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Collana
La Città delle idee
Diretta da
MARIO CALIGIURI
Comitato Scientifico
ANTONIO BALDASSARRE
GIORDANO BRUNO GUERRI
FLORINDO RUBBETTINO
MARCELLO VENEZIANI
Moisè Asta
Sermòne e Poesia
(così Soveria Mannelli racconta se stessa...)
prefazione di Vincenzo De Virgilio
introduzione di Gino Grandinetti
testimonianza di Jim Mazzo
cittàcalabriaedizioni
Volume pubblicato con il contributo del cittadino di origine soveritana Jim Mazzo,
Presidente della Multinazionale Advanced Medical Optics,
che dal giugno 2003 è stato nominato “Ambasciatore di Soveria Mannelli” nel mondo
© 2004 cittàcalabriaedizioni, gruppo Rubbettino
88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10
Tel. (0968) 662034 - www.rubbettino.it
A Benedetta,
nipotina prediletta del mio cuore,
e
a tutte le nonne
più belle e più buone
del mondo
Prefazione
Conobbi Moisè Asta oltre quarant’anni addietro. Prima di
conoscerlo di persona, anzi, lo lessi.
Lavorava, come il sottoscritto, che all’epoca viveva a Vibo
Valentia, per il quotidiano “La voce di Calabria”.
Mi incuriosì e mi attrasse la sua prosa, poiché, anche quando
faceva cronaca, toccava sempre il sociale, la giusta amministrazione, il bisogno del debole. Decisi, quindi, di vederlo di persona, in quanto lo immaginavo un uomo anziano, dai lunghi capelli, con barba fluente e fiocco al collo, secondo la moda anarchica.
L’incontro fu, per me, una grande sorpresa nel trovarmi davanti un giovanotto, con leggerissimi baffi, capelli corti e scrimati, ma con l’aria – questo sì – di anarchico o, comunque di
uno che agiva fuori dalle regole di vita del tempo.
Diventammo amici; e lo siamo – come dicevo – da oltre quarant’anni.
La sua penna fu sempre creativa, sfottente ed alcune volte
anche strafottente. Da giornalista attento al particolare, e sempre teso all’approfondimento.
Nel rimeditare la storia culturale del suo paese di adozione,
Soveria Mannelli, il suo libero pensiero non poteva che affidarne il compito a due fantasiosi personaggi, ricolmi di significato:
Sermòne (dialogo) e Poesia (intimo risvolto della creatività).
Anarchico, quindi, Moisè Asta lo è; certamente, nel pensiero. Scrittore libero da ogni pastoia regolamentare, alieno da
ogni corrente di pensiero del passato e attuale.
Moisè Asta, in questo libro, tratta con affetto, anzi con amore, luoghi e personaggi. Li affida alla storia, soprattutto per quegli aspetti culturali, che più lo attraggono. Segue con passione la
loro crescita, mettendo in risalto tutti gli aspetti particolari.
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Affidandosi ai “dittèri” locali, Asta non pensa che “tuttu ‘u
mundu è frìttuli”, ma segue anche le grandi difficoltà di quella
comunità (Soveria Mannelli) che, pur isolata infrastrutturalmente, ha sempre saputo partecipare, con convinzione ed autorità, ai vari momenti storici e culturali del Paese.
Questo attrae lo scrittore Asta e questo mette in risalto, poiché Asta, larga parte di quei momenti li ha vissuti e, quindi, sono anche parte della sua storia personale.
Vincenzo De Virgilio
Giornalista-Sociologo
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Introduzione
Sermòne e Poesia, rappresenta un ulteriore, bel momento
creativo – più dinamico e articolato rispetto a quelli delle altre
sue esperienze narrative ma non, sostanzialmente, diversi da
essi – di Moisè Asta.
Anche qui le varie vicende hanno una carica puramente esistenziale e della cornice storica, l’autore, si serve come prospettiva di proiezione in un passato assolutamente libero dai tanti,
possibili, turbamenti del presente.
Aprendo questo libro di Asta, non entriamo in un universo
di parole, di teorie o di utopistici sogni. Siamo, sì, certamente,
nel meraviglioso, ma in un meraviglioso vissuto e, quindi, al cospetto di un incontro perfetto di cronaca (se non addirittura di
storia) e di fantasia.
Scopriamo, attraverso il narrato, una realtà che un tempo è
stata la realtà di tutti i giorni nel ridente paesino presilano, cuore della conca paradisiaca del Reventino.
Fin dall’inizio, il filo conduttore della vicenda rappresentata
mette in evidenza, intanto, l’amore dello scrittore per la terra
d’origine e formazione. Così, Asta, attraverso un’approfondita,
paziente e snella indagine storica su luoghi e personaggi di Soveria Mannelli, trasferisce, a chi viene dopo, una serie di piccoli
(le famose “piccole cose” da cui, in genere, partono i grandi mutamenti di un individuo o, pure, di una comunità intera) e grandi episodi, o eventi, che hanno caratterizzato e segnato la vita di
un paese, in un certo, non sempre remoto, lasso di tempo. È una
sorta di viaggio reale nella storia di molti abitanti di Soveria
– persone comuni e non – che diventano personaggi e vengono
resi immortali dalla poesia.
Si tratta, così, di un lavoro tenace, direi caparbio, finalizzato
pure al recupero di antichi ricordi di medici, avvocati, sacerdoti,
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docenti, poeti, pittori ed artisti, giornalisti in erba, ex vigili urbani, ex custodi del camposanto, commercianti…
Moisè scrive, scrive, scrive… Di quegli ignari protagonisti
del suo lavoro racconta le idee, l’operato, o anche le loro semplici storie di paese. E non dimentica nessuno.
Il libro scivola veloce, come la penna, nell’ansia di ricordare
tutto e tutti; velocemente, prima che si possa dimenticare, prima
che scompaiano le persone e che i luoghi storici vengano irrimediabilmente trasformati; prima che la stessa Soveria di una volta
venga completamente inghiottita dal tempo, o anche soltanto perché i soveritani giovanissimi possano ottenere dai propri genitori,
una risposta positiva, completa e circostanziata alla probabile, giustificabile domanda: “Ma chi era mastro Oreste?”.
L’elegante volumetto è, a tratti, un capace album di paesaggi
da sogno: antiche fontane, boschi, frutteti, contrade e caseggiati… descritti ed osannati come bozzetti panoramici naturali ed
incantevoli, addirittura fatati.
Dalla poesia dei luoghi – questo il motivo dominante di quasi tutto il libro – nascono le idee: il luogo, ove è nata e cresciuta
una comunità, inquadrato nel tempo (l’ultimo mezzo secolo) e
illuminato dalla poesia, dalle sue tradizioni, dalla sua storia,
riesce sempre a suggerire le iniziative più proprie e adatte alla
sua crescita, senza intaccarne l’identità ideale, che non manca
di perpetuarsi nel tempo.
È come per un antico amore, del quale si nutre, ancora e
sempre, un po’ di nostalgia: ad un certo punto si avverte l’esigenza di recuperare la memoria e custodire gelosamente, in uno
scrigno di ricordi, tante persone comuni, e meno comuni, tramutate in personaggi da fiaba, oltre che le idee e le opere di uomini del passato, del vecchio stampo, onesti, dotti o coraggiosi.
È veramente, questa fatica editoriale di Moisè Asta, un tesoro in termini di affetto, amore, riconoscenza, stima, sentimenti,
tormenti, memoria.
Tutto si può leggere tra le fluide pagine di questo libro della
memoria antica e tutto può suscitare emozioni, ad ogni passo,
nel ricordo vivo e struggente di un paese di mezzo secolo fa che,
forse, non esiste più, se non in una dimensione ed in una configurazione del tutto diverse.
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Sermòne e Poesia è, certamente, questo. Ma non soltanto
questo, ad ogni modo.
Lo stesso filo sottile, invisibile, di cui è traccia lungo tutta la
metafora del matrimonio, tanto contrastato da sembrare impossibile, tra la cultura in astratto e la sua concreta attuazione, resta il momento unificante del destino di Soveria, che ha già fatto tanti passi avanti, premurandosi di lasciare dinanzi a sé la
strada aperta a fortune migliori.
Né il discorso si esaurisce qui, perché, questo libro di Asta,
somiglia tanto, pure, ad un indicatore bibliografico di primo ordine e di cui, forse, non sempre si potrà fare a meno, quando a
qualcuno potrà pur venire in mente di allestire un saggio su Soveria Mannelli o su che cosa la Cultura ha dato a Soveria, dai
tempi della contraddittoria parentesi tra le due guerre mondiali
ai giorni nostri, o che cosa potrà e dovrà dare ancora.
Anche sotto questo profilo, quindi, Sermòne e Poesia assume il valore di un ennesimo omaggio di Asta alla sua non dimenticata, amata, Soveria.
Gino Grandinetti
Direttore Amministrativo
Università “Magna Grecia” di Catanzaro
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Sermòne e Poesia
Testimonianza
Il trillìo improvviso e strano dell’annaspante “cellulare”,
un elegante esemplare di quegli infernali aggeggi della telefonia mobile che, nei fatti, hanno schiavizzato l’uomo rendendolo sempre reperibile o raggiungibile, lo aveva fatto trasalire. Pur ripetendo il consueto refrain dolce e gratificante che
dava corpo alla solita soneria, a suo tempo liberamente scelta, sembrava ne avesse tramutato, di soppiatto, l’armonico in
melodico, promuovendo nel cuore e nell’animo dell’utente
un tonfo struggente.
La serata era gelida. Un vento impetuoso e tenace sconvolgeva l’ampia trama delle chiome ingiallite e semispoglie
dei castagni e degli aceri, dei carigli e degli alberi fruttiferi,
che ammantano le compatte pendici della serie di montagne
e di colline intersecanti l’addormentata conca del Reventino,
che squassava finanche i rami secchi, scheletriti, tra i quali restava pure qualche traccia di nido vuoto e sconvolto.
Ed anche le straduzze interne del paese, alle sette di sera,
d’inverno, alla fioca luce dei lampioni (accesi secondo le più
rigide regole sul risparmio energetico), impietosamente scossi dall’infuriare degli elementi atmosferici, riproducevano il
grande senso di solitudine che tratteneva il malinconico, e
non più tanto giovane, Sermòne (un nome che ha, in qualche
modo, un nesso con il filosofo Abelardo) in casa, questa volta
anche lontano dai libri che, generalmente, lo gratificavano di
una salubre compagnia.
Spirava, dunque, intorno, un’aria triste e dimessa, quella
che allieta solamente gli anacoreti incapaci di resistere al fascino della requie claustrale, silente, serenatrice, e che farebbero, quasi certamente, volentieri anche a meno dell’ascolto
martellante dei rintocchi sincroni dell’orologio che, in vetta al
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campanile della Chiesa parrocchiale, ai piedi del Montedoro,
ove non fa più spicco il caro, fronzuto, ultrasecolare olmo gigante, scandisce il tempo, con una minacciosa intermittenza,
regolare, puntuale e, per moltissimi aspetti, pure avvilente.
Senza quell’albero, con il gradone che lo teneva a dimora
da decine di anni e che la mania del moderno aveva modificato in un’area soleggiata di pochi metri quadrati – sulle cui
panche in cemento, pensionati e disoccupati, vanno ora a trascorrere tante ore del loro tempo libero – il paesaggio, lo
scorcio panoramico, è molto cambiato. Forse in peggio, fatti
salvi il buon gusto e l’utile di chi ha, invece, cercato proprio
quella zona per vivervi o operarvi. E diventa, tante volte, anche motivo di tristezza o, almeno, di nostalgia. Quando la memoria ti porta lontano, molto indietro nel tempo, sarebbe veramente tanto bello ritrovare ogni cosa al suo posto, ogni
umana creatura con le sue grandi speranze di allora. E riavresti la vita!
Sermòne è un professionista che si gode, tra riposo e passatempi, la sua terza età, colmando, con le letture, amene ed
impegnate, ogni volta che è possibile, i vuoti delle sue conoscenze. Ama attualizzare, con dei discorsi che rivolge a se
stesso, quando non riesce neppure ad inventare il personaggio con cui sfogarsi e litigare, quel che ha appreso, lungo l’eracliteo “tutto scorre”, l’inarrestabile fluire del tempo.
E parla, ripensa, parla… rievocando i tempi che furono,
stigmatizzando i passi non fatti o mossi senza neppure un minimo di riflessione preventiva, esaltandosi per le poche buone cose realizzate e, soprattutto, per quell’iniziale voglia matta di parlare senza pontificare, rimproverare senza offendere,
elogiare senza eccedere. È fatto suo.
Gli sta proprio bene, insomma, quel nome. È come se una
briciola di predestinazione avesse fatto indovinare, ai suoi genitori, la decisione di imporgli proprio un nome, corrispondente ad un lemma dotto, con significato plurimo e dalle svariate sfumature e che, in qualsiasi modo venisse letto e accettato, non avrebbe mai cessato di corrispondere alle caratteristiche mentali, vocazionali e comportamentali di chi era stato
destinato a portarlo per tutta la vita.
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Poesia, invece, non ha probabilmente alcun bisogno di
presentazione. Chi mai, almeno da giovanissimo, in un momento di tripudio o di amarezza, di vittoria o di declino, di
dolcezza o di delusione, può essersi sottratto alla tentazione
di sciogliere in versi la propria interiorità, i propri stati d’animo, il suo sentire magari d’un solo attimo, di una più o meno
fugace circostanza?
Poesia è vita. Poesia è quanto di più nobile, valido, eterno,
indimenticabile può esserci al mondo. È qualcosa che trasforma
il bello in sublime, il precario in immortale, il transeunte in definitivo ed assoluto. Poesia è anche quella forza misteriosa ed irrefrenabile che qualifica e valorizza i luoghi dell’infanzia, verso i
quali, ognuno, anche quando il destino lo avrà portato di peso
molto lontano, non cesserà mai di avvertire la nostalgia, agognando di ritornarvi. Poesia, anzi, sono anche, e forse soprattutto, gli ambiti e le contrade in cui l’essere umano ha vissuto le sue
prime esperienze vitali, mentali, sentimentali, formative.
Senonché, questa volta, il termine, volendo corrispondere
ad un nome proprio di persona, assume una valenza ben diversa, più ampia e piena, senza tuttavia rifiutare uno solo, che
fosse solo uno, dei significati poc’anzi ricordati.
Nei fatti, sotto il ventaglio dei concetti che affiorano dal “vocabolo”, c’era, e ci resta per sempre, un essere in carne e ossa, vivo e pensante, una bellezza muliebre di altri tempi che non ha
ancora del tutto perduto il dono meraviglioso dell’eterea adolescenza, quando il cuore – anche a scapito della mente – aveva la
priorità per cui le “avvertenze” o le paternali dei grandi, in primo luogo delle congiunte più mature e razionali (non per davvero parche nell’ostentare un cuore arido, di pietra), di conseguenza, non potevano che cadere nel vuoto. Specialmente, dopo la morte di Benedetto Croce, quando apparve del tutto chiaro che, tra i suoi “distinti”, non ci sarebbe stata più possibilità di
riaccostamento, avendo propiziato quella netta separazione tra
intellettuali ed operai, tra teoria e prassi, tra pensiero e azione,
che doveva schiudere la strada all’affermarsi di una visione totalitaria, autarchica, della società e dello Stato.
Allora, Poesia, dall’alto della sua chioma scura ed in ordine – che ne adornava il viso d’angelo, tante volte schiacciato
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dietro gli ampi vetri di balconi e finestre, premurosamente intenta a cercare, da lontano almeno, la sagoma del ragazzetto,
alto e smilzo, impacciato e timido corteggiatore, di qualche
anno più anziano di lei, che doveva, di certo, interessarle in
qualche modo – giganteggiava nel cuore del suo ammiratore,
amareggiato dal duro, disumano, ostacolo di poterla incontrare.
Eppure, tra i due, c’era stato sempre, e soltanto, un conversare a distanza, fatto di soli sguardi prolungati e seriosi,
profondi ed eloquenti, che avevano finito con il propiziare la
comprensione reciproca di tutto quello che era nato, nel cuore di ciascuno, in relazione all’altro. Si parlava, insomma, con
un silenzio che doveva essere molto comunicativo e suasivo,
sincero e gratificante. Certo. Nonostante ciò, quel capirsi a
distanza appagava anche se veniva considerato piuttosto appena sufficiente. Ci sarebbe, a questo punto, solo bisogno
dell’abilità descrittiva di un Apollonio Rodio, dinanzi all’amore sorgente (e già struggente!) di Medea per il giovane
straniero visto da lontano, a sottolineare i meccanismi psicologici che azionavano l’ansia ed il desiderio interiori soprattutto di Poesia, nel cui cuore dovevano sicuramente finire
con il tradursi in un delicato epillio, un poemetto, tutto da costruire e, possibilmente, vivere.
Si trattava di un’intesa tra Sermòne e Poesia, per così dire,
spontanea, automatica, che prometteva chissà quali esiti meravigliosi se non ci fosse stata quell’opera di demolizione
pressante e sistematica di adulte, ma non tanto, che ne avevano condizionato il ritmo, fino a neutralizzarlo ma, sicuramente, non a distruggerlo del tutto. Una condotta impietosa che
accendeva drammi e disperazione in quei ragazzi che si amavano e che sarebbero stati veramente bene insieme.
Le potenzialità di Poesia, tanto sul piano fisico quanto su
quello intellettivo, erano già fin troppo evidenti da allora; il
che era comprovato anche dalla circostanza che gli ammiratori e gli spasimanti non le mancavano, anche se non avevano
alcun significato per lei che, a modo suo e nei termini di un limite spietatamente imposto, aveva già scelto. Non conosceva
l’audacia, purtroppo, e, d’altra parte, non era molto diversa
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dal suo ammiratore, timido e riservato. Identico discorso può
essere fatto, nella sostanza, pure per Sermòne, che – secondo
la testimonianza di persone attendibili – non era per nulla carente di premure o, almeno, attenzioni femminili. E, del resto, se queste cose non accadono a quell’età, quando si vuole
possano accadere?
Era, così, una situazione che richiamava, in larga parte, alcuni passaggi poetici del toccante poemetto che il misterioso
cantore greco, Museo, aveva dedicato alla storia (purtroppo,
dall’epilogo tragico) del bel Leandro e della vergine Ero. Questa irradiava “dal volto una grazia splendente come la bianca
luna al suo sorgere” che si insinuava “nella tenera mente dei
giovani”, perché la bellezza perfetta di una donna è, per gli uomini, più acuta di una freccia alata, la quale, se scagliata attraverso gli occhi, riesce sempre ad aprirsi la strada e ad arrivare
dritta al cuore del “bersaglio” prescelto. Già, perché, in genere, è sempre la donna a scegliere. Nella fattispecie, però, si era
verificata l’eccezione: le scelte si erano incrociate.
Compita, vivace, gaia, elegante, aperta, illuminava del suo
sorriso, il relativamente breve tragitto tra le abitazioni delle
due nonne, che, in genere, non percorreva mai da sola. E poteva essere mai possibile? Con quelle due sentinelle che non
la lasciavano… respirare nemmeno un po’, neppure per sbaglio, figurarsi se era mai possibile, per lei, così graziosa e ricercata, una “passeggiata” che non fosse in compagnia.
Quanti spazi rubava, allora, ai giovani, ed ancora di più, ai
più giovani, quel sentimento irrazionale che è la gelosia e che,
a non averla, poteva anche significare disinteresse per la vita
seria ed onesta! Già… l’onestà, allora, si misurava anche con
il saper tenere incatenati i sentimenti più puri e naturali degli
adolescenti. Ed il peggio sta nel fatto che la cosa trovava ampio credito anche tra la media borghesia che pur millantava
una certa supremazia culturale e di civiltà.
Povera Poesia! In… clausura! Uscita possibile soltanto
quando proprio non se ne poteva fare a meno! Per diritto o,
solo, per appagare un po’ di desiderio di libertà, proprio no; e
c’è da chiedersi come avrebbe fatto la gioventù di oggi a vivere in quel tempo ed in quel contesto.
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Tanto meglio se, attorno a lei – a Poesia, si vuol dire – si
costituiva un gruppo, di cui, ad ogni modo, doveva spesso fare parte anche Pitra, l’amica del cuore, piccoletta di statura
ma molto ricca dentro, possibile prototipo delle modelle care
ai Rousseau ed ai Ligabue del “versante” figurativo – che ben
poteva anche impersonare o simboleggiare un’altra “arte bella” come la Pittura, ad esempio (e, del resto, questo inusuale
nome, se non fosse stato colpito dalla sincope che era andata
ad eliminare la centrale sillaba “tu”, sarebbe stato proprio il
termine con il quale, appunto, lemmatizzare la pittura!) – riusciva generosamente ad attutire i rischi corsi da Poesia, cui,
pur nell’ambito delle ridottissime possibilità di evasione, riusciva ad esserne complice, quanto a quell’amore, solo ideale,
visto che del concreto non c’era neppure da parlarne.
Eppure, doveva essere proprio questa coetanea, almeno nelle intenzioni delle predette acide, aride, “sentinelle”, la migliore
garanzia e la più ermetica custodia del disimpegno d’amore di
quell’adolescente, bellissima nei lineamenti somatici ornati da
sfumature cromatiche oscillanti tra il castano molto scuro ed il
blu notte. Una fata transfuga del Reventino magico…
Anche Pitra, però, aveva un cuore, e l’improbabile sua voglia di danneggiare, o soltanto condizionare, l’amica per la
pelle, non poteva che essere totalmente assente. Apprezzabile, interessante e, per certi aspetti, anche provvida quell’intesa amichevole destinata, forse, a resistere molto a lungo. E
c’era semmai da ammirarla, se non, addirittura, da invidiarla.
Una provvida alleanza che consentiva lo sfogo vicendevole
dei sentimenti ostacolati o bistrattati e che, quindi, ne leniva,
in buona parte, le sofferenze d’amore.
Almeno Poesia e Pitra (oh quante volte sorge, quasi impulsiva, la tentazione di chiamarla direttamente Pittura!)
avevano di che dialogare tra loro in ordine a queste ingiustizie, ma, del povero Sermòne, che ne era?
A questi non restava che, appunto, discorrere, tra sé e sé,
dei primi intoppi della vita, quando l’adolescenza non ti consente – anche perché non ne è capace – di cercare soluzioni
diverse, pure eroiche se del caso. Ed egli non mancava di illare, congetturare, ipotizzare, salvo a fermarsi quando, pensa
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e… ripensa, da ultimo, restava solamente la possibilità di passare all’azione.
Chi ha detto mai, però, che il discorso non conservi per intero la sua importanza, anche quando non riesce – per motivi
obiettivi – a realizzare i fatti? La teoria resta sempre essenziale, anche se, quando non è seguita dall’applicazione concreta,
pratica, restando astratta, si ritiene se ne va in… malora.
Se, d’altra parte, la parola finisce sempre con il suscitare
idee, queste, una volta o l’altra, non potranno che far escogitare e progettare azioni da portare avanti e, quindi, propiziare
il raggiungimento del concreto.
Così, dunque, Sermòne e Poesia sembravano personaggi,
creati a bella posta dalla fantasia dell’uomo ad essere i protagonisti in positivo della “città delle idee”1 per antonomasia
(ma le idee non nascono, forse, dalla poesia dei luoghi?), la
pittoresca cittadina del Reventino, d’oggi, che non ha chiuso
per nulla la propria partita sulla più volte manifestata volontà
di crescere ulteriormente non solo come collettività, e quindi
storicamente, ma pure come espressione meravigliosa di una
paesaggistica varia, e quindi geograficamente, purché sia colta la valenza onirica dei naturali bozzetti panoramici, fatti di
selve maestose e fiori pluricromatici, fauna protetta e frutti
odorosi, rilievi accarezzati da dosate, graditissime, folate di
vento e corsi d’acqua adamantini e tersi, che le danno corpo.
Paesaggi da sogno, e quindi Poesia, non importa se elegiaca o
ditirambica, georgica o bucolica…
Provocatorio o almeno anacronistico, forse, parlare di
idee, proprio quando un filosofo come Fulvio Papi aveva
sguainato tutte le forze del suo convincimento per combattere la stolida certezza (presunta) che le idee non servono a
niente. “Gran parte della cultura degli ultimi quarant’anni si
è costruita contro le idee, contro l’alto di Platone e di Hegel:
scrittura, incoscio, desiderio. E questo essere contro la tradizione appariva come un’emancipazione, un riprendere in mano le radici della vita, dissipare finalmente i ricatti dei padri,
1 M. Caligiuri, “Per una città delle idee”, in «il piccolissimo», Anno 5, n.
32 del 3.8.89, pag. 1.
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dei significati, delle idee, dell’incoscia nobiltà della repressione (parola freudiana in disuso, ma che proprio per questo rievoca bene l’atmosfera)”2.
E, dopo aver ricordato il momento in cui si formulò l’aberrante proposta di bruciare i musei (cioè la memoria, la tradizione, l’idea), prova ad immaginare “uno splendido libro come la Grammatologia di Derrìda, senza l’Università, la Scuola
Normale, l’Istituto internazionale di Filosofia. Erano e rimangono luoghi di forti echi del sapere, di mimesi felici, di
scolarchie diffusive. Ma se fosse mancato il luogo?… Penso
piuttosto che se esiste una collettività che ha un grave sentimento comune come quello per una forma di vita che se ne
va, allora deve rappresentarlo con forza, e se appare un’anomalia, va difesa ugualmente senza eccessiva timidezza”3.
Il luogo, inquadrato nel tempo e illuminato dalla Poesia delle sue tradizioni e della sua civiltà, quindi, può partorire idee
(che esistono… eccome!) dalle quali, poi, partire per riconfigurarlo, secondandolo nell’evoluzione del suo continuo e responsabile andare avanti, in funzione della realizzazione di un futuro
più bello. Eccoci, quindi, dinanzi ad un concetto più vero e più
attuale di cultura, da intendere come motore principale della vita, in tutta la sua pienezza, di qualsiasi umano consorzio, di
qualsivoglia comunità che intenda corrispondere ad una cittadina che abbia, veramente, voglia di rifondarsi per crescere.
Sì, perché, a ben vedere, la cultura non corrisponde affatto
a quel che si sa o si conosce ma è, viceversa, soltanto quello che
si fa sulla scorta di quel che si sa e si conosce. Dovrebbe, perciò, proprio questo orientamento, essere visto come la bandiera da inalberare e seguire per tramutare in atto quanto, allo
stato di potenza, la ragione, la connessione e la esplicitazione
delle idee, la cultura come momento sinergico di pensiero ed
azione cioè, sono in grado di promuovere e di realizzare.
Il pittoresco paesello che, incastonato tra le pendici verdeggianti, ai prodromi dell’acrocoro silano, si snoda lungo la
SS 19 delle Calabrie – la cui paternità resta oggetto di disputa
2 «l’Unità» del 10 marzo 2004, pag. 23.
3 Ibidem.
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tra i nostalgici dei Borboni e quelli dei napoleonidi e, più esattamente, dello sfortunato Gioacchino Murat – sul lato nord
del Catanzarese, ad un tiro d’arco dall’inizio del territorio della provincia di Cosenza, ha bisogno di tanti sermoni per sublimarne la poesia, tanti piani per attualizzarne le potenzialità,
tanto calore umano per viverne il passato in funzione di un avvenire diverso, migliore, gratificante. E c’è da verificare, fra
l’altro, se, e fino a qual punto, corrisponde al vero un’espressione estemporanea di Leònida Répaci, secondo cui Soveria
sarebbe già, o starebbe diventando, una “piccola Atene”4.
Anche alla luce di questo po’ po’ di ambizioni, di questi
qualificanti giudizi, di queste autorevoli profezie e di questi desideri insoddisfatti ma immutati, quell’improvviso squillar del
telefonino portatile aveva potuto scuotere il cuore di Sermòne,
rimasto solo in casa, per un cospicuo numero di minuti, a rimuginare, in solitaria malinconia, le sue tante cose, vecchie e nuove, fatte anche di attesa e di speranza. Pensare, però, che, dall’altra parte del cellulare, ci fosse addirittura Poesia, sembrava
improbabile, se non del tutto impossibile.
Eppure era proprio lei. Quasi un miracolo. Leggendario!
Questione di telepatia. Forse. Non era il caso di scartare
neppure la possibilità che Sermòne, in quel momento, stesse
pensando proprio a lei. Una coincidenza che sarebbe sfuggita
anche al più provetto degli indovini e dei veggenti. Gran bella
coincidenza, ad ogni buon conto, che interrompeva un silenzio durato poco più di mezzo secolo.
E di cambiamenti, in ogni senso, per tutto l’arco di questi
cinquant’anni e più, Soveria Mannelli, ne aveva fatti a bizzeffe. Proprio per questo, perciò, si era messa al passo con le altre realtà urbane che non si erano lasciate sfuggire le occasioni propizie per cambiare, almeno in superficie, e per quel che
cade sotto gli occhi dei viventi, la propria identità. Il che non
significa per nulla rifiutare le radici, rinnegare il passato, lasciarsi ubriacare delle opportunità svariate dei nostri giorni,
cercare il facile guadagno senza i sacrifici occorrenti, ridere
4 N. Colafati, In ricordo di Leònida Répaci, Cariglio d’oro 1984, in «il piccolissimo», Anno 1, n. 24 del 25 luglio 1985, pag. 1.
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degli errori (o presunti tali) commessi dalle generazioni precedenti o bearsi degli eccessi ottimistici che, magari, incantano i giovani ancora senza lavoro e senza prospettive.
Quella telefonata, però… Che cambiava? Forse, proprio
niente, anzi, certamente niente… ma una vecchia fiamma tornava a riscaldare, sia pure da lontano, un cuore. Ergo…
Si vuole che il riallacciare un antico, lontanissimo, rapporto sia nient’altro che un lento tornare a morire, un ponte stravecchio su cui ha infierito l’usura del tempo, tanto da non
reggere più alle esigenze dell’oggi. Solo che la fattispecie,
questa volta, poteva fare eccezione. Il distacco di allora non
era stato né cercato né voluto dai due giovani, nei quali, poi, il
melodramma si era sviluppato attraverso una serie di momenti dal pianto accorato, dal rimorso struggente, dal ricordo implacabile, anche se il tutto era stato, poi, attenuato e
quindi anche rimosso dal fluire temporale, galantuomo, che,
così, lascia sopravvivere o anche vivere, ma chissà come!
Che importa, comunque? Ora il silenzio era rotto e, tanto,
era più che sufficiente per ridare significato alla vita, alla voglia di continuare a far bene, con onestà mentale e strumentale, con l’obiettivo inamovibile di non far male agli altri, quando si è certi di star bene così, quando i propositi sono così fermi da impedire cambiamenti di rotta e deviazioni insensate. E
non sono, forse, questi, i motivi dominanti di chi abbia a cuore, per davvero, la sorte di una “baracca”, di un piccolo centro che ha attenuato il proprio interesse rurale per aprirsi al
terziario ed all’attività nei servizi e nel sociale?
– Sono Poesia. Volevo ringraziarti anch’io per l’ultimo tuo
impegno letterario, che mi è parso un autentico inno alla Soveria che ricordo anch’io…
– Tu? Poesia? Incredibile… Come stai? Ricordi?
– E come non ricordo? Lo hai scritto anche tu… certi luoghi e certi accadimenti della tarda infanzia non si dimenticano mai. Ed io non faccio eccezione. Ricordo, ricordo… ricordo anche io… Se togli il ricordo, della vita, resta ben poco.
Quasi niente…
– Ma sei tu, veramente tu? Che bello! Mi hai fatto il regalo
più bello della mia vita. Sentirci dopo tanti lustri, dopo esser-
24
ci praticamente persi di vista, sì da sconoscere completamente i fasti ed i nefasti della nostra vita, le conquiste e le sconfitte, gli allori e le cadute, ha del miracolo. Era l’ultima cosa alla
quale potessi pensare. Te ne sono grato. Chissà come ne sarebbe contenta, se venisse a saperlo, Pitra, con la quale avevo,
occasionalmente, parlato anche di te, poche settimane or sono. Dimmi, come stai? Come hai saputo dei miei scritti ultimi? È da molti anni che faccio uso della penna (si fa per dire,
visto che, tra biro e computer, la penna ed il calamaio dei nostri tempi non si usano più e tanti giovani di oggi ignorano
persino che sono esistiti!) ma è la prima volta che ho la struggente sorpresa del tuo giudizio…
– Il libro è bello, originale. L’ho letto e riletto. Mi è piaciuto tanto. Complimenti. Ho scoperto una tua qualità di cui ero
proprio all’oscuro. Una sorpresa anche per me…
– Grazie, sei cara. Per questo, del resto, non ti ho mai dimenticata. E ti ho sempre voluto un sacco di bene. Ed ora che
fai? Hai lasciato la scuola? Sei nonna? Quante volte? Sono felice di sentirti, proprio quando m’ero fatto la convinta idea
che ci saremmo ritrovati, sì, ma, di là… nel mondo dei più,
ove non c’è ancora chi monti la guardia ad impedire che ci si
scambi, se non un bacio, una parola, almeno uno sguardo, un
sorriso; là nel silente regno di una scontata uguaglianza perfetta, accanto ai nostri, che ci hanno lasciato da tempo… e
che io vado, più spesso di quanto tu possa pensare, ad elevare
per loro, che non ci sono più, preghiere ed invocazioni di requie. Anche dinanzi alle gelide lastre marmoree che custodiscono i resti dei tuoi… È stato sempre, per me, un modo come immaginarmi insieme a te…
Solo la maledetta, inopinata, caduta della “linea” aveva
troncato quella conversazione, sul più bello. Ma dov’erano,
allora, l’intelligenza e l’anima di questi complicati strumenti
moderni che, pur millantando tanta alta tecnologia, non ci
pensano un solo decimo di secondo, quando devono piantarti in asso? Meglio, forse, quella sorta di telefonia senza fili che
si usava in altri tempi, quando bastava un gesto, un’occhiatina furtiva, una mimica compiaciuta, a tracciare addirittura il
poema d’un amore contrastato ma vero…
25
Sermòne, amareggiato e roso dalla rabbia, era tornato ben
presto, con il pensiero, alla Soveria di più di mezzo secolo fa,
ove, al di là di poche famiglie benestanti e di quanti avevano il
privilegio (sic!) d’un salario o di uno stipendio fisso, la gente
viveva maluccio, soddisfatta solo, probabilmente, di quella
solidarietà e di quell’affetto sempre percettibile che le riservavano i simili; si stava per dire i… compagni di sventura.
C’era, intanto, da chiarire che cosa, veramente, avesse voluto dire il Répaci quando, elogiando Soveria in occasione
della di lui premiazione, aveva parlato, con un tono anche
molto convinto, del paesello come di una “piccola Atene”. Il
senso, in effetti, lo avevano già intuito e sottolineato, tra di loro, Poesia e Pitra, alcuni anni prima, quando, per aver letto
ma, ancora di più, per aver sentito dire, avevano cercato di fare il punto della situazione culturale del luogo.
Pitra, così avvinta dall’Arte sacra, di cui la sua Chiesa apostolica romana era, e resta, una delle maggiori custodi, ma anche da un cattolicesimo militante, che la portava, altresì, a conoscere le vicende remote e meno remote della parrocchia di
appartenenza (pur per essere venuta a contatto con le numerose ricerche fatte da un prete pubblicista – Don Filippo Pascuzzi (1906-1993)5 – che, soveritano di nascita, continuava
da tanti anni ad esercitare il suo sacerdozio in quel di Maida),
aveva, ad un tratto, ricordato un nome che campeggia sul
portone d’ingresso dell’edificio delle Scuole elementari (che
a Lui è stato intitolato), ma, soprattutto nel cuore di decine e
decine di professionisti che, benché un po’ addentrati negli
anni, lo ricordano con affetto e devozione, con rispetto e riconoscenza.
Già. Don Vincenzo Sirianni (1883-1943), maestro, sacerdote, filosofo, pedagogista, poeta, cittadino semplice e profonda5 Molti i suoi scritti inediti, tra i quali alcune importanti ricerche storiografiche riguardanti sia il paese di origine, sia quello in cui ha fatto il parroco, sia
gli avvenimenti che legavano i due centri (come alcuni episodi del decennio
francese). Molti di questi saggi sono stati, pubblicati, negli anni, dalla rivista
«Calabria letteraria» diretta da Emilio Frangella ed edita dalla Rubbettino.
Qualche scritto figura pure sul giornale «Soveria Garibaldina» di Umberto
Pascuzzi e Ferdinando Leo.
26
mente buono. Vero Uomo-simbolo, a Soveria, della cultura autentica, fondata, solida, generosa, viva, partecipata, coralmente
accettata.
– Bisognerebbe sapere molto di più di Donnu Vicìenzu –
aveva detto Pitra.
– È vero, ma – aveva replicato Poesia – da quel poco che si
sa, è possibile anche capire il complimento che Répaci ha fatto a Soveria.
– E come?
– Beh… Non si sa se al grande scrittore di Palmi sia mai
giunta l’eco della vicenda esistenziale, sacerdotale e culturale
di Don Vincenzo ma, ai suoi tempi, in Soveria, Egli agiva proprio come in Atene nell’Età aurea di Pericle…
– In che senso? Che vuoi dire?
– Nel senso che Egli, pure, come appunto nell’antica città
dell’Attica, concepiva la cultura come un “bene comune”,
che implicava, presso chi la possedesse, il dovere precipuo di
metterla sempre, e gratuitamente, a disposizione degli altri, di
chi soprattutto ne avesse bisogno. Un autentico canone di
una civiltà, altrettanto autentica, che doveva, giustamente, far
gridare allo scandalo quando giunsero i Sofisti ad impartire
lezioni a pagamento per istituzionalizzare le furberie di chi si
preponeva di partecipare alla vita politica della polis…
Il discorso era finito lì. Concordava anche Pitra, evidentemente.
Chiarissima, su questo punto, la testimonianza di Filippo
Sola6: “Il ricordo vivo e veritiero scolpito nel mio cuore: una
delle persone più nobili d’animo del popolo locale, di tutti i
professionisti di Soveria Mannelli ed anche di altri luoghi.
Non si pagò mai da nessuno per l’insegnamento impartito.
Un ricordo particolare: i soldi raccolti in chiesa li consegnava
ai bisognosi. Morì buono, semplice, povero”.
Molto chiara anche quella dell’insegnante Veneranda Potente (consorte del prof. Ninì Critelli e madre del Notaio Pasquale): “Per il gruppo delle materie scientifiche i miei genitori
6 V. Sirianni, Don Vincenzo Sirianni, cinquant’anni dopo, Calabria Letteraria Editrice, 1992, pag. 29.
27
si rivolsero al professore Ciccio Peronace, per quelle letterarie
al professore don Vincenzo Sirianni. Tra gli alunni che con me
seguivano le sue lezioni ricordo in particolare Antonio Grandinetti, Ettore Cardamone, Edoardo Peronace, Peppino Paola,
Leopoldo D’Urzo. Il professore Sirianni era uomo di grande
cultura e docente preparato ed aggiornato: le sue lezioni di filosofia o di letteratura travalicavano il tempo loro assegnato avvincendo gli allievi. Minacciava spesso di far rispondere la sua
perpetua alle domande a cui noi, talvolta e con suo disappunto,
non sapevamo dare la risposta esatta. Riusciva a conciliare nel
miglior dei modi i suoi doveri di sacerdote ed i suoi impegni di
docente; riteneva anche l’insegnamento una missione, come il
sacerdozio, da compiere disinteressatamente”7.
Ha dato veramente tanto, Don Vincenzo Sirianni, al suo
paese di adozione (era nato a Carolea di Serrastretta, ai primi di
marzo del 1883), ove giunse, da parroco, nel 1920, al posto di
Don Rosario Marasco (colto poeta anche lui!). Non sempre è
stato “ripagato” adeguatamente, almeno nella misura in cui,
per la sua grande generosità in ogni campo, avrebbe meritato.
Dice l’avv. Lello Marasco (quasi un’invettiva!): “Fu uomo di
grandi e generosi sentimenti, di solida cultura letteraria e filosofica e fu, principalmente, maestro di vita e di sapere. Lo ricordo, in casa mia, in dotte dissertazioni sul Divino Poeta e sui
grandi pensatori con un altro sacerdote di grande intelletto e
cultura: don Luigino Costanzo, a lui e a tutti noi affettuosamente caro. Fu conferenziere brillante e di pensiero. Con le sue
omelie attirava in Chiesa anche l’intellighenzia più esigente e di
ogni estrazione filosofica e politica, desiderosa di ascoltarlo.
Peccato, a mio avviso, che il piccolo ambiente nel quale visse gli
fece mancare la spinta e le opportunità per più larghi e consoni
orizzonti!… Ritengo pure che, né in vita né post mortem, abbia raccolto la gratitudine che gli era dovuta per la disinteressata attività di insegnamento svolta a favore di tanti giovani che
poterono – nonostante le difficoltà di studio e di diffusione della cultura a quell’epoca – raggiungere insperati traguardi”8.
7 Ibidem, pagg. 35-36.
8 Ibidem, pag. 28.
28
Gli fa eco il fratello, il medico Ugo Marasco: “Il ricordo
del suo insegnamento è ancora vivo nella popolazione di Soveria Mannelli, ove Egli, sacerdote e docente, ha trasfuso il
suo pensiero per due-tre generazioni di studenti, che hanno
attinto, dalla sua scuola, umanità, lezioni di vita e di cultura
letteraria. Egli era, in realtà, oltre che un sacerdote votato alla
carità cristiana, un prestigioso professore di lettere e di filosofia, che ha illuminato tanti giovani studenti ansiosi di apprendere da lui quello che non potevano, normalmente, imparare
nelle scuole superiori di ogni ordine e grado. Ed io, che ebbi,
peraltro, la fortuna e l’onore di essere da Lui cresimato, ero
uno di quelli…”9.
Ma a dirne un gran bene erano, forse soprattutto, gli umili.
Valga per tutte la testimonianza di Giovannina Ranieri. “Fu
un sacerdote povero e vicino ai poveri, e morì povero il giorno di S. Agnese; all’uscita dalla Chiesa faceva in modo che
nessuno dei poveri che lo attendevano restasse senza elemosina; assisteva da vicino gli infermi; faceva tessere, a sue spese,
stoffe da destinare, per il tramite dei missionari, ai poveri dell’Africa. Ricordo, in particolare, che incontrandomi talvolta a
sera, si premurava di accompagnarmi fin sull’uscio di casa.
Teneva con entusiasmo e cura i corsi di catechismo ai ragazzi
e dava sostanziali aiuti ai giovani che, in tempi difficili, volevano prepararsi per gli studi. Fu disponibile per carità ed
umanità verso tutto il popolo”10.
Ed in occasione della decisione municipale di intitolargli
l’edificio scolastico, il sindaco Loiacono sottolineò: “Profuse
a piene mani, senza nulla mai chiedere, tutto il suo sapere ed
oggi molti sono i professionisti forgiati alla sua scuola che
danno lustro a questa nostra cittadina.Tutti egli accoglieva ed
a tutti distribuiva a piene mani le doti inesauribili del suo sapere. Tutti noi oggi lo ricordiamo e, come oggi sempre, la sua
memoria vivrà nei nostri cuori che egli seppe educare alla
scuola dell’amore e del sapere”11.
9 Ibidem, pag. 27.
10 Ibidem, pag. 34.
11 Ibidem, pag. 13.
29
Ora, semmai, la gente di Soveria può e deve tributare riconoscenza ed affetto per l’omonimo nipote prof. Vincenzo Sirianni, che, facendo proprio un vecchio progetto di papà
Ninni, ha licenziato alle stampe, nel cinquantenario della
morte, un prezioso scrigno con scritti (non dico “gli” scritti)
dell’Uomo-simbolo della cultura a Soveria.
E quest’ultima asserzione è legata ad un episodio di cui,
chi scrive vuole rendere testimonianza, perché ha la certezza
che di scritti, Don Sirianni, deve averne lasciati altri, tra cui
alcune ricche “scalette” per le lezioni di Filosofia, di Storia e
di Letteratura italiana tenute, per alcuni brevi periodi, anche
nelle Scuole pubbliche superiori di Nicastro, oltre che qualche saggio di Filosofia teoretica.
Era l’anno del primo centenario della Spedizione dei Mille
e chi scrive seguiva, da inviato de «Il mattino» di Napoli e di
«Momento sera» di Roma, le iniziative celebrative del “disarmo” dei Borboni a Soveria. In un ritaglio di tempo, l’ottimo
amico Ninni Sirianni volle offrire una bibita allo scrivente,
che si portò nella di lui abitazione, ove ebbe in visione un vero e proprio fascio di fogli olografi dello zio sacerdote, solcati
da una grafia assolutamente identica a quella che fa da sottofondo alla copertina di “Don Vincenzo Sirianni, cinquant’anni dopo”.
Ninni volle richiamare l’attenzione di chi scrive su di un
saggio concernente l’interpretazione critica dell’Estetica in
Emanuele Kant, un lavoro che gli piaceva tanto, che già aveva
fatto leggere anche ad alcuni professori suoi amici, trovandoli
del tutto concordi con la sua valutazione, e che, quando che
fosse, avrebbe voluto pubblicare per rendere onore al congiunto che amava di tutto cuore, peraltro puntualmente ed in
eguale misura ricambiato. Pregò chi scrive di impegnarsi, appena possibile, a dargli una mano nell’ordinare quei lavori
“perché è un peccato non farli conoscere, visto che non sono
una banalità e potrebbero anche avere un’importanza notevole”.
Quel rinvio, in attesa che passasse il bailamme del centenario garibaldino, potrebbe essere stato fatale. Ninni voleva
che, quanto meno, in un elzeviro o, comunque, in “un bell’ar-
30
ticolo” si parlasse del sacerdote-filosofo, suo zio, ritenendosi
sicuro che “poca favilla gran fiamma seconda” (si preferisce,
qua, la “versione” data da Solone in “Alle muse” a quella fornita dal Sommo Poeta nella Commedia!) e che, perciò stesso,
qualche specialista del settore (chi scrive, allora, ancora studiava all’Università) si sarebbe preoccupato di approfondire
il discorso sul “kantismo” di Don Vincenzo. Non se ne fece,
maledettamente, più niente; ma quegli scritti dovrebbero, ancora, pur esserci da qualche parte, anche se Ninni li avesse
dati in visione a qualcuno perché li ordinasse (come, peraltro,
aveva già fatto per le poesie) in vista di una pubblicazione.
Bisogna perseverare, quindi, nella ricerca sull’opera dell’Uomo-simbolo della Soveria intellettuale. È, per davvero,
doveroso.
Chi scrive, a parte il ricordato episodio del 1960, ha avuto
un “più pieno” approccio con la vita e l’opera di Donnu
Vicìenzu, un po’ tardi, attraverso una triade di articoli apparsi, in tempi diversi, sulla rivista di Emilio Frangella, omonima
della Casa editrice del Gruppo Rubbettino.
L’uno, di Mario Caligiuri12, si sofferma sull’inquadramento
storico e storiografico di Soveria e dintorni all’epoca dell’arrivo
del sacerdote, dopo aver ricordato i tempi e le condizioni culturali della Napoli in cui Don Sirianni studiò nutrendosi del clima
austero e robusto, legato ai messaggi vari e complessi degli Spaventa e dei De Sanctis, dei Labriola e dei Croce, dai quali aveva
ricavato il suo orientamento di uomo libero, pur nell’ambito
della sua piena ortodossia cristiano-cattolica. Così che, poi, uno
dei suoi allievi, Domenico Loiacono, poté ricordare: “… quando ci spiegò il concetto di libertà, per la quale Socrate finì in prigione, il suo viso s’infervorò, e ci parlò della libertà come del bene supremo dell’uomo, non soggetto al dominio o all’autorità
altrui. Tessé un inno alla libertà (era antifascista ed in quegli anni il fascismo aveva dichiarato una guerra non sentita e non voluta dal popolo italiano) e con la sua prorompente oratoria ci
citò Dante, Sant’Agostino, Fichte, Kant e tanti altri filosofi. Ci
12 M. Caligiuri, “Don Vincenzo Sirianni, pilastro del cielo”, in «Calabria
letteraria», Anno XLI, nn. 4-5-6 aprile-giugno 1993, pagg. 84-85.
31
ammonì ad amare la libertà, a non sottostare al dominio ed alla
dominazione altrui, a sapere scegliere le proprie azioni senza
coercizioni, ma obbedendo soltanto alla legge morale. Poi aggiunse: sarete uomini, completerete i vostri studi, diventerete
professionisti, ma a nulla ciò varrà se non saprete essere liberi e
forti: doveva essere una lezione di pedagogia e fu invece una lezione di vita!”13.
Il secondo articolo14 è incentrato sugli interessi filosoficoletterari di Don Sirianni, ma soltanto alla luce di quanto è
contenuto nel volumetto curato dall’omonimo pronipote. E
proprio nell’Introduzione a questa silloge di scritti del compianto sacerdote, dopo aver ricordato la selezione dei “versi
giovanili” di Donnu Vicìenzu, operata, su incarico appunto di
Ninni Sirianni, forse con affrettato, eccessivo, rigore dal prof.
Alberto Cesareo, Don Colafati lamenta: “Sono state scartate
dal selezionatore alcune poesie nate dai turbamenti adolescenziali del giovane autore: sono forse state viste come ombre; invece traspare anche lì, non solo la trasfigurazione poetica, ma l’autenticità luminosa di chi è stato sempre se stesso
e, pur giunto ormai a vette eccelse da cui guarda ben altri
orizzonti, conserva quei ricordi, forse ingenui, ma pure tappe
vere del cammino che, sprezzante di ogni ipocrisia benpensante, si avvia per altri lidi. E già in questa capacità di rispetto
delle varie tappe della vita, don Vincenzo si erge a maestro di
vita. Nelle poesie emerge, infatti, una forte personalità, ricca
di sensibilità e di sentimenti, che la sua intelligenza e la tempra domineranno e prevarrà il sapere razionale, come ricerca
instancabile di quel Verbo che pure gli si era rivelato nell’adesione convinta ad una fede matura che lo ha portato a recepire la vocazione sacerdotale e ad eseguirla con coerenza, impegnandosi, poi, a viverla con radicalità di scelte, testimonianza
generosa ed autenticamente sacerdotale”15.
Su questo punto, non risulta concordare molto (nel senso,
solo, che accenna a qualche riserva) – nel terzo articolo di al13 V. Sirianni, Don Vincenzo…, cit., pag. 32.
14 N. Colafati, “D. Vincenzo Sirianni, cinquanta
anni dopo” in «Calabria
letteraria», Anno XLI, nn. 1-2-3 gennaio-marzo 1993, pagg. 69-70.
15 V. Sirianni, Don Vincenzo…, cit., pagg. 11-12.
32
cuni anni prima16 – il poeta Raffaelino Proto, che pur inneggia “la Mente de zu’ paracu Vicìenzu”, in una delle tre quartine
di “Paìse mio”, in cui “quest’aria salubre e balsamica sta,
però, diventando irrespirabile e velenosa”17.
E scrive: “L’apostolato della poesia, anche se incespica nel
ginepraio dello scoramento, della sofferenza narcisistica, della depravazione lussuriosa e dell’intellettualismo onirico, è
quello di alimentare la fiammella della speranza e di qualificare gli spunti più nobili e gentili della creatività. Fedele a questi dettami, l’assunto lirico di don Vincenzo Sirianni, nonostante che sia intriso di retorica verbosità ed infiorato di arcaiche reminiscenze classicheggianti, costituisce pur sempre
un pregevole documento di palpitante e perplessa introspezione, impreziosita con gemme di leopardiana fuggevolezza,
di pascoliano stupore e di manzoniana provvidenzialità. L’animo del poeta brulica di passate fole, di fanciullesche impennate, di giovanili riverberi, di sonnacchiose nostalgie ed il
confronto con la squallida quotidianità e la barbara congerie
del materialismo contingente acuisce a dismisura il desiderio
di rannicchiarsi in un angolino tranquillo e solitario dove il
verecondo colloquio con la propria interiorità acquista una
dimensione raccolta ed assapora l’effervescenza di slanci celestiali e di abissali immersioni”18.
Forse, la verità sta a metà strada, tra le due versioni: a voler
andare un po’ in profondità, però, Proto e Colafati, dicono,
di Don Vincenzo Sirianni, le stesse cose, probabilmente solo
con un piglio diverso. Quale migliore occasione, però, ora,
per leggere, in prima persona, almeno qualcuno, o qualche
parte, dei suoi scritti?
Un’affascinante folata di umiltà e di “obbedienza” promana, per esempio, dal suo breve ma denso lavoro per le “nozze
d’argento” del suo Vescovo, mons. Eugenio Giambo, con l’Episcopato. “Ricercatore infaticato ed instancabile della verità, della quale egli si è professato, in ogni tempo della sua vi16 R. Proto, “Vincenzo Sirianni, poeta e pensatore soveritano”, in «Calabria Letteraria», A. XXXI, nn. 1-2-3 gennaio-marzo 1983, pag. 91.
17 Cfr. R. Proto, Mamma Adelina, Rubbettino 1980, pag. 18.
18 R. Proto, “Vincenzo…”, articolo citato.
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ta, umile servitore, egli – scrive – gettava in noi quei germi fecondi, che poi dovevano fiorire e fruttificare mirabilmente. E
se io, nel corso di una vita quotidianamente tormentata e logorata dal tarlo del pensiero; se io, con un’autocritica spietata
ed acuta ho cercato sempre di riesaminare il contenuto del
mio sapere per dare ad esso ogni giorno sempre più una luce
razionale; se io, nel corso delle varie e molteplici correnti filosofiche dei nostri tempi son potuto arrivare a discernere la verità dall’errore, rievocando i tempi della giovinezza lontana
ed i banchi della mia vecchia Scuola, trovo che il primo a segnarmi in modo preciso il cammino e la mia stella polare, è
stato proprio quest’umile e grande maestro, al quale in questo momento mando il mio commosso e sincero ringraziamento”19. Lo scritto fa anche il punto sul concetto di Scuola e
sul ruolo che può avere quando è intesa come co-ricerca di
docente e discente, a riprova della sua attitudine per la Scienza dell’Educazione, che va, per importanza, certamente oltre
quella dell’Istruzione, che scienza non è, quando è, e se è, destinata ad imbottire le teste di fredde nozioni.
Il senso vivo della Storia, illuminato dal “valore aggiunto”
della Fede, che è nel “prete buono” di Soveria, emerge, forte
e suadente, nel suo discorso per il secondo anniversario dei
Patti Lateranensi, che chiudevano dopo tanti anni le dolorose
ferite, lasciate ad incancrenirsi per lunga pezza, dopo la breccia di Porta Pia che aveva scavato un abisso profondo tra il
nascente Stato unitario italiano e la Cattedra di Pietro.
Dice Don Sirianni: “Perché mai noi pensiamo che la conciliazione della Chiesa Cattolica con lo Stato italiano non sia un
semplice fatto di politica ordinaria, ma viceversa assuma un valore tale da investire le radici stesse dell’anima nazionale, e sia
destinato a produrre una vera rivoluzione, o, se questa parola
non piace, una profonda rinnovazione in tutte le manifestazioni della nostra vita? La risposta è facile. Noi non consideriamo,
e non lo potremmo, la Chiesa cattolica come una qualsiasi confessione religiosa alla quale, certo, non si può negare il diritto di
vivere, almeno entro certi confini: no! La nostra Chiesa è per
19 V. Sirianni,
Don Vincenzo…, cit., pag. 87.
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noi la prosecuzione dell’opera redentrice di Cristo che, proclamando se stesso verità, via, vita, le diede il divino mandato di
continuare nel mondo la sua missione e di tenere stretti gli uomini tutti nel vincolo della fede, della speranza e dell’amore.
Come tale, ella si identifica per noi col Cristianesimo, di cui è
l’incarnazione e l’esplicazione vivente attraverso i secoli, senza
deviazioni, senza defezioni, senza mutamenti ridicoli, senza
tradimenti, senza falsificazioni, come da qualche secolo i nostri
fratelli separati, i Protestanti, vanno blaterando, sempre antica
e sempre nuova: perché la dottrina del Vangelo, tra le sue altre
meravigliose virtù, ha questa principalissima: di rispondere,
cioè, a tutti i bisogni delle anime umane in tutti i tempi, in tutti i
luoghi ha la parola adatta per tutte le classi di persone… Per
questa totale identificazione della dottrina della Chiesa con
quella del Vangelo, noi oggi siamo ben lieti dell’avvenimento
dell’11 febbraio, perché il trionfo della Chiesa è per noi non la
vittoria di una persona, sì bene quella di un’idea: la grande idea
cristiana che, fin dal suo apparire nel mondo, ebbe la virtù di
dare agli uomini la consapevolezza della loro missione sulla terra, rivelando a se stessa la coscienza umana, risolvendo tutti i
più grandi problemi che da secoli avevano affaticato e travagliato il pensiero umano, bisognoso di sapere…”20.
Don Vincenzo Sirianni, peraltro, sa molto bene quale sia il
fulcro della sua fede, quale la struttura portante del suo credo,
cui ha consacrato, per scelta definitiva, la sua missione. Ne viene fuori un saggio su “Maria e la fede”, che è un’inequivocabile professione d’amore. “Dio che ci ama tanto accomoda sempre le manifestazioni della Grazia alle imperfezioni e debolezze della nostra natura. Ci abbisogna un tipo umano, un tipo di
creatura che possiamo guardare con espansione e tenerezza,
ed Egli ce lo dà. Questo tipo è Maria, piena di grazia e tesoro
di virtù. Ella è l’ideale in cui si trova la più forte fede, la più viva speranza, la più ardente carità! Ella il tipo della purezza e
dell’umiltà, dell’obbedienza e del distacco, della rassegnazione e dell’eroismo. Tutto si trova nella Vergine senza macchia e
la sua celestiale figura ha un insegnamento ed un’ispirazione
20 Ibidem, pagg. 108-109.
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per tutte le età e condizioni della vita. Lei contempla il giovine,
e resta vittorioso delle passioni, l’adulto e di mezzo ad una vita
di calcolo e di egoismo si informa ai sentimenti della giustizia e
della carità, il vecchio e s’accinge più fiducioso all’estremo
passaggio. Lei contempla l’orgoglioso e si esempla nella sua
umiltà, il cupido e sprezza i beni di quaggiù per gli eterni tesori del cielo, il vendicativo e piega il cuore alla mansuetudine ed
al perdono, l’egoista e si commuove in pro degli afflitti e sventurati; l’indifferente e vergognandosi di se stesso si ricorda di
Dio e dell’eternità… Se per diciannove secoli, adunque, o Signori, questa radiosa figura di donna riuscì a vincere l’ala del
tempo che copre d’oblio il passato e se per tutti ella fu, in ogni
tempo, modello insuperabile fra le creature di ogni virtù, nessuna meraviglia che anche io la propongo alla vostra considerazione, affinché, affissandovi su di Lei possiate con maggiore
certezza ascendere alle luminose regioni del cielo…”21.
Nella poesia, invece, Don Sirianni, bada, prevalentemente, al mondo che lo circonda in quanto “creato”, anche se,
poi, il tema della morte torna molto spesso nei suoi versi; ma è
sempre una morte che, cristianamente, è l’inizio di un’altra
vita, diversa, migliore, eterna.
Chiaro e grande l’amore per la sua terra, espresso, in primo luogo, nel sonetto “Soveria”22.
Ecco, io ritorno a te, dolce paese /
dove prima s’apriva il core mio /
ai sogni d’oro, e dove prima intese /
d’amore e luce un giovanil disio. /
Riveggo i cari lochi ove cortese /
m’era la Musa di tranquillo oblio, /
ove solingo e tacito, e offese /
scordai di un mondo velenoso e rio. /
E dinanzi alla mente sbigottita /
gli aurei fantasmi d’un più lieto giorno /
ripiglian nuova consistenza e vita. /
21 Ibidem, pagg. 90-91.
22 Ibidem, pag. 55.
36
Pur se ancora le cose nell’antico /
accento mi favillano d’intorno /
Tu sol non parli a questo core, o amico. /
Gli orizzonti, però, si ampliano subito, nei cento versi della
canzone “Sul monte Reventino”23 (sette strofe da dodici versi
sciolti cadauno e due da otto), in cui, fra l’altro, può cantare:
.................................................................................................
E tu vedevi, eccelso Reventino, / gli antichi legni sul ceruleo
piano / spersi de l’onda: i generosi, i prodi / figli d’Ellenia /
lasciar le care de la patria sedi / e qui venire; scendere alle dolci
/ nostre contrade a popolar le valli, / i verdi piani / di case e di
borghi, di città fiorenti, / su cui spiegava prestamente l’ali /
bianco rosate de l’ellenia gente / la civiltade.
E tu chiudesti nel profondo seno / dove eterna florìa la primavera, / delle fulgenti occhi cerulee fate / l’arcano riso. / E nei
tuoi dolci almi recessi posa / dalla lunga arcana orrida via /
il venturiero che a cavallo giva / contro il destino. /
E lo stringean nei tuoi segreti elisi / facili gioie e profumati
amori/ e gli donava largamente aprile / carezze e baci. /
Ora le fate più non sono: tace / del cavaliere di ventura il nome
/ e ne le grotte desolate eterna / regna la notte / d’oblio:
trapassa per le cime bianche / di fitta neve ne l’algente verno /
voce novella e ratta la ripete / l’eco stupita.
.........................................................................................
La regione di cui è figlio, però, corre anche oltre il Reventino, ed eccolo tornare al sonetto24, a cantare:
T’amo, Calabria mia, per le tranquille /
albe di rosa e i fulgidi tramonti, /
per l’alte cime dei tuoi verdi monti, /
e le campagne tue sparse di ville. /
T’amo, Calabria mia, per i tuoi mille /
orti guerrieri all’alme imprese pronti, /
piene di forza l’animose fronti, /
piene di lampi l’avide pupille. /
23 Ibidem, pagg. 58-59-60.
24 Ibidem, pag. 54.
37
Ma più t’amo pel lume alto e sereno /
dei tuoi profondi cristallini cieli /
risonanti d’angelica armonia, /
t’amo di più perché dentro al mio seno /
versi l’incanto del tuo riso, e sveli /
le tue bellezze a la pupilla mia. /
Il tema della morte ricorre, invece, in “O nonna”, “Per un
amico”, “Dopo un anno”, “Epicedio”, salvo, poi, a ripercorrere, in “Risurrezione”, la sua esistenza in cui cercò “diletti,
onor, gloria, piaceri su questa terra” per, poi, operare la grande scelta25:
.........................................................................................
E disperai. Ma Tu, cui la mia vita / sempre curasti, o Dio, /
mi sorvegliavi vigile ed attento /
e nella tua bontà, grande, infinita / del cadente cuor mio /
pietà ti prese in quel duro momento. /
E mi salvavi. Ora di pace un raggio / mi è disceso nel core, /
che della vita mi lenisce il pianto, /
ond’io, rifatto, il lungo arduo viaggio / con un novello ardore/
imprendo, sotto al tuo celeste manto. /
Quanto sarebbe stata utile, con i tempi difficili che corrono e con le giovani leve piuttosto disorientate ed attonite, la
presenza di un Uomo come Don Vincenzo che era veramente
maestro nel tradurre la sua Filosofia teoretica e la sua Storia
della Filosofia, in Filosofia pratica, del quotidiano, del rapporto con gli altri…
Per potere risentir parlare di Filosofia teoretica, a Soveria,
bisognerà attendere gli Anni Ottanta dell’ultimo secolo del
secondo Millennio, quando il compaesano Domenico Vircillo (1935-1990) – il volenteroso ed intelligente primogenito de
‘u garrùopulise – da poco laureato, divenne Assistente, nella
stessa Università di Messina, del prof. Mario Manno.
Chi scrive lo ebbe, nelle superiori, a Catanzaro, compagno
di classe (insieme a Gigino Marasco ed Egidio Cardamone,
25 Ibidem, pag. 84.
38
tanto per restare tra i soveritani), e può rendere fedele testimonianza dello spirito di sacrificio e della grande compostezza
che impresse nella sua carriera studentesca, compreso com’era
del fatto che la famiglia non guazzava proprio nell’oro e che, a
buttare il sangue nel lavoro, erano entrambi i genitori.
Era stato seguito, fino alle scuole medie, dalla sfortunata
maestra Rosa Bonacci in Rizzuto e, successivamente, soprattutto per la vita, dal colto maestro Francesco Marasco (sì, Franciscu ‘e Fherra, l’ottimo funzionario statale nel campo tributario)
che, da vero divoratore di libri, aggiornava costantemente il
proprio patrimonio culturale, pronto sempre a sostenere ed incentivare chi sentisse prepotente la voglia di crescere. Era,
quindi, proprio questa forma di fraterno sostegno morale che
lo mandava avanti. Ed una volta che aveva scelto di intraprendere la carriera accademica, si era subito buttato a capofitto
nella ricerca, senza tuttavia riuscire a vincere la resistenza degli
editori peloritani che, vedendolo tanto giovane, assunsero un
atteggiamento incomprensibile, acritico e prevenuto.
Sarà, invece, proprio l’ancora principiante Rosario Rubettino ad intuirne il valore ed il talento e pubblicarne tutti i libri. «Il
mio primo libro – dice l’editore – è stato pubblicato nel marzo
1975. Anche se non avevamo attrezzature idonee per stampare i
libri, mi lanciai ugualmente in questa attività. Dunque, il primo
libro… Era un saggio di Domenico Vircillo, un giovane professore universitario di Messina, pressoché sconosciuto, ma di
gran talento. I suoi scritti erano stati molto apprezzati ed erano
citati nella bibliografia della “Storia del pensiero filosofico” di
Ludovico Geymonat. Feci comporre il testo da una linotypia di
Cosenza, ma fare avanti e indietro da un’altra città non era molto agevole e così decisi di comprare una linotype, soprattutto, a
dire la verità, per evitare di dovermi assoggettare ad un tizio che
prometteva la consegna del lavoro per un certo giorno e poi sistematicamente non manteneva l’impegno»26.
Già. Quel primo saggio di Vircillo! Era “Umanesimo e
filosofia politica” (con dedica proprio a Francesco Mara26 A. Minasi, Impronte, Rubbettino 2000 (volume, fuori commercio, redat-
to in occasione dell’inaugurazione ufficiale del nuovo stabilimento tipografico), cfr. pagg. 13-17.
39
sco), cui seguì, nello stesso 1975, “Filosofia e Sociologia della
Cultura” (che constava di due studi, rispettivamente su Ernst
Cassirer e Karl Mannheim).
Due anni più tardi vedrà la luce “Possibilità e orizzonte della
filosofia”, dedicato alla sua “maestra” Rosa Bonacci. E nel 1982
licenziò alle stampe una grossa ricerca su Sant’Agostino, che,
articolata in due tomi (intitolati, rispettivamente, Itinerario filosofico e Cristianesimo e filosofia), aveva dedicato ai fratelli Gino, Stanislao, Pasqualino e Maria. Il filosofo di Tagaste, generalmente indicato come il Platone cristiano, viene studiato sotto il
profilo teoretico e secondo una linea che ne rende attuale il pensiero attraverso una lettura fatta nell’ambito di quell’arco speculativo che comprende, tra tanti altri, Kant, Hegel e Nietzsche.
In quest’opera, Vircillo si propone non certo di prendere le distanze dalla passione filosofica del grande pensatore cristiano
ma di ripercorrere e ripensare i molteplici aspetti, termini e modi di cercare la verità che è in noi stessi.
Si spiega anche così, allora, lo spostamento dell’attenzione di
Vircillo su “Socrate e la filosofia” (1983, in due tomi) che, in
pratica, è l’ultimo scritto raccolto in volume, nella cui Premessa
c’è già una grossa indicazione del tipo di approccio da lui inaugurato con il grande Ateniese che “ha sempre qualcosa di nuovo e di antico per il pensiero e per la vita che rinasce e che si rinnova in ogni tempo ed età, al contatto fecondo con la sua domanda radicale, Ti estin? (Che cos’è ciò?) e “l’interrogazione
socratica – spiega Vircillo – è rivolta come sempre alla quiddità
della stessa filosofia, intesa come amore del sapere e della saggezza. Ma non è un sapere assoluto e totale, quello che tiene in
vita Socrate, né tanto meno una sapienza da dio, bensì un sapere
comune fra gli uomini comuni, cui non è dato fare a meno della
saggezza, e dell’amore della sapienza secondo misura e giustizia”.
Resta, a sommesso avviso di chi scrive, il più “centrato” lavoro del filosofo soveritano, al di là, ovviamente, pure di quelli disseminati su riviste specializzate, tra cui “Prospettive pedagogiche”, diretta da Giuseppe Catalfamo e dallo stesso Manno27.
27 Da ricordare il saggio “Filosofia e pedagogia in Antonio Banfi”.
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Anche Vircillo, ad ogni modo, da interprete vivo del messaggio socratico, sarebbe stato utile a dare una grossa mano a
Soveria, in modo particolare, poi, quando si avvertivano, anche da queste parti, i riverberi dei movimenti sessantotteschi.
Lui che, nella prima giovinezza, si era abituato a sapere come
e quanto “sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e salir per le altrui scale”, più per la consapevolezza della
sua difficile condizione di studente, naturalmente, che non
per il materiale bisogno di un pezzo di pane.
Nei giovani si trovava tutta riflessa quella situazione difficile, quasi di fame. Con quelli che sapevano tanto stringere la
cintura da consentire ai figli di andare oltre le scuole elementari, raggiungendo ogni giorno, con il trenino a vapore dell’allora Calabro-lucana, il capoluogo o qualche altro centro vicino della provincia, potevano essere notati quanti frequentavano, da apprendisti, i laboratori artigiani di fabbri e maniscalchi, sarti e falegnami, stagnini e ombrellai oppure di uno
dei tanti altri vecchi mestieri, di cui non si conserva ormai
neppure il più labile dei ricordi. Un artigiano era sempre su di
un… gradino più alto del contadino.
E c’erano anche quelli che, alla sera, facevano ressa attorno ai convogli fumanti, in stazione, a trasportare in centro,
con i carretti a quattro “cuscinetti a rotolamento” realizzati
pazientemente in proprio, i pacchi con le derrate alimentari
che portavano, da Cosenza o da Catanzaro, i piccoli commercianti locali i quali, per l’approvvigionamento dei loro modesti esercizi, si impegnavano in prima persona, senza alcuna
data prestabilita, man mano che i prodotti venivano smaltiti.
Già, perché di grossi commercianti, anche all’ingrosso, a
Soveria, c’erano solamente gli Anastasio.
Il patriarca era quel simpatico, attento e dosatamente prodigo vecchietto (dal “borselino” grigio con la fascetta nera,
costantemente in testa) di Don Luigi Anastasio, che gradiva
molto in negozio la presenza della consorte Generosa Garofalo (altra razza commerciante i Garofalo che, ad ogni modo,
operavano a Decollatura!); gli esecutori effettivi erano, invece, i loro figli, Raffaele e Pasquale, (un po’ civettuolescamente
chiamati con i diminutivi di don Raffaelino e don Pasqualino)
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molto popolari, allora, perché generosamente capaci di andare, dinanzi a casi particolari, anche oltre il consentito dal regime delle tessere annonarie, quando ancora gli effetti della
guerra non si erano ancora del tutto attutiti e le ristrettezze
del mercato non si erano affatto allentate.
Eppure, nonostante le penurie di quel tempo, questa famiglia di origine amalfitana, che era anche proprietaria di un panificio, già aveva una significativa convenzione con la Mediterranea calabro-lucana, in base alla quale i carri merci, ricolmi di sacchi di farina e di pasta, venivano trasferiti proprio all’altezza del passaggio a livello ferroviario, sulla SS 19, dinanzi al caseggiato, gigante per quei tempi, di proprietà degli
stessi Anastasio: la frequenza degli arrivi di carichi d’una certa mole, infatti, avrebbe rese problematiche le operazioni di
carico e scarico allo scalo ferroviario.
Tutto ciò sarebbe stato inconcepibile (e non solo per la posizione geografica degli esercizi!), ad esempio, per gli Scuro (anche qui il patriarca si chiamava Don Luigi) – i fratelli Angelino,
Luciano ed Alfonso – che gestivano, da proprietari, due ben
piazzati negozi di generi alimentari. E lo stesso può esser detto
della signora Raffaella Paolillo, genitrice dell’affettuoso e preparato bancario, Aldo Sirianni o, infine, per “Rena” (la forma
aferesata del nome Irene), che, con la collaborazione costante
delle figliole, che erano tante, (i maschi, Ugo e Gigetto Colosimo, avevano scelto ben altre strade) conducevano, simultaneamente, un negozio di generi alimentari, un bar, una sorta di circolo ricreativo e dopolavoristico, ed addirittura (proprio dinanzi al fabbricato di loro proprietà, all’innesto della strada provinciale per San Tommaso), una “pompa” per la vendita dei carburanti. Il ragioniere Ugo, divenuto bancario, aveva sposato la distinta figliola di un cittadino statunitense, di origine soveritana,
rientrato definitivamente in patria, mentre Gigetto aveva scelto
di lavorare all’Aci di Catanzaro.
Poco spazio, allora, per i giovani, in quei tempi? Non può essere detto in assoluto, ma è innegabile che c’erano quelli che sapevano pure muoversi, con discreta fortuna, tra gli ostacoli opposti da una mentalità ristretta, vigile, snervante, fatta di gelosia
morbosa, tante volte camuffata da… rispetto per l’altro.
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Allora, nel pieno dell’adolescenza – in una misura inversamente proporzionale a quel che, poi, inspiegabilmente accade a
partire da quando si superano i venti, trenta anni – il tempo
scandiva lentamente, molto lentamente, le sue ore, le sue giornate, le sue settimane, i suoi mesi, accendendo in moltissimi il
desiderio di accelerare il processo di emancipazione all’insegna
del minaccioso… “Non appena sarò maggiorenne…” (e sì che,
allora, c’era da attendere, per essere… grande, il compimento
del ventunesimo anno di età!).
Soveria andava fiera del suo Corso Garibaldi (con la vecchia Piazza Nuova, punto mediale della non dimenticata Via
Unità d’Italia, poi intitolata al Nizzardo) ampio, lindo, ordinato, sempre adatto ed aperto al traffico, intenso e pesante,
che si sviluppava, nei due sensi di marcia, tra la Sicilia e Napoli, e che, oltre tutto, forniva buonissimi saggi di cucina casereccia con la trattoria “da Guido” (che operava proprio nel
locale, a nord della vecchia Chiesetta della Purità, ove oggi, in
un bozzetto urbanistico completamente cambiato, c’è la rivendita dei tabacchi che fu di Egidio Costanzo (papà di Giovanni, Teresina e Aldo) e che ora è condotta dal figliolo del
compianto vigile urbano, amico di tutti, Mario Cavalieri) e,
soprattutto, con il ristorante “Donnadele”, ricordato nei loro
diari, da tanti tra i viaggiatori stranieri ed italiani (allogato nel
fabbricato a pian terreno, dai consunti pavimenti in legno
massiccio, che insisteva sul suolo edificatorio poi occupato
dalla casa di abitazione del compianto mastro Oreste Chiodo,
personaggio serio, stimato, carismatico che diventava, a seconda delle circostanze, l’angelo o il deprecato capro espiatorio, per le famiglie degli emigrati in attesa di una lettera dai
congiunti lontani, che tardava a pervenire).
A quest’ultimo si sarebbe aggiunto, da lì a qualche anno,
anche il “Garibaldi” di Michele Sirianni, punto di ritrovo per
la gioventù con qualche anno in più, in vena di affogare, in un
bicchiere di buon vino, delusioni e contrarietà. Con chi scrive, di tanto in tanto, vi si trovavano, il più delle volte, i vecchi
amici Luigino Sacco, Egidio Cardamone, Aldo Costanzo,
Raffaele Sirianni (d’ ’o Barraccune) ed Antonio Caligiuri, alias
‘Ntoni ‘u sartu, un artigiano arguto e mordace, passionale e
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generoso, dalla battuta facile e dalla linea politica non del tutto “comoda” per quei tempi.
A questi locali, per così dire di “classe superiore” sono da
aggiungere le “storiche” osterie con banco di mescita (’e putìche) che andavano da quella di Grabbièle Cacarìzzu a quelle di
za’ Michelina Torchia, Angiluzzu Cerra, Cicciu ‘u Caìnu,
Giuànni ‘e Tuturinu, Michelina ‘e Zeza, Luice d’o Tota e zù
Franciscu ‘u Panettìeri. La “serie” doveva essere definitivamente chiusa da quella, in piazza Bonini, condotta dall’indimenticato, povero, amico di tutti, Ugo Marasco, passato a miglior vita, di recente, dopo essere stato costretto, solo da una
imperdonabile malattia, a calare la saracinesca sul suo esercizio
– in pratica, l’ultima delle putìche di Soveria – che gestiva con
cura e dedizione al servizio di una clientela varia ed ampia.
Nulla da ridire, quindi, sul corso principale del paese, ove, la
solita monotonia dell’abitudine si dissolveva solo d’estate,
quando la popolazione indigena veniva imbottita da… gonnelle
venute da lontano, con le loro famiglie, a respirare un po’ di aria
pura, a beare d’ossigeno i bronchi, alla ricerca d’una decisa rimozione delle tossine. Ed erano, queste bellezze forestiere, occasioni gradite di visioni ammalianti se non di veri e propri progetti d’amore. Si costituivano, così, anche belle e festanti comitive, che davano un vestito di festa all’arteria principale del paese,
il quale non mancava di ospitalità e sapeva ben aggregarsi con
questa gente nuova, innamorata delle nostre ridenti contrade.
Non questa era, per converso, la situazione nella parte del
centro abitato interessata alla provinciale per Nicastro che,
dalla Colonna di Garibaldi – la stele marmorea che ricorda la
resa incruenta dei Borboni del generale Ghio nell’agosto del
1860 – in giù procedeva in… terra battuta, dispensiera di polveroni asfissianti al passaggio, per la verità ancora piuttosto
raro, di automobili ma anche di carri agricoli trainati dai buoi
o da un mulo nerboruto e resistente.
Il suo paesaggio scarno, piuttosto statico, indolente, all’altezza de ‘a funtana d’e ciucci28 – che, in passato, doveva essere,
ed era veramente, l’abbeveratoio per gli animali da soma, per
28 La fontana degli asini, così detta in quanto abbeveratoio per le bestie.
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greggi ed armenti, che rientravano dalle campagne o dai pascoli – si arricchiva di uno scenario austero e riposante che includeva, nell’immaginaria cartolina illustrata, la macchia dei
Valli, verde e produttiva appendice osmotica del vecchio, signorile “Palazzo” dei Marasco, con alle spalle il campanile
slanciato e splendido di una Chiesa molto bella anche prima
del restauro – quella di San Giovanni il Battista, che custodisce un altare artistico, opera seicentesca di Cosimo Fonzago,
da circa un secolo monumento nazionale, ma anche remoti,
discreti, cocenti sospiri d’amore giovanili (quale migliore occasione di una funzione religiosa per respirare, nello stesso
ambiente, la medesima aria respirata dall’amata?) – che, prima del passaggio ai nuovi proprietari, era parte integrante o,
almeno, altra appendice del palazzo per antonomasia, del
maniero in questione. Ma è lecito definirlo così? Bah… la
parvenza della costruzione tipo medioevale, almeno, ce l’ha.
Sul lato destro del sottofondo dell’immaginaria cartolina,
si stagliava il lungo muro della vecchia piazza centrale (dall’urbanistica dovuta, in gran parte all’estro progettuale dell’ingegnere Michele Grandinetti, naturalmente del luogo), alle cui estremità insistevano, a sinistra la casa di Donna Marietta o di Amedeo De Filippis e, nella parte opposta, quella
dei “Chijrivilli” (chi non ricorda i vecchi, buoni amici Felice,
Carmelo, Alfredo e Ottavio Cardamone?). Una veduta d’insieme che richiamava, così com’era, tanti scorci del paesaggio
toscano, capace di impossessarsi della tavolozza spesso sgargiante ma sempre insuperabile, di un Ardengo Soffici o della
vena artistica di uno dei tanti crepuscolari, il cui messaggio
pur aveva raggiunto la Calabria, quando un giovane poeta del
Reventino – Franco Berardelli (1908-1932) di Martirano29 –
alle prese con una lotta immane e consapevole per disfarsi
della tisi che lo teneva in costante agonia, ne restava ghermito, sì da privare per sempre, del suo canto impareggiabile, le
nostre contrade, che non aveva ancora osannato nei suoi ver29 Del poeta Berardelli, di cui tanto resta ancora da pubblicare, vanno ricordate le sillogi poetiche “I sonetti” e “L’altra cosa bella”, ma anche la tragedia in due quadri “Salomè”, conosciuta dai più fortunati che l’hanno integralmente potuta gustare, leggendo il numero doppio di «Calabria letteraria» del-
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si, alle prese com’era con il suo fondato presentimento di
morte imminente; un presentimento che era dolore e che si
portò addosso per gran parte della sua breve esistenza.
Quanta Poesia scaturiva da quell’inquadratura panoramica delimitata da una strada polverosa, alterata, nella parte
centrale del selciato, da una sorta di solchi paralleli, tracciati
per forza d’inerzia dalle ruote dei carri agricoli o dagli pneumatici di auto e camion! C’era e non c’era la Musa, allora.
Se, però, la Poesia era nella sostanza delle cose semplici
che ornavano le campiture del quadro immaginato, mancava
chi fosse pronto ad impadronirsene per tradurla in versi,
sciolti o rimati, onde fissarne l’essenza. Ma la Poesia c’era.
Era nelle cose. Come c’era il bozzetto da tradurre in un accostamento equilibrato ed eloquente di colori, sia che fossero
supportati dall’olio e sia che lo fossero dall’acrilico.
Oggi, quando tutto è cambiato, quando gli scenari sono
così diversi che non sempre sono riconoscibili, le notazioni
poetiche e le sottolineature cromatiche di allora sarebbero
state la prova documentale di un certo momento storico e di
almeno uno dei tanti progetti d’amore che vale, per davvero,
ancora la pena di ricordare con commozione.
Più giù, la vecchia iconetta votiva, dedicata alla Regina del
Rosario (più nota come Madonna di Pompei) che, ora, restaurata per bene, resta lì, solo ad accogliere le preghiere delle vecchiette durante il “maggio mariano” ed a ricordare che – una
volta – quello era il punto ove si chiudevano i cortei funebri, i
cui componenti, a turno, in un silenzio sovrumano punteggiato,
a volte, anche da qualche singhiozzo sincero ed improvviso,
porgevano, le loro condoglianze per la dolorosa dipartita.
Ancora più giù, a circa un chilometro di distanza, il cimitero urbano, inevitabile punto di ritrovo definitivo per tutta
la gente del paesello, anche di quella lontana che, da queste
parti, nell’emigrare non per propria volontà, ha lasciato il
cuore.
l’aprile-maggio 1956. E la versione berardelliana di Salomè – scrive Vincenzo
Scalese in «Calabria letteraria» nn. 10-11-12 di ottobre-dicembre 2001 – è “decisamente diversa dalla rappresentazione che di questa affascinante quanto
equivoca figura biblica fanno Flaubert, Heine e, soprattutto, Oscar Wilde”.
46
Il camposanto come ultima occasione per ritrovarsi? Un
po’ triste, ma resta, forse, l’ultima speranza. Il campo dei
morti, qui, allora, era striminzito, malandato. E la capienza
era condizionata anche dall’usanza “obbligata” di interrare i
cadaveri, sotto una teoria di tumuli allineati e sovrastati da altrettante croci brune, in ferro o in legno, che segnalavano,
ciascuna, la presenza dei poveri resti d’un soveritano. E, in
certo senso, gente di Soveria erano considerati i tre tedeschi
(le cui croci erano segnate dai relativi elmetti nazisti) che avevano perso la vita, da queste parti, durante le operazioni di
una guerra contraddittoria seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943.
Gente di Soveria… Già… perché, diversamente, chi mai
avrebbe potuto onorarne la memoria, in occasione della Commemorazione dei defunti, con anonimi fasci di fiori e scoppiettanti ceri? Nel mesto, doveroso, viatico del 2 novembre,
erano davvero in tanti quelli armati di dalie e crisantemi, oltre
che di lumini e simili, destinati ai poveri militari stranieri, caduti per una causa non bella ma, certo, non escogitata da loro.
Piccolino, piuttosto vecchiotto o, almeno, a corto di manutenzione, nonostante la presenza costante del puntuale custode Giuseppe Posella, non rendeva per nulla pesante, noiosa, la sosta nell’ampio spiazzo antistante il cancello d’ingresso
o, anche, tra le tombe, lungo i vialetti ornati da frassini e cipressi, le cui chiome grossolanamente coniche, ricolme di
bacche, ventilavano sommessamente quel luogo sacro, sotto
la spinta carezzevole delle aure azionate dal vicino cariglieto
di Cilla, che Sermòne aveva cominciato a frequentare, per
una buona ossigenazione, sollievo vero dell’apparato respiratorio, durante i suoi primi studi seri, autonomi e sistematici.
E che, molte volte, Poesia, negli attimi di riflessione o di desolazione interiore, poteva raggiungere solamente con il suo
sguardo malinconico e profondo, sospirando.
Cilla… fantastica contrada, la cui magica selva dal sottobosco trapuntato da mille erbette aromatiche, piantine spontanee e rampicanti di fragole e collettami di primule, ciclamini e margherite, lasciava tanto spazio ai volatili nidificanti che
allietavano, con un cinguettio vario e mirabolante, la collina.
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In lontananza, c’era anche un capannone in muratura che
dava ospitalità ad un cospicuo allevamento di bovini, gestito
dalla famiglia Fragale, per conto dei Cimino, anche per alimentare quella sorta di “centrale del latte” che operava all’inizio, lato-nord, dell’allora Viale dei Pini (ora divenuto Viale
Rosario Rubettino).
Poco prima dell’imbrunire, quotidianamente, c’era un nutrito andirivieni tra il centro abitato vero e proprio e quella
latteria che occupava almeno due di quella teoria di capienti
magazzini, per il resto utilizzati come stalla o, durante la stagione del raccolto, per l’attenta selezione e la meticolosa distinzione nelle varie specie del succulento prodotto ricavato
da ‘u milìtu ‘e Ciminu30.
Era, questa produzione, tutta legata ad un frutteto immenso che si estendeva sull’aprica pendice del rilievo orografico
compreso tra, a ovest, ‘u cozzariellu d’a chiana31 (il punto ove
ora sorge l’ospedale civile zonale, nato dall’iniziativa della civica amministrazione di allora, a guida democristiana – sindaco ne era il dott. Domenico Lojacono – che, per l’occasione
chiese ed ottenne l’appoggio attivo ed incondizionato del
compianto, valoroso ed attento maestro elementare Rosario
Cardamone, segretario della locale sezione del PSI, il quale
poteva ben avvalersi, come si avvalse, dell’intervento autorevole del Ministro della Sanità pro-tempore, il socialista cosentino Giacomo Mancini, cui poi venne conferita la cittadinanza onoraria di Soveria) e, ad est, il ponte ferroviario di
Sant’Andrea, che insiste sull’omonimo torrentello, e località
Cantarella, fin quasi Colicella, alla periferia nord-est della frazione San Tommaso.
Con il nosocomio civico zonale, Soveria Mannelli, intanto, coronava un suo vecchio sogno, già accarezzato, e…
mezz’acciuffato, per così dire, nello scorcio di tempo a cavallo tra gli Anni Quaranta ed i Cinquanta, quando un giovane medico, iroso ed impaziente, ma anche dotato di una
certa preparazione professionale e di un’audacia nel me30 Superficie ricoperta di una grande piantagione di meli, di proprietà dei
Cimino.
31 Il dosso detto della “Chiana”.
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stiere, forse utile, allora, quando il servizio sanitario non
era molto sviluppato e diffuso, realizzò persino una clinica.
Era la “Salus” del dottor Guido Pellico, originario di Scigliano, che aveva convogliato nella sua struttura privata, insistente in capo all’ascoso Viale Colosimo Sante – la vecchia strada alberata che portava, e porta ancora, alla stazione della FCL – anche dei buoni specialisti, tra cui il chirurgo cosentino Docimo.
La prima cliente della “Salus” fu proprio una soveritana,
Maria Grazia Sirianni, la madre della signora Orsola (Ursulilla, per intenderci), una specie di infermiera ambulante, specialista delle iniezioni anche endovenose, che faceva da corollario alla clinica.
La povera Maria Grazia – la dolce vecchietta filatrice che
campeggia sulla copertina di “Saggezza popolare calabrese”,
una raccolta di proverbi e modi di dire curata da Raffaele Proto –
era stata investita, proprio davanti alla clinica, da un camion che
le aveva provocato uno squarcio circolare alla gamba destra,
senza tuttavia scalfire né tibia né perone. Non si trattava di una
difficile operazione, ma la gamba venne ben rimessa a posto. E
si cominciò con il dire un gran bene di quella specie di “pronto
soccorso” ben attrezzato che, però, si impegnava anche in interventi chirurgici che non richiedevano suppellettili e strumenti
molto sofisticati. Gli specialisti, ad ogni modo, provenivano
sempre da fuori. Le cose si complicarono, poi, quando una certa politica sociale del governo, cominciò ad agevolare l’accesso
dell’utenza al servizio pubblico.
La “Salus”, così, finirà solo con il servire da contrassegno
al democristiano Pellico (che, però, si candiderà come indipendente) nelle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Catanzaro. La “clientela” non mancherà di abbandonare il simbolo storico della DC (scudo crociato con scritta
“Libertas”), sotto il quale si era candidato il dott. Lojacono,
per votare la “croce” della “Salus” ormai inesistente e del Pellico, che fu eletto.
Il centro di Soveria Mannelli, che era il fulcro del collegio
elettorale uninominale per la Provincia, dimostrò anche tanta
maturità e “amor di patria”; sì, perché, in contemporanea,
49
elesse anche un altro indipendente, l’avvocato Lello Marasco,
che si era candidato sotto il contrassegno della “scala”, i cui
sostenitori non avevano tardato a proclamare che “il mondo è
fatto a scale, Pellico scende e Marasco sale”. Il “vaticinio”,
però, non fece del tutto centro perché le cose andarono diversamente. Morale: il collegio aveva saputo esprimere due consiglieri provinciali, circostanza che non si verificherà, poi, mai
più, anche perché, intanto, i due avversari avevano optato per
l’esclusiva attività professionale, al riparo da qualsiasi mena
politico-amministrativa.
Ora, però, l’ospedale zonale, che nel periodo iniziale aveva assorbito tutti i medici privati che operavano nel paese
(salvo, poi, a tornare alla libera professione), cominciava a
fare passi da giganti, tali da non far rimpiangere proprio nulla, se il dott. Luigi Vatalaro, primario in uno dei Reparti, ha
potuto rilasciare alla stampa una dichiarazione che non si
prestava ad equivoci. “È vero. Abbiamo eseguito recentemente un intervento di gastrectomia totale al di sotto del cardias per una neoplasia di tutta la piccola curva con interessamento di buona parte del corpo gastrico. Esso fa seguito ad
altri interventi di resezione gastrica subtonale, in cui cioè si
lascia la parte superiore del fondo gastrico per circa 4-5 cm.
Naturalmente mi riferisco ad altri pazienti... L’intervento
comporta una serie di problematiche tecniche, che forse si
pensa non segnalabili in un Ospedale della pre-Sila, ma io ritengo che ciò non è esatto in quanto ogni chirurgo che ha
operato sulla via digestiva possa eseguirlo. Il discorso diventa, invece, diverso e decisamente impegnativo nel decorso
post-operatorio per un ospedale come il nostro con scarso
personale medico e paramedico, senza centro di rianimazione e cosi via… Nonostante ciò, siamo riusciti, sulle scorte
che avevamo come risultato della previdenza organizzativa,
a superare con le metodiche più attuali, le difficoltà incontrate”32.
Ma torniamo al frutteto dei Cimino. Quale fervore commerciale, allora, per lo smercio di quelle mele, a sistemare le
32 «il piccolissimo», A. 2, n. 42 del 20 novembre 1986, pag. 6.
50
quali venivano impiegate tra le trenta e le quaranta giovanette
da marito che, forse involontariamente, richiamavano molto
spesso, da quelle parti, allegre, rumorose brigate di corteggiatori e “pretendenti”!
Beh, anche lì, ad apprezzare ed auspicare lo sviluppo di
quel temporaneo movimento, che dava una mano all’economia
miserella del paese, mancava un razionale disegno di crescita.
Era assente qualsiasi ben congegnato Sermòne di supporto sul
come schiudere il mantello industriale a quella frutticoltura
sorretta da una tecnologia del tutto inesistente e sostanzialmente fondata sulle procedure ed i sistemi tradizionali.
E si può, di certo, anche dire essere assente l’aspetto poetico, che nei fatti l’aveva fatta sempre da padrone nel pianeta
rurale indigeno di gran parte delle sue epoche storiche anche
le più remote. Mancava la Poesia, il lirismo campestre che,
magari, veniva oscurato dalla precarietà del lavoro di quelle
giovani operatrici, cui toccava sempre di non lasciarsi contaminare da pretese sindacalistiche. Certo, la vita dei campi,
quella dura ed aspra, che spezza in quattro la schiena delle
braccianti ma che garantisce ben poco a chi ne è protagonista, lascia uno spazio nullo alla Poesia, ma chi ha mai potuto
dire che questa non sappia comprendere quella?
Cilla, poi, beneficiava indirettamente anche di un’attrazione particolare nella zona. Sì, perché, lasciato il cariglieto da
sogno a raggiungere la vecchia provinciale per Nicastro, proprio all’altezza dell’incrocio con la strada ad una carreggiata
per Santa Maria e per Iunci e della centralina elettrica, allora
in corso di realizzazione ed ora in disarmo (su un traliccio dei
quali perdeva la vita, in un raccapricciante infortunio sul lavoro, Michelino Sirianni, un giovane buono, un tecnico di valore, ghermito proprio dalla struttura che egli stesso aveva accompagnato nella realizzazione del relativo progetto e che,
pertanto, doveva conoscere molto bene. Quando si parla di
destino, di scalogna… Anche le cose che costruisci con le tue
mani, con le tue energie, con i tuoi sentimenti, con il tuo cuore possono ucciderti!), basta percorrere un curvone ed eccoti
ai Liardi, il piccolissimo centro abitato che rende contermini i
comuni di Decollatura e Soveria Mannelli.
51
La pittoresca, periferica, contrada decollaturese propone,
nel sottofondo di un suo “assieme” panoramico, la vecchia
villa dei Grandinetti e pare, ancora, sentire dall’alto dei veroni della casa paterna, la voce calda e suadente del buon don
Antonio, il veterinario bravo, generoso e sempre pronto con i
contadini della zona, che lo adoravano e lo cercavano, nonostante, almeno nelle apparenze, egli impersonasse una figura
rigida, molto seria e lineare.
Era, l’ottimo professionista, uno di quelli che, portatori
convinti e consapevoli di una ideologia scomoda per quei
tempi e piuttosto ignorata nella zona (più probabilmente
perché la gente preferiva non guastarsela con gli esponenti
locali dei partiti governativi), non ostentava provocatoriamente il suo credo di combattente nell’appendice turbolenta del ventennio mussoliniano ma secondava, di buon grado
e con grande rispetto per l’altro e, quindi, anche per “costruire”, senza partigianerie e senza personalismi, la tendenza in voga per il dialogo e il confronto serio. Un signore del
vecchio stampo, autentico, dal rigore morale ineccepibile,
anche nel delicato settore della politica, in cui, generalmente, un Giano bifronte si troverebbe molto a suo agio. E
quando, con uno dei primi tipi delle motorette che si affacciavano ormai anche sui mercati non opulenti della Calabria, dai Ruzzi raggiungeva Soveria, ove contava anche parenti e molti estimatori, non c’era veramente nessuno a privarsene del consiglio o dell’opinione che egli andava facendosi sui problemi locali o nazionali.
Liardi, inoltre, poteva, e può ancora, menar vanto della
fontanella rustica, fresca e gorgogliante di Gargiglia (anche
se ai giorni nostri, l’abbandono delle campagne ha avuto il
suo peso sconcertante anche qua), così cara al popolare Michele Pane, il multiforme poeta della vicina Adami, nelle cui
arterie fluì il sangue del grande Francesco Fiorentino, il filosofo di Sambiase che, a lungo riflettendo sul pensiero rinascimentale, aveva dato smalto alla complessa cultura calabrese.
Tu stai sempre ammucciata, mia funtana /
sutta la Petra ‘rande allu cavùne; /
52
si fùossi a ‘na città ‘nu miliùne /
pagherranu ssa frisca acqua chi sana; /
te vuogliu bene ‘e quand’era guagliùne, /
cara funtana mia de lu cavùne. /
Tu canti sempre all’umbra d’e castagne /
e llùocu, ‘a notte, ‘e fate hannu cumbiegnu./
Nun viju l’ura, sai, mu mi nde viegnu /
bella funtana mia, ‘ntra sse muntagne /
ppe’ me stutare l’arsùra chi tiegnu /
ccu’ ss’acqua frisca chi vale’nu riegnu. /33
Ma l’acqua di Gargiglia aveva delle qualità salutari, terapeutiche, che non sfuggivano neppure a Sermòne, sia che venisse ingerita per ristorare la struttura labiale sempre impegnata a bisbigliare parole d’amore e desideri inappagati, e sia
che venisse usata per un bagno d’acqua dolce ne ’u vullu, in
quel tònfano, cioè, che, in genere veniva artificialmente improvvisato, tante volte dagli stessi aspiranti utenti, con una
tura rudimentale:
S’io fùossi mièdicu, a certi tali / chi su malati viernu ed astate, /
‘mbece d’e tante cure e picàte /
chi accrisciu sempre cchiudi li mali / –
io ‘nu rimediu chi nun sa nullu / e ch’è daveru ‘na maraviglia /
raccumandèra: dintra lu vullu / ‘nu vagnu friscu d’acqua ‘e Gargiglia.
Chista è la prova: si la migrània / me duna pena, ppè riposare /
curru a Gargiglia, ed ogni smania /
dintra lu vullu sientu passare; /
e quando nudu ‘ntra lu linzùolu /
m’asciucu sutta d’u sule ardente /
33 Tu stai sempre nascosta, o mia fontana / sotto la Pietra grande del burrone. / Se fossi in una città, almeno un milione / pagherebbero questa fresca acqua che guarisce. / Ti voglio bene da quando ero ragazzo / cara fontana mia del
burrone. /
Tu gorgheggi sempre all’ombra dei castagni / e costì, di notte, le fate si
danno convegno. / Non vedo l’ora, sai, di ritornare / bella fontana, tra codeste
montagne / per spegnere la grande arsura che ho / con l’acqua fresca tua che
vale un regno!/
53
partu d’u core, piglianu vuolu /
i viersi, e frisca resta la mente. /34
Ecco, allora, di nuovo, la Poesia viva, autentica, eternante,
che, mentalmente rievocata, si fa avvertire come presente,
preponderante, insostituibile. È pena, è tormento, è delirio, è
struggimento per chi si ostina a rincorrerla per garantirsi la
pace interiore. Come per Sermòne. Come, appunto, prima,
per Michele Pane che, nelle vicende romantiche di queste
splendide plaghe collinari, c’entra sempre e ci sta molto bene.
Onore a lui che riesce, con i suoi versi, a rinverdire i ricordi di
un passato che, al postutto, può essere anche lontano, benché
pronto a rimostrarsi.
Un discorso nuovo su Pane, sarebbe valso ad attualizzarne
il messaggio poetico, quanto meno… Specie se fatto in una
chiave diversa da quella, in prevalenza, usata dalla critica cosiddetta ufficiale.
Il maestro Angelo Tucci, ricordato ed anche con qualche
rimpianto, ancora, dai meno giovani di Soveria Mannelli, ove
egli operò puntigliosamente e morì, era, al di là del cognome
diverso legato a una disumana, dolorosa legislazione, per fortuna ora giustamente cambiata, era, e resta, il padre naturale,
vero, di chi scrive.
Egli cominciò a praticare il mestiere di insegnante, ai primi albori del fascismo, in una contrada delle pendici orientali
del Reventino – Lisca pare si chiamasse la località – in una
scuola rurale e, subito dopo, nelle elementari di Adami, proprio quando, dalle lontane Americhe, cominciava ad echeggiare, viva e prepotente, la creatività poetica di Michele Pane,
che grondava: nostalgia per il lontano paesello natio, rimpianti per gli affetti e gli amori, ansia struggente di un ritorno
34 Se io fossi medico, a tutti quei tali / che sono malati d’inverno e d’estate /
invece di tante cure e di empiastri / che fanno crescere più la malattia / Io un rimedio che non conosce nessuno / e che è veramente una meraviglia / raccomanderei: entro quel tonfano, / un bagno fresco d’acqua di Gargiglia. /
Questa è la prova: se l’emicrania / mi dà dolore da non riposare / corro a
Gargiglia ed ogni smania / dentro quel tonfano sento passare. / E quando nudo in un lenzuolo, / m’asciugo al raggio del sole cocente / partono dal cuore e
prendono il volo / i versi ed aperta mi resta la mente. /
54
praticamente impossibile, vibrazioni emotive per ricordi mai
accantonati, intuizioni liriche di sentimenti e realtà.
Circolavano, anzi, dattiloscritti od olografi, ma anche su
qualche rivista specialistica, i suoi componimenti poetici, visto che le relativamente poche copie delle raccolte “Viole e
ortiche”35, “Accordi e suspiri”36, “Sorrisi”37 e “Peccati”38 e,
poi, anche “Musa silvestre”39, erano andate a ruba, assorbite
impietosamente dal mercato librario con il comprensibile disappunto di quanti, raggiunti dalla fama del grande Poeta addamàru40, interprete fedele e toccante della civiltà contadina
pre-silana e di tutti i suoi valori peculiari e distintivi, volevano
venire in possesso di quei suoi versi vibranti d’amore, che pur
cominciavano a correre ed a risuonare sulle labbra di tanta
gente semplice ed illetterata.
Il bravo maestro, beneficiando allora dell’amicizia di tanti
professionisti della zona imparentati con Michele Pane, aveva
letto quasi tutto di quel Poeta romantico, e tutt’amore e nostalgia, di cui una critica, ancora timida, aveva già fatto “l’usignolo
del Reventino”, il “Pascoli della Calabria”. Ed era stato, poi,
proprio lui, accodatosi forse un po’ acriticamente a quell’interpretazione piuttosto parziale di un autentico giocoliere del nostro dialetto, che aveva propiziato l’avvicinamento di chi scrive
al Poeta addamaru, il quale pure era un maestro elementare,
crucciato della sua emigrazione forzata che gli aveva impedito
di proseguire, anche ufficialmente, i suoi studi classici.
Il Tucci si diceva soddisfatto di quel modo d’intendere il Pane, di cui citava a memoria molti versi, scandendo entusiasta le
reiterate espressioni onomatopeiche che riproducevano voci,
rumori e suoni delle cose citate come il bràbiti brùbriti bràbiti
brà dei tùmbari41, il pepoli pili dell’organu d’a gghjiesa42 o ‘u lliri
35 New York, 1906.
36 Napoli, 1911.
37 New York, 1913.
38 New York, 1916.
39 Catanzaro, 1930.
40 Cittadino di Adami.
41 Tamburi.
42 L’organo suonato nella Chiesa.
55
mpillirìri de ’a zampùgna43 o, ancora u ‘nfringhiti ‘nfringhiti de ‘a
chitarra44, il cucù cucù del cucùlo presunto indovino oppure il
tip-tuppi-tà del mànganu45 e ‘u nzunni-nzunni di strumenti natalizi… fatti in casa.
Se solo ci si fosse fermati a quanto si andava prendendo
per oro colato, però, la conoscenza di Michele Pane sarebbe
stata senz’altro monca. Si deve, perciò ad un altro valente
intellettuale decollaturese – il non dimenticato Peppino
Scalzo, che chiuse la sua carriera di docente al Liceo classico
“Galluppi” di Catanzaro – l’incentivo ad approfondire la ricerca critica su Pane.
Durante una delle quotidiane spole nel primo mese d’estate, alcuni Commissari che, da pendolari, raggiungevano Crotone per gli Esami di Maturità nei diversi Istituti, nella macchina in cui viaggiavamo in cinque, il discorso inganna-tempo
era caduto, occasionalmente, sulla poesia vernacolare calabrese e – meraviglia delle meraviglie – il professore Scalzo cominciò a declamare, con una decisa, accattivante e corretta
dizione e con un’espressione tonale molto propria ed ortodossa (quella delle vecchiette d’altri tempi), i versi melodici e
gratificanti del Poeta di Adami, i cui interessi andavano veramente molto di là da quelli concernenti il “mondo delle piccole cose” di pascoliana memoria.
Peppino Scalzo proponeva, estatico e sereno, convinto
ed ammirato, ai compagni di viaggio, tra cui due compite e
coltissime professoresse di discipline umanistiche, il Pane
che, ancora oggi, si conosce di meno o non si conosce affatto; il Pane traduttore, il Pane giornalista, il Pane dal convinto dovere d’impegno sociale e, accanto al Pane dell’amore casto, vero e serenatore, anche il Pane erotico, sacerdote devoto dell’amore carnale, ricercato o anche “strano”
(per dirlo alla Carlo Verdone), che è quello più forte e vero
e che, più d’ogni altro, forse, dispensa piacere e gratitudine, appagamento dei sensi, eternazione del legame.
43 La zampogna.
44 La chitarra.
45 L’attrezzo rudimentale che maciullava il lino.
56
Basta un’occhiata fugace a quell’insieme di creazioni poetiche erotizzanti raccolte sotto il molto eloquente titolo “Peccati”, partendo da “alli racritici”.
M’accusu d’essare ‘nu veru arcissimu, /
santu diàvulu ppe’ le gunnelle /
ma ‘un mi nde scuornu né pientu mai /
pecchì a sta pòvara vita le femmine /
sule hannu datu l’ure cchiù bbelle: /
lu riestu è statu guai supra guai. /
E mo’ ‘e gunnelle, care e simpatiche /
puru me tàntanu a quarant’anni /
chi già me gravanu supra li costi; /
ma io l’anni ‘e carculu n’amata chìjrica /
cà ppe puntillu, cuntra i malanni, /
tìegnu ‘nu bàculu de li cchjù tosti. /
Dùnca, i peccati ch’haiju d’’e fimmine /
schette o scattate, janche o brunette /
Crepi la mbidia! Su veniàli. /
Vue chjni ‘e scrupoli, gridati: Scandali! /
Ma ve sucàti, cumu sanguette, /
l’arrìtta-tonici de li speziali. /46
Non sarà sfuggito ad alcuno il profetico verso dell’arritta-tonici delli speziali che richiama il tanto discusso e ricercato “viagra” dei nostri giorni. Ed ancora il componimento “Gula”:
D’ ‘u cielu nun aspiettu nulla manna /
e ‘stu core grandizze mancu spinna; /
‘na sula gula tiegnu, Anna, Sant’Anna: /
46 Mi accuso d’essere molto tremendo / un vero satanasso per le gonnelle /
ma non me ne vergogno o pento mai / perché a questa povera vita le donne /
soltanto han dato le ore più belle: / il resto è stato nient’altro che guai! /
E ora le donne, care e simpatiche / mi tentano pure a quarant’anni / che
già pesano sulle mie coste / ma io non le calcolo proprio un tubo, / ché per
scongiuro contro i malanni / tengo un bastone di quei più duri. /
Quindi, i peccati che ho per le donne / nubili o sposate, bianche o brunette / – Crepi l’invidia – sono veniali. / Voi, per gli scrupoli, gridate: Scandali! /
Ma vi imbottite, come sanguisughe / di afrodisiaci dei farmacisti.
57
‘nu schicciulùne ‘e latte d’ ‘a tua minna! /
Santa t’haiju chiamata e nun se ‘nganna /
chine cce cride, ca tu si’ Madonna; /
Ppe’ ttie ‘st’anima mia, cride, se danna /
e de t’avìre sua sempre se sonna. /
Tu, chi d’ ‘a vita mia si’ lla culonna, /
Anna, càntame tu, la ninna-nanna; /
Fàllu ppe carità, dùname nnenna, /
ca ccu llu latte tue lu ‘ngegnu mpìnna! /
Si si’ tiranna, ‘stu core se ‘mbùnna; /
mùoru, e lla gente pue te fa lla zenna, /
Anna, Sant’Anna, Madonna, Culonna, /
lu campanìellu tue chi ti lu ‘ntinna? /47
Ma come potremmo privarci del richiamare ‘U cuntrattu
e, quindi, le generose, ripetute offerte d’amore carnale alla
vedovella, il cui marito è morto proprio per aver amato moltissimo le donne. Egli potrà saziarla se ne ha voglia e ogni qual
volta ne abbia voglia:
Lu maritu, ppe jire a Serrastritta /
troppu allu spissu, le morìudi spattu, /
le lassau ‘nu mulinu e mo’ st’affritta /
l’ha chjusu, cà nun c’è ‘n’uòminu adattu /
mu lu ‘ntrimòja e sburga lla sajitta. /
Brunette’, lu facimu nue ‘nu pattu? /
dùname lu mulinu a mie ‘n’affittu: /
Su viecchiu mulinaru adattu e ‘sattu /
e ogni notte ‘nu tumminu de vittu /
T’acciertu curmu: vadi’u cuntrattu?
Haju cantatu a ‘nu jurillu affrittu: /
47 Dal cielo non aspetto alcuna manna / e questo cuore, grandezze non spande: / una sola voglia ho, Anna, Sant’Anna: / uno schizzo del latte della tua mammella! / Santa t’ho definita e non si inganna / chi crederà che tu sei Madonna: /
per te quest’alma – credimi – si danna / e di averti per sempre sua egli sogna. /
Tu, che della mia vita sei la colonna, / Anna, cantami tu la ninna-nanna; /
fallo per carità, dammi il tuo latte, / ché col tuo latte l’estro mi si fa alato! / Se
ne sei avara, il mio cuore ne soffre: / io muoio, e la gente poi di te si burla; / Anna, Sant’Anna, Colonna, Madonna, / le grazie tue, poi, chi le coltiva? /
58
azzètta chistu pattu, o mia brunetta /
E aji voglia de viscùotti, s’hai pitittu!48
Di poesie poco castigate, il Pane ne ha fatte tante altre, alcune delle quali sono tanto realisticamente spinte da indurre a saltarle non essendo, chi scrive, interessato a valorizzare più del
giusto, del dovuto e del lecito, tale parte della produzione poetica in esame, che resta, ad ogni modo, sempre un tema ricorrente
nella cultura verbale del popolo contadino, all’interno del quale, in genere, circola il vernacolo ortodosso, che è sempre qualcosa di diverso – come ha giustamente rilevato e dimostrato il
demo-etnologo ed antropologo calabrese Raffaele Lombardi
Satriano – del dialetto in cui, spesso, confluiscono termini moderni, di volta in volta coniati ed adattati, che non facevano
assolutamente parte – e non potevano obiettivamente farne
parte – del più remoto patrimonio linguistico-dialettale delle
nostre contrade. Come poteva esserci il lemma indigeno che indicava, per esempio, la radio, il telefono, il televisore se questi
aggeggi, oggi così comuni, non c’erano proprio?
C’è, semmai, da ricordare il Pane traduttore, questo Cignu
addamaru49 che ha ripreso altri cari poeti, traducendone i versi
nella lingua del Reventino la quale, a parte le sfumature ed i volteggi, che sono propri dei singoli centri abitati, è pressoché
identica nel comprensorio da limitare all’area che comprende le
pendici e le immediate adiacenze del monte così ricco di tradizioni e di leggende, di briganti e gente buona, di villanelle simpatiche e ricercate, di furracchiùni50 pretenziosi ed audaci. Così
ci troviamo a gustare, in dialetto addamaru o, più propriamente,
delle nostre parti, anche notissimi versi in lingua di Giosuè Car48 Il marito, per andare a Serrastretta/ molto spesso, le morì distrutto;/ le
lasciò un mulino e or la poveretta/ l’ha chiuso chè non c’è l’uomo adatto/ a
montare la tramoggia e pulire la condotta./
Bella brunetta, lo facciamo un patto? Dammi il tuo mulino solo in fitto:/
sono un vecchio mugnaio, bravo e preciso,/ e ogni giorno un tomolo di frumento/ ti garantisco colmo: va il contratto?
Ho cantato per un fiore disperato:/ accetta questo patto, mia brunetta,/ e
avrai biscotti abbondanti, se hai fame.
49 Il cigno di Adami.
50 Giovanottoni piacevoli.
59
ducci, Giovanni Pascoli, Olindo Guerrini (Lorenzo Stecchetti), Giovanni Marradi, Vincenzo Padùla, Riccardo Cordiferro.
Del Pascoli, anzi, Michele Pane ha preso in prestito anche
un’artigiana. Sì, perché alla pascoliana “La tessitrice” (poesia
anch’essa tradotta nel linguaggio popolare del Reventino), egli
ha fatto corrispondere il componimento ‘A manganatrice51, la
vecchia casalinga delle nostre contrade d’altri tempi, che operava molto bene anche nel domestico pianeta tessile.
Già, il comprensorio… Come ha trattato, nei particolari,
Michele Pane, nella sua produzione poetica, la bella conca
del Reventino? Sulla questione c’è da fare subito una riflessione, perché, sul piano della forma, non può non essere rilevato che, salve rarissime eccezioni, l’usignolo addamaru parla
sempre della sua Adami con le sue più varie zone, un pochino
meno di tutte le altre frazioni di Decollatura, una sola volta o
due, o per nulla, degli altri centri del comprensorio.
Al più si spinge fino a ‘ntra banda de Curazzu52 nella richiamata poesia ‘U cucùlu, in cui l’uccello-veggente mette sull’avviso il poeta circa il suo bruttu destinu53, consistente nell’amore non ricambiato dall’amata, oltre che nell’imminenza della
morte.
Di Serrastretta parla, invece, in Cuntrattu, ma solo per dire
che un uomo sposato ha reso vedova la propria moglie perché
morìudi spattu per aver cercato, con una frequenza ed una
reiterazione molto esagerata, amori clandestini. Ma più giù ci
si imbatte anche nel valico di Condrò…
Piènsica ‘e bbone, affezionate fate /
– a spassu jute, ‘mbersu ‘gnoti lidi – /
a chissi amati luochi su accurrute /
de cuozzi ‘e Riventinu e dde Cundrò. /
E ‘ntennerite d’u statu chi siti /
51 Chi usa il “màngano”, strumento rudimentale per lo schiacciamento del
lino.
52 Nella vallata di Corazzo.
53 Un futuro piuttosto negativo.
60
‘ndau lacrimatu e v’hannu accarizzatu, /
e vue, ppe ‘ncantu, mo siti jiurute /
cumu le teste d’u vasilicò. /54
È l’ottava che chiude la poesia Turre55, in cui si cantano
ruderi e casolari abbandonati che, ovviamente, sono sparsi
in tutto il circondario, ed anche oltre. Ma è, forse, attraverso queste mura scaciarognàte56, ove ora i porcarielli stanu ricuòti57 che Pane rende omaggio all’intera area del Reventino?
Conflenti non è nominata per nulla, anche se “Cujjentara”58
è il titolo di un lamento poetico, alquanto lungo, in cui la ingrata
‘Nciulinella59 lo manda via, a mani vuote, dopo averlo fatto venire fin qui, dalla lontana America, nel nome dell’antico amore.
Di Soveria e del mondo soveritano parla un pochino in
più. Del resto, è il paese della “conca” ove ha, pure, conosciuto un amore. Se non bastasse un verso di Funtane:
Sona ‘ntra ‘stu mio core e cce rintrona /
lu scrusciu d’a vostr’acqua, o mie funtane /
frische frische, d’e Colle d’Acquavona /
alle addamare, alle suveritane… /60
sarebbe sufficiente richiamare il canto d’intonazione popolare che è un vero inno alle bellezze femminili della graziosa cittadina. Il poeta, con questo breve componimento, rievoca
– ahilui! – un amore, evidentemente contrastato e che deve
essergli costato più di un dispiacere, se non, del tutto, qualche aggressione, ad opera di un rivale o, comunque, di
54 Probabilmente, le buone, amiche fate / – andate a spasso per ignoti lidi / a questi amati luoghi sono giunte / a’ picchi di Reventino e di Condrò. / E intenerite dalla bontà dei luoghi / ne han pianto e vi hanno accarezzati / e voi,
per incanto, siete fioriti come le piante del basilico. /
55 Torri.
56 Scrostate per la calcina caduta a pezzi.
57 I giovani custodi dei porci stanno al riparo.
58 Cittadina di Conflenti.
59 Diminutivo di Angelina.
60 Risuona in questo cuore e vi rimbomba / il rumor de l’acqua, mie fontane / fresche fresche, dal Colle d’Acquavona / a quelle di Adami e di Soveria…
61
qualche soveritano intollerante e geloso per la presenza di un
addamàru a caccia di belle ragazze:
Capilli-rizza mia de Suveria, /
la meglia gioventù ppe’ ttia appizzai! /
Ma ‘na guala bellezza e simpatia /
Io, ppe quantu girai, nun la trovai. /
Lu sadi la Culonna, oi bella mia, /
quantu para de scarpe consumai,/?
ca, ppe vìdare a ttia, io jia e venìa /
e nnente cchiù curai, né me spagnài. /
Moni, quandu t’affruntu la vavìa, /
alli guai piensu chi ppe ttia passai… /
e mi n’de vene ‘na forte pecundrìa /
ca chillu tiempu cchiù non torna mai. /61
Un indiretto richiamo di Soveria, Michele Pane lo fa nel poemetto “Azzariellu”62, quando, a furia di cercare termini di paragone per definire di volta in volta i quattro protagonisti (Spavientu, Cacacchiu, Fracassa ed Azzariellu) tira in ballo lu pinnacchiu de Bonini63, quell’ufficiale militare (Guglielmo Bonini,
appunto) che fu anche sindaco di Soveria Mannelli e per il quale
il Cigno di Adami nutriva una stima ed una simpatia immense.
Può solo impressionare un po’ la circostanza che nella
“Garibaldina”, l’ultimo scritto di Pane in dialetto calabrese64
(sì, perché di poesie ne scrisse pure in lingua italiana, anche se
con esse non raggiunse l’alto lirismo delle creazioni in vernacolo) e dedicato all’opera di insediamento umano, di popolamento e di innovazione agricola, svolta a Caprera, dall’Eroe
61 O riccioluta mia di Soveria, / la mia bella giovinezza per te ho sciupato /
ma una eguale per bellezza e simpatia / per quanto abbia girato, non la trovai… / Lo sa solo la Colonna, o bella mia, / quante paia di scarpe ho consumato, / per vedere te, andavo e venivo / e non ebbi timore né paura. /
Ora, quando t’incontro per la via, penso ai guai che per te ho passato… /
me ne viene una grande disperazione / perché quel tempo più non torna mai.
62 Qui nome proprio che significa “Piccolo d’acciaio”.
63 Le insegne militari del colonnello Bonini.
64 Pubblicato a New York nel 1949.
62
dei due mondi e da alcuni suoi fidi collaboratori calabresi, si
faccia la ricostruzione di tutte le pietre miliari dell’epopea garibaldina, senza un preciso richiamo ai fatti di Soveria dell’agosto 1860. Ma qua, il discorso è diverso.
Michele Pane, fatta la dovuta eccezione per il generale
Francesco Stocco (ad ogni modo ‘U disciarmu de Suveria65 è
espressamente richiamato nella poesia ‘U dobotte)66, aveva
poca stima per i sedicenti o falsi garibaldini del comprensorio
del Reventino che millantavano meriti mai acquisiti nell’ambito della spedizione dei Mille. Le pseudo o pusillanimi “camice rosse” della zona, insomma, avevano anticipato di 85-90
anni le scelte fraudolente di tanti vecchi fascisti che, alla capitolazione definitiva e irreversibile del regime mussoliniano, si
affrettarono, da autentici voltagabbana, a salire sul carro del
vincitore, procurandosi persino documenti che ne attestavano addirittura la partecipazione alla guerra di liberazione ed
alle più o meno sconosciute azioni partigiane.
È molto significativa la satira de L’uominu russu67 in cui il
poeta prende di mira il “praticellaru”68 Leopoldo Perri che
ascriveva a sé – da garibaldino dell’ultima ora – certi improbabili meriti risalenti addirittura a prima che Garibaldi partisse dallo scoglio di Quarto, per la conquista del Regno delle
due Sicilie. Il Perri si autoraccontava, insomma, come più garibaldino di Garibaldi, più Eroe dell’Eroe vero, più stratega
del generale nizzardo, sicché i suoi compaesani non avrebbero mai potuto evitarsi di erigergli un monumento vistoso, una
specie di altare patriottico.
Il Poeta addamaru, cui le millanterie e le spacconate non
andavano per nulla a genio, lo mise al centro di una grossa invettiva e fu querelato. Il processo, ad ogni modo, lo vide assolto ed egli, in versi, soprattutto nel componimento intitolato Alli licca-piatti69, ma anche in altri, non mancò di sfotticchiare i querelanti:
65 Il disarmo (dei borboni) a Soveria.
66 Il fucile da caccia, a doppia canna.
67 L’uomo rosso, con riferimento alla camicia garibaldina.
68 Abitante di Patricello, altra frazione di Decollatura.
69 Ai leccapiatti, con riferimento agli individui noti per essere codini, servili.
63
Crepàti, o liccapiatti / Vinciv’io la primèra /
e ppe dispiettu vuostru / nun cce jivi ‘ngalera /
Vu’ eravu ‘na mandra / ‘mbiata d’u Barùne; /
Era, io, sulu ma ve fici / ndùcere lu limùne!70
Verosimilmente, proprio questa infuocata polemica, distolse il Vate di Adami dal richiamare i fatti di Soveria che, in qualche modo, avrebbe implicato o sottinteso la celebrazione di
tanti Leopoldo Perri che non erano mancati in quel frangente.
Nella Rapsodia garibaldina, insomma, c’è indicato soltanto
Ghio, il generale che al disarmo di Soveria c’è stato fino al collo, ma questo nome (come, del resto, anche quelli di Pio IX e di
Rattazzi)71 viene utilizzato da Garibaldi solo ad indicare uno
dei suoi asini.
In definitiva, il comprensorio del Reventino, nel mondo
poetico del Pane, si riduce, almeno sul piano formale e della
toponomastica, ad Adami e Decollatura. Sul piano della sostanza contenutistica, invece, il discorso cambia parecchio. A
parte la paesaggistica, il clima, le tradizioni, i bozzetti, i costumi, le usanze che, com’è ben noto, presentano una discreta
omogeneità in tutti i centri della zona, chi mai potrebbe negare che il grande addamaru non pensasse anche a Soveria, a
Serrastretta, a Carlopoli, a Conflenti, a Martirano, a Motta
Santa Lucia quando verseggiava:
Ccadi, cum’ogni dduve, c’eradi lu costume /
d’ammazzare li pùorci, de fare la sajime, /
le frittule (ossa, mussi, ricchje, frisulime /
cutiche, lingue, piedi) tant’autru “salume”: /
sazizze, supressate, prisutti, capeccuolli, /
li vujjuli, le coste, la logna, i gambarielli, /
le ventresche ‘nsuppriessu ccu pipi-cerasielli /
e scusame, letture, si tu ‘mbacante cuolli72.
70 Crepate, o lecca-piatti, / ho fatto io primièra / ed a dispetto vostro / non
andai in galera. / Voi eravate in tanti / aizzati dai potenti; / i’ ero solo e vi ho fatto / ingoiare il rospo.
71 Una prova di quanto Garibaldi tenesse in poco conto o, almeno, non stimasse quanti si opponevano all’Unità d’Italia.
72 Qua, come ovunque, c’era la tradizione / di uccidere i maiali per ricavar-
64
O quando scriveva a lungo de ‘U chiarìellu73:
D’ ’u Marsala/ si nde gratta, / cà l’appatta; /
lu chiariellu de l’Addame / fa scialare, /
‘mbarzamare, / ricrijàre / e fa bènare la fame. /
Si lu provi / allu bicchieri, / li pensieri / tristi, volanu d’ ’a mente; /
e ‘sta vita /sculurita / se fa ardita / llà ppe’ llà forte se sente. /
Si l’assaggiu / alla buttiglia / se risbiglia / ‘ntra ‘stu core la speranza;/ e llucire, / strallucìre / l’abbenire /
parca viju ‘n lontananza. /74
Ci sarebbe, a questo punto, da soffermarsi sul Pane giornalista (con la sua rivista «La Calabria letteraria» e le sue
documentate collaborazioni alla rivista «Follia» o ai giornali notiziari come «Il progresso italo-americano» o il
«Corriere del Connecticut») oppure sul Pane “impegnato”, attento ai problemi della povera gente, intollerante
verso i prepotenti, i ricchi egoisti ed i “pisci grassi”, severo
ed intransigente con i leccapiatti, con gli sciacalli e con la
gente codina che non riesce a far tutela dell’amor proprio e
non discerne in maniera chiara ciò che è mero favoritismo,
o assistenzialismo, da quel che fa parte dei diritti generali,
di tutti e di ciascuno.
Egli – come sostiene molto giustamente Antonio Piromalli75,
l’inventore, in un certo senso, della Storia della Letteratura calabrese e che ha come suo degno epigono un intellettuale del livello di Pasquino Crupi – solidarizza con la vita dei poveri senza
ne lo strutto / le cotiche (ossa, grugni, orecchie, cicoli / carne grassa, lingue,
piedi) ed altri salami: / salsicce, soppressate, prosciutti, capicolli / buccole, costatella, dorso e gamboncelli / le interiora pressate con peperoncino a ciliegia /
e, scusami, o lettore, se ingoi a… vuoto! /
73 Il vinello, di leggera gradazione, ricavato dall’uva fragola.
74 Del Marsala / se ne impipa / perché lo eguaglia: il chiaretto di Adami /
soddisfa / tempra / fa godere / e fa venir fame. / Se lo assaggi / al bicchiere/ i
pensieri / tristi abbandonano la mente / e questa vita / incolore, diventa ardita
/ lì per lì forte si sente. / Se l’assaggio / alla bottiglia / si risveglia / entr’il cuore
la speranza, / e brillare, strabrillare / l’avvenire / par ch’io veda in lontananza.
75 Antonio Piromalli, Introduzione a M. Pane ,“Le Poesie”, Rubbettino 1987.
65
lavoro, abbandonati per necessità dai parenti emigrati, vecchi
emarginati i quali servono chi li può neanche sfamare e ai quali
la devota servitù alimenta come sopravvivenza una psicologia
fatta di dolcezza, di aggregazione umana.
Questo aspetto, per un adeguato approfondimento, richiederebbe molto tempo, ma basterà solo ricordare quanta
attenzione il Poeta presti – ce lo spiega ancora il Piromalli76 –
all’ambiente povero in cui vivono i sonatori dei i tumbari, i
pezzivecchiari77, gli zampognari, i pecorai, gli artigiani, la
folla di contadini. E “povere” sono le ragazze dei sogni d’amore, viventi in mezzo a povere cose: focolare, vita di vicolo, andate e venute dalla fonte, piccole feste, lavoro dei campi in una cornice di bellezza montana dominata dal Reventino acquifero e silvestre ed ancora la zumbettàna78 che è lo
strumento musicale d’o furisiellu79 e del pastore o, infine, le
laprìste e le vurrajine80 che ornano la fin troppo parca mensa
degli indigenti.
E sempre il Piromalli accenna all’innegabile ansia del Pane
per un affrancamento dal clima feudale che resiste e persiste,
oltre che ai di lui “ideali di libertà dai sopraffattori” ed alla
sua prorompente volontà di lotta agli sciacalli.
Si vede proprio che il Pane cantore delle piccole, semplici cose, era tra quelli che contava molto sull’opera di Garibaldi e, più specificatamente, sulla soluzione del problema dell’Unità d’Italia, come toccasana al malessere ed ai
malanni della nostra terra; salvo, poi, a restarne deluso,
tanto più che finirà con l’incontrare quelle difficoltà politiche ed economiche (dovute, soprattutto, alla presa del potere da parte dei sedicenti signorotti locali, che egli defini-
76 Ibidem.
77 I cenciaioli.
78 Lo zufolo, ricavato dai pastorelli dalla buccia “svitata” da verghe di ca-
stagno.
79 Il contadino molto giovane, in genere addetto alla custodia dei greggi.
80 Due specie di erbe commestibili a foglie piuttosto larghe, molto diffuse
nelle campagne del Reventino.
66
sce i lupi del Comune81, da lui ritenuti i responsabili veri de
“le porcherie di Dicollatura”)82 che lo costringeranno all’emigrazione, anche perché
ccu tutt’ ‘u sue bene, la Patria/
‘nu struozzu de pane ‘un l’ha datu»/83.
Ci sarebbe, altresì, da parlare anche della poesia in lingua di
Michele Pane. Ma, in essa, il grande addamaru è meno poeta di
quando fa uso del vernacolo.
È preferibile, allora, non trascurare l’altro aspetto della poetica paniana; quello per il quale, il Nostro, è conosciuto come il
“poeta della nostalgia”, l’usignolo del Reventino, il Pascoli della
Calabria; il Pane che romanticheggia e che si lascia inquadrare
anche nel Decadentismo letterario, che non ha ancora attenuato la sua “verve” ed suoi impeti.
Ed è un Pane che esiste, al di là delle notazioni fatte in precedenza. O meglio, è un Pane che c’è, che può anche essere preponderante (anche se non è mai esclusivamente romantico) diversamente, la critica ufficiale, non avrebbe indugiato più del
giusto su questi aspetti.
I ricordi dell’infanzia, dei luoghi dei suoi giochi e delle sue
solitudini, della sua vecchia casetta e delle “piccole cose” che la
ornavano sotto la regìa magistrale e tenera della madre, del calore fisico ed umano che alimentava la fiamma d’o focularu84, degli
amori furtivi e di quelli ufficiali, delle esperienze sentimentali o
anche erotiche, degli oggetti usati in gioventù e delle feste strapaesane, della vita dei campi e del paesaggio che gli restava sempre vivo e familiare, hanno tutti un senso, un posto centrale e vitale nella poetica del Pane. Basta, del resto, rileggere qualche
verso.
81 I prepotenti che controllano la vita amministrativa del Comune.
82 Le anomalie, i favoritismi e le discriminazioni fatti da chi reggeva le sorti
del paese.
83 Nonostante possa voler bene, la Patria un pezzo di pane (agli emigranti)
non l’ha garantito.
84 Focolare.
67
In “‘A catarra”85:
Tind’arricùordi, catarrella mia /
quante vote allu suonu tue cantai? /
Cum’era dduce e cara l’armonia /
chi de le corde tue tandu cacciai!
Tind’arricùordi, catarrella mia?
Chille canzune chijne ‘e sentimientu, /
de sdegnu, de rifèta e dde dulure, /
ricordandole, mo’ nde su cuntientu, /
ccu tuttu ca ce suni le sventure;
chille canzune chijne ‘e sentimientu…86
In “Cumu se prega”87, dove mette in versi la prece rivolta
alla Madonna d’o Carminu dalla sorella Felicina perché le restituisca in vita la povera, indimenticata, mamma e, quindi,
aggiunge l’infausto “sbocco” della sua vita, nel caso la preghiera non venisse accolta:
Si tu ssa caritate nun me fai, /
miegliu Madonna mia, miegliu mu muoru; /
càcciame de ‘ste pene e dde ‘sti guai, /
Madonna bella, tu chi culi uoru, /
càcciame de ‘ste pene e dde ‘sti guai. /88
In “‘A zumbettana”89:
Quandu sientu sonare ‘a zumbettana/
dintra ‘nu vùoscu, o dintra ‘nu cavùne,/
85 La chitarra.
86 Te ne ricordi, piccola chitarra mia / quante volte al tuo suono io cantai?
/ Com’era dolce e cara l’armonia / che dalle tue corde allora io levai? Te ne ricordi, piccola chitarra mia? / Quelle canzoni pien di sentimento / di sdegno,
di dispetto e di dolore / ricordandole ora ne son contento/ nonostante ci fossero le sventure / quelle canzone pien di sentimento?
87 Come si prega.
88 Se questa carità tu non mi fai / è meglio, Madonna mia, ch’io muoia: /
toglimi da queste pene e questi guai / Madonna mia, tu che grondi oro / toglimi da queste pene e questi guai. /
89 Lo zufolo ricavato dal castagno.
68
te dicu ‘a verità sientu chi ‘u bene/
crisce ppe’ tie, nun sacciu cumu va!/
Piènsica è llu suspiru chi me vene/
‘ntra chillu suonu, ‘e tie chi si luntana,/
e benedicu ‘u povaru guagliune/
chi, sonandu, pensare a ttie mi fa90.
In “‘A funtana”91, ove torna ad affacciarsi l’invettiva di cui
al già ricordato Uominu russu, trova posto anche il solito tema dell’amore:
Funtana mia, tu sai tanti segreti/
de fhurracchi e quatràre ‘nnamurati/
ca sutta ss’arcu l’hai visti abbrazzàti,/
vasanduse a pizzilli, queti queti/
e forte forte chilli cchiù brusciati/
d’amure, e ss’acqua tua l’ha rifriscati./92
O in “Majiu”:93
Maju addurusu, tu chi ‘mbuoschi l’àrvuli /
de lu culure biellu d’ ’a speranza, /
rinvirde ‘u core mio chijnu de trìvuli /
fallu sonnare ‘n’atra vota tu! /
‘mbolicamillu ccu pampine tènnare, /
frische de l’acquazzina, cum’è usanza, /
ppe sanare le chiaghe chi lu vruscianu /
ca nulla medicina cce po’ cchiù! /94
90 Quando sento suonare quello zufolo / dentro un bosco o in un burrone
/ ti dico il vero, sento che l’affetto / cresce per te, né so come mai. / Forse è il
sospiro, che emetto / tra quel suono, di te che sei lontana, / e benedico il povero ragazzo / che, suonando, a te pensar mi fa.
91 La fontana.
92 Fontana mia, tu sai tanti segreti / di ragazzi e fanciulle innamorati / che
hai visto tra i cespugli abbracciati, / baciandosi con tenerezza e calmi calmi, / e
forte forte quelli ancor più arsi / d’amore, l’acqua tua li ha dissetati. /
93 Maggio.
94 Maggio odoroso, tu che rivesti gli alberi / del colore bello della speranza, / rinverdisci il core mio pieno d’affanni, / fallo sognare un’altra volta, tu. /
Avvolgilo con delle foglie tenere, / fresche della rugiada, com’è d’uso, / per sanare le piaghe che gli bruciano / chè nessun farmaco ci riesce più. /
69
E, infine, “Tora”95, che resta il capolavoro, dedicato alla
vecchierella affettuosa, al servizio di tutti, dalle mille premure
e che, come tutte le cose belle e per le quali persino si piange,
è finita, non c’è più. Quanta tenerezza in questi versi!
Tora passava, forse ccu’ ll’anni / la novantina /
ma nun sapìadi cchi su malanni, /
mai avìa provatu ‘na medicina. /
Icica fòdi de ‘sti cuntuorni / la cchiù pulita /
alli suoi tempi: volanu i juorni /
bielli d’a nostra povara vita!
Er’arridutta ‘na croccarella / moni ‘ntostata; /
restate l’eranu l’ossa e lla pella /
e avìa lla facce tutt’arrappata. /
‘Mperò tenìadi illa lu core / sempre gentile; /
‘nu core tènnaru tenìadi ancore /
cumu ‘nu friscu gigliu d’aprile. /96
Ci sarebbe da chiedere doverosamente scusa anche per
aver dovuto, per esigenze di brevità, saltare tante altre cose
belle, significative, stimolanti lasciateci da Michele Pane, il
quale, idealmente, dal suo al di là, dovrà pure assolvere tanta
manchevolezza.
E d’altra parte, egli può essere anche pago della certezza
che tutti ormai gli garantiscano affetto, riconoscenza, stima
incondizionata, addirittura devozione. C’è da essergli veramente grati per quanto ha detto e scritto sulle nostre pittoresche campagne e sulle nostre realtà urbane.
Il grande Addamàru, peraltro, era forza calamitante anche
per l’affascinante Poesia, naturalmente impegnata, sia pure
con le necessarie precauzioni, a cercare l’adolescente dei suoi
sogni. Per un incontro casto, per uno scambio di idee, per as95 Il diminutivo aferesato di Salvatora.
96 Tora passava, forse, con gli anni, / la novantina / ma non sapeva cosa fos-
se un malanno / non aveva mai assaggiato una medicina. / Dicono che sia stata,
di queste zone, la più pulita / ai suoi tempi: volano i giorni / belli della nostra
povera vita! / Si era ridotta uno scheletro, ora, malmessa / le erano rimaste le
ossa e la pelle / e aveva il volto pieno di rughe. / Però aveva un cuore sempre
gentile / un cuore tenero aveva ancora / come un fresco giglio di aprile. /
70
sumere un impegno comune ad ipotecare un futuro, anche
un po’ lontano (sarebbe importato poco!); per confermare,
discorsivamente, la validità dei segnali, mimati da lontano,
che erano già di assenso e di impegno, ma che attendevano un
suggello più concreto, più vero.
E le nutrite comitive, di cui faceva parte, non molto spesso, si muovevano in direzione di Liardi e di Gargiglia, salvo
poi a dirottare dal percorso prefissato, una volta giunti all’iconetta votiva di San Giuseppe, che sorgeva affiancata al gran
cancello ligneo d’ingresso all’altra (la prima riguardava l’approntamento e la trasformazione della lana) industria soveritana, quella della lavorazione del legno, di cui la vecchia famiglia Sirianni (quelli della “Giacchinàme”, da distinguere dai
tanti altri Sirianni che contribuiscono a comporre la popolazione di Soveria), allora, deteneva il monopolio, per cui era in
grado di fornire mobili ed infissi massicci nei dintorni, ma anche in tanti altri centri della provincia (oggi, le aziende degli
eredi, sono moderne, conosciute, apprezzate e ricercate anche fuori d’Italia).
A monte dell’operosa segheria di allora, condotta dai fratelli
Angelo (il commendatore) e Guglielmo che, con le rispettive famiglie, risiedevano in prossimità della struttura, nota soprattutto come ‘u Barraccune97, c’era una viuzza mulattiera che intersecava le pendici collinari comprese tra ‘a bbanda d’’e vigne98 e ‘u
petrarizzu99, l’antica cava di inerti e di pietrisco prospiciente il
Calvario, schiudendo la carreggiata della stradella che, utile per
i collegamenti tra la campagna ed il paese, consentiva anche il
raggiungimento di Borboruso, in territorio di Pedivigliano, e,
quindi, anche di Ciucciulèo e Villanova.
Quel viottolo, che consentiva il transito delle felici brigate,
soltanto in termini di… fila indiana, ridondava di muschi a
macchia di leopardo e di fiorellini pudichi e invisibili, i quali,
nel loro insieme, fornivano la caratteristica di fondo all’acre
97 Il baraccone (una sorta di capannone in tavole, che ospitava i macchinari per la lavorazione del legno).
98 La pendice delle vigne.
99 I resti di una vecchia cava.
71
quanto gradevole odore di terra incolta e di sottobosco poco
tormentato, che, per essere insolito e gratificante, allora, richiamava i giovani spensierati, ma anche i novizi dell’amore.
Ché, se Poesia sperava d’imbattersi in Sermòne, Pitra pure
rincorreva un obiettivo similare in relazione al “suo” Mario
(altro legame, stranamente impossibile e che non si sarebbe
mai concretato!).
Le due adolescenti, amiche per la pelle, in certo senso anche al riparo dalla compagnia di tutti gli altri componenti la
comitiva, pensavano e sognavano.
Del resto, una volta percorsa l’angusta mulattiera e riguadagnato, in prossimità anche di Sabettella (ove resiste, tuttora, il
caseggiato di campagna di uno dei tanti rami della famiglia
Grandinetti, quello dell’agrimensore Giovanni – che, in esecuzione dell’art. 1 del R.D. 5873 dell’1 settembre 1870, fissò i
confini territoriali dei comuni di Carlopoli e di Soveria, dopo
che la borgata Colla venne staccata dal Comune di Carlopoli
ed unita a quello di Soveria Mannelli100 – e della diletta consorte donna Angelina Maruca, poi ereditata da uno degli undici figli, il generoso ingegnere don Serafino), la SS 19 per Cosenza e
Napoli, i motivi di riflessione e di sogno si accentuano.
Pur a voler mettere, temporaneamente, in parentesi, il discorso sui loro amori impossibili, la zona fa sempre riaffiorare
alla mente l’immagine viva di un’antica abitante della zona.
Già… Sono i luoghi in cui Maria Grandinetti Mancuso101
(sorella di don Serafino), la grande pittrice romana (ma che romana e… romana: era soveritana di nascita e fin nel midollo
delle ossa!) aveva sfornato i suoi primi disegni ingenui, di bimba, realizzati per gioco ma con un occhio rivolto alla realtà rurale circostante. Essi, anche quando riproducevano, timidamente ma sempre con un certo gusto e molto talento, qualche
opera dei Grandi della pittura, piacquero tanto ad Andrea Cefaly senior, l’ufficiale garibaldino che, rientrato dopo la Spedi-
100 Cfr. M. Gallo, “Soveria Mannelli nella Legislazione del XIX secolo”, in
«Calabria letteraria» nn. 10-11-12 ottobre 1985.
101 F. Lombardi, Maria Grandinetti Mancuso, pittrice romana – Dalla Secessione al secondo dopoguerra – Rubbettino 2002.
72
zione dei Mille, nella sua Cortale, aveva dato vita ad una Scuola
pittorica, frequentata e seguita da tanti grossi artisti.
Cefaly aveva già dato dimostrazione ampia del suo estro e
della sua perizia nella realizzazione di splendidi affreschi ed
impegnati dipinti, dalle tematiche bibliche e mitologiche in un
figurativo austero e profondo, ancora custoditi nei saloni di
Enti istituzionali, oltre che in Musei e collezioni private, con la
sola eccezione di quelli irrimediabilmente travolti dal piccone
demolitore, a suo tempo biecamente abbattutosi su palazzo
Serravalle di Catanzaro per l’impietosa, anacronistica eliminazione della famosa strettoia (il “budello”) di Corso Mazzini.
E la Grandinetti Mancuso, anche quando i motivi professionali del padre, prima, e dei fratelli, poi, la porteranno prima a Napoli e, successivamente, a Roma, conserverà intatti,
immagini e ricordi di quei tanti siti alberati e paradisiaci che
ne avevano stuzzicato sentimenti e sensibilità propiziando la
realizzazione senza pretese di quei primi, riuscitissimi disegni. «Maria Mancuso (ndr., è il cognome acquisito per avere
sposato un notissimo avvocato, originario della vicina Carlopoli, del foro di Roma) – scriverà il Savinio nella presentazione, in catalogo, della di lei “personale” del 1942 nella capitale –
è sola, come il boscaiolo in mezzo alla foresta, e dipinge con la
tenacia stessa del boscaiolo che attacca il tronco con la scure;
perché Maria Mancuso dipinge per una sua necessità urgente
e inestinguibile».
E chi potrà mai dire se il “primitivismo” del suo tanto discusso quadro del “Casolare”, figurante, oltre che nel primo
numero dell’autorevole rivista specialistica «Valori plastici»
del 1918, anche nell’esposizione, dello stesso anno, alla Galleria dell’Epoca, che accoglieva le opere dell’avanguardia
moderata romana (l’aria è ricolma di Futurismo e… dintorni!), deve essere legato, a più mandate, alla primordialità poetica dei suoi disegni di Sabettella?
Può essere escluso, in assoluto, che, almeno in alcuni quadri
come “Albero caduto”, “Donna di campagna”, “Paesaggio”,
“Il vecchio tronco”, “Viale” e, soprattutto, “Donna nel bosco”,
“Alberi” e “Tronchi di alberi”, la Grandinetti Mancuso abbia
potuto accantonare i ricordi, gli ambienti, i motivi della sua in-
73
fanzia, vissuta in questo angolo remoto e ricco di fascino della
Calabria?
In genere, il clima complesso e assordante della metropoli
soffoca l’ispirazione a qualsiasi artista che, ad ogni modo, può e
sa, ove scelga di farlo, sempre attingere alla memoria, alla lontana vita vissuta, all’esperienza piena o anche parziale, sintetica, ridotta, degli anni che furono. Come potrebbero spiegarsi,
diversamente, creazioni fantastiche come “Margherite”, “Violette”, “Fiori rossi”, “Fiori di campo” e la serie di quadri sulla
frutta tipica della collina pre-silana, che rinnovano ed esaltano i
colori vivi, inconfondibili di questa terra?
Sono dipinti che danno, finalmente, consistenza quasi fisica alla similitudine, addirittura all’identità, sentenziata dagli
esperti, nel loro Sermòne generale sulle belle arti, a proposito
della Poesia e della Pittura.
Sermòne e Poesia, due momenti differenti d’una letteratura
aperta e destinata a dare una interpretazione attendibile della
realtà circostante, chiamati a promuovere un’intensa attività sinergica per la vita dei singoli e delle collettività, facevano fatica a
trovarsi. Magari per colpa degli altri. Inaudito. Sconcertante.
È pur vero che mancava, ancora, più di un cinquantennio,
all’avvio del terzo Millennio, ma l’esigenza di superamento di
tante dualità – Teoresi e Prassi, Pensiero e Azione, Sogno e
Realtà, Sermòne e Poesia, ma anche Poesia e Pittura, o no? –
era già tanto avvertita, almeno a livello di spiriti pensanti e liberi, giusti e temerari, pacati e progressisti.
Eppure Sermòne era costretto a forgiare solo mentalmente i suoi progetti sentimentali, ignaro probabilmente del
dramma interiore di lei che, proprio nel fiore dell’adolescenza, viveva esattamente come lui, quando prepotente si avvertiva il bisogno di un confronto con l’eletto. Ciascuno dei due,
in buona sostanza, ricordava per mille aspetti l’archilochea
“festuca in un gorgo di sciagure”.
E, d’altra parte, non era ancora del tutto acclarato che dipingere e verseggiare erano la medesima cosa; erano, insomma, fare poesia a tutto tondo, figurarsi se poteva darsi per
scontato che il filosofeggiare fosse un tutt’uno con l’interpretare la realtà mediata dal sogno, dal sentimento, dal lirismo.
74
Eppure, da queste parti, doveva esserci (o esserci stato) qualcuno che giocava ad impegnarsi perché mondo pittorico e
pianeta poetico coesistessero (e tanti altri tentativi precedenti, peraltro, erano anche riusciti appieno!), in attesa che la
Poesia mutuasse valori ed apporti anche dal discorso generale, dal Sermòne cioè, che sapesse cogliere reale ed ideale in un
mondo che cambiava in continuazione.
Il terreno, circa questa linea, lo aveva, in sede locale, ben
preparato, in un certo senso, Don Rosario Marasco, un sacerdote coltissimo, che sapeva “di greco e di latino” ed era molto
abile nel coniugare i suoi umani moti dell’anima, con la religiosità più profonda e sincera, con la capacità oratoria faconda e coinvolgente.
Basta scorrerne le pagine, pubblicate postume, nel 1922,
per i Tipi della “Moderna” di Nicastro, sotto il titolo virgilianeggiante di “Vestigia flammae” (il Marone dell’Eneide che
sublimava Didone, ardente d’amore per il fuggiasco di Troia,
senza tuttavia aver mai dimenticato Sichèo, il suo primo spasimante!). Si tratta di una sorta di magica miscellanea, quella
di Don Marasco, con prefazione dotta, meticolosa e calzante
di Don Luigino Costanzo, altro forte sacerdote della vicina
Adami, la cui fama di intellettuale dal rigore morale e culturale impeccabile, ne farà, dopo lo sbarco degli alleati a Cassibile, in Sicilia, quando la seconda guerra mondiale volge ormai
all’epilogo, il primo Provveditore agli Studi della Calabria liberata dai nazisti.
Vi si incontrano, con una serie di componimenti poetici, in
vernacolo e in lingua, anche tanti bozzetti e novelle, prosa salmodieggiante e “piani” per panegirici, punti, appunti e spunti su argomenti, problemi ed eventi i più disparati e, persino,
“scalette” per elogi funebri. È un peccato, per davvero, che
dei suoi scritti giovanili (mai ripudiati) si abbiano soltanto
poche notizie!
Scritti ai tempi del ginnasio (a Scigliano), lasciano avvertire l’acerbo e l’ingenuo che non possono non mancare dal breve romanzo storico “La famiglia dell’esule” e dalle note di critica per alcune poesie di Arturo Graf e Giosuè Carducci, all’altro romanzo “Il vecchio della montagna”, alla “scaletta”
75
per “Ezzelino da Romano”, una tragedia in versi che raccontava una tormentata vicenda d’amore e di morte, tanto per limitare il ricordo agli scritti ritenuti più importanti.
Aveva, Don Rosario Marasco, tentato di tracciare le prime
pietre miliari di una Storia di Soveria e dintorni, muovendo
dalla costituzione in parrocchia della chiesetta di San Giovanni Battista (1668) e dai diversi interventi delle competenti
autorità laiche ed ecclesiastiche per il suo ampliamento, non
solo strutturale, nel corso del XIX secolo. Sarebbe stata
un’ottima cosa se l’idea, già cominciata a spostare sul piano
pratico, si fosse attualizzata per intero, visto e considerato che
nessuno, almeno fino a quel momento, s’era mai preso la briga di progettare una cosa simile.
Ciò non significa affatto, ad ogni modo, che l’attento prete
abbia scelto di tenere in disparte Sermòne e Poesia, rispetto
ad un borgo come la sua Soveria, che voleva crescesse, ed aveva, anzi, iniziato a praticare l’accorgimento operativo in direzione dell’obiettivo da raggiungere.
Com’è caro il mio borgo in primavera, /
dolce e sdraiato sopra una collina, /
circonfuso di nubi la mattina /
e circonfuso d’oro in su la sera. /
Da tramontana l’orna un bel boschetto, /
il piè gli lambe un rivolo d’argento /
e lo guarda, all’entrata Garibaldi: /
E Reventino che gli sta rimpetto /
gli manda i suoi saluti, e or geme il vento /
dove furono un dì fate e ribaldi. /
O borgo piccoletto che ti scaldi /
sotto il sole di maggio, tra le rose, /
quante delizie in te trovo nascose, /
quanti sorrisi e fior di vita vera! /
In Don Marasco, la Poesia la fa da padrona in assoluto, se
è vero che l’Autore dedica un componimento poetico, addirittura, ai suoi stessi versi, cui ha affidato il suo “sentire” da
sempre.
76
In voi versai l’ambrosia e quel profumo /
che racchiudevo tutto nel mio cor, /
quell’alito di pace e di contento /
che mi dettava dolcemente amor. /
E voi sonaste flebili e soavi / come il dolce sussurro dell’april /
come l’etereo bacio di fanciulla / o qual di rosa l’alito gentil. /
Più gratificante, però, Don Marasco si rivela quando ricorre al vernacolo, ortodossamente soveritano, per esternare
i suoi affanni ed i suoi desideri di morte e di requie:
Sìentu ‘sta vota all’anima / ‘nu mundu de scunfùortu /
vorra morire e rèquia! / ma vivu e ssugnu mùortu! /
Cchi bbita! Chi po’ lèjere / ‘nu jurnu duve spunta? /
E ppiensu e vorra chjiàngere… /
ma ‘u chiantu mai cchi ccunta?102
La parentesi del dolore insopportabile, comunque, resta
breve. Sì, perché, diversamente, che cristiano militante, che
pastore, sarebbe?
Godi: treman le foglie / al venticel d’aprile /
e già la terra véstesi / d’un tappeto gentile. /
Ormai quell’ore orribili / passàro: ecco il sereno! /
Godi: e sciogliamo il cantico / fin qui rinchiuso in seno /
Ritroveremo i vergini / sogni, l’antico affetto /
gli slanci, i dolci palpiti / gelati dentro il petto /…
Qua il poeta è sereno, tanto da essere disponibile anche all’ascolto, in religioso silenzio, dei messaggi che provengono
dalla natura, come lo è nel sonetto dedicato alle stornellatrici.
Che avete, che cantate così liete /
belle fanciulle sospirose al vento?/
102 Sento, questa volta, all’anima / un mondo di sconforto / vorrei morire
e requie / ma vivo, pur essendo morto. / Che vita! Chi può capire / dove mai il
giorno spunta? / E penso e vorrei piangere..., / ma il pianto, mai, che conta?
77
Lontano v’è chi zappa e v’è chi miete /
e lo stornello, d’amore è ammonimento. /
Al vostro canto fremere mi sento /
nel core un sogno; e tutte le pinete /
mi ripetono il dolce incantamento, /
l’intime gioie e l’estasi segrete! /
Poeta molto attento a tutto ciò che accade attorno a lui e nel
mondo, Don Rosario Marasco, nel settore “Bozzetti e novelle”,
dedica bellissime pagine al fenomeno dell’emigrazione senza alternativa, che resta problematica anche quando viene riproposta in chiave narrativa, attraverso racconti che, poi, si traducono
in autentici momenti di vita, crudamente reale. Consolante e
molto felice, pure, è quando, volendosi soffermare sulla poesia
dialettale, una volta al cospetto di una silloge nuova con versi di
Michele Pane – lui, di cui, sotto le feste natalizie del 1919, il
«Corriere d’Italia» che si pubblicava a Roma, aveva ospitato i
cinque sonetti, nel vernacolo soveritano, su ‘U Natale – si lasciò
attrarre dalla “copertina, disegnata dal pittore Grillo, nella quale si scorge il tradizionale zampognaro, con il cappello di velluto
a cono, grave e raccolto nel suono del suo strumento, mentre,
tra il verde, fa capolino una dea boschereccia accordante a quel
suono la voce melodica e dolce”.
Molto efficace, anche l’elogio funebre che Don Marasco
pronunziò durante le esequie per il brigadiere dei carabinieri,
Natale Astorino, morto103 per aver contratto, proprio nella
caserma di Soveria, una malattia che doveva portarlo, nel giro
di poco tempo, alla fine. “Difficile è oggi la vita del carabiniere in mezzo a questa società agitata e convulsa: abnegazione ci
vuole e affetto grande per la Patria; ed egli possedeva e l’una e
l’altro… ed ora la Patria… lo ricopre con l’ombra grande della sua bandiera, depone sulla sua fredda fronte di soldato, il
bacio santo, suggello di gloria”.
Più accorato l’elogio per il suo anziano collega e compaesano, sacerdote Don Michele Marasco104. “E così hai voluto
chiudere gli occhi, o dolce amico, prima che la primavera al103 Il decesso è avvenuto il 18 maggio 1908.
104 Passato a miglior vita il 4 marzo 1918.
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lietasse di canti e di suoni le nostre colline… Povero vecchio!
Noi siamo oggi intorno alla tua bara, noi che tante volte abbiamo goduto della tua parola gioviale e forbita, noi che tante
volte ci siamo raccolti per godere della tua amicizia buona,
per celebrare l’ora della gioia amichevole e per gustare il fascino della tua vena festosa, noi ci troviamo oggi muti, pensosi, lacrimanti intorno al tuo corpo immobile e freddo…”
Il tema della morte e delle tombe, in Rosario Marasco, viene affrontato con rassegnata cristianità. “Non io, o miei cari,
avrei voluto oggi prendere la parola… qui… innanzi alla tomba che racchiude l’ossa della mamma mia… – dirà durante la
Messa per i Defunti105 – ma, forse, ciò è buono che accada: un
dolore profondo potrà lenire altri dolori profondi, può far
meglio sentire l’alta mestizia dell’ora presente, far meglio
provare com’è dolce la voluttà delle lacrime versate insieme
sulle tombe dei nostri cari, com’è ineffabile l’amplesso dell’umanità superstite coi dormienti sotterra!… Ma, per noi, a cui
sorride la visione dell’eternità e radiosa si mostra la gloria immortale e trionfante dello spirito sulla paventata corruzione,
oh! Questo giorno è foriero del favore divino, sorge tra dolci
lacrime, che sono anch’esse preghiere…”
Il buon sacerdote, e soprattutto la sua opera letteraria ed
artistica, oltre che pastorale e sociale, erano finiti con l’impegnare anche qualcuna delle conversazioni di Poesia e di Pitra
che, non del tutto diverse quanto a sensibilità, potevano insieme ben prendere atto che, sì, pure alla luce del passato, in
cui non erano mancati neppure pittori e poeti, pensare e progettare, osservare e discutere, partendo proprio dalle mille
potenzialità del territorio, avrebbe potuto, con il concorso di
tutti, dare un sollievo concreto all’intera, splendida conca del
Reventino di cui, certo, Soveria Mannelli poteva essere il centro propulsore.
Anche Sermòne, intanto, perseverava invano nella ricerca
di Poesia, che sembrava essere sparita o, del tutto, definitivamente irraggiungibile. Era, dunque, un lungo, estenuante, forse anche avvilente, incrocio di scandagli spontanei che prova105 Messa officiata il 2 novembre 1907.
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vano l’interesse reciproco ad un amore, tenero e sincero, che,
a lungo andare, non avrebbe mancato di dare i suoi frutti, anche copiosi e di qualità. Tra l’altro, la coppia di adolescenti,
spiritualmente uniti da un’attrazione senza fine e che non disdegnava né sottovalutava la carne, si lasciava attrarre anche
da valori culturali per tanti versi simili, se non proprio identici.
Ed ora, ad ogni buon conto, tra le due amiche inseparabili,
si era già fatta notare, un po’ di più, Pitra, l’idolo di Mario,
messasi all’affannosa ricerca di una “Smorfia” – quel “libro
dei sogni” che, da Napoli in giù soprattutto, è ricercatissimo,
più che per avere una spiegazione sul senso e, addirittura, sulle improbabili (meglio chiedere venia a Freud!) profezie implicitamente contenute dalle inconscie visioni oniriche, solo
per scoprire a quali numeri del Lotto, per le scommesse immediate in Ricevitoria, corrispondessero quelle visioni, o alcuni particolari o certe sequenze di esse. Già… perché Pitra,
oltre a sognare ad occhi aperti (sì da non essere, del tutto, seconda a Poesia), era solita allietare od intristire l’amato sonno
con sogni ricorrenti, che non potevano – a suo modo di vedere – non avere un senso, anche in relazione all’amore impossibile che riguardava lei stessa o la solita amica del cuore.
– La Smorfia?… Che ti salta in mente?…
Questa volta ci vorrebbe davvero… Era troppo complicato
il sogno della scorsa notte che, ad intermittenza, elargiva motivi di gaudio o momenti di disperazione… Non tener dietro a
queste sciocchezze. Vuoi complicare le cose? Se si è trattato di
episodi gradevoli e lieti, crédili pure… non ti costa niente…
ma se il “messaggio” era di segno opposto, che stai a pensare?
Dimentichi che il sogno è l’interpretazione inconsapevole della
realtà, secondo i tuoi timori o le tue aspettative? Lascia perdere
queste cose… Quale Smorfia!?!… Ma, dimmi, racconta, che
cosa hai sognato di così tanto inafferrabile e complicato?
Poesia, insomma, nonostante tanto discorso teorico, non
era riuscita a tenere a bada la propria curiosità e, adesso, anzi,
sollecitava il racconto più particolareggiato possibile. Se, in
fondo, Pitra le aveva parlato del suo sogno, era segno che, nella
visione notturna in questione, anch’ella doveva esserci entrata.
Così pensava. E, in effetti, non si sbagliava per nulla.
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La sognatrice per antonomasia aveva, così, raccontato di
essersi trovata, in sogno, all’interno di una Biblioteca fornitissima, allogata in una catapecchia lignea sgangherata sulle
sponde di un ruscello impetuoso dall’acqua chiarissima che
risaliva verso la sorgente. Con lei c’erano, anche, Sermòne e
Poesia che, tenendosi per mano, si scambiavano attenzioni,
carezze e baci, incuranti della sua presenza, lasciata alla
mercé d’una biscia rincorsa da un carabiniere che brandiva
una spada luccicante. E quell’incallito sornione di un Mario, apparso all’improvviso, non dava alcun segno di reazione…
Un sogno complesso, dunque. E Pitra era mezza disperata.
– Quale brutto presagio! L’acqua limpida preannuncia lagrime… il bacio sta per tradimento… i serpenti stanno per
malelingue… i carabinieri corrispondono alle anime del Purgatorio… Che significa l’insieme?
– Ma di che ti preoccupi? È solo un sogno…
– Sì, ma quando io faccio un sogno e lo ricordo in tutta
chiarezza, mi preoccupo… Qualcosa deve accadere… Chissà… forse si infrangono i nostri sogni ad occhi aperti… Già,
perché in tutto quello scenario strano c’eri anche tu… Forse
dobbiamo rinunziare a tutto, e per sempre…
– Ma no… non andare dietro ai sogni… Io – sogno o non
sogno – non rinuncerò mai a Sermòne e, credo, neppure tu al
tuo amore… Non diciamo sciocchezze…
Così, Pitra s’era stretta nelle spalle, ed era tornata, con il
pensiero, al prete-letterato di Soveria che poteva ben essere il
messaggero di una ventata nuova nel centro pre-silano, che di
qualche uomo di cultura non mancava punto.
E se la distinta, ammaliante brunetta, dal volto d’angelo e dal
portamento regale, con la collaborazione spontanea anche di
Pitra, s’era lasciata sedurre ed avvincere dai meravigliosi concenti e dalle calde riflessioni del sacerdote locale, che aveva, con
pari fervore, coltivato la Musa e la Filosofia – o, che è lo stesso, la
Poesia ed il Sermòne – anche al suo tormentato ammiratore non
era sfuggito che, persino se non soprattutto, tra i giovani del
tempo, si cominciavano a distinguere quelli che sceglievano di
non rifugiarsi in un solo angolo dello scibile, preferendo, sem-
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mai, tentare tutte le strade capaci di portare alla cultura intesa
come unità ma anche come risorsa autentica per il riscatto di
una plaga, bella ed interessante, della Calabria pre-silana.
Valga per tutti il ricordo di uno studentino, a modo ed intraprendente, che non si era lasciato… immobilizzare dagli
studi tecnico-industriali, che aveva deliberatamente scelto di
intraprendere, forse, per delle finalità anche pratiche, non
utili, ad ogni modo, almeno per ora, all’economia di questo
racconto. Eppure già mostrava a sufficienza, i segni di un interesse grande per l’impegno nel ricercare e documentarsi,
nel verseggiare, nel dipingere e, persino, nello scolpire o nel
delineare, attraverso un provetto, paziente uso del gesso, immagini e motivi particolarmente sentiti o desiderati. E cominciava, peraltro, anche a scavare, con bulini e ceselli, nel legno
più adatto ad allestire immagini e scorci panoramici alla rovescia, come matrici approssimate per xilografie con cui corredare le programmate raccolte dei suoi scritti.
È legittimo, scontato, lapalissiano, ritenere che non esista un adolescente che, almeno una volta nella sua vita, non
si sia improvvisato poeta per focalizzare, elevare o disprezzare un evento, una circostanza, un dato stato d’animo particolare, una improvvisa pulsione di sentimenti, un’implosione di amore o di odio, di vittoria o di sconfitta. E di versi,
così, l’essere umano, quanto meno da giovane, ne ha sempre
fatti, o almeno pensati, a prescindere, poi, dall’improbabile
prospettiva di essere considerato portatore di autentica
poesia. In genere, tali “prodotti” in versi, sono stati sempre
marchiati o, nella migliore delle ipotesi, considerati come
veri peccati di gioventù; ma – sta scritto – “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Ed il gesto sollecitato non riesce a farlo proprio nessuno. Anzi, non c’è neppure chi abbia
mai accennato a farlo.
Poteva, allora, non trovarsi nel novero di cotali “peccatori”
uno come Ferdinando Leo (meglio noto come Nandino) che,
già dai tempi della scuola media, la cui licenza di fine corso
triennale aveva conseguito da privatista, forniva le prime significative propensioni per le “belle arti”, tra le quali veniva, a torto o a ragione, collocata anche la perizia nel poetare?
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Il giovane Leo era passato subito, per così dire, all’attacco,
una volta iscritto a frequentare l’Istituto tecnico industriale
“Ercolino Scalfaro” di Catanzaro, inserendosi molto bene tra
la gioventù studentesca della città, naturalmente rafforzata dal
pendolarismo faticoso dei ragazzi di una grossa fetta della provincia. Nandino non aveva tardato – lui, proveniente dalla…
vituperata periferia! – a mettere in cantiere un originale giornalino scolastico, intorno al quale si avvertiva, vivo e vero, l’entusiasmo dei giovani redattori. Incredibile. Quasi un miracolo.
Non che di fogli aperiodici nelle Scuole del capoluogo non ne
fossero già stati fatti, ma, con Leo, c’era la novità.
Su ‘U megliu106 (quattro pagine, a sette colonne) veniva riservato un “tot” numero di mezze colonne a ciascuno degli
Istituti della città, alla dichiarata insegna della coesistenza pacifica, della giusta armonia e del dialogo continuo, senza distinzione di età, di sesso, di credo, di indirizzo scolare prescelto. E
sarebbe accaduto così anche per i successivi “numeri unici”,
come Scintilla (quattro pagine a sei colonne), per esempio.
Il maggiore impegno redazionale, ovviamente, ricadeva su
di lui, il direttore, chiamato, oltre tutto, anche a tappare tutti i
“buchi” lasciati aperti dai “colleghi”, pigri e superficiali, non
in vena di rendersi conto che, con il giornale per buona parte
già in tipografia, non ci si può mica impiegare un… secolo a
redigere un articolo, che sia anche una breve nota di cronaca
bianca o rosa, o un capoverso satirico e di amichevole, simpatico “sfottò” per questo o quel professore.
Ed è proprio su questi primi fogli che Nandino Leo offre
un ventaglio ampio dei suoi molteplici interessi giornalistici,
letterari ed artistici. Con le poesie in lingua (egli, del resto,
quando ancora portava i calzoni corti, aveva già pubblicato,
per i tipi della CEM di Reggio Calabria, la silloge “Foglie al
vento”), richiamava l’attenzione dei coetanei, e spesso anche
dei professori.
E “pesavano” pure le sue note di letteratura, le sue invettive su problemi e temi di viva attualità, ma erano tanto gradite
anche le sue lettere, firmate Leandro, che avevano non solo
106 Voce dialettale catanzarese che sta per “Il migliore”.
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una misteriosa destinataria a lui cara, ma anche figure istituzionali, centrali e periferiche, chiamate ad intervenire in favore del Sud, della Calabria, di Soveria.
Il suo talento, ad ogni modo, emergerà, più chiaro, quando
nel 1960, (aveva già pubblicato, alla Setel di Catanzaro, la seconda piccola raccolta di versi, Faville), in occasione del centenario della Spedizione dei Mille (e, quindi, dell’importante episodio del disarmo borbonico), assunse la direzione responsabile di «Soveria Garibaldina», il cui direttore editoriale era l’insegnante Umberto Pascuzzi (1895-1962), politico dell’area socialista, giornalista – con esperienza professionale nella «Gazzetta
dell’Emilia», ove era stato collega del catanzarese Alberto Consarino, anch’egli socialista e perseguitato dai fascisti, oltre che
con «Verona del Popolo» e «Il domani di Modena» e, nel secondo dopoguerra, con «La Giustizia» – corrispondente zonale de «Il Giornale d’Italia», storico, drammaturgo, amministratore civico, che aveva allietato il suo pubblico, non solo con la
satira del giornalino quindicinale in dialetto ‘U sùrice pazzu107
ma anche con alcune “pièces” teatrali come “Chiude, Gabrié”
o “Core chijagatu” o “Cumpari supra e cumpari sutta…”108, raccolte da Don Natale Colafati sotto il titolo ‘A vrigogna d’ ‘a gente109 (Rubbettino, 1982), insieme ad una cospicua, interessante
selezione di “Canti popolari”, raccolti, rielaborati o interamente scritti dal compianto giornalista antifascista.
Del Pascuzzi, che aveva conseguito nel 1915, la Licenza liceale classica al “Galluppi” di Catanzaro ed aveva intrapreso
gli studi giuridici al “Federico II” di Napoli, salvo poi ad interromperli per l’esplosione della prima conflagrazione mondiale, cui egli si rifiutò di partecipare fino a subire il processo per
diserzione dal quale uscì, comunque, assolto, ci sarebbe da aggiungere molto, e non soltanto in relazione alle disavventure
legate alle sue chiare scelte politiche mentre era a Verona, ove
si era sistemato. Vogliamo ricordare, almeno, l’essenziale.
107 «La talpa», quindicinale pubblicato tra il 1924 ed il 1927, quando ne fu
vietata la stampa per disposizione del regime fascista.
108 “Chiudi, Gabriele”, “Cuore piagato”, “Compare di… qua, compare
di… là”.
109 La vergogna dinanzi alla gente.
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Subì anche il carcere, a causa del suo conclamato, sistematico e motivato dissenso pubblico dinanzi al turbinoso scioglimento anticipato delle Camere, nel gennaio 1924, che egli
stigmatizzò come un vero e proprio colpo di Stato. Venne,
per questo motivo, schedato e “rimpatriato” a Soveria, ove
riuscì sempre a propagare clandestinamente le proprie idee
ma continuò pure a subire delle angherie, cessate solo nel dopoguerra, quando finalmente gli fu concesso di lavorare in
santa pace se, nel 1949, venne nominato, con decreto del Ministero della P. I., segretario nelle Scuole elementari del Circolo didattico di Soveria.
Sotto il profilo letterario, Umberto Pascuzzi privilegiò il
Teatro, anche quando toccò argomenti di natura storica come, per esempio, in “Vespri di Calabria”, commedia in tre
atti; ma resta Autore di sicura validità anche con “Racconti”,
“Core cuntìentu” e con numerosi altri lavori, rimasti inediti
o incompleti ma di cui erano stati già abbozzati gli schemi o i
progetti.
Sull’opera di Umberto Pascuzzi resta di importanza notevole il già richiamato lavoro svolto da Don Natale Colafati
che, intanto, ha colto, con la consueta maestrìa, l’essenziale
del messaggio del Nostro, così proteso a provocare il sorriso
bonario ed il riso amaro del lettore alle prese con il quotidiano della gente semplice nel pianeta contadino, così terribilmente intriso di ingenuità e furberia, di filosofia spicciola e
di saggezza consumata, così vicino a quel “verismo” di provincia che si esalta dinanzi alla “roba” ed al matrimonio per
interesse, ma che sa pure anticipare – come appare evidente
in Chiude, Gabrié – il tanto discusso mobbing dei giorni nostri, che porterà il povero oste, finito nel mirino, a chiudere
la sua putìga, dopo ben trent’anni di onorato e fruttuoso
esercizio. Si pensi a Gabriele quando, alla fine, si rivolge alla
lanterna, proprio nel momento della chiusura definitiva del
locale.
Gabriele: Tu m’ha’ illuminatu ppe trent’anni ‘a fatighella,
invitando ‘a gente, specie alle sirate niure de’ vìernu, ma stasìra me licenzìju de tie cumu ‘nu frate… Addio, va, ca nun te
scùardu mai!
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Rosa: De ‘nu latu mi se stringe llu core puru a mmie…
Gabriele: No, nun lu stringere ssu core tue, ca è statu ed è tantu rande! Te, sùarma, tè ‘nu vasùne, ch’è de chilli e ‘na vota e
quandu ti nde dava unu e, ’nde volìe cientu!110
E quella voglia (improbabile) di badare ai fatti propri…
Pietrantoni: ‘A gente?… ‘a gente è miegliu mu se lassa duve se
trova. Ognunu ha de filare a llu propriu fusu si vo’ torcere.
Guai a chillu chi tene ccuntu d’’o judìzzu d’a gente, ch’è patruna de mìntare ‘a pezza duve vodi…111
E più giù, in poche battute:
Maratiresa: Pue haiju sempre dittu ca quandu se po’ nun è peccatu né brigògna, si se campa ccu llu piacìre propriu.
Peppina: Veramente nuàtri pòvari nun dicìmu ccussì…
Petrantoni: Cchi dicìti?
Peppina: Ca campàmu ppe nne guadagnare ‘a morte ccu tutta
‘a vita nostra, chi non po’ assapurare, ma sulu desidderare ‘u
piacìre…112
È un motivo che ripropone Peppe in Cumpàri supra e
cumpàri sutta:
Peppe: ‘A gente? Lassa cùrrare! A ‘stu mundu, tutti ne potìmu
trovare ‘mpappiciati o jire ‘nfundu o avìre ‘u curtìallu a lla can110 Gabriele: Tu hai illuminato per trenta anni il mio lavoruccio, invitando
la gente, specialmente nelle buie serate d’inverno, ma questa sera mi diparto da
te come un fratello… Addio, tranquillo, non ti dimenticherò mai.
Rosa: Da un lato mi si stringe il cuore pure a me…
Gabriele: No, non stringere il tuo cuore, che è stato ed è ancora tanto grande.
Tieni, sorella mia, tieni un bacione, che è di quelli di una volta, quando io te ne
davo uno e tu… ne volevi cento!
111 Pietrantoni: La gente? La gente è meglio lasciarla là ove si trova: ciascuno
deve azionare il proprio fuso se vuole ben filare. Guai a chi tiene conto dei giudizi
della gente, che è padrona di mettere la toppa dove più le aggrada!
112 Maratiresa: Poi ho sempre detto che, quando è possibile, non è peccato né
vergogna, se si convive con il piacere…
Peppina: Veramente, noi poveri non diciamo proprio così…
Pietrantoni: Cosa dite?
Peppina: Che campiamo per guadagnarci la morte con tutta la nostra vita, la
quale non può assaporare ma solo desiderare il piacere…
86
narozza o acchijaccàti ppe llu cùallu, eppuru ‘a gente nun ti lu
duna n’àcinu d’aijutu!113.
Ma dalle composizioni poetiche di un uomo così sensibile,
che ha vissuto, soffrendo e lottando a sostegno dei semplici e
dei reietti, non potevano mancare quelle dedicate alle donne,
ora suggeritrici di lodi ed esaltazioni, ora seminatrici di sdegno o risentimenti.
Luce de l’ùocchi mie, quantu te stimu, /
quantu allu spissu ssu tue nume chiamu! /
Si ppe lli ggìenti amare ‘u nne potìmu, /
quantu mu sutt’ùocchi ne guardamu. /
Tu si’ l’amure mio, l’affettu primu, /
a ttie sulu desideru ed abbramu /
‘Nu jurnu viderai, si nu’ morìmu, /
Quantu è finu ‘stu core e quantu t’amu. /114
Ancora più delicata l’ottava successiva:
Sidi cchiù bella tuni de le rose, /
quandu alla cima sunu e all’aria spase. /
Sidi cchiù bella tu de ‘u milurosa /
e de ‘na scoccarella de cerasu. /
Quandu lu tue peduzzu ‘nterra pùosi, /
io chijcu le jinocchia e pue cce vasu. /
Quandu, giojuzza, allu liettu ripùosi /
senza candìla s’alluma lla casa. /115
113 Peppe: La gente? Lascia correre! In questo mondo, tutti ci possiamo trovare inguaiati o andare a fondo, o avere il coltello alla gola o essere accalappiati al
collo, eppure la gente non te lo dà un pizzico di aiuto!
114 Luce dei miei occhi, quanto ti stimo! / E quanto spesso il tuo nome invoco! / Se per via della gente non possiamo amarci, / possiamo scambiarci uno
sguardo furtivo. / Tu sei l’amore mio, l’affetto primo, / e te soltanto desidero e
pur bramo; / un giorno tu vedrai, se non moriremo, / quant’è dolce il mio cor e
quanto t’amo. /
115 Sei più bella tu che le rose / quando sono sul cespuglio all’aperto. / Sei
più bella tu della piccola mela rosa / e di un rametto ricolmo di ciliegie. / Quando
tu adagi il tuo piede per terra, / io m’inginocchio e ne bacio le orme. / Quando,
gioia mia, sei distesa a letto, / la stanza s’illumina anche senza lampade.
87
Non meno efficace (anche se la strofa, ora, è diventata di
sei versi!), Pascuzzi, però, è quando costruisce i suoi versi di
sdegno, da cui sprizza la rabbia per essere venuto a conoscenza che la donna dei suoi desideri è stata di tanti altri:
O lima surda, chi lu fìerru mangi, /
tinta quadàra, cà cchi vvidi tingi, /
Alla gunnella tua cc’è crùacchi e ganci, /
ch’ogni poveru amante si cce ‘mpinge. /
Haiju saputu ca nd’ha’ amati tanti, /
arràsate, quadàra, ca me tingi! /116
È il Pascuzzi dei “canti popolari”, in cui, più che i sentimenti personali del verseggiatore facile e provetto, si scorgono, in modo particolare, i riflessi diffusi tra quelli della “ruga”, del vicinato, ma anche di tutto il paese, ove accanto alla
gente che osanna e rispetta, c’è pure quella che vitupera; accanto all’usignolo c’è pure la cornacchia, se non addirittura la
gazza; c’è, insomma, la gente che capisce quando e ciò che
vuole, che risponde in “la” quando l’accordo richiederebbe il
“si bemolle”. Perché non capisce o fa finta di non capire? Per
colpa o per dolo? Difficile la risposta da dare, tanto è sfumata
e sottile la differenza, nella sostanza, tra le due alternative
possibili, entrambe verosimili…
È la gente – che somiglia soltanto poco alla “folla” di manzoniana memoria – che si mostra in tutta la sua nudità, nel quintetto di quartine che, a parere di chi scrive, è un po’ il capolavoro di Umberto Pascuzzi, il cui centro di interesse resta sempre,
appunto, la gente, nella sua varietà e nella sua natura che oscilla
tra l’amore e lo sdegno, l’ammirazione e il disprezzo, l’astuzia e
la semplicioneria, il rigore morale e la maldicenza, l’egoismo e la
generosità. Ma anche nella scalogna, l’avverso destino, che, tante volte, la perseguita, neutralizzando addirittura le poche prospettive di luce che le si schiudono.
Dice molto bene il Colafati quando, giustificando il titolo
sotto il quale ha raccolto buona parte del “meglio” di Pascuz116 O lima lugubre, che distruggi il ferro, / affamata caldaia che tutto tingi,
/ alla tua gonna ci sono uncini e ganci / cui l’ignaro amante resta attaccato. /
Ho saputo che ne hai amati tanti: / Vattene, caldaia, perché mi sporchi!
88
zi scrive che esso titolo indica “una tematica di fondo: la
struttura portante di tutte le situazioni, l’ambito asfittico in
cui esse si svolgono e da cui i protagonisti tentano di uscire, la
paralizzante schiavitù di una morale eteronoma che regna sovrana. In questo contesto Umberto Pascuzzi, dalla sensibilità
profondamente umana, acuita dalla vasta cultura e da una vita travagliata per vicende personali e per contrasti politici,
sentì con dolorante coscienza le sofferenze del popolo calabrese, non dovute ad un imperscrutabile destino, ma a situazioni storico-ambientali ed a rapporti di forze sociali, individuabili con precisione. Tale coscienza espresse e si trasfigurò,
elevandola alle sublimi vette della più pura poesia”117. Tutto
ciò, dopo aver sottolineato che “i suoi protagonisti, pur giganteggiando per la ricchezza della loro dimensione umana,
restano sconfitti: indicano un’esigenza ed una direzione di
autenticità, come possibilità, su cui pende sempre la minaccia
della sopraffazione” e che “le singole vicende non scadono
mai nel particolarismo insignificante, ma sono vicende-tipo
in cui, come in una lente prismatica, si riflettono le mille luci e
le mille contraddizioni della società in cui esse accadono”118.
Ma torniamo alla poesia-capolavoro:
Me ‘mpìesu ‘na duminica ’e ‘na festa, /
‘a fauce ncùollu e vaiju a simminare. /
Trùavu ‘na cerza càrrica de pira, /
me vàsciu e mi nde fazzu ‘na vaijana. /
Respùnde llu patrùne ‘e chille pira: /
O latru, perché m’arrùbi le ceràsa? /
Me mìnadi ‘na petra allu garrèse, /
lu sangu m’è schicciatu de llu nasu. /
Vaiju alla Curte ppe mi l’aggiustare /
e mi lu ‘mpurru buonu lu jippùne! /
Vaiju alla gghìesa ppe mi cce adurare, /
i santi me pigliaru a succuzzuni. /
117 N. Colafati, ‘A vrigogna… cit., pag. 6.
118 Ibidem.
89
Vaiju allu tavulatu a ffare pane, /
lu trùavu tùostu cchiù de ‘nu cantune. /
Vaiju all’acquàru ppe mi l’ammogliare, /
sguttàu l’acquaru ccu tutti li valluni. /
Vaiju allu lìettu ppe mi cce curcàre, /
catte lu lìettu e scamacchiài i picciùni. /
Vaiju allu fùocu ppe mi l’arrustire, /
curre lu gattu e pisciàu lli tizzùni19.
Come fa un contadino ad andare a seminare con la falce a
tracolla o una quercia a produrre pere in… baccelli, poi tramutate in… ciliegie, e come fa il sangue a schizzare dal naso
di chi è stato colpito da una sassata al tallone, resta tutto da
spiegare… Resta, anzi, da chiederlo alla gente che, pur vivendo, magari, nell’area dello stesso vicinato, parla ed interpreta
in tanti modi differenti le vicende altrui; alla gente che – ahinoi – riesce a trovare il pane, ma è tanto duro e non può farci
niente perché l’acqua che doveva essere utilizzata per renderlo commestibile è tutta prosciugata, mentre non può cuocere
i bei piccioni, uccisi dalla fortuita caduta del letto, perché il
gatto, con la sua pipì, ha reso non combustibile la legna da ardere. Più scalogna di così…
Artista autentico, dunque, Umberto Pascuzzi, interprete
commosso ed attento delle masse degli umili, di cui senza
dubbio si sente sinceramente parte, ma ciò, tuttavia, non gli
fa rinunziare a denunziarne, quando ne è il caso, il difetto di
vedere e capire solamente ciò che vogliono o fa loro comodo,
119
Ecco una parafrasi orientativa in lingua: “Mi avvio in una domenica di
festa, / con falce in spalla e vado a seminare. / Mi imbatto in un quercia carica di
pere / m’impegno e ne raccolgo un baccello. /
Mi apostrofa il proprietario delle pere: / Ladro, perché rubi le mie ciliegie? /
Mi lancia un sasso e mi colpisce al tallone, / sì che m’è schizzato il sangue dal naso. /
Vado dal Giudice per farmi curare / e mi fodero ben bene il gilè. / Vado in
Chiesa allo scopo di adorare, / e i Santi mi accolsero con sonori schiaffi. /
Vado in soffitta a prendere un po’ di pane / e lo trovo più duro del cemento. /
Vado al torrente per ammorbidirlo / ma l’acqua è assente da canali e fiumi. /
Vado a letto per coricarmici, / ma il letto cade schiacciando i colombini. / Poi
vado al fuoco per arrostirli/ ma l’urina del gatto ha neutralizzato i tizzi…
90
o anche a evidenziarne le contrarietà opposte loro da una Natura che talvolta, con i poveracci, è veramente matrigna.
Ma torniamo a Leo. È sulle colonne del quindicinale «Soveria Garibaldina» che ha diffuso le risultanze delle sue prime ricerche riguardanti Michele Pane, Vittorio Butera, Rosario Marasco; un’operazione che, poi, proseguirà con il suo periodico
«L’eco della Sila», quando, dal 1985 in poi, farà da supporto, se
non proprio da organo ufficiale, al Ce.pro.cu.s. (Centro di promozione culturale e sociale), dovuto all’iniziativa, congiunta ed
entusiastica, del colto ed energico sacerdote Don Natale Colafati, poi elevato alla guida del Vicariato della Diocesi di Lamezia Terme, dell’emergente Editore Rosario Rubbettino, del paziente funzionario-dirigente del Comune, prima, e del nosocomio civico, poi, Salvatore Tomarchio, oltre che da un folto
stuolo di giovani professionisti e studenti, finalmente compresi
dell’assioma che la crescita della comunità è, in primo luogo,
l’azione quotidiana della comunità medesima.
Leo si impegna ad assicurare alla testata, che piace e che
va, tante buone, anche ben note, firme e riesce a non trascurare quanto di meglio si trova nello stesso circondario, aprendosi peraltro a tutti quanti avessero stoffa e voglia di dare il
loro contributo di idee e di esperienza. Ha le sue predilezioni
politiche, com’è ovvio, ma non discrimina alcuno (e si duole,
comprensibilmente, quando ad essere discriminati sono lui
ed il suo giornale). Vi compaiono le prime poesie di Raffaelino Proto, i primi articoli di Mario Caligiuri (che alcune volte,
si firma Marcal), i primi felici approcci giornalistici di Raffaele Cardamone, ma anche le meno conosciute creazioni poetiche di un Pane, di un Butera, di un Marasco…
Butta, con i suoi scritti, tanti sassi in piccionaia e, qualche
volta, la positiva ricaduta non manca. Il giornale, come strumento per le battaglie civili, ha un suo ruolo, sarebbe da sostenere, potenziare, proteggere; ma, tenerlo in vita, costa non
poco e la “cassa”… piange, sotto lo sguardo indifferente di
un lettorato restìo a rimetterci del suo…
I cimenti poetici di Nandino Leo, cui si è già accennato, risalgono alla sua adolescenza. Non certificano, certo, la maturità
artistica che si riscontra nella produzione (anche dialettale) an-
91
cora inedita, oltre che in alcuni dipinti ad olio (come incantano
certi suoi bozzetti paesaggistici solitari, o anche affollati da bellezze bracciantili e da statuarie erbaiole! Quanto parlano al cuore di chi le ammira, quelle nature morte e quelle sagome o volti
muliebri!), ma negare, ad essi, qualsivoglia valenza poetica,
qualsiasi anelito di sogno, qualsiasi spiritualità sincera, sarebbe
ingiusto, forse anche sacrilego, se può essere usato tanto aggettivo. Belle le terzine caudate del “Vespro nel mio borgo”:
È giunto ormai il vespro in questa valle, /
scende da Reventin cheta l’ombrìa /
e a sfondo cupo dipinge ogni calle /
di Soveria. /
Di San Giovanni allor dal campanile /
dai sacri bronzi s’ode il suon serale, /
il misto gregge riede appo l’ovile /
col suo grecale. /
Il rustico tornando al suo paese /
l’annunzio udendo dell’avemmaria /
posa la zappa e s’inchina cortese /
nella sua via. /
È – proprio nella silloge d’esordio, in Foglie al vento, cioè –
un tema che ridonda di una fede grande e che sublima la religiosità profonda della gente tra la quale vive e di cui è parte; a
questi versi non mancano, certo, i requisiti della bellezza formale e contenutistica.
Piuttosto scontati – comuni a tutti i più giovani, alle prime
armi con l’amore – invece, i motivi alla base dei versi dedicati
alla sua donna del momento, durante gli evidenti alti e bassi
di un rapporto che non appare fluido, ferreo, definito.
In “Faville” – come del resto avverte lo stesso prefatore
Antonio Fazio – la situazione si presenta subito come diversa,
benché lo stesso Autore, in Ai miei versi abbozza, senza tuttavia esprimerla, qualche perplessità:
Fu il cuore / soltanto il mio cuore / a crearvi / o miei poveri versi! /
nei momenti / in cui triste la vita / giaceva / in balìa del dolore. /
Voi raminghi, / negletti, incompresi / sempre andrete/
o miei poveri versi. /
92
Non ho colpa / se tenebre oscure / finiranno/ col farvi morire! /
Nell’esilio/ voi sempre sarete / vilipesi, inermi, indifesi /
o cari miei poveri versi. /
Quale carica di sentimento quando, rivolgendosi Ad una
foglia, canta
Era il bel tempo allora dell’estate /
e tu scherzavi lieta con il vento; /
sfidavi le tempeste e le sassate /
dei bimbi con piacevole cimento! /
E in “Dove andate?”, Leo si strugge nel dover prendere
atto – attraverso il richiamo metaforico delle rondini – di
non poter fare nulla per impedire quella violenta emorragia
umana – l’emigrazione – che ha, impietosamente, decimato
in termini prevalentemente irreversibili, la popolazione di
cui fa parte.
Dove andate, mie care rondinelle /
che già da me fuggite a stormi? / Dove andate?… /
– “Lontano, fra giorni, saremo! /
In terre più calde noi andiamo / un poco di cibo cercando… /
Qui è giunto l’inverno / e i nostri piccini hanno freddo/
i nostri piccini hanno fame…” /
– Oh, s’io potessi, / potessi a voi tutte /
donare del pane e del fuoco… /
Secondo chi scrive, però, il Leo migliore, quello che ha ormai acquisito il diritto alla cittadinanza in quella parte del
Parnaso in vernacolo, che fu dei Pane e dei Butera, tanto per
restare nel pianeta dialettale della zona del Reventino, resta,
purtroppo, ancora inedito.
Intanto si fa nobilitare dall’inno “A lla Scola”120, che è un
confessato pretesto per onorare, con devota ammirazione e
mai reclinate riconoscenza e gratitudine, il compianto professore Peronace, esperto in matematica, fisica e chimica, che lo
ebbe maestro:
120 Alla Scuola.
93
T’ajiu ‘ncuntràta l’atru jurnu, e bella /
me si’ parùta mo’, cchju bbella ‘e prima
quandu a lla scola ancora quatrarella /
ne’mparavamu ‘e formule e lla rima…
Ti nd’arricùordi ‘e quando ‘u prufessure /
a nnue lassava suli ammienzu i vanchi?
‘Nu vasu t’arrubbava e ccu russùre /
forte vattìa llu core… e mo me manchi
Me manchi si’, pecchì tu te spusasti, /
ed’iu restai ancora a studiare…
Eri felice. De mie ti ‘nde scordasti /
ed ’iu pensandu a ttie jurnate amare
passava tra li vanchi sulu sulu… /
Mo’ s’ogni ttantu, tu, all’ammucciùni,
me permettèrre ‘e fare lu cuculu, /
io t’arrubbèrra tanti vasi, e tuni
mi li dunèrre bbielli, cumu tandu… /
Cchi cce trovèrre ‘e stranu? Edi peccatu?
Pensu de sì. Allura me dumandu: /
‘stu bbene chi te vuagliu èdi appizzàtu?121
Poi, quasi tutto il resto è amore. Un insieme di canti che
danno corpo ad un poema, ove lo spirito non riesce a liberarsi
agevolmente dalle sollecitazioni della carne e degli istinti, e
che racchiude in sé tutto l’ardore della giovinezza cronologica (quella del cuore è tutt’altra cosa!).
121 T’ho incontrata, l’altro giorno, e bella / mi sei parsa, ora, più bella di
prima / quando alla scuola, ancora assai bambina / imparavamo le formule e la
rima. / Tu rimembri di quando il professore / ci lasciava un po’ soli tra i banchi? / Un bacio ti strappavo con rossore / forte batteva il cuor… ora mi manchi! / Mi manchi, sì, perché tu ti sposasti / mentr’io restai ancora a studiare… /
Eri felice. Di me tu ti scordasti / e io pensavo a te. Giornate amare / passavo tra
i banchi solo solo… / Ora se, ogni tanto, di nascosto / mi permettessi di corteggiarti / ti ruberei tanti baci… e tu / me li daresti, belli, come allora… / Che ci
troveresti di strano? È peccato? / Penso di sì; e, allora, mi domando: / Il bene
che ti voglio è, or, inutile?
94
In “Na tila”122, Leo fa appena in tempo ad accorgersi di essere ‘a stame123 di un tessuto, che, quasi, ricorda l’asimmetria
dell’intelaiatura del canto (in cui le strofe di quattro versi si
alternano con quelle di due) e, ben presto, scioglie un dignitoso lamento d’amore che non demolisce ma rafforza, semmai, eternandolo, un legame, che non è mai stato privo di
contrasti e di contraddizioni.
O bella magàra chi ‘u core, / ccu ll’ùacchi ha’ saputu ‘ncantare, /
Ccu ll’ùacchi ha’ saputu ‘ncantàre, / o bella magàra, ssu core. /
‘Na tila cchiù forte d’azzàru / ccu ll’uacchi tessìre ha’ sapùtu… /
ca tu, senza ‘u fhjlu ‘e tilàru, / ‘stu core allu tue ha’ jungiùtu. /
Ccu ll’ùacchi surtantu ha’ tessùtu / ‘na tila cchiù forte d’azzàru. /
Nessunu ‘e ‘stu mundu cchiù mmai /
d’ ‘a tila po’ rùmpere ‘a stame. /
Tu sula potèrre, ma sai / ca io ti cce sìerbu ppe trame… /
Stèssere n’un po’ ‘stu ligàme /
nessun’e ‘stu mundu cchiù mmai! /124
L’ansia spasmodica di chi non ha mai dimenticato la donna che ha amato di più, che si era… dileguata e che ora riappare nel luogo ove quei sentimenti, tanti anni prima, sono
sbocciati, si nota soprattutto in “Ricùardi”125:
Sìdi tornata tu – bbonavenùta! – /
li jiùri e lli ricùardi a rifriscare,
chist’anima e ‘stu core a quadijare /
dopu tant’anni tu sìdi venuta.
122 Una tela.
123 Una componente dell’ordito al telaio.
124 O bella strega che il cuore / con gli occhi hai saputo ammaliare / mi in-
segni il modo perché ancora / mi possa di te liberare? / Con gli occhi hai saputo ammaliare / o bella strega, questo cuore. / Una tela più forte d’acciaio / con
gli occhi intramare hai saputo / ché tu, senza fil di telaio / questo cuore ora al
tu’ hai unito. / Con gli occhi soltanto hai tessuto / una tela più forte d’acciaio. /
Nessun più al mondo giammai / della tela romperà mai la stame. / Tu solo potresti, ma sai / che io debbo farti da trama; / né sciogliere può ‘sto legame / di
questo mondo niuno più mai. /
125 Ricordi.
95
Si’ propriu tu! Strìngem’e ‘ste jirìta, /
‘ntorcìnale alle tue: fande ‘na corda!
Ppe mu de’ nue nessunu cchjù se scorda: /
damme ‘nu vasu ed io te dugnu ‘a vita!126
Leo, che soffre quando, per esigenze ritmiche e di rima, è
costretto a ricorrere alle pur legittime e, peraltro, non proprio
rare licenze poetiche delle sistole e delle diastole toniche,
questa volta non ha perplessità nel fare implicitamente uso
del termine jirìta al posto di jìrita. È troppo preso dal discorso che va facendo e che, appunto, vuole concludere assicurando all’amata che le consacrerà la “vita”. E, d’altronde, la
conferma di questo “impegno” è consacrato nelle due toccanti quartine de “L’appuntamentu”:
SS’appuntamentu natu all’antrasàta, /
chi l’ha ccercatu, chine l’ha bbolùtu?
No certamente tu… e mancu io! /
‘Ncun’anima d’ ’u cìelu ‘nnamurata /
chi bbene assai ne vo’, l’ha cunchjiudùtu! /
Si l’anni su’ passati a nnue cchi ‘mporta? /
L’amure èdi lu stessu, no’ cangiàtu!
Lu core vatte sempre forte forte… /
‘Stu vasu chi m’ha’ datu a mmie riporta /
la cuntentizza ppe t’avìre amatu… /127
Certo, la personalità letteraria di Ferdinando Leo non è,
ancora, del tutto affiorata nella sua giusta, congrua dimensione, ma quanti sono quelli che hanno potuto leggere ogni cosa
che fin qui ha scritto?
126 Sei tu tornata – sii la benvenuta! – / per fiori e ricordi rinfrescare; /
quest’anima ed il cor a riscaldare. / Dopo tant’anni tu sei venuta!/ Sei proprio
tu: stringimi queste dita / avvolgile alle tue: fanne una corda / perché nessuno
di noi più si scordi: / dammi ora un bacio e ti darò la vita!
127 Quest’incontro spuntato all’improvviso, / chi l’ha cercato, chi mai l’ha
voluto? / Non certo tu, ma neppure io! / Qualche anima del Cielo innamorata
/ che ci vuol bene l’avrà congegnato. / Se gli anni son passati, a noi che importa? / L’amore resta lo stesso, non cambiato. / Il cuore batte sempre forte forte /
e il bacio che m’hai dato mi riporta / la grande gioia di averti amata.
96
La progettata pubblicazione imminente di almeno un centinaio tra sonetti, canzoni e carmi, in lingua e in dialetto (egli
si allontana, talvolta, per evidenti esigenze metriche, dal vernacolo soveritano allo stato puro), potrebbe essere determinante ai fini di un giudizio più ponderato ed ampio sulla sua
opera, soprattutto poetica, visto che alla pittura, alla scultura
ed alla xilografia – in cui riusciva tanto bene – ha rinunziato
da un pezzo (e, ciò, potrebbe essere, questa volta, il suo peccato della terza età!), anche se coltiva, con apprezzabile puntiglio la ricerca storiografica e letteraria del circondario in cui
vive. Può dare ancora tanto, Leo, alla cultura indigena.
Proprio a lui, intanto, si deve il merito di tenere allertati il
punto per l’osservazione ed il ricordo di un bravo poeta di
Colla128 il cui padre, poeta anche lui, conduceva una vita cincinnatesca, trascorrendo, in una sua casetta di campagna
esposta al sole e ravvivata dalla circostante vegetazione linda
ed attraente, in località Pettinàru, sul declivio dolce di una
collina stupenda, gran parte delle sue giornate, e qualche volta anche le nottate, nutrendosi dei libri della biblioteca lasciata dal giovane figlio perduto, e partoriva decine di versi bucolici e georgici, vibranti e didascalici, di sogno e realtà.
Si sta parlando di Gabriele Guglielmino (1920-1940), che,
compagno di studi liceali con il catanzarese operatore del Diritto, avvocato Mario Casalinuovo – già presidente del Consiglio regionale della Calabria, oltre che deputato e Ministro
dei Trasporti – leggeva, ancora, speditamente, pure con una
certa disinvoltura e lodevole dimestichezza, alcuni poeti e annalisti latini, amava, annotava e declamava i “Canti” del Leopardi. Egli aveva, soprattutto, trasmesso una sorta di mania di
poetare, nel contado della sua borgata, a tanti suoi congiunti
e conoscenti, a partire, appunto, dallo stesso padre Giuseppe
Guglielmino (1891-1986), dalla madre Maria Carmela Colosimo (1898-1997), sempre in gramaglie dal giorno che, con gli
altri congiunti, era stata nella capitale a recuperare i resti
mortali della sua creatura, così crudelmente ghermita da un
Destino baro. Era stato “maestro” pure, dello zio materno,
128 Frazione di Soveria Mannelli.
97
Pasquale Colosimo, un bravo oste e stimato cittadino del luogo, un po’ sempre sulle labbra di tutti quanti conoscevano i
suoi appassionati ed appassionanti versi di Ppe lla collisèlla
luntana129, scritti quando, militare e prigioniero di guerra, si
trovava in terra straniera a… sospirare il giorno del ritorno in
patria, anche ed in primo luogo per poter riabbracciare la
donna dei suoi sogni.
Di Gabriele Guglielmino, spentosi a Roma, quando aveva
appena venti anni, fu, poco dopo la morte, pubblicato un
opuscolo, ora praticamente introvabile, e che, in fotocopia,
circola tra i pochi che hanno a cuore la ricerca su Soveria
Mannelli e sui suoi figli migliori130. Si trattava, in sostanza, di
un omaggio in sua memoria, allestito dai suoi inconsolabili
compagni di Liceo e pubblicato dalla Tipografia F.a.t.a. di
Catanzaro, appena cinque mesi dopo la sua morte. Consta di
una serie di ricordi e riflessioni degli affranti compagni di
scuola, tra cui, oltre al già ricordato Casalinuovo, valenti magistrati come Franco Belmonte, Nicola Corigliano e notissimi
intellettuali e professionisti catanzaresi come Giulio Bossi,
Italo Iannoni, Ciccio Cafasi, Nicola Crisafi, Mario Ranieri,
Nicola Vaccaro, Antonio Talarico.
Erano stati proprio loro, unitamente ad altri meno noti ma
non certo meno affettuosi verso il coetaneo amico così immaturamente scomparso, a ideare e autofinanziare l’iniziativa,
dopo aver a lungo rovistato tra le loro “sudate carte” alla ricerca dei componimenti poetici che il poeta di Colla redigeva
su fogli volanti, dedicandoli a compagni di classe o alle “bravate” studentesche, e lasciandoli loro, così, senza pretese e
tanto meno per vanagloria. Anzi, il gesto era sintomatico della spontaneità e della modestia che caratterizzava la sua voglia
di poetare.
Quell’iniziativa, ad ogni modo, ha consentito di far pervenire fino a noi, alcuni “lavori” di una certa importanza, ma
129 Per la bella collese lontana.
130 Noi dobbiamo il privilegio di averlo avuto in visione, con l’espressa au-
torizzazione per l’uso, alla generosa e lodevole disponibilità di Nandino Leo e
di Carla Colombo Marasco.
98
anche di una simpatia senza confini. Prendiamo, ad esempio,
“L’aldocicciomachìa”, un poemetto di venti ottave in cui si
narra di una fantastica “singolar tenzone”, per imprecisati o
comunque molto sfumati e generici motivi, tenutasi a seguito
di una ben precisa programmazione, tra due amici del cuore
(amicissimi tra di loro oltre che con il poeta) come il futuro
Presidente emerito della Corte Costituzionale, Aldo Corasaniti, ed il futuro Avvocato Generale dello Stato e, poi, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catanzaro,
Francesco Belmonte. Vi si nota l’aria divertita di tutta la
“combriccola” liceale nell’assistere ad uno scontro quasi certamente simulato, ma non mancano le espressioni che testimoniano l’umanità e la dirittura umanistica del poeta.
Quanto sarcasmo e quanta ironia, poi, ne “Il sentimento
indagato col sistema filosofico psicoanatomico”! Guglielmino comporrà ben tredici sestine per descrivere il “filosofo”
della classe alle prese con i compagni “abbattuti” dal tormentone di certi “benedetti” pensatori che si sono presi la briga
di costruire, addirittura, dei “sistemi” per fare il punto sul
sentimento umano. E Vaccaro (ecco il filosofo!), sul suo
“cantore”, così si esprime, nella lettera al coordinatore dell’opuscolo In memoria di Gabriele Gugliemino: “… credo che
ogni frase, nella circostanza, debba risentire di convenzionalità e di retorica. Una sola cosa posso dirti. È stato il primo di
noi a scomparire. Perciò il suo ricordo rimarrà sempre vivo
nella mia mente e nel mio cuore”.
Una delle pagine più belle dell’opuscolo, però, resta la lettera che Mario Casalinuovo indirizza, immaginariamente, all’ormai scomparso amico. “Caro Gabriele, or sono tanti giorni, fui in una modesta camera di pensione. C’era, in quella camera, tua madre. Tua madre che parlava parlava ed io, seduto
a lei accanto, che l’ascoltavo religiosamente. Mi parlava di te,
tua mamma. E parlando si avvicinava, mi prendeva le mani,
me le stringeva. Ed io ad accarezzarle quelle mani, quelle mani che tante e tante volte avean dovuto te accarezzare. Stemmo insieme per tanto tempo. Da appena la rividi mi sentii suo
figlio, tuo fratello. Sì, la rividi. Non ricordi che la avevo già
conosciuta, tua madre, quando venni, con Italo e Nicola e
99
Totò, a Colla? Non ricordi che venimmo a riabbracciarti, ché
da tanto tempo avevi lasciato vuoto il tuo posto di scuola ed
avevi abbandonato città e campagna? Il male ti tormentava…
Tua mamma parlava. Mi fece più male, tua mamma. Mi disse
che tu eri a Roma, a curare il tuo male, mentre io ero a Roma.
Che tormento! Essere a te vicino, poter venire a riabbracciarti, a darti coraggio, a farti di nuovo felice – come a Colla – e
non averlo potuto fare!… Addio, Gabriele: il mio cuore sanguina e piange. Addio!”.
Classico e selettivo, Gabriele Guglielmino, anche nella
scelta dei motivi poetici e giocosi in cui cimentarsi. Bello il sonetto “I filosofi metafisici”:
Sia lode e gloria alla Filosofia /
che parecchi cervelli ha ingarbugliati; /
bazzicando i filosofi è sembrato /
a me, d’esser coi pazzi in compagnia.
Un delirante in preda alla follia, /
un cervello anormale, un ammalato, /
un grande metafisico esaltato, /
hanno quella medesima manìa. /
Vaghi per calli sconosciuti e strani, /
nel fantastico mondo dei pensieri, /
per lochi ignoti e per sentieri arcani, /
faccia i sogni più belli, ma non speri /
col suo cervello, alcun di questi insani, /
di darmeli ad intendere per veri. /
Ma il componimento in cui rimarca il concetto alto di chi
riesce a comunicare con gli altri, attraverso il verseggiare con
trasporto e spontaneità, (e, quindi, anche, senza alcuna insensata falsa modestia, di se medesimo) è ancora un sonetto, intitolato, manco a dirlo, “Poeti”:
Noi facciamo rivivere il passato, /
dell’avvenire noi siamo i profeti, /
gl’interpreti del core; a noi poeti /
di penetrar nell’animo ci è dato, /
100
di rendere palese ogni suo stato, /
i sentimenti umani tristi o lieti, /
gli affetti più riposti e più segreti, /
di cantare le bellezze del creato.
La civiltà, la fede diffondiamo, /
coi nostri canti e contro lo straniero /
a prender l’armi gli uomini esortiamo. /
La gloria oppur l’infamia di un impero /
da noi dipende, noi la tramandiamo /
nei secoli venturi al mondo intero. /
Nella mente e nel cuore dello sfortunato, giovane, poeta di
Colla frullavano, anche, certi sentimenti tipici dell’età che,
stante l’assenza d’identificazione della destinataria, nobilitano l’animo ed esaltano la passione intensa di chi si guarda bene dal “belare” le consuete “rime sguaiate”. È un “Sonetto”
dolcissimo in tutta la sua sobrietà:
Lo so, non mi conosci ed io nemmeno, /
t’ho vista qualche volta per la via /
ma il tuo bel viso candido e sereno /
m’ha suggerito questa poesia. /
Se un pensiero gentil volgessi almeno, /
un sorriso al mio cor che lo desìa, /
se un poco palpitasse anche il tuo seno, /
a te consacrerei la vita mia. /
Mai belerò per te rime sguaiate /
nel ritornello insulso e lézioso, /
parolette d’amore inzuccherate; /
amo e nel petto mio l’amore ascoso /
con le sembianze tue nel cor segnate /
t’offro nei versi chè parlar non oso. /
Momenti lirici di valore elevato, si colgono in componimenti poetici come “Muzio Scevola”, “La tempesta”, “Il can-
101
to e la musica” ma anche quando ha da focalizzare la profonda religiosità che lo anima (e che ricalca, in effetti, quella materna! Chi scrive, ancora giovane, ebbe la fortuna di conoscerla e di sentirne, accanto al dolore mai sopito per la morte
del figlio, la devota accettazione della “volontà di Dio”!) come nella poesia dedicata “A Maria”:
Madre celeste, esaudi / l’oràzione mia, /
quel che chiedo concedimi / o Vergine Maria. /
Gli occhi compassionevoli a l’anime dolenti /
volgi e l’ardore
tempera / di quelle fiamme ardenti. /
Madre, ancora ti supplico, /abbi pietà dei miei, /
tu prega per noi miseri / e peccatori e rei.
A noi, pietosa, illumina, / la mente tenebrosa, /
dal peccato allontanaci / e d’ogni impura cosa. /
La sua sensibilità, del resto, si era già adeguatamente rivelata con “Primavera” che, ancora inedita, era apparsa su «L’eco della Sila»131. Eccone il testo:
Torna la primavera portando la gioia / nei cuori. /
La Natura si desta dalle gelide brine; /
Torna Favonio mite, carezza le fronde / e i fiori. /
Torna a cantar l’allodola; tornan le viole. /
Ogni campo fiorisce, accende ogni petto / l’amore. /
La rondinella è giunta al desiato nido, /
Il mar s’increspa, il colle di verde si copre / ed il piano. /
Di fiori profumati l’aura tepente odora. /
Ogni arboscel le foglie, le gemme e le fronde / rinnova. /
Colori variopinti ornano i prati in fiore;
Risorge il mondo e ride al tiepido / sole d’aprile. /
Mormoreggiando scorre il ruscelletto chiaro, /
Il pastore conduce per le balze fiorite / gli armenti.
Se Nandino Leo si attivasse anche in direzione del reperimento degli scritti inediti di tutti loro (e, per la maggior parte,
non hanno mai visto la pubblicazione!), in considerazione del
fatto anche che ha un bel rapporto con almeno alcuni dei
congiunti anche prossimi del quartetto di poeti consaguinei,
131 Anno 3, nn. 1-2 gennaio-febbraio1987.
102
non farebbe per nulla male. Se ne dovrebbe ringraziarlo, anzi. Veramente.
Dovrebbe, anzi, farlo e sia pure compatibilmente con le
sue febbrili ricerche d’archivio del momento incentrate sul ramo tiriolese degli Schettino dei XVIII-XIX secc. (il giureconsulto Giuseppe e l’antico sindaco di Tiriolo, Pirro, antenato, in
linea femminile, dei Leo), discendente di quel grande Pirro
Schettino, che sapeva di filosofia e di teologia e che, nato ad
Aprigliano nel 1630 (anche se lo storiografo Andreotti lo indica
come nato ad Altilia, ed il Giuliani lo vuole nato a Cosenza,
mentre il suo certificato di nascita, rinvenuto nell’Archivio di
Stato di Napoli, chiarisce di aver indiscutibilmente visto la luce
ad Aprigliano), ha lasciato ampia traccia di sé nella storia della
letteratura italiana sia per il suo antimarinismo sperticato e
profondamente sentito sia per la sua produzione poetica, in lingua italiana e latina (da ricordare i circa duecento esametri di
“Crathides” e la tragedia “Maria Stuarda”, da lui bruciati, come, del resto ha fatto con tutte le sue belle rime d’amore dedicate alle diverse donne amate, al momento di abbracciare il sacerdozio).
Il suo originario marinismo, tronfio, ridondante e paradossale, fu, da lui stesso, marchiato come “peccato letterario
di giovinezza”: la sua Poesia a noi pervenuta è tutt’altra cosa e
“se non raggiunse le eccelse cime dell’Arte” legittima oggi la
sua collocazione tra i tanti poeti della prima metà del XVII
secolo, molti dei quali “non valgono quanto lui”.
Instancabile, dunque, Nandino Leo che, negli Anni Sessanta, per ben 10-12 mesi, mantenne una proficua corrispondenza poetica (sì, le loro missive erano redatte in versi
– che comprendevano quindi anche data, convenevoli, saluti, informazioni e confidenze tra amici –) con Maurizio
Grandinetti, un intellettuale di primo piano che morì giovanissimo in un impietoso, imprevedibile infortunio sul lavoro, in località Bagni di Caronte (cuore della zona termale in
territorio di Lamezia Terme), mentre esercitava il suo… mestiere, per una consulenza, in un tunnel improvvisamente
invaso, per cause naturali non sempre decifrabili, da esalazioni venefiche.
103
Già… corrispondeva in poesia, Leo, con Maurizio Grandinetti (1938-1968), Ingegnere minerario ed Assistente ordinario
nell’Istituto di Geofisica mineraria della Facoltà di Ingegneria
dell’Università di Roma, “un tecnico con l’animo del poeta”,
come lo definisce ancora oggi la sorella Luciana.
Ed anche Maurizio aveva, nelle vene, sangue soveritano,
essendo figliolo – unico maschio – di Donna Gianna Bucci e
dell’Ingegnere Edile Michele Grandinetti, morto, ai primi
degli Anni ’40, sotto i bombardamenti a Velletri (ove, a causa
proprio della guerra, si era trasferito, quando ancora il futuro, sfortunato, poeta era nella più tenera età, per essere poi allietato dalla nascita delle sorelline Adelaide e Luciana che, alla morte del genitore, avevano appena, rispettivamente, la
prima, tre anni, e l’altra solo otto mesi), la cui famiglia, durante le sue vacanze, tornava a villeggiare a Soveria, nel vecchio
stabile dei Grandinetti, su Largo Fontanelle, all’altezza dell’incrocio tra Via Indipendenza e Via Petramone, prima di acquisire l’appartamento di Via La Pace.
Con Maurizio Grandinetti, dunque, ci si trova dinanzi ad un
figlio d’arte. Del padre restano ancora, ampie tracce di pensosa
e raffinata professionalità nel centro di Soveria, ove, prima del
suo trasferimento nel Lazio, aveva progettato e diretto i lavori
per la costruzione di molte case di civile abitazione, alcune delle
quali anche improntate allo stile “Littoria”, allora tanto in voga,
o, comunque, littorieggiante come, ad esempio, appunto, quelle di proprietà di Amedeo De Filippis o dei Cardamone, su
piazza Bonini.
Nel ricordarne, brevemente – oltre ad alcune pubblicazioni tecniche132 – la significativa produzione poetica, è di rigore
132 La prima ricerca, intitolata “Una nuova disposizione elettronica per la ricerca di corpi di limitate dimensioni”, è apparsa sul Bollettino di Geofisica teorica ed applicata (vol. IX, n. 35 – settembre 1967) edito da “Villaggio del fanciullo” di Trieste. Un secondo lavoro – “Risultati di prove su modelli in vasca
elettrolitica per la ricerca di corpi di limitate dimensioni” – è stato pubblicato
postumo, a cura della Facoltà universitaria di appartenenza, ancora su di un
numero successivo dello stesso, citato, Bollettino di Geofisica (vol. X, n. 39 –
settembre 1968), preceduto da un “corsivo” molto significativo del Titolare di
Cattedra, prof. Carmelo Aquilina. Rileggiamolo. “Il presente lavoro viene pub-
104
il richiamo alle quattro quartine de L’addio, che finì di comporre alle 19,55 del 3 gennaio 1968. Scritta solo dodici giorni
prima della tragica fine (la sciagura di Caronte si verificò, infatti, il 15 dello stesso mese di gennaio) viene conservata ancora, olografa e firmata, con amorevole cura, dall’amico Eugenio Costanzo. Quasi una profezia di morte, la sua:
Addio, miei amici, che nei giorni lieti/
mi vedeste felice a voi vicino./
Addio compagni, ch’ora in un mattino/ svaniste nella bruma./
Addio ragazzi che nel salutarmi/ sembrate darmi con i vostri gesti/
e le parole ancor, gli ultimi resti/ della gioia passata./
Addio, voi che sapeste farmi amare;/
a voi lascio il mio cuor, a voi l’affetto/
dell’esser mio pacato e di già stretto/ nell’ansia del ritorno./
Addio! Sapeste un dì farmi scordare/
del mondo mio gli affanni; ma ora amici/
Son finiti per me quei dì felici:/ torno al mio mondo; addio!
Malinconia diffusa, solitudine per scelta, rimpianti senza
pretese sono i parametri di fondo che scandiscono il sentire
vibrante, profondo, struggente di un poeta che riesce a cogliere ed a tener presente sempre, la caducità della vita.
Veramente bella, poi, la lirica Nido infranto, in cui rivede
mentalmente la casetta della cittadella laziale d’adozione…
coatta (per motivi bellici) di Velletri, poi letteralmente annientata dai bombardamenti e che, perciò stesso, gli ricorda
inevitabilmente il padre, il quale chiuse la propria parentesi
terrena proprio sotto le incursioni aeree:
Io non ricordo, non ricordo nulla/
vecchia casetta, eppur ti voglio bene;/
blicato a nome del compianto giovane collaboratore tragicamente scomparso,
senza alcun ritocco da parte nostra, sebbene incompleto. Ciò per deferente riguardo che sentiamo di dovere a chi aveva deposto la penna per un breve momento. Gli è stato impedito di riprenderla e noi non crediamo di avere diritto di sostituirci a lui nel lavoro di coordinazione e di rifinimento”.
105
tu mi vedesti un giorno nella culla/
vedesti i giorni in cui non avea pene./
Quei muri tuoi caduti, quelle travi/
rose dai tarli, nere, imputridite/
furono nuove un dì, con chi tu amavi/
e tu sfidasti il tempo in lotte ardite./
T’amo, lo sai? Tu mi vedesti allora/
crescere all’ombra tua, felice, attorno/
a chi mi dette vita e al cuore ancora/
potevo stringer, poi non fe’ ritorno.
Partir tu lo vedesti, io non lo vidi,/
casetta mia, peristi con la guerra;/
con lui sepper crollare i muri fidi,/
con l’ombra sua tu m’infrangesti in terra./
Ti guardo e quelle pietre sparse accanto/
mi lacerano il cuor, sei già finita/
povera casa di un bel sogno infranto;/
vivesti con lui una breve vita./
Mi siedo su un tuo muro sbriciolato/
e guardo le rovine del mio mondo,/
guardo quei sassi e sento del passato/
un desiderio amaro ma profondo./
T’invidio, caro rudere, nei resti/
d’una vita che fu sempre fanciulla;/
casetta di mio padre, nei suoi gesti/
te lo ricordi, io non ricordo nulla!
Amareggiato e triste, quasi assalito da uno scoramento
sconvolgente che, addirittura lo porta fino al desiderio ultimo
di neutralizzare per sempre la propria identità, si rivolge Ad un
uccello perché ne agevoli la voglia, appunto, di sentirsi un altro:
Uccello che mi guardi e non comprendi/ la mia malinconia/
non fuggire da me, non volar via/ consola i miei tormenti./
Fa che sentendo te possa scordare/ le mie pene d’amore,/
fa che possa cantare anche il mio cuore/ come te. Non volare./
106
Scendi dal ramo tuo, portami in alto/ col canto spensierato/
non farmi pensar più ciò ch’ho pensato;/ fammi sentire un altro./
Ah! Poter essere come te giocondo;/ sentire nella mente/
solo un bisogno di cantare e niente/ curar di questo mondo./
Non mi guardar così. T’invidio, sai?/ La tua spensieratezza,/
la dolce vita tua senza tristezza/ io non l’ho avuta mai./
Sì, vola, va, fuggi lontano, godi/ non posso impietosirti,/
tu sei felice ancor; non posso dirti/ che sia il dolore. Godi!/
È giusto, canta ancora sul tuo ramo/ che almen tu sia felice./
No, non sentire ciò ch’il mio cor dice,/ in fondo per ciò t’amo.
Ma è l’acqua, viva e fluente, chiara e dissetante – sgorghi
essa da una sorgente copiosa ed arzilla o defluisca nell’alveo
di un fiume o di un rigagnolo – a suggerirgli delle riflessioni
rimate e ritmiche che ne sottolineano, rimarcandoli a forti
tinte, l’animo delicato, il cuore generoso e la sensibilità senza
confini. Osservando Una fonte, racconta:
Era una fontanella/ che allegra e dispettosa zampillava/
dal sasso bruno/
e forse se nessuno/ c’era a guardarla, chi lo sa, cantava/
più fresca e bella./
Era una fontanella./
Ormai tutto è finito;/ sul sasso solo, triste silenzioso/
v’è solo un buco,/
poco più in là un sambuco/ attende invano il fonte rumoroso/
che l’ha nutrito./
Ma ormai tutto è finito./
Quando, però, si riaccosta a Un fiume, non può evitarsi
dal fare delle comparazioni e dal puntualizzare il mutato stato
d’animo che lo intristisce. Il prezioso liquido scorre artefice
di un movimento inarrestabile, che significa anche cambiamento. In meglio? In peggio? E chi mai lo saprà!?! Per l’infelice poeta, sembra scontato: ora il look di quel corso d’acqua
107
non è più quello di prima e diventa, perciò stesso, motivo di
ansia, di dolore.
Vai gonfio e lento, scivoli lontano/ tutto portando via/
le acque giallastre scorron piano piano/ ed insieme s’ammassan/
fuggono una sull’altra brontolando/ percorrono una via/
che si son fatta tutto trascinando/ per i luoghi ove passan./
Sei bello fiume nel tuo lento andare/ verso una grande meta,/
sei bello mentre scorri verso il mare/ col tuo regale passo./
Eppure non mi piaci! Mi piacevi/ mentre per la pineta/
allegro zampillavi e il cor rendevi/ allegro, se era lasso!
Eri bello, sì, allor mentre correndo/ balzavi allegramente/
da un sasso all’altro solo allor movendo/ gli abbandonati pali./
Eri bello e sapevi allor cantare/ cantando pazzamente/
e limpido, lucente eri nel dare/ quei sorsi agli animali.
Ricordi ancor, fresco gentil ciarliero/ nel tuo candore bello;/
or sei cresciuto, non sei più sincero/ non sei più il mio ruscello./
Il tema della propensione a chiudersi in se stesso, infine,
unitamente a quello, molto ricorrente nei suoi delicati componimenti, dell’esito negativo a qualunque suo tentativo di
disperata ricerca della felicità, si coglie in Rondini:
Dove fuggite, o rondini, stasera/ dove fuggite, amiche? D’altri cieli
voi troverete ancor la primavera/ ancora i veli/
d’oscure nubi solcherete e ancora/
l’inverno eviterete ch’aspro strugge/
tutta la vita e novella dimora,/ mentre rifugge/
il tempo troverete, amiche addio!/ Altri soli vedrete e nello spazio/
d’un cielo tutto vostro il cinguettio/ vostro mai sazio/
invocherà, ritroverà lontano/ ancor felicità. Io nel mio mondo/
chiuso la cerco, sempre e sempre invano./ Addio giocondo/
stuolo di messaggeri ch’al mio cuore/
parlaste un dì, agli amici miei lontani/
vola il mio cor con voi e il sol che muore/
“Tornan domani”/
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sembra ripeter, poi con il suo fasto/
tramonta e voi sparite sopra i pini/
come bei sogni d’or. Cos’è rimasto?/
Là dei puntini./
Tutte le appena richiamate poesie di Maurizio Grandinetti, ad eccezione di quella (inedita) conservata da Eugenio Costanzo, furono pubblicate su “I sentieri”, supplemento de “Il
trifoglio”, antologia bimestrale di poesia che, diretta da Oron
Zecca, si pubblicava a Roma (con sede direzionale e redazionale in Via Bruxelles, 27/3).
Con Leo e Costanzo, completava la terna di amici “strettissimi” del Grandinetti, Mario De Filippis, che ancora oggi
non manca di tergere una lagrima, prepotente e sincera, ogni
qualvolta gli si ricorda quello la cui sprone amichevole fu decisiva nel suo – è Mario stesso a confessarlo – schiudersi alla
Cultura, quella appunto con la C maiuscola.
Intanto, proprio dalle colonne del periodico del Leo, Mario Caligiuri, con “E adesso parliamo di calabritudine”133 lanciò l’idea “per un manifesto culturale ancora tutto da scrivere”, che doveva inaugurare un lungo dibattito protrattosi, a
livello regionale, per molti mesi. Il “la”, però, lo aveva dato
sullo stesso giornale134, Raffaele Cardamone, che, con un articolo di spalla, in prima pagina, ampliava l’idea. L’articolo venne ripreso pure da «il piccolissimo»135.
Giova rileggere. “Associando la parola Calabria all’aggettivo vecchio e la parola “calabritudine” (rigorosamente tra virgolette, perché più che di una parola si tratta di un’idea) all’aggettivo nuovo, l’accostamento del titolo non risulta essere
casuale bensì un modo, uno tra i tanti, per esprimere volutamente un contrasto. A parlare di “calabritudine” è stato Mario Caligiuri (giovane sindaco di Soveria Mannelli), che con
una felice intuizione ha reinterpretato il concetto, più celebre, di negritudine, riducendolo ed adeguandolo alla realtà
della Calabria che è vista, piuttosto che come regione, come
133 «L’eco della Sila», A. I, n. 10, dicembre 1985, pag. 2.
134 «L’eco della Sila», A. I, n. 4, aprile-maggio 1986, pag. 1.
135 A. II n. 18 dell’8 maggio 1986, pag. 3.
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un vero e proprio continente privo di unità culturale e sociale. Riducendo all’osso il concetto, la “calabritudine” è una
riappropriazione delle nostre radici culturali che non sia una
semplice, compiaciuta autocontemplazione, ma funga da solida base per costruire il futuro, prima di tutto coinvolgendo
le coscienze della gente comune in un progetto, uno sforzo
collettivo, che ci proietti verso mete radicalmente diverse da
quelle che sono state perseguite fin’ora. Ma ritorniamo al nodo centrale del nostro discorso e cioè al contrasto tra vecchio
e nuovo, tra Calabria e “calabritudine”. Il mio intento è di arrivare a scegliere una delle due alternative: quella che è realtà
attuale (per vederla non dobbiamo fare nessuno sforzo, solo
guardarci attorno), ovvero quella che è solo un’idea, ed in
quanto tale, astratta e, quindi, molto più difficile da assumere, se prescindiamo da esempi concreti…”.
Apriti cielo! La pietra scagliata nello stagno ha mosso le
acque. Evviva! Soveria dice una parola e subito c’è chi risponde. Evidentemente, c’è anche chi ascolta!
L’ottimo Pino Nano, redattore alla Rai di Cosenza e consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, scrive un libro di
successo. Titolo? “Calabritudine”. Un libro provocatorio e
dissacrante, a partire dal capitolo concernente la stampa.
Molti dei professionisti che ci sono lavorano per giornali non
calabresi… molti altri ancora sono disoccupati… e quelli che
prestano la loro opera sono sottopagati… una condizione da
terzo mondo… dove, per giunta, manca una vera e propria
scuola di giornalismo… Ora la miccia è accesa, anche perché
Nano ha spiegato qual è il rapporto che si instaura tra avvocato e mafioso. Nel libro di Nano c’è una lunga intervista all’avvocato Armando Veneto, già difensore del famoso boss Piromalli, che “ricostruisce il possibile rapporto tra malvivente e
difensore, e che cerca di spiegare quali limiti obiettivi queste
due figure del processo penale incontrano sulla propria strada. Soprattutto le difficoltà che ne derivano da un rapporto
così complesso. Alla domanda L’accusano di essere stato un
consigliòri dei suoi clienti. Lei come reagisce?, l’avvocato difensore dei Piromalli chiarisce che non è facile, soprattutto in
Calabria, fare questo mestiere. Non sono mai stato un consi-
110
gliòri di nessuno – reagisce – ma ho sempre rispettato il mandato di fiducia che il cliente mi affida. Siamo pagati anche per questo, per garantire al cliente un rapporto di fiducia. Non contro il
magistrato di turno, ma nello sforzo di ricerca di una verità e di
una spiegazione che crei al cliente i danni minori”136.
E ad un certo punto, a Nano, arrivò anche una lettera del
giornalista Pasqualino Pandullo. “Dicono che la tua abilità
sia consistita proprio in questo. Nel menzionare tanta gente,
illustrandone solo i profili meno angusti. Dicono che gli aggettivi che più ricorrono nelle tue pagine siano straordinario e
incredibile. E che tu sia un bel furbo, puntando a propiziarti i
loro favori, a cominciare dalla vendita del libro… La verità è
che tu hai avuto l’intuizione giusta. Perché, infatti, continuare con le guerre tra poveri, a parlar male e a dividersi, ad analizzare e rispondersi con lamentismo querulo, a sbranarsi, se
siamo più guitti, se siamo sempre gli ultimi, se, in ogni caso,
diamo comunque l’impressione di non farcela? E della gente
che vale, chi ne parla? Delle nostre potenzialità, chi ne parla?
Dei nostri sogni, dei nostri sacrifici? E i nostri artisti, le nostre
bellezze, perché dobbiamo farli scoprire sempre agli altri? E
la nostra storia, chi aspetteremo ancora per scriverla?”137.
Quanto piaceva questo tipo di discorso a Sermòne e Poesia che, questa volta, avevano potuto beneficiare di un messaggio portato a mano da Pitra. Materiale per andare oltre la
“calabritudine”, quindi, ce n’era di già abbastanza, quanto
meno a livello di appigli per argomentazioni serie e valide.
Ci sarà, pure, il bell’intervento di Bruno Gemelli. “Pino
Nano o della bontà. Un lato che non conoscevamo. La Calabria è un tavolino amputato di una gamba: appena ti appoggi,
o ci soffi sopra, crolla. Pino Nano con il suo saggio (se non è
un saggio, che cosa è?) fa da sostegno a questa Calabria elevata per la circostanza a rango di Calabritudine. Forse non è
– questo sostegno – un segno d’amore? Inutile cercare la verità che sta in mezzo. Tempo perso. Pino Nano, che per sua
natura sta dalla parte dei buoni (in senso lato), snocciola il ro136 «il piccolissimo», A. 2, n. 41 del 13 novembre 1986, pag. 5.
137 «il piccolissimo», A. 2, n. 46 del 18 dicembre 1986, pag. 7.
111
sario del proprio vissuto attraverso la memoria. Memoria, anche, come gratitudine. Ossia: visti da vicino…”138. Né mancavano le voci fuori dal coro, come quel “buono” di un Francesco Gagliardi che non era stato preso in considerazione da Pino Nano per il suo libro139.
Quisquilie… L’idea, ormai, era stata messa in circolazione
e la gente si era avviata a prendere coscienza della realtà, magari pronta a decidersi di agire conseguenzialmente.
Ma torniamo, ancora una volta, a Nandino Leo… cui nulla sfuggiva se, sul suo foglio, non aveva mancato di annotare
neppure la “luna di miele” di Salvina Pennisi e Domenico
Sciacca (soveritano a tutto titolo), da tanti decenni in Australia, venuti, almeno lo sposo (in quanto la moglie è di origini siciliane), a salutare i luoghi della sua infanzia, ove annualmente, d’estate, torna il fratello Totonno, rimasto in Italia a fare il
professore, prima, ed il Preside, dopo.
Gli Sciacca, fino ai primi degli Anni Cinquanta, sono rimasti a San Tommaso (e con laboratorio artigiano in Piazza
Bonini, a Soveria). Il capofamiglia, Aristide, era anche un
bravissimo cabarettista dilettante, capace di allietare, da solo,
una larga messe di invitati ad una grossa festa di nozze, e la
moglie, Franceschina, che, rotto ogni indugio, non solo si era
messa a lavorare sodo ma garantiva anche il servizio a domicilio: gestivano, con una clientela vasta e fedelissima, una sala
da barba. Una donna barbiera? Sì, Soveria aveva espresso anche questo, ma non era riuscita a… trattenere quel nucleo familiare numeroso, impedendo il suo trasferimento nel continente nuovissimo, dove il buon Aristide finirà ben presto con
l’essere ghermito da uno spaventoso incidente della strada,
nel cuore di Melbourne.
E si era premurato, Leo, inoltre, di procurarsi una bella
nota (redatta da Mario Caligiuri) sulla personale di pittura di
Rino Marino (soveritano acquisito, avendo eletta come sua
sposa Fiorita Costanzo, primogenita di Giovanni ‘u Bersaglieri) i cui dipinti con gli “indefinibili contorni di paesaggi” ne
138 «il piccolissimo», A. 3, n. 3 del 29 gennaio 1987, pag. 8.
139 Cfr. «il piccolissimo», A. 3, n. 6 del 19 febbraio 1987, pag. 12.
112
rendono l’opera “vicina alle tematiche intellettuali del Novecento, distaccato da quella pittura regionalistica che si accanisce nella descrizione di una Calabria che non esiste più e che,
peraltro, ha dato i risultati odierni di grande, unanime,
sconforto, in tutti i campi della vita civile”.
Così come aveva fatto per Vittorio Caligiuri, figliolo, ora
più che sessantenne, di una coppia di soveritani purosangue
emigrata a Novi Ligure, ove l’affermato pittore è nato, vive ed
opera, facendo ricorso a tante tecniche, anche se, in alcuni
periodi, ha privilegiato la china acquarellata su cartoncino, o i
pastelli ad olio o a cera. Dalle sue tematiche non mancano,
certo, quelle ispirate ai motivi ed ai colori delle… radici.
Anzi, in acquarello, sono tanti i suoi quadri, di medio formato, che riproducono angoli suggestivi di Soveria. Uno di
quelli, riproducente la zona di Via Cava, tra il “Palazzo” ed i
piedi della scaletta che porta, su, nell’area antistante la Chiesa
di San Giovanni, per gentile concessione dell’Autore e dell’attuale proprietario Ciccio Sirianni (d’ ‘o Barraccune) orna la
copertina del romanzo “Fiabamara” (di chi scrive) ambientato proprio a Soveria.
La caratteristica di fondo di Vittorio Caligiuri consiste nella sua straordinaria capacità di ritrarre dal vivo, dal vero… È,
insomma, il suo, un “figurativo”, da non confondere con il lavoro di un fotografo, perché egli ci mette sempre quel tocco
personale che esalta il paesaggio, le cose, la gente, di volta in
volta, assunti come modello.
Vedeva, poi, un po’ più in là, nella sua mente e nel suo cuore, la sequela di quattordici bozzetti di che è fatta quella rappresentazione scenica della liturgia pasquale nota come “via
crucis”, ma la immaginava in un “modo… altro”, mai visto,
del tutto originale, quindi. E finirà, dopo tanta appassionata
ricerca, con il realizzarla. Con una tecnica mista. A china acquerellata, cioè.
E quel progetto, appena completato, mentre ancora spargeva la fragranza del fresco e del sacro, incantava non solo chi
aveva avuto la ventura di ammirarlo, con il privilegio dell’anteprima, ma anche chi lo aveva, in prima persona, realizzato.
Questi lo aveva, perciò, riprodotto ancora due volte, con
113
una pazienza certosina e devota, che forniva la prova concreta d’un artista che sapeva il fatto suo e che, quanto a creatività, aveva poco da invidiare a quelli che fanno parte del… giro e che, a volte, diventano anche incomprensibilmente i beniamini della critica ufficiale, di quella che – si vuole – conti
molto.
Già… perché le figure umane che danno corpo alle varie
“stazioni” della “via crucis” in questione, corrispondono,
nella loro gran parte, agli attori dilettanti, ai personaggi della… strada, che, in una delle Settimane Sante degli ultimi anni, hanno realizzato, nel vicino comune di Bianchi, e più esattamente nella frazione Palinudo, ‘A pigliata (processo, passione e morte di Cristo), nel segno della grande tradizione religiosa della nostra gente.
Avvertito per tempo dai congiunti, era tornato a Soveria,
da Novi Ligure, ed aveva così avuto tutto il modo e il tempo
di focalizzare e fissare le immagini del sacro dramma cristiano, così abilmente proposto periodicamente, dalla “teatralità” spontanea, innocente, intensa, della gente del popolo,
spesso del tutto incolta, ma sempre viva e perspicace, in molti
centri della Calabria, su testi sei-settecenteschi, in genere ed a
lungo oralmente tramandati.
La scelta, quindi, era caduta sulla “versione” di Palinudo
ed ecco, allora, che sui quattordici quadretti a tema sacro, figurano luoghