. Però manca un punto – fondamentale se si guarda alla
svolta spagnola - il protagonismo
delle donne nella vita pubblica; e
non basta aver avuto una donna nel
ruolo di sindaco, oltre ad alcune assessore in carica, per archiviare la
questione. Le ultime elezioni comunali indicano che negli otto comuni
della città metropolitana di Milano
andati al voto erano solo dieci le
donne candidate sindaco, rispetto
alle quarantadue candidature com-
plessive, e sono sei gli uomini ogni
dieci candidati a consigliere.
Non vi è dubbio invece che in Spagna la svolta municipalista si sia fatta rappresentare dalle donne. A
Barcellona la squadra della sindaca
Colau è femminile per oltre la metà
e nel suo programma elettorale
l’equità di genere guiderà il bilancio
comunale, la pianificazione urbana
e l’organizzazione dei servizi. Si
tratta, insomma, di andare molto
oltre la figura, di fatto ininfluente,
della consigliera di parità e anche di
abbandonare la speranza che dai
partiti si decida che il sindaco possa
farlo una donna. A Madrid il cambiamento rappresentato da Manuela
Carmena - avvocata del lavoro attiva sul fronte dei diritti umani - si è
confrontato con l’alcaldesa in carica
Ana Botella, che rappresenta, insieme alla sfidante Esperanza Aguirre, la continuità del Partido Popular nel governo della capitale.
Lo slogan che Pisapia aveva adottato all’indomani della sua elezione
era adesso si cambia davvero. Dato
che non sarà più lui a continuare
l’opera, potremmo in tanto chiederci
se per individuare chi dovrà completarla possa essere utile un cambio
di genere, almeno per indicare, a
cominciare dal linguaggio, il segno
di ciò che dovrebbe cambiare. Milano ha già avuto un sindaco donna,
ma una sindaca potrebbe essere
una novità. A Barcellona e a Madrid
il cambiamento non è emerso dai
partiti o dalle istituzioni ma
dall’insieme della cittadinanza attiva
e dalla sua leadership femminile.
Geografia a parte, la distanza con
Milano resta considerevole.
STREET ART E DECORO URBANO: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA
Elena Grandi
Una decina di giorni prima del primo maggio avevo scritto su queste
pagine un articolo sull’Associazione
Retake Milano, che da anni collabora con il Comune pulendo i muri
della città dalle scritte e dagli imbrattamenti insieme ai moltissimi
volontari che di volta in volta vengono coinvolti nei suoi progetti. Poi
c’è stata la manifestazione No Expo, alcune strade della città sono
state oggetto delle devastazioni dei
black bloc e, nel giro di due giorni,
una grande massa di milanesi è
scesa in piazza armata di spugne,
spazzole e detersivi per ripulire la
propria città. A quel primo evento
spontaneo - Nessuno tocchi Milano
-ne è seguito un secondo - Bella
Milano - che l’Amministrazione ha
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sostenuto e coordinato affinché
l’operato dei cittadini potesse diventare non solo un gesto simbolico, di
affezione e di civismo, ma anche
uno strumento utile ed efficace.
Visto il successo della manifestazione, un’altra ne seguirà a breve.
Insomma, in poche settimane abbiamo assistito a uno di quei risvegli della città guidati dal senso di
appartenenza a una comunità e dal
desiderio di proteggere ciò che è di
tutti.In questo contesto di partecipazione corale, Retake Milano ha
portato avanti i suoi progetti, già da
tempo programmati e sostenuti dal
Consiglio di Zona 1, modificandone
però il calendario, così da potere
partecipare alle giornate di Puliamo
Milano insieme al resto della città.
Tra i tanti interventi previsti tra
maggio e giugno (alla Triennale, al
Museo del Parco Archeologico, in
Piazza Sempione), uno includeva la
pulizia dei muri, degli edifici e delle
saracinesche di via Cesariano;
quest’ultimo progetto, che in realtà
avrebbe dovuto svolgersi alcune
settimane più avanti, contemplava,
oltre alla pulizia della parte più imbrattata dei muretti dell’area giochi
di quella strada (quelli che quindici
anni fa erano stati dipinti da Pao e
Linda, ma che con il tempo sono
stati in gran parte coperti da tags),
un successivo interevento di ripristino dei murales.
Come sia andata la faccenda è cosa nota: l’intervento di parziale copertura del murale di Pao e Linda è
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stato subito criticato da alcuni residenti e genitori; un video è stato
postato sui social in tempo reale;
gran parte della città si è erta in difesa della street art, condannando
quello che si è ritenuto essere un
arrogante e becero intervento di
copertura di bel dipinto. In realtà, se
errore vi è stato, si è trattato di un
deficit di comunicazione e di corretta informazione: in gran parte dovuto alla fretta e alla necessità di dovere modificare la programmazione
di un’iniziativa che altrimenti si sarebbe svolta qualche settimana dopo, in maniera più coordinata e con
la dovuta informazione; in tal modo
non si sarebbe dato adito a fraintendimenti, sollevazioni di popolo,
denunce e proteste.
Così si è venuta a creare una situazione paradossale e contraddittoria:
mentre da una parte la città si mobilitava per combattere il degrado e
per difendere il decoro urbano,
dall’altra la stessa città sosteneva
che l’arte dei dipinti murari deve
essere promossa e tutelata, appoggiata e difesa a ogni costo. Posizioni entrambe giuste, che erroneamente sono state viste e interpretate come contrapposte e conflittuali
tra loro. Per questo è ora opportuno
fare alcune considerazioni sui temi
della street art, del graffitismo, delle
scritte vandaliche, della legalità e
del rispetto per il bene comune.
Quando si parla di street art e di
murales, espressioni di una forma
d’arte alternativa, di protesta, di denuncia sociale, di libera creatività,
che decorano e abbelliscono tanti
muri della città, non si parla affatto
di scritte vandaliche: le tags e ogni
forma di imbrattamento su muri,
vetrine, saracinesche, oltre a essere deturpanti e brutte, sono illegali e
dovrebbero sempre essere impedite, sanzionate, rimosse.
Quando si parla di antigriffitismo,
non si intende la lotta contro ogni
forma di graffitismo ma contro quella che sfregia, imbratta, vandalizza
muri, pali, panchine, saracinesche,
arredi urbani di ogni genere. Una
buona amministrazione dovrebbe
educare alla legalità e al rispetto
per la cosa pubblica, sanzionare
ogni atto vandalico e al tempo stesso sostenere, anche scegliendo
luoghi deputati allo scopo, l’arte dei
dipinti murari e del graffitismo.
È quello che si sta facendo a Milano. Mentre si combatte l’illegalità e
l’atto vandalico fine a se stesso
(anche grazie al supporto di quelle
associazioni di volontariato che lavorano gratuitamente al fianco
dell’Amministrazione e delle forze
dell’ordine), si promuove la street
art e il lavoro di tanti giovani e meno giovani artisti: i nuovi murales in
via Morosini, in via Tommaso da
Cazzaniga, in piazza Cardinal Ferrari e in tante altre strade della città,
ne sono la prova. A ciò si aggiunge
l’imminente delibera della Giunta
Comunale che, grazie alle indicazioni dei Consigli di Zona, ha identificato “69 muri liberi” che saranno
messi a disposizione degli artisti.
In quest’ottica, anche le associazioni che da qualche anno puliscono i muri dalle scritte, supportate da
sponsor che forniscono materiali e
macchine, hanno spesso portato
avanti progetti con le scuole o con i
residenti di alcuni quartieri, nei quali
artisti più o meno famosi si sono
impegnati a decorare e a dipingere i
muri appena ripuliti che altrimenti
sarebbero stati nuovamente abbandonati al degrado. La stessa
cosa accadrà ora in via Cesariano.
Dopo un proficuo incontro tra il
Consiglio di Zona 1, Pao e Linda,
l’associazione Retake Milano e il
Comitato Proarcosempione, si è
deciso che, nei giorni 12, 13,14,
giugno, il muretto che delimita
l’area gioco di quella strada, verrà
nuovamente dipinto con un murales
da Pao e Linda. I bambini del quartiere potranno preparare dei bozzetti e dire cosa vorrebbero fosse dipinto sul muro, quindi lavoreranno
insieme agli artisti. Inoltre, nel volgere di un’altra decina di giorni
l’associazione Retake Milano e il
Comitato Proarcosempione porteranno a termine la pulizia dei palazzi che affacciano sulla via.
Sarà un evento all’insegna della
creatività e dell’arte di strada, della
legalità e del decoro urbano, approvato e sostenuto anche economicamente dall’Amministrazione.
Quando esiste la volontà di superare i conflitti e di trovare soluzioni
condivise, la città non potrà che divenire più ricca e più bella.
"MAFIA CAPITALE": SCIOGLIERE O NON SCIOGLIERE, QUESTO IL PROBLEMA*
Emanuele Stolfi
Prevedibile o no, il secondo tsunami
politico-giudiziario abbattutosi sulla
Capitale ha travolto le ultime (scarse) riserve di credibilità e reputazione dell’amministrazione comunale.
Tutti i partiti coinvolti, esponenti di
primo piano collusi mani e piedi con
l’organizzazione criminale, turpi
speculazioni sulla pelle dei disperati: la cloaca che emerge dalle intercettazioni degli inquirenti mette brutalmente a nudo una situazione che
si è tentato di nascondere in questi
mesi.
Adesso che succede? È la domanda angosciosa che da qualche giorno agita i massimi livelli di governo
del Paese e toglie il sonno a chi è
chiamato a dare le irrinunciabili risposte. Lunedì della prossima settimana arriverà sul tavolo del prefetto di Roma, Franco Gabrielli, la relazione finale della Commissione
d’accesso agli atti insediatasi sei
n. 22 VII - 10 giugno 2015
mesi fa, all’esplodere dell’inchiesta
“Mafia Capitale”, e presieduta dal
prefetto Marilisa Magno.
Pur senza conoscere ancora i contenuti del rapporto, il prefetto Gabrielli non rinuncia a una certa loquacità: “Preso atto dei risultati
dell’ispezione - sono le parole
dell’ex capo della Protezione civile
raccolte dalle agenzie - avrò tempo
fino al 30 luglio per decidere se
chiedere o meno al Ministero degli
Interni lo scioglimento per mafia del
Comune di Roma. Passerò un luglio
di grande riflessione”. Pende infatti
sul suo capo una decisione dalle
conseguenze politiche terrificanti, di
cui lui stesso non coglierebbe fino in
fondo la portata se fossero vere le
sue dichiarazioni: “Se dovessi decidere di proporre al ministro
dell’Interno lo scioglimento dell’amministrazione di Roma Capitale avrebbe detto Gabrielli - sono con-
sapevole che una parte sarà contenta e un’altra scontenta. Sarà difficile accontentare tutti”. Ma non si
preoccupi, signor prefetto, lei non
deve accontentare o dispiacere
nessuno, deve solo accertare oggettivamente se esistono o meno le
condizioni dello scioglimento. Le
conclusioni politiche dell’inchiesta le
lasci ad altri, come prescrive la legge.
L'ipotesi di scioglimento del consiglio comunale infatti è prevista dagli
articoli 143-146 del decreto legislativo 267/2000 quando emergono
elementi concreti, univoci e rilevanti
su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata o su forme di
condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la
libera determinazione degli organi
elettivi e amministrativi e il buon andamento delle amministrazioni co-
6
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munali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi alle
stesse affidati.
In tal caso il prefetto invia una sua
relazione al Ministro dell'Interno,
previa consultazione del comitato
provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica integrato dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore distrettuale Antimafia competenti
per territorio. Il Ministro dell'Interno
a sua volta può proporre lo scioglimento dell'ente al Presidente della
Repubblica, che emetterà il decreto
di scioglimento, previa deliberazione
del Consiglio dei ministri entro 3
mesi a decorrere dalla presentazione della relazione del prefetto.
Fin qui la procedura. Ma a nessuno
sfugge la gravità di una decisione
destinata a propagarsi istantaneamente in tutto il mondo e dalle conseguenze imprevedibili, a pochi mesi dal Giubileo straordinario (inizia
l'8 dicembre), con la candidatura
delle Olimpiadi di Roma 2024 ancora in ballo (l'assemblea capitolina
deve votare la delibera entro questo
mese) e mentre discutiamo con
mezza Europa le condizioni per
l’accoglienza dei migranti, epicentro
dell’intrallazzo mafioso.
Di fronte a questa prospettiva sembrano prevalere ancora una volta gli
interessi di bottega. Il Pd romano
già commissariato ha il marchio
dell’infamia di Fabrizio Barca che
l’ha definito “un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso, che
lavora per gli eletti anziché per i cittadini e dove non c’è trasparenza”.
Ma Renzi, Zingaretti e Marino fanno
quadrato intorno allo status quo, per
quanto indifendibile, atterriti all’idea
di andare in queste condizioni alle
elezioni amministrative che seguirebbero il commissariamento. La
considerano alla stregua di un suicidio politico che aprirebbe la strada
a imprevedibili soluzioni e fanno dire
all’incolpevole assessore Sabella
che “le condizioni per sciogliere il
consiglio comunale devono essere
‘attuali’, mentre noi abbiamo voltato
pagina”.
Sull’altra sponda il centrodestra reclama a gran voce le dimissioni della giunta e nuove elezioni, come se
l’amministrazione Alemanno non ci
fosse mai stata, o i consiglieri di
Forza Italia arrestati o inquisiti fossero delle pecorelle smarrite, o non
avessero mai incontrato le cooperative bianche e rosse. In mezzo c’è
Alfano a cui spetta, come Ministro
dell’Interno, il compito cruciale di
presentare o meno al Consiglio dei
Ministri la proposta di scioglimento
dell’assemblea capitolina. E Angelino ha già cominciato a mettere le
mani avanti: “L’indicazione tecnica
del prefetto dovrà naturalmente orientare quella politica, anche se
non è affatto scontato che si seguano alla lettera le indicazioni. Così
come anche la mia proposta non
sarà vincolante per il Consiglio”.
Per quanto si farà ogni sforzo per
evitare agli occhi del mondo che
Roma possa essere commissariata
per mafia, la situazione si è talmente incancrenita e l’infezione mafiosa
è penetrata così in profondità che
non è affatto detto che si riesca a
evitare lo scioglimento. Tanto vale
allora, finché si è in tempo, adottare
spregiudicatamente il “modello Fondi”, dal nome della cittadina laziale
dove sindaco e consiglieri di maggioranza di centrodestra si dimisero
in blocco prima di qualsiasi decreto
di scioglimento. Ora, a parti invertite, sembra questo l’unico escamotage rimasto alla giunta Marino
per evitare il rischio che l’amministrazione venga sciolta d’ufficio
per “infiltrazioni criminali”. Se così
non sarà, si andrà verso l’ignoto.
* tratto da http://www.romacapitale.net/
LA TRIENNALE DEL DOPO-EXPO: IL MONDO DEI MAKER
Fabrizio Patti
Una piccola Expo l’anno dopo di
Expo, con la differenza che si terrà
in varie parti di Milano e non richiederà la costruzione di enormi padiglioni fuori città. Sarà dedicata al
design e alla nuova industria (interconnessa, come la chiamano negli
Usa, o 4.0, secondo la definizione
tedesca) e attirerà architetti ma anche molti maker, i nuovi artigiani
che armeggiano con le stampanti
3D. È così che gli organizzatori immaginano la ventunesima Triennale
internazionale di Milano. Comincerà
nell’aprile 2016, una settimana prima del Salone del Mobile, e finirà il
weekend del Gp di Monza, a settembre.
Il legame con Expo sta nel fatto che
la Triennale internazionale è l’unica
istituzione culturale riconosciuta in
via permanente dal BIE, il Bureau
International des Expositions che
organizza le esposizioni universali.
n. 22 VII - 10 giugno 2015
La vicinanza di Expo è stata fondamentale nella decisione di tornare a
organizzare una manifestazione che
era stata abbandonata nel 1996,
dopo 63 anni di storia? No,
per Claudio De Albertis, presidente
della Triennale: «Capita casualmente dopo Expo, la decisione di tornare a organizzare una triennale internazionale è stata presa due anni
fa» dice a Linkiesta. «Con il Cda
abbiamo pensato che fosse il momento di riprenderle perché siamo a
una svolta. Negli Usa si parla di una
nuova rivoluzione industriale, è necessario che ci sia un incontro internazionale perché siamo convinti
che il design possa essere un grande strumento per uscire dalla crisi.
Così è stato in passato, per esempio all’epoca della crisi petrolifera
degli anni Settanta».
Se è vero che “la storia della Triennale è quella delle sue esposizioni”,
a un certo punto la formula aveva
perso decisamente smalto. «Dopo il
1996 il presidente Augusto Morello
decise di cambiare - spiega De Albertis -. Fu una scelta anche condivisibile, perché si era perso
l’impulso delle triennali internazionali. Si decise di fare delle triennali al
di fuori del BIE, della durata di tre
anni. Da lì è nata la nuova Triennale».
Ancora non si sa se a quella del
2016 seguirà anche una Triennale
nel 2019, né sono noti i dettagli
dell’evento (a partire dai costi e dai
visitatori attesi). Di certo, continua il
presidente dell’istituzione, «per Milano sarà una grande opportunità. In
genere nell’anno dopo i grandi eventi le città hanno un momento di
stanca. Milano potrà invece continuare … per continuare a leggere
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LA NUOVA DARSENA E IL “BELLO” DI GIUSEPPE ROVANI
Sergio Brenna
Dopo che in tanti (colleghi di università, miei familiari, persino negozianti e impiegate di banca e assicurazione) mi avevano assillato chiedendomi se avessi visto la nuova
sistemazione della Darsena e cosa
ne pensassi, finalmente la scorsa
settimana, dopo la mia lezione a
Bovisa, anch'io sono andato a vederla. Intanto confermo il voto da
altri suggeritomi: senza infamia e
senza lode, 6 meno (soprattutto per
la sciatta realizzazione del paramento in mattoni già macchiato dal
salnitro e i macchinari idraulici del
Naviglietto in vista presso la Porta
del Cagnola).
Però la frequentazione che si vedeva ieri deve far riflettere: sembravano le figurine di un rendering inneggiante alla "metrolife style" (una
coppia dall'aria vagamente gay
chiacchierava in cima a uno dei
pontili, un'altra etero si baciava appassionatamente sulla panchina in
granito lungo il muro di mattoni, alcuni sfrecciavano in bicicletta o skateboard, altri facevano jogging e
molti passeggiavano osservando e
commentando l'esito dei lavori. Un
po' lungosenna e un po' riverside
Manhattan in chiave meneghina, e
passi per Leonardo un po' oscurato:
se i milanesi non si agitano per le
sciaguratezze di CityLife o Porta
Nuova, ma si commuovono per così
poco evidentemente c'è una voglia
di spazio pubblico vissuto che deve
far riflettere.
Mi viene in mente il capitolo di "Cento anni" del Rovani in cui immagina
che, nella notte tra il 28 e 29 giugno
1766, si festeggi per tutta Milano la
liberazione della protagonista dal
suo rapimento con tavolate all'aperto e in particolare il colloquio sulla
sistemazione di piazza del Duomo
tra due dotti sfaccendati:
- Che bella cosa sarebbe, disse, se
invece di questa miseria di piazza,
chi ha pensato a far sorgere questa montagna lavorata, avesse
anche provveduto a distenderle intorno uno spazio conveniente, decorato di edifizj, degni della città!
….
- Ma vuoi tu che si pensasse a fare
la cornice prima di veder l’effetto
totale del quadro?
Può darsi che tu abbia ragione,
ma una piazza non è una cornice;
e il popolo passeggia e si ferma e
si trattiene in piazza prima ancora
di entrare in chiesa, sicché
l’opportunità della piazza è contemporanea al tempio che vi deve
campeggiare. (...).
(…)
- Ma che cosa ci vuole per te, affinché una piazza debba essere una
piazza?
(...) che offra la maggiore varietà
possibile tanto negli stili, quanto
nelle elevazioni, quanto nell’indole
degli edifizj ond’è determinata.
- La confusione di Babele, in una
parola; va benissimo.
(...)mi viene bensì qualche assalto
di superbia quando mi trovo in
faccia ad uno il quale mi dice che
la varietà ha per conseguenza la
confusione; e che ignora quel gran
principio dell’arte vera, e quel segreto con cui il genio, e senza incomodare
il
genio,
anche
l’ingegno riesce a colpire di meraviglia gli osservatori; ed è quello
appunto di saper far sì che l’unità
trionfi nella varietà; questo è il
problema da sciogliere
Tutta la sua disgrazia sta che la
moda or pare che abbia preso di
mira il suo genere; e la peggior disdetta è che la moda non si fermi
alle parrucche, ai topé, ai puff, ma
pretenda di sedere in cattedra a
dar leggi dell’arte.
(…)
- Se questo fosse, tanto andrebbe
per la piazza a portici uniformi,
come per la piazza a varietà
d’edificj. Ma non è così, caro mio,
ed è precisamente coll’idea del
variare stili e altezze e indole
d’edificj, e col grande segreto dei
giuochi prospettici che non è necessaria
tant’area;
perché
coll’artistica illusione della varietà,
l’occhio crede sempre di girare
uno spazio infinitamente maggiore
del vero. Che se fosse indispensabile quello che tu dici, il miglior
architetto della piazza del Duomo
sarebbe il parco d’artiglieria del re
di Prussia. Ma stando a quel che
io dico e che diceva appunto il Bibiena, fa in modo di rendere regolare la piazza, fa che la facciata
del Duomo si metta d’accordo col
suo asse, e passeggiando sotto
agli archi dei vari edificj si vedano
i fianchi del tempio.
- Or che te ne pare?
- Che bisogna aver la fantasia molto
riscaldata per poter fare di questi
conti.
P.S. A proposito: ho visto i progetti
degli studenti esposti a Bovisa
nell'atrio delle aule. A parte quello
del gruppo diretto da Graziella Tonon perche si salva, gli altri sono un
disastro spaventoso. Passi per le
prevedibili efferatezze di chi si crogiola nella riproposizione degli stilemi dei "venerati Maestri" (citando
Arbasino), ma persino quello di Prusicki (altrove come al concorso per
la Darsena autore di progetti misurati) qui col suo progetto per l'asse
Stazione-Piazza Repubblica va fuori
misura.
VIGORELLI: UN VELODROMO POPOLARE PER MILANO
Romolo Buni
Il 31 maggio il Giro d'Italia è tornato
a Milano dopo tre anni di assenza
con un circuito cittadino che ha attirato moltissimi appassionati. Il sindaco Pisapia ha accolto la corsa
rosa dicendo che la nostra città è
tornata a essere “la casa del ciclismo”. In effetti la cultura ciclistica
italiana è nata a Milano alla fine
dell'Ottocento, con le prime fabbriche e le prime corse per quelli che
allora si chiamavano “velocipedi”.
Nel 1909 la Gazzetta dello Sport ha
inventato il Giro e, sempre a Milano,
n. 22 VII - 10 giugno 2015
sono stati allestiti i primi velodromi,
inizialmente con strutture provvisorie dentro l'Arena e il Trotter, poi con
piste stabili, come quella in cemento
del Sempione, quella del Palazzo
dello Sport e, infine, quella “magica”
in legno del Vigorelli, inaugurata
quasi ottant'anni fa, il 28 ottobre
1935, e rimasta fino alla fine degli
anni Sessanta la più veloce al mondo.
L'arrivo del Giro è stato l'ultimo di
una serie di eventi ciclistici che
hanno vivacizzato Milano durante lo
scorso mese di maggio: il Cyclopride, la Sunrise Bike Ride, il Campionato Europeo dei Bike Messengers
e la “Ciemmona” (grande Critical
Mass a cadenza annuale, che richiama in Italia cicloattivisti da tutta
Europa) hanno portato sulle strade
di Milano migliaia di ciclisti, che si
sono letteralmente riappropriati della città.
Tra le varie iniziative legate alle due
ruote, una in particolare ha avuto un
forte valore simbolico. Il 16 maggio,
per la prima volta dal 2001, si sono
8
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svolte delle gare di ciclismo dentro il
Vigorelli. Nel pomeriggio oltre duecento bambini e ragazzi, dai 5 ai 12
anni, si sono esibiti in una gimkana
organizzata dal Comitato Provinciale della Federazione Ciclistica Italiana (FCI), animando il parterre
centrale. A seguire il Comitato Velodromo Vigorelli insieme a Officine
Sfera ha messo in scena la prima
edizione del “Vigo-Cross”, una spettacolare gara di ciclocross “asciutta”
su un percorso di circa 500 metri,
dentro e fuori il velodromo, che ha
sfruttato le varie parti dell'impianto
per articolare il percorso tra pista in
legno, lunette in cemento, campo in
erba sintetica, marciapiede esterno
e ancora scale e ostacoli formati da
cumuli di vecchi copertoni, attraversando il glorioso portone su via Arona, dal quale sono passati decine
di Giri d'Italia e di Lombardia.
Un esperimento riuscito, che ha
mostrato che, se Milano è la casa
del ciclismo, allora il Vigorelli è il
suo “salone d'onore”, un luogo in cui
unire la memoria e il futuro delle
due ruote. Lungo i 397 metri della
pista in legno i giovani milanesi venivano avviati al ciclismo, grazie alla
Scuola “Fausto Coppi”, che ha formato atleti del calibro di Giuseppe
Saronni e Francesco Moser. Una
volta restaurata la pista si potrà tornare a fare la stessa cosa, aprendo
l'impianto ai giovani e a quel variegato mondo di praticanti di ogni età,
che hanno scoperto la bellezza della bici a scatto fisso, vale a dire da
pista. Questo è quello che avviene a
Londra, nell'antico velodromo olimpico di Herne Hill, costruito alla fine
dell'Ottocento, o a Barcellona, dove
da pochi giorni è stata restaurata la
pista in legno all'aperto di Horta. In
una grande città un velodromo è un
impianto fondamentale per consentire la pratica sportiva del ciclismo,
altrimenti preclusa dal traffico e dalla struttura urbana.
La particolarità del Vigorelli è di essere un grande spazio pubblico, che
oltre al ciclismo ha saputo accogliere altri sport come il Football Americano e la Boxe, e grandi concerti.
Proprio in questi giorni una mostra
fotografica alla Feltrinelli di piazza
Duomo celebra la ricorrenza dei
cinquant'anni della doppia esibizione dei Beatles del 24 giugno 1965,
mentre il prossimo 4 luglio si terrà il
SuperBowl italiano, la finale del
campionato di Football Americano,
che vede come campioni uscenti i
milanesi Seamen.
Esistono quindi tutte le condizioni
affinché il Vigorelli diventi un grande
“velodromo popolare” all'interno di
un impianto polifunzionale, come
proposto su ArcipelagoMilano due
anni fa e ripreso di recente dall'Assessora Bisconti.
La speranza è che i lavori di restauro della pista vengano avviati presto
e che sia messo a punto un modello
di gestione innovativo, aperto sia
alle società sportive, sia ai singoli
praticanti, con una valorizzazione
complessiva dell'impianto, in modo
da evitare che si ripeta quanto accaduto dopo la ristrutturazione del
1996-97. La sfida è far rinascere la
grande tradizione milanese della
pista, che oggi potrebbe contare su
una base di praticanti molto più ampia rispetto al passato, come ha
raccontato Andrea Di Franco su
queste colonne, aprendosi all'area
metropolitana (grazie anche alla
prossimità con la fermata Domodossola della M5) e a una dimensione internazionale, con “gemellaggi” con i principali velodromi europei.
La vittoria inaspettata di un pistard
come il belga Iljo Keisse nell'ultima
tappa del Giro, che ha sfiorato il Vigorelli, potrebbe essere un buon
auspicio
LA DARSENA RITROVATA O …. PERDUTA?
Giuseppe Ucciero
Osservazioni un passante nostalgico. Da bravo cittadino, l'altro giorno
sono andato a trovare la Darsena.
Volevo vedere, come tutti, il risultato
finale di tanto lavoro, tante polemiche, tanta applicazione, tanti soldi,
tanta attesa. Sceso alla fermata del
9, gli occhi hanno finalmente visto.
Gli argini, il mercato, la passeggiata,
le isole, il ponticello dove prima si
annunciava il Bobino, e tanta, tanta,
gente a passeggio. Famiglie, turisti,
milanesi e giapponesi, giovani e anziani, bambini in bici e fotografi della
domenica, fidanzatini e vecchie
coppie. In mezzo all'acqua, anatre
in bella vista.
Un bel quadretto urbano, un ampio
spazio offerto a chi prima poteva
solo (?) affacciarsi dai muretti e
guardare sotto, fin dentro la macchia vegetale, o, se voleva perdersi,
nello scorrere del Naviglio. Tutto
bello, tutto ordinato, tutto sistemato,
tutto nuovo, eppure, quasi impercettibile, un senso di disagio, come di
mancanza, anzi di perdita, si faceva
strada. Cosa avvertivo come perduto, senza sapere bene cosa avessi
perso? E cosa appariva non ritrovato, ma piuttosto aggiunto, anzi giu-
n. 22 VII - 10 giugno 2015
stapposto? Quali ricordi mi impedivano di godere senza riserve dello
spettacolo della Darsena così finalmente “ritrovata”? Tutto così bello,
lindo, ordinato, eppure per questo,
proprio per questo, in qualche modo
incoerente con la memoria.
Finalmente la sensazione filtrava
nella coscienza, con i primi segni di
ricordo e cognizione. Dagli argini
finalmente passeggiabili, dalle nuove costruzioni lungo la riva, dalle
isole dedicate alla inevitabile istanza
promozionale, dai molteplici loghi
del noto operatore telefonico, mancava proprio lei, la Darsena, quella
Darsena che per decenni ci aveva
abituato alla sua vista e che inconsapevolmente avevamo fatta nostra,
intimamente, tanto da avvertirne ora, che non c'è più, la mancanza.
Non c'è traccia di quel disordinato
coacervo di vegetazione, sabbia,
acque stagnanti, canneti, rottami
arrugginiti, che, pur in uno stato così
miserando, ci era divenuto familiare
per non dire caro, testimonianza
dell'inestinguibile capacità della natura di riprendersi i luoghi lasciati
dalla mano dell'uomo, e di conservarli a testimoni allusivi della loro
originale funzione. Memoria e Natura, confusamente affastellati nella
macchia, ma ancora evocativi, forma quasi indistinta dell'antico porto,
e forza primigenia, accerchiata e
ridotta allo stremo nello spazio urbano, eppure ancora capace di rivivere nelle strettissime aperture che
quello distrattamente gli lascia.
Piazza d'Acqua, si diceva nel presentare la fisionomia della Nuova
Darsena, e piazza d'acqua abbiamo
avuto, ordinata, composta e fruibile,
ottimo fondale per turisti, ma, pour
cause, artificiale e come dimentica
di sé e del suo sedime ultradecennale.
La Darsena, come la ricordiamo e
come non c'è più, contraddiceva silenziosamente, con il suo tenace
sopravvivere, con la sua macchia
disordinata eppure vitale, con il suo
carattere orgogliosamente periferico, l'artificialità di uno scenario urbanizzato che non tollera eccezione, quello stesso contesto omologante che oggi incorona in Garibaldi
Porta Nuova uno pseudo campo di
grano come tributo alla memoria
contadina, in realtà arrogante affer-
9
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mazione proprietaria su di uno spazio comune.
Ora, la Darsena ritrovata “sana”
quella irriducibilità, culturale e ambientale, quella ferita, quella contraddizione a un contesto cittadino
che impone i riti del passeggio, della
visita e della movida, dove prima
s'erano riformati boscaglie, canneti,
nidi, e anche, certo, topi. Forse il
partito del germano reale qualche
ragione l'aveva, forse il tema progettuale qualche buco inesplorato l'ha
lasciato, forse rimpiangeremo perfino i topi, che non saranno le lucciole di Pasolini, ma insomma contrad-
dicono un paesaggio completamente igienizzato e antropizzato.
Darsena, ritrovata o definitivamente
perduta?
PS. invito a leggere queste righe
non come critica ad un'amministrazione che ha pur ben meritato.
A PROPOSITO DI ARCHITETTURA ACCESSIBILE ED EXPO 2015
Isabella Tiziana Steffan
Con il seminario internazionale Accessible Architecture in Expo Times,
tenutosi in lingua inglese al Politecnico di Milano lunedì 25 Maggio, il
Gruppo di Lavoro Architecture for
All dell'UIA - International Union of
Architects ha riunito nell’aula E.N.
Rogers circa ottanta persone, architetti e ingegneri, docenti e studenti,
per confrontarsi sul tema dell'Universal Design-Design for All. In occasione di Expo, l’UIA - AfA
Working Group ha tenuto la consueta riunione semestrale nella nostra
città, a meno di un mese dall'apertura ufficiale del sito espositivo e organizzato questo seminario di confronto sul Design for All/Universal
Design.
La dottoressa Isabella Menichini,
Coordinatrice del tavolo Permanente sulla Disabilità e Dirigente del
Comune di Milano, ha ricordato l'adozione della task force di cui è stato referente Franco Bomprezzi, e ha
illustrato le aree di interesse, gli obiettivi principali, la condivisione di
strategie ai vari livelli (Comune, Regione, ASL, ospedali, Università,
aziende municipalizzate) e, non da
ultimo, il sito www.expofacile.it e i
nuovi 10 itinerari accessibili in città.
Gli interventi introduttivi sono stati a
cura degli architetti Maria Fianchini,
che ha posto l’accento sull’importanza della progettazione per le
persone, Andreas Kipar, che ha introdotto il tema della progettazione
smart e sostenibile a scala urbana,
e la sottoscritta che ha illustrato il
significato del Design for All.
L’architetto Silvia Sbattella, consulente per le scelte strategiche in tema di accessibilità dell’Ateneo ha
illustrato obiettivi e strategie del
progetto di inclusione nell'area del
Politecnico: non solo accessibilità
fisica, ma anche orientamento e sostegno, pratiche burocratiche, ricerca alloggio, accompagnamento, at-
trezzature e strumenti per la trascrizione a disposizione, teledidattica,
etc. per studenti e per docenti,
nell'ottica del più vasto progetto “Città Studi Campus Sostenibile”.
La coordinatrice del gruppo Architecture for All Fionnuala Rogerson,
ha illustrato le principali attività del
gruppo, tra cui la costruzione di un
Database, e l'istituzione del premio
Friendly spaces accessible to all: la
condivisione di buone pratiche progettuali e il riconoscimento della diversità come valore, sono strumenti
utili per promuovere e diffondere un
approccio progettuale utile al reale
utilizzatore finale.
Dagli interventi degli architetti AfA
Rogerson (Irlanda), Jane Simpson
(Regno Unito), Monika Klenovec
(Austria), Hubert Froyen (Belgio) e
della scrivente, è emersa la consapevolezza che l'accessibilità, richiesta a norma di legge, è solo una
pre-condizione per poter progettare
e realizzare ambienti, prodotti e servizi che siano compatibili con le esigenze del maggior numero possibile
di persone. L'applicazione pedissequa delle normative vigenti produce
spesso effetti contrari alle aspettative: ad esempio i montascale e gli
elevatori con comandi che necessitano la presenza di un operatore, gli
ingressi secondari, i bagni dedicati a
persone disabili, non rispondono
certo a normali aspettative di autonomia e inclusione sociale.
I rappresentanti di diversi Paesi esteri del Working Group UIA – AfA
hanno espresso impressioni generalmente positive riguardo all'arrivo
in città, ai trasporti, al sito Expo visitato domenica 24 Maggio: ma per
reali soluzioni for All si può fare di
più e si può fare meglio!
La diffusione della progettazione per
Tutti, uno tra i principali obiettivi
dell’UIA - AfA WG, deve necessariamente passare dalla didattica,
dapprima come educazione civica
comune poi, nel caso di studi superiori e universitari di tipo tecnicoprogettuale, come conoscenza dei
requisiti di qualità dell'ambiente costruito e della sua forte influenza
sulla qualità della vita delle persone.
Sostenibilità è anche progettare città e spazi in un'ottica inclusiva, stimolando le diverse abilità fisiche,
percettive, culturali delle persone
per migliorarne la mobilità, senso di
appartenenza, sicurezza, salute,
benessere.
Il coautore e project leader del team
di progettazione Breathe.Austria,
architetto Markus Jeschaunig, ha
illustrato nel dettaglio il Padiglione
Austria in Expo, che riproduce un
bosco. Ai visitatori è proposta
l’esplorazione di uno spazio sorprendente che, grazie alla evapotraspirazione delle piante, a nebulizzatori e ventilatori, diminuisce la
temperatura di almeno cinque gradi
rispetto all’esterno. L'esperienza
multisensoriale e microclimatica
vuole indurre al desiderio di attuare
pratiche urbane che considerino la
necessità di sviluppare aree verdi.
L'esperienza offerta mette in gioco
vista, tatto, odorato, udito, percezione di benessere; in questo senso
possiamo definirla “for All”. Tuttavia
la presenza di piccoli dislivelli lungo
le rampe di percorrenza, generano
alcune difficoltà alle persone in carrozzina o con passeggini, e testimoniano che spesso le norme siano
facilmente mal interpretate.
Possiamo concludere affermando
che il Design for All significa a livello
internazionale non creare barriere,
non eliminare barriere a posteriori,
ma cercare di capire diverse esigenze, approfondire, offrire diverse
modalità di uso dello spazio, produrre ambienti vivibili per tutti, piacevoli
e coinvolgenti.
VIA SARPI E I PORTALI DI CHINATOWN
Pier Franco Lionetto*
È in corso da mesi un dibattito, innescato nel DUC (Distretto Urbano
n. 22 VII - 10 giugno 2015
del Commercio) Sarpi, proseguito in
Consiglio di Zona 1 con un passag-
gio anche in commissione consiliare
al commercio, in merito alla propo-
10
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sta di installare durante il periodo
Expo due portali tipicamente cinesi
alle due estremità della via Sarpi. La
proposta, portata avanti da quei
commercianti cinesi (UNIIC - Unione Imprenditori Italiani in Cina) che
con la loro invasiva attività commerciale all'ingrosso hanno trasformato
il quartiere in una piattaforma logistica per il commercio all'ingrosso, è
stata motivata come uno strumento
di marketing commerciale che, caratterizzando il quartiere come quartiere cinese, dovrebbe convogliare
nel quartiere molti turisti - in particolare ricchi cinesi - con allettanti vantaggi per la filiera commerciale della
via Paolo Sarpi.
«Soluzione temporanea per i soli
mesi dell'Expo, ma se poi i portali
piacciono, perché non lasciarli definitivamente, così come lo sono in
altre Chinatown nel mondo?» Motivazioni che non hanno trovato consenzienti né i commercianti al dettaglio della via Sarpi (che teoricamente dovrebbero essere i maggiori
beneficiari di questa “opportunità
commerciale”) né la maggior parte
degli abitanti del quartiere che contro questa ipotesi si sono attivati da
subito con una raccolta di firme indirizzata al sindaco Pisapia. La proposta per contro ha trovato favorevoli l'Assessore al Commercio e il
CdZ 1 il quale ha votato una funambolica delibera che, per mediare fra
le varie “ragioni di contrasto”, propone, in un linguaggio non politichese, portali mobili smontabili a
piacimento in concomitanza con eventi specifici.
La storia dei portali ha avuto risvolti
paradossali: «Discussioni sul nulla»
- l'Assessore al commercio dixit «non c'è alcuna richiesta concreta
d'installazione dei portali, ma solo
preannunciata dal consolato cinese» (sappiamo quanto il consolato
cinese abbia influenza su questa
giunta: ricordate il caso del Dalai
Lama?) e intanto faceva fare la verifica tecnico-amministrativa agli altri
assessori competenti. Velate accuse di razzismo («gli unici coerenti
sono i leghisti, che razzisti erano e
razzisti restano», ancora l'Assessore), per finire poi con un colpo a
sorpresa: mentre il CdZ si apprestava il 27 maggio a bocciare l'idea dei
portali in mancanza di una richiesta
formale ecco che come per magia si
materializza un progetto di portale
che, in barba a quanto raccomandato dallo stesso CdZ, non ha nulla di
mobile e di facilmente smontabile!
Ecco in sintesi le motivazioni che
portano a contrastare l'installazione
dei portali:
* rappresentano un segno di chiusura in quanto delimitano un “territorio”
in contrasto con la peculiarità di Milano città aperta al mondo, capace
di includere senza creare comunità
chiuse;
* sono un retaggio del passato, portali fuori tempo: è anacronistico installare oggi nuove porte in un'epoca che vede immigrati dal mondo
intero come parti integranti della realtà italiana e milanese in particolare, quasi porre le basi per quartieri
“monoetnici”;
* caratterizzano inesorabilmente il
quartiere come un “quartiere cinese”
(quando solo il 10% di coloro che
vivono in zona appartiene alla comunità cinese), creano muri che
non facilitano l'integrazione fra culture differenti, diventano strumento
di divisione non di coesione sociale.
Il quartiere invece si è caratterizzato
da sempre come un insieme di diversità, un quartiere multiculturale
capace di includere cittadini da ogni
parte del mondo; ma è anche il
quartiere che in questi ultimi quindici
anni ha visto trasformare radicalmente il suo tessuto socioeconomico per la massiccia presenza dell'attività commerciale all'ingrosso che, svolta senza regole, ha
inciso pesantemente sulla vivibilità
dello stesso e ha compromesso la
qualità della vita dei residenti.
È molto importante tenere presente
questo contesto che fa sì che
l’installazione dei portali risulti agli
occhi degli abitanti un riconoscimento da parte della pubblica amministrazione della presenza definitiva
nel quartiere dell'attività all'ingrosso
anche se in conflitto con il PGT,
quasi un “premio” ai grossisti cinesi
per tutto quello che di irregolare e
illegale si è mosso e si muove attorno a questo mondo.
Si acuisce così fra la popolazione
l'amarezza per tante aspettative deluse (in tanti ricordano le affermazioni del Sindaco Pisapia del dicembre 2011: ”restituiremo la zona
Sarpi alla città e ai suoi abitanti”);
aumenta la rassegnazione che cela
però malumore e rancore in chi si
sente lasciato solo a risolvere i problemi nella loro quotidianità. Rancore verso l'amministrazione, rancore
verso l'immigrato, rancore che lavora nel profondo di ciascuno. Grave
se l’amministrazione comunale, anziché prevenire il nascere di situazioni che rendono poi più difficile
creare vera integrazione, si attivasse per accentuare i contrasti solo
per favorire un'operazione commerciale a beneficio di una sola e unica
filiera, come ci conferma chi studia
da vicino tutte le realtà delle
“Chinatown” in giro per il mondo.
Anche la critica ricorrente sul “provincialismo” del “No ai portali” è fuori luogo: la storia di Milano, la sua
capacità di accogliere cittadini del
mondo, la sua apertura verso il
nuovo mal si concilia con porte, portali o muri che delimitano e non uniscono. Se pensiamo alla New York
multiculturale, cui Milano spesso
guarda come modello, proprio da
New York ci viene un esempio molto istruttivo: nessun portale è presente a delimitare l'importante e storica comunità cinese ivi insediata.
*Presidente Associazione Vivisarpi
Scrive Gregorio Praderio a proposito dello scandalo Trenord e whistleblower
Giustamente Salvatore Bragantini
biasima i mancati controlli e i silenzi
sull'operato dei vertici delle FNM.
Chi doveva vigilare non l'ha fatto,
male, malissimo. Ho qualche perplessità invece sulla valutazione
della figura dei "whistleblower", che
sono appunto i delatori, gli informatori, quelli che fanno la soffiata (e
n. 22 VII - 10 giugno 2015
non gli arbitri, non avendone il ruolo). Ora, sappiamo bene che non
tutti i delatori sono animati da buone
intenzioni, anzi. Accanto agli amanti
del diritto, ci sono anche i calunniatori, gli arrabbiati con il mondo e
quelli che semplicemente si vogliono vendicare del capo che non gli
ha dato le ferie.
Far girare voci infondate su presunte malversazioni è insomma facilissimo (specie in un sistema normativo come il nostro, dove il confine fra
lecito e illecito è spesso questione
di sfumature) e i danni morali e materiali che si possono generare con
indagini che magari durano anni sono davvero molto ingenti (e difficil-
11
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mente il delatore, a meno di evidente malafede, viene condannato: sì,
perché i magistrati sanno bene che
questa è per loro spesso l'unica
maniera di venire a conoscere come
vanno le cose, e stanno bene attenti
a non bruciare i possibili "soffiatori").
Dunque, doppia responsabilità degli
organi di controllo che non funzionano: sia perché permettono comportamenti illeciti; sia perché inco-
raggiano e consolidano la delazione, che dovrebbe essere proprio
l'extrema ratio per una società. Fortunati i paesi che non hanno bisogno di whistleblower, verrebbe da
dire.
Scrive Michele Palma a proposito dello scandalo Trenord
Bravo Bragantini!
Come mai
l’articolo non lo ha inviato ai maggiori quotidiani? o lo ha fatto senza
avere ospitalità? Comunque grazie
per la lucidità della denuncia
Scrive Francesco Vescovi a proposito di Rai e cluster media a Milano
Scrivo a proposito dell'articolo di
Marco Gambaro. È il secondo anno
che con i miei studenti del laboratorio di Urbanistica al Politecnico esploriamo l'ipotesi di creare un cluster di aziende del settore Media
(sull'esempio di casi analoghi a Barcellona e Manchester) a Rogoredo.
Qui come noto esiste infatti già la
sede di SKY ed è infatti una zona
dotata di un'accessibilità unica, con
il naso rivolto a Roma (stazione della TAV).
Sarebbe anche una buona opportunità per ridare centralità a una sfortunata periferia (vedi vicenda Santa
Giulia e l'area di Porto di Mare) che
ha però grandissimi potenziali (sistema dei trasporti e aree a disposizione) e risorse, come per esempio
anche la ATU (area di trasformazione urbana) verso il Parco Agricolo
Sud e Chiaravalle: sicuramente la
sede ideale per il CERBA e altri
funzioni di scala metropolitana.
Si tratterebbe finalmente di creare
quella strategia economica e di disegno urbano che, per una assurda
scelta degli amministratori, manca
totalmente nel PGT milanese.
MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Musica fuori porta
Andare a sentir musica “fuori porta”
è un piacere del tutto particolare.
Probabilmente perché frequentare
solo la Scala, l’Auditorium e il Conservatorio – si aggiungano anche il
Dal Verme e la Palazzina Liberty –
finisce a lungo andare per essere
riduttivo.
Fatto sta che dopo i deliziosi concerti ascoltati la settimana scorsa a
Mantova e a Cremona, di cui ho riferito in questa rubrica, mi è capitato
di continuare sulla stessa strada
con una vera chicca, questa volta
piacentina. Esiste infatti a Piacenza,
in un angolo fra due viuzze del centro storico, un delizioso piccolo oratorio settecentesco detto di San Cristoforo - che pare sia stato ispirato
dallo stesso Bibbiena autore del famoso teatro mantovano - in cui si
tiene un festival annuale di musica
da camera conclusosi domenica
scorsa con un concerto in miniatura
(i posti a sedere saranno si e no
una cinquantina!) di qualità sopraffina.
Una soprano anglo-italiana con una
voce meravigliosamente educata al
genere liederistico, ha eseguito sedici gioielli di Schubert da lei scelti
con gran cura affinché costituissero
un insieme compatto e appropriato
n. 22 VII - 10 giugno 2015
per trascinare l’ascoltatore nel mondo fiabesco e incantato dei sogni e
degli idilli agropastorali di quella tradizione. La bravissima - e per
l’occasione dolcissima - Lorna Windsor, che insegna canto al Conservatorio milanese ed è molto attiva
anche nella musica contemporanea,
era accompagnata dal collega Ruggero Laganà - docente di armonia e
di tastiere storiche, di cui ho già avuto modo di riferire per la sua specialità di comporre fughe sui temi
più disparati - che ai Lieder ha alternato i Moments musicaux suonando un fortepiano viennese gran
coda costruito negli stessi anni in
cui Schubert scriveva quelle musiche.
Il fortepiano, grazie all’uso dei suoi
cinque pedali, aveva la possibilità di
introdurre suoni di campanelli, colpi
di tamburo, echi di strumenti a fiato
(in particolare un fagotto dalla voce
vellutata) e “turcherie” varie, tipiche
di quella Vienna che oggi definiremmo una “città da bere” e che allora era la capitale di un grande impero; Schubert aveva diciotto anni e
aveva già composto un gran quantità di musica quando, durante
l’inverno 1814/1815, i capi di stato
di tutta Europa per oltre sette mesi
frequentarono la città - riunendosi
nel castello di Schönbrunn - per ridisegnare la carta del continente e
“restaurarvi” una politica “realistica”
dopo gli sconvolgimenti della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.
La infinita dolcezza della musica di
Schubert, le reminiscenze storiche,
l’architettura barocca, il ricco ciclo di
affreschi con i fantastici trompe-l’oeil
della cupola, la voce dello strumento mescolata a quella della soprano
hanno creato un’atmosfera magica.
Una gioia dello spirito.
***
Durante la scorsa settimana a Milano - che pur non avendo nulla a
spartire con la Vienna del primo ottocento
sta
vivendo,
grazie
fors’anche all’Expo, un momento di
splendore - vi sono stati due eventi
che meritano di essere raccontati.
Il primo, che si è svolto nella aristocratica cornice di villa Necchi Campiglio, è stata la presentazione della
prossima stagione della Società del
Quartetto interamente progettata da
Paolo Arcà che, felicemente concluso il lavoro al Regio di Parma, da un
anno ormai si dedica interamente
alla non meno aristocratica istituzione musicale milanese; il programma
12
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2015/2016, che segue l’anno del
centocinquantenario, restituisce al
Quartetto quel ruolo di protagonista
assoluto della musica da camera a
Milano che negli ultimi tempi, dopo
l’exploit del ciclo completo delle
Cantate Bach svoltosi fra il 1994 e i
primi anni duemila, era sembrato
leggermente appannato. Un programma dosato con grande intelligenza che prevede sette recital di
pianoforte (Michail Pletnev, Maria
João Pires con Lilit Grigoryan, Murray Perahia, Krystian Zimerman,
Andras Schiff, la mitica Mitsuko Uchida e il milanese Davide Cabassi),
nove concerti di famosi ensemble
(fra cui il duo Brunello-Lucchesini, il
Quartetto
di
Cremona,
l’MDI
Ensemble, il Quartetto Haas, il duo
Shiokawa-Schiff, il Quartetto Apollon Musagète) e poi ancora Ton
Koopman con Klaus Mertens, Ian
Bostridge con Julius Drake e complessi come L’Orfeo Barockorchester, Gli Angeli Genève, L’Orchestre
des Champs-Élysées con il Collegium Vocale Gent, per un totale di
ventidue concerti distribuiti nei martedì fra ottobre e maggio.
***
Il secondo evento è la scoperta di
un nuovo “luogo di musica” che laVerdi - o meglio quello straordinario
suo patron che è Luigi Corbani, uno
che “una ne pensa e cento ne fa” ha aperto non lontano dalla sede
dell’Auditorium e cioè nella piazza
Tito Lucrezio Caro al numero 1, dove fino a poco tempo fa c’era FORMA: uno spazio molto elegante e
attraente, con sala da concerto (bisognerà migliorarne l’acustica), bar,
caffetteria, biblioteca, tutto ciò che
serve a trascorrere piacevolissime
matinée (la domenica, con brunch),
pomeriggi (il martedì, con aperitivo)
e serate (il venerdì con cena) con
suggestiva vista sul vecchio deposito dei tram.
In questa sede, che prende il nome
di “M.A.C., Musica, Arte, Cultura”,
laVerdi ha in programma di sviluppare una stagione di musica da camera per integrare quella sinfonica
di Largo Mahler, ma anche con lo
scopo non secondario di valorizzare
i propri musicisti e la grande esperienza e competenza che essi maturano in orchestra. Il primo troncone
di questo programma si è concluso
domenica mattina con un bel concerto dedicato a Händel, Bach e Zelenka (un musicista assai celebre
all’epoca, di solo sei anni più vecchio dei primi due) eseguito da un
ensemble di due oboi (Luca Stocco
e Paolino Tona), un fagotto (Giacomo Cella), un violino (Giorgia Righetti), un clavicembalo (Davide
Pozzi) e un contrabbasso (Michele
Sciandra); la stagione riprenderà
domenica 20 settembre con tre Sonate per violino (Fulvio Luciani) e
pianoforte (Massimiliano Motterle)
rispettivamente
di
Beethoven,
Schumann e Janàček. Tutte buone
notizie.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Wave: Milano riscopre l’ingegnosità collettiva
Quando si parla di mostra
l’immaginario collettivo associa la
parola a quadri, sculture, immagini o
prodotti, trascurando spesso che si
possano
esporre
e
mettere
all’attenzione dei visitatori anche
idee e buone pratiche. WAVE - Come l’ingegnosità collettiva sta cambiando il mondo è l’esposizione voluta da BNP Paribas che si basa sul
principio per cui l’ingegnosità collettiva sia da sempre il principale motore dell’evoluzione umana, e che
negli ultimi anni alcune tra le correnti più interessanti dell’economia
stiano servendosi dell’ingegnosità
collettiva per rendere il mondo un
posto migliore.
L’ingegnosità collettiva è parte di un
fondamentale cambiamento di mentalità: passare dal pensiero individuale a quello collettivo e allo stesso tempo riconoscere che tutti siamo destinati a entrare in relazione
gli uni con gli altri. In un sistema che
è sempre più connesso e interdi-
pendente, interessi personali e interessi collettivi convergono: il benessere di ogni persona dipende da
quello di tutti gli altri.
Dopo essere stata a Parigi, Marsiglia, Lille, WAVE approda a Milano
(dal 4 giugno al 3 luglio 2015), prima di raggiungere Dakar, Mumbai e
Hong Kong. La mostra racconta le
storie di alcuni innovatori, che hanno saputo interpretare le correnti più
interessanti dell’economia contemporanea: co-creazione, condivisione, inclusione, circolarità, movimento dei maker. Immagini, testi, video
raccontano esempi virtuosi del passaggio dal pensiero individuale a
quello collettivo: la homepage di ipaidabribe.com mostra una mappa
dell'India, aggiornata in base ad anonime segnalazioni di corruzione;
la storia di Salvatore Iaconesi, il
quale dopo aver scoperto di avere
un tumore al cervello, hackerò il sistema ospedaliero e caricò i propri
dati su internet invitando tutti ad a-
nalizzare il suo caso; o ancora: Protei, un drone capace di risucchiare
due tonnellate di petrolio e altre inquinanti, Blablacar, il sistema di
carpooling o Beacon Food Forest,
che è molto più di un orto collettivo.
“L’onda di cui racconta WAVE è
molto più articolata di quanto non
appaia a coloro che considerano
l’economia campo esclusivo degli
economisti, e l’ingegnosità dominio
privato di pochi talentuosi creativi.
Al contrario, Wave Milano indica la
forza che l’ingegnosità collettiva può
generare, e il promettente valore
economico che si ottiene non appena si offre alle persone l’opportunità
d’ingegnarsi.” Leonardo Previ, Presidente di Trivioquadrivio e curatore
di Wave Milano.
Wave Milano Galleria San Fedele.
Piazza San Fedele fino al 3 luglio
2015 Orario: da lunedì a venerdì 7 –
19 Ingresso gratuito
L'Italia nelle foto dei maestri
Dal 21 marzo al 27 settembre 2015,
Palazzo della Ragione ospita Italia
Inside Out, la grande mostra di fotografia interamente dedicata all’Italia con più di 500 immagini dei più
n. 22 VII - 10 giugno 2015
importanti fotografi del mondo.
Un’unica iniziativa articolata in due
successivi allestimenti, dal 21 marzo al 21 giugno con i fotografi italiani e dal 1° luglio al 27 settembre con
i fotografi del mondo, che raccontano a chi li visita le trasformazioni e
le emozioni di un’Italia che cambia
dal secondo dopoguerra fino ai
giorni nostri. E il cambiamento si
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percepisce in ogni cosa: nelle tecniche, nell’uso del bianconero e del
colore, nei ritratti e nelle storie dei
protagonisti ritratti.
Promossa e prodotta dal Comune di
Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm
Giunti, curata da Giovanna Calvenzi; l’allestimento si deve a un progetto scenografico di Peter Bottazzi
dove ogni autore è una carrozza di
un immaginario treno che porta il
visitatore alla scoperta del Bel Paese.
Il viaggio inizia da Milano con le
immagini storiche di Paolo Monti e
qui si conclude con le vedute della
nuova Milano di Vincenzo Castella;
su ciascuna carrozza si scopre
un’Italia differente per geografia
(dalla Venezia degli anni cinquanta
di Berengo Gardin alla Palermo della Battaglia, passando per il delta
del Po di Pietro Donzelli); per epo-
che (la Sardegna dei primi anni ’60
di Franco Pinna, gli estemporanei
anni ’80 della Via Emilia di Luigi
Ghirri, ma anche il terremoto
dell’Aquila ritratto da Marta Sarlo);
per progetti (Io parto di Paola de
Pietri, Gli ultimi Gattopardi di Shobha, Florence versus the World di
Riverboom).
La prima parte - INSIDE - accoglie
dal 21 marzo al 21 giugno 2015 una
selezione di oltre 250 immagini di
quarantadue fotografi. Nella seconda parte - OUT -, dal 1° luglio al 27
settembre 2015, saranno protagoniste le fotografie dei grandi maestri
internazionali, quali Henri CartierBresson, David Seymour, Alexey
Titarenko, Bernard Plossu, Isabel
Muñoz, John Davies, Abelardo Morell e altri.
Quella ospitata negli spazi del Palazzo della Ragione è una mostra
davvero ricca, piena di punti vista e
sguardi, quasi troppo: al punto che il
visitatore talvolta si smarrisce, vista
l’assenza di un percorso definito,
rischiando di non vedere alcuni degli autori. L’allestimento, poi, pare
incompleto (o la scelta molto curiosa) laddove solo alcuni pannelli con
le fotografie hanno le didascalie
mentre altri no. E va aggiunto che al
terzo giorno dall’apertura le audioguide sono ancora non pervenute,
causa corriere. Si perdona tutto davanti alla bellezza di questa italianità per immagini?
Italia Inside Out - I fotografi italiani fino al 21 giugno 2015 Palazzo
della Ragione Fotografia Milano,
Piazza Mercanti, 1 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 –
20.30/ Giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietto €12/10/6 Congiunto
€18/16/9
Il principe dei sogni
Defilata rispetto alla grande retrospettiva dedicata a Leonardo e meno “milanese” rispetto alla mostra
dedicata all’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, nella Sala delle
Cariatidi al Palazzo Reale di Milano
è racchiusa una mostra gioiello:
quella da titolo “Il Principe dei sogni.
Giuseppe negli arazzi medicei di
Pontormo e Bronzino”. Nella grande
sala monumentale sono radunati,
dopo centocinquanta anni, i 20 arazzi cinquecenteschi commissionati da Cosimo de' Medici per raccontare la storia del personaggio biblico
di Giuseppe, le cui vicende sono
narrate nella Genesi.
L’esposizione è curata da Louis
Godart e riunisce l'intero ciclo di arazzi che i Savoia avevano diviso
nel 1882 tra Firenze e il Palazzo del
Quirinale; grazie all’impegno della
Presidenza della Repubblica Italiana e del Comune di Firenze, i grandi
panneggi tornano a essere esposti
insieme in una mostra unica. Dopo
la tappa di Roma, nel Salone dei
Corazzieri del Palazzo del Quirinale,
sono a Milano e successivamente a
Firenze nella Sala dei Duecento di
Palazzo Vecchio dal 15 settembre
2015 fino al 15 febbraio 2016.
Nella grande sala decorata gli imponenti arazzi riempiono le pareti e
nella semioscurità i colori dei tessuti
risplendono. Questa serie di panni
monumentali, oggetto di un complesso e pluridecennale restauro
presso l’Opificio delle Pietre Dure di
Firenze e il Laboratorio Arazzi del
Quirinale, rappresenta una delle più
alte testimonianze dell’artigianato e
dell’arte rinascimentale. Gli arazzi
con le Storie di Giuseppe vennero
commissionati da Cosimo I de’ Medici tra il 1545 e il 1553 per la Sala
dei Duecento di Palazzo Vecchio a
Firenze. I disegni preparatori furono
affidati ai maggiori artisti del tempo,
primo fra tutti il Pontormo. Ma le
prove predisposte da quest’ultimo
non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo del Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte
dell’impianto narrativo della serie.
Tessuti alla metà del XVI secolo
nella manifattura granducale, tra le
prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi
Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati.
Un'occasione per immergersi nella
bellezza, intensa e rara, di opere
che oltre che di arte parlano anche
di maestria artigiana e soprattutto
della storia d'Italia, attraverso la vicenda esemplare di Giuseppe, degli
artisti che lo hanno immaginato e
dei committenti che hanno finanziato il lavoro.
Audioguide e didascalie guidano il
visitatore in un percorso alla scoperta della bellezza e della maestria
artigiana del cinquecento fiorentino,
senza perdersi in dettagli specialistici o ad appannaggio esclusivo
degli addetti ai lavori.
Il principe dei sogni Giuseppe
negli arazzi medicei di Pontormo
e Bronzino fino al 23.08.15 Palazzo
Reale Lunedì 14.30 -19.30 Martedì
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 Giovedì e sabato 9.30 –
22.30
La Fondazione Prada e la rigenerazione culturale di Milano
Il 9 maggio il sempre più vasto mosaico culturale di Milano si è arricchito di un importantissimo e preziosissimo tassello: la Fondazione
Prada. La celebre stilista Miuccia
Prada e il marito Patrizio Bertelli
hanno regalato al capoluogo lombardo uno dei più interessanti interventi culturali visti in Italia in materia
di arte, ma anche di architettura e,
n. 22 VII - 10 giugno 2015
soprattutto, di rigenerazione urbana.
Le vecchie distillerie di inizio Novecento sono state restaurate, ristrutturate, trasformate e integrate per
offrire ai visitatori una superficie di
19.000 mq dove trovano posto non
soltanto spazi espositivi per le varie
mostre temporanee, ma anche un
cinema, un’area didattica dedicata
ai bambini, una biblioteca e il Bar
Luce concepito dal regista Wes Anderson che si ispira ai celebri caffè
meneghini e già diventato “cult” nel
giro di pochi giorni.
La molteplicità e la versatilità degli
spazi della Fondazione consentono
un’offerta culturale estremamente
variegata. Sono attualmente aperte
al pubblico le mostre “An Introduction”, nata da un dialogo fra Miuccia
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Prada e Germano Celant, “In Part” a
cura di Nicholas Cullinan e le installazioni permanenti di Robert Gober
e di Louise Bourgeois presso la
“Haunted House”, una struttura preesistente che, rivestita di uno strato
di foglia d’oro, acquista un’aura altamente immaginifica e imprime un
segno forte ed evidente nel paesaggio urbano di Milano. Ma è
“Serial Classic” la mostra più sorprendente: Miuccia Prada abbandona momentaneamente la passione
per il contemporaneo per rivolgersi
al passato, all’arte antica dove sono
scolpite le origini della nostra cultura. Salvatore Settis e Anna Anguissola curano magistralmente una
mostra che presenta l’ambiguo rap-
porto fra l’originale e la copia
nell’arte greca e romana.
Un allestimento geniale presenta
più di sessanta opere che dialogano
fra di loro e con lo spazio esterno
circostante attraverso ampie vetrate. Il modello perduto, giustamente
sfocato, giunge ai nostri giorni attraverso le innumerevoli imitazioni,
emulazioni o interpretazioni commissionate dalla ricca aristocrazia
romana. Ed ecco che il solido blocco di marmo prende vita e si circonda di un’aura di sacralità ancora oggi percettibile. Gli spazi rivisti da
Rem Koolhaas e dal suo studio
OMA consentono a una vecchia
fabbrica di trovare nuova vita in un
tempio che ospita personaggi della
mitologia, guerrieri e divinità quali
Venere e Apollo con opere provenienti dai più importanti musei del
mondo, dai Vaticani al Louvre. La
Fondazione Prada diventa oggi il
modello di quella inevitabile e illuminata collaborazione che deve esserci fra pubblico e privato per il beneficio dei cittadini milanesi, italiani
e di tutti i visitatori stranieri che iniziano a intravedere nel laboratorio
creativo di Milano la nuova Capitale
Europea.
Giordano Conticelli
Fondazione Prada - Largo Isarco 2
Milano (M3 Lodi T.I.B.B.) orari: tutti i
giorni h10-21 biglietti: 10€ ridotto 8€
gratuito minori 18 anni e maggiori di
65
Parigi è a Milano grazie agli scatti di Brassaï
In tempo di Expo Palazzo Morando
porta Brassaï a Milano: dal 20 marzo al 28 giugno 2015 sono esposte
al piano terra del palazzo di via S.
Andrea 260 immagini di una Parigi
onirica e poetica attraverso lo
sguardo innamorato dell’artista ungherese che fece sua la capitale
francese.
Nato nel 1899 a Brasso (l’attuale
Braşov) in Transilvania, Gyula Halász - che prenderà il nome di Brassaï quando inizierà a fotografare,
nel 1929 - arriva la prima volta a Parigi a soli 4 anni, con il padre, professore di letteratura che vi trascorre un anno sabbatico. I ricordi di
quegli anni, come "petites madeleines" di proustiana memoria, rimarranno in lui riaffiorando talvolta e
lasciandogli perennemente dentro
uno sguardo incantato nei confronti
della città.
Le prime tre sale portano il visitatore
in una Parigi dolce, malinconica:
dove i bambini dai calzini bianchi giocano con le barchette al Jardin du Luxembourg o i leoni di pietra
hanno criniere di neve nel parco
delle Tuileries. La Tour Eiffel luccica
nella notte e a Longchamp si pesano i cavalli da corsa. Passano gli
anni e lo sguardo muta, giunge il
disincanto ma rimane l’accuratezza
e le assenza di giudizio nel raccontare la notte e i suoi protagonisti.
Brassaï inizia a inseguire, nella luce
notturna della città, una Parigi insolita, sconosciuta e finora non degna
di attenzione. Durante le sue lunghe
passeggiate che lo portano solo o in
compagnia di Henry Miller, Blaise
Cendrars e Jacques Prévert, complici nell’alimentare le sue curiosità,
rende visibili le prostitute dei quartieri “caldi” o i lavoratori della notte
alle Halles, o ancora i quarti di animali appesi dai macellai.
Brassaï in quegli anni ricerca gli oggetti più ordinari e ne trasforma il
significato, osa giustapposizioni insolite e defamiliarizza la percezione,
togliendo il reale dal suo contesto. Il
suo pensiero si concentra nel trasformare il reale in decoro irreale, è
a partire dal 1929 che nascerà la
sua ostinata ricerca dei graffiti.
Circo, nudi femminili, ancora Parigi,
Picasso e molti altri artisti sono i
soggetti degli scatti del grande fotografo (ma anche scrittore e cineasta) che testimoniano il tanto profondo quanto fecondo rapporto che
per oltre cinquanta anni lo ha legato
alla Ville lumière, fino alla sua
scomparsa nel 1984.
Brassaï. Pour l’amour de Paris
fino al 28 giugno 2015 Palazzo Morando | Costume Moda Immagine
via Sant’Andrea 6, piano terra, spazi
espositivi, mart. – dom., ore 10 - 19
Biglietteria € 10,00 / 8,50 / 5,00
L’Africa si mostra a Milano
L’Africa approda a Milano con una
mostra allestita nel nuovo Mudec, il
Museo delle Culture che ha finalmente aperto i suoi battenti dopo 12
anni di agognati lavori. Il capoluogo
lombardo, a breve al centro del
mondo come sede dell’Esposizione
Universale, afferma la propria identità di città multietnica, bacino delle
tante culture che negli ultimi decenni si sono andate a integrare
nell’antico e complesso tessuto urbano di Milano. “Africa. Terra degli
spiriti” è un interessante progetto
espositivo che raccoglie circa 270
manufatti e che da il via alla vivace
stagione culturale milanese organizzata durante i mesi di EXPO
2015.
n. 22 VII - 10 giugno 2015
La mostra si articola in vari ambienti
presentando le affascinanti sfaccettature della cultura subsahariana
dalle figure reliquiario alle armi, dagli altari vudu alle celeberrime maschere utilizzate durante le danze e
le cerimonie religiose. Sorprendenti
risultano essere alcuni manufatti
come cucchiai e olifanti realizzati
interamente in avorio ed eseguiti
con un altissimo e raffinatissimo livello qualitativo. Interessante è anche il progetto d’allestimento che
tenta di creare un’atmosfera intima
e infondere un profondo senso religioso nel visitatore. Convincente è
la soluzione adottata nella prima
sala dove sono esposte figure custodite all’interno di teche cilindriche
sorrette da una struttura che vuole
forse richiamare le affascinanti e
impenetrabili foreste di questo continente. Da notare anche l’utilizzo di
alcuni effetti sonori come il frinire
dei grilli o il penetrante ritmo delle
percussioni, espedienti che aiutano
il visitatore a immergersi nella ancestrale cultura africana. Unica interazione tra opere esposte e pubblico è
la possibilità che ha quest’ultimo di
far rivivere le divinità di un altare
vudu. Come suggerisce Claudia Zevi attraverso l’audio guida distribuita
gratuitamente, il visitatore è invitato
a lasciare un oggetto personale in
segno di devozione per manufatti
che riescono ancora oggi a serbare
in sé un elevato valore sacrale.
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La fretta di inaugurare ha, però, determinato la presenza di alcuni errori, minimi dettagli a cui bisognerebbe prestare sempre la massima attenzione. Grazie a una buona e
suggestiva illuminazione, i singoli
reperti sono facilmente fruibili nonostante la presenza, in alcuni casi, di
polvere e di impronte lasciate sulla
superficie delle teche. Di difficile lettura risultano essere, inoltre, alcuni
pannelli, ora velati da un sottile tes-
suto reticolato, ora posti in una zona
d’ombra, lontano del cono di luce.
Alcune didascalie sono poste al livello della superficie di calpestio,
elemento che porta il visitatore a
doversi sforzare per leggerle. Tutti
questi aspetti di disturbo non vanno,
comunque, a intaccare una mostra
che nel complesso risulta essere un
ottimo progetto curatoriale, di enorme interesse per Milano che si conferma città internazionale e che si
affaccia con prepotenza sulla società globale contemporanea.
Giordano Conticelli
Africa - la terra degli spiriti fino al
30 agosto 2015 MUDEC Museo delle culture via Tortona 56 Milano orari lunedì 14.30-19.30 martedì/mercoledì/venerdì /domenica 9.3019.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 biglietti 15/13 euro
Food. Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto,
non è solo una mostra dedicata
all’alimentazione: è un percorso di
avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è
seme fino alle reazioni chimiche che
sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su
provenienza
storico-geografica,
suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno
2015 e allestita nelle sale del Museo
di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal
Comune di Milano sul tema di Expo
2015. “Nutrire il Pianeta, Energia
per la Vita” e costituisce una delle
più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della
prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e fami-
glie con caratteristiche, provenienza
e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni
casi per la prima volta, esemplari
che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e
l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non
avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è
facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo
della mostra è infatti la capacità di
rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato,
senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo
da tempo, ma che alla base di tante
ricette vi siano principi di chimica e
fisica passa spesso inosservato: la
terza sezione della mostra illustra
come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un
metabolismo più veloce delle cipolle
e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di
plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa
fare se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è
come sembra: vista, olfatto e tatto
anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di
allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se non
altro per cominciare ad affacciarsi
nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015.
Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì
09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì,
Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 –
19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
Giovanni F. Bignami e Andrea Sommariva
Oro dagli asteroidi e asparagi da marte
Mondadori Università, Milano, 2015
pp. 170, euro 16,00
Non è solo un sogno. È un’idea, di
quelle buone, che hanno la capacità
di cambiare il mondo. Per troppo
tempo siamo rimasti nella culla e
non abbiamo visto quante opportunità ci sono fuori. “La Terra è la culla dell’uomo, ma non si può sempre
vivere nella culla”. Così diceva Kostantin Ziolkovski, che divenne il visionario padre dell’astronautica
mondiale. Qui però non ci sono visioni, ma fatti. A raccontarci cosa
c’è fuori dalla culla è Giovanni Bignami, presidente dell’INAF e acca-
n. 22 VII - 10 giugno 2015
demico dei Lincei, che ancora una
volta, grazie alla sua lungimiranza,
anticipa gli eventi.
Il saggio, scritto a quattro mani con
un economista internazionale, Andrea Sommariva, mira a stuzzicare
non solo le menti dei capi di Stato,
ma anche quelle di grossi imprenditori del settore privato. Il business è
negli asteroidi, quelli più vicino a
noi, e con le caratteristiche che ci
interessano. Negli ultimi anni infatti
la corsa all'oro, ma anche ad altri
elementi chimici preziosissimi, come
il rodio, il palladio, l’iridio e altri ancora, sta spostandosi al di fuori della Terra. Non a caso la Nasa sta
studiando un programma (Asteroid
Redirect Mission) che ha lo scopo di
identificare, catturare e trasportare
un asteroide in un’orbita stabile vicino alla Luna e infine sfruttarne le
risorse minerarie.
Al momento, la composizione chimica degli asteroidi è stata stimata
attraverso analisi spettroscopiche e
fotometriche. Ne deriva che essi
contengono molti metalli, come
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quelli del gruppo del platino (MGP),
ma anche il cobalto, il ferro, il nickel,
l’oro e il germanio, in quantità molto
superiori a quelle del mantello terrestre. I programmi di esplorazione
degli asteroidi da parte delle agenzie spaziali aprono la porta allo
sfruttamento delle risorse naturali
nello spazio da parte del settore privato, non solo tramite lo sviluppo
delle tecnologie per il raggiungimento e il trasporto dell’asteroide, ma
per avviare un commercio fino a ora
impensabile.
Negli Stati Uniti, aziende private,
che hanno per oggetto lo sfruttamento minerario dello spazio, esistono già. Tra i principali investitori
ci sono Eric Shmidt e Charles Simonyi (Planetary Resources - Google).E questo sarà solo un inizio,
che darà un abbrivio all’economia
mondiale e italiana.
Bignami lo sa, e non si ferma. A
questo punto della storia, quando
cioè avremo la tecnologia giusta per
spingerci più in là nello spazio e le
conoscenze tecniche per affrontare i
pericoli dello spazio, il passo successivo sarà quello dell’esplorazione umana di Marte, cioè il pianeta roccioso più vicino e più simile
alla Terra. Data la sua conformazione, non è un posto adatto per una
vacanza, ma non impossibile per il
soggiorno dell’uomo.
Come ha detto l’astronauta Buzz
Aldrin, la logica dell’esplorazione di
Marte risiede nell’obiettivo di creare
un insediamento umano permanente. L’atmosfera è sottilissima e rarefatta, come essere a una quota
doppia dell’Everest, e la gravità un
terzo della Terra. In un primo tempo, potremmo creare rifugi in tunnel
di lava. Ma poi … poi architetti e ingegneri terrestri darebbero libero
sfogo a tutta la loro creatività, perché su Marte si posso costruire
grattacieli alti chilometri, giardini sospesi e le colonne del Partenone
sarebbero più slanciate.
E per i buongustai una bella notizia:
gli asparagi hanno bisogno di poca
luce, adorano le sabbie ricche di
ferro, e con la bassa gravità crescono giganti. Oltre ai ristoranti giapponesi, cinesi e indiani dovremmo iniziare a pensare a quelli marziani. Il
“risotto rosso agli asparagi marziani”
potrebbe arrivare sulle nostre tavole
in meno di dieci anni.
Cristina Bellon
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
Priscilla - il musical
Tre singolari personaggi, due drag
queen e un transessuale, tre generazioni di travestiti in viaggio nell'infinita Australia. Il 20enne in cerca di
emozioni, il 35enne in attesa di conoscere suo figlio, il 50enne in fuga
dalla morte del suo compagno. Priscilla la regina del deserto racconta
il viaggio di Bernadette, Mitzi e Felicia che decidono di portare il loro
spettacolo da Sidney nell’entroterra
australiano: i tre partono a bordo di
"Priscilla", un vecchio torpedone rosa shocking, sulle note di oltre 20
intramontabili successi come “I Will
Survive”, “I Love the Nightlife”, “Hot
Stuff”, “Go West”, “What’s love got
to do with it” e “Girls just want to have fun”, cantati dal vivo dai protagonisti.
Adattamento teatrale del film commedia, indimenticabile e premio O-
scar “Le Avventure di Priscilla, la
Regina del deserto” del 1994, lo
spettacolo “Priscilla – Il Musical”
spumeggiante e colorato, esplosione di allegria ha come cifra più sensazionale, i costumi – pregiatissimi
e molto premiati – di Tim Chappel e
Lizzy Gardiner che non pongono
limiti alla fantasia. Produzione internazionale in scena per la prima volta nel 2006 a Sidney ha conquistato
Londra, Toronto, e New York: a
Broadway s’impone come un “First
Class Musical” replicando fino a
giugno 2012. Priscilla diventa un
must anche in Italia dove spopola
per quattro mesi a Milano nel 2012
e dove torna ora al Teatro Manzoni
fino a ottobre.
Una racconto “on the road” e una
commedia di costume allo stesso
tempo, narra la storia insolita eppu-
re credibile di tre personaggi che
fanno dell'esagerazione il loro mestiere e della normalità il loro sogno
segreto. Il viaggio rappresenta una
semplice metafora: la ricerca, per
ognuno di loro, di un’identità più autentica, di un equilibrio esistenziale,
di un rispetto perduto, ciascuno, per
ragioni diverse.
I temi portanti - la ricerca dell'amore,
la transessualità, la famiglia, vissuta
da genitori o da figli, l'accettazione
di sé, l'omofobia, la vita turbolenta
dello showman, il "deserto" dell'entroterra australiano - si svelano agli
spettatori quasi in sordina, solo una
volta usciti dalla festa - spettacolo,
dopo due ore e mezza di musica
clamorosa, divertimento e meraviglia.
Giulia Mattace Raso
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
[email protected]
Sarà il mio tipo?
di Lucas Belvaux [Francia, 2014, 111']
con É. Dequenne, L. Corbery, S. Nkake, C. Talpaert, A. Coesens, D. Bisconti, D. Sandre, M. Chevalier
Clément è un giovane professore di
filosofia. Vive a Parigi, dove frequenta intellettuali e luoghi sacri
come Les Deux Magots, ha anche
pubblicato un saggio sull’amore. Per
vivere insegna e il ministero gli assegna una cattedra in provincia, ad
Arras. Nel nuovo liceo Clément si
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impegna a conquistare gli studenti,
indifferenti alla filosofia e concentra
le lezioni in pochi giorni per poi fuggire a Parigi. Ciononostante ad Arras incontra Jennifer, una bella e
vivace parrucchiera. Se ne invaghisce e la corteggia anche se: lui ama
Kant e Proust, lei Jennifer Aniston e
il gossip. Lui adora Parigi, lei la provincia. Lui ama i vernissage, lei il
karaoke. Lui le regala La Critica del
giudizio e l’Idiota di Dostoevskij, lei
lo porta nei locali dove canta.
Quando si incontrano per “contaminarsi” leggono a volte un libro di
Anna Gavalda, una scrittrice di ro17
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manzi sentimentali, a volte un romanzo di Émile Zola. Il filosofo e la
parrucchiera sembrano intendersi
soprattutto sotto le lenzuola, fuori
dalla stanza d’albergo il loro legame
è minacciato dalla differenza culturale e sociale che li separa.
Il professore trova le amiche della
parrucchiera adorabili, ma cosa
penserebbero gli amici intellettuali di
Clément di Jennifer? Sarà in grado
di passare il loro vaglio? Domande
teoriche perché il loro amore è di
scena in provincia e non contempla
mai la capitale. È un amore tregua,
che vive prima che le differenze di
classe si facciano sentire. Jennifer
che crede profondamente nell’amore, da innamorata sente il pericolo.
E poi Clément non è stato del tutto
sincero, per esempio non le ha svelato di aver scritto un saggio
sull’impossibilità di amare. Lei, che
ha preso a frequentare le librerie,
però lo scopre. Come si può amare
uno che teorizza l’amore cinico?
Jennifer, abilmente interpretata da
Emilie Dequenne, la Rosetta dei fratelli Dardenne, è una semplice parrucchiera ma non è né debole, vive
sola con un figlio, né priva di autostima. Sa che deve proteggersi dalle conseguenze negative di una relazione intrigante ma non sana. La
sera con le amiche canta e si strugge interpretando I will survive di
Gloria Gaynor. Nonostante il prezzo
da pagare sia alto, decide da sola il
finale della sua storia d’amore.
Quanto al filosofo chissà, ingannato
e stupito forse se ne farà una ragione ricorrendo a un giudizio sintetico
a posteriori.
Dorothy Parker
dal 12 al 18 giugno ci saranno a Milano "Le vie del cinema: Cannes e
dintorni"
http://bit.ly/1HiHgm9
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
UNO SPINOSAURO A MILANO. RIAPRE PALAZZO DUGNANI
http://blog.urbanfile.org/2015/06/05/zona-porta-nuova-un-dinosauro-nel-parco/
MILANO È. 10 CLIP PER 10 STORIE
LO SCULTORE E ARTISTA KENGIRO AZUMA
https://youtu.be/U0aog8pyrtk
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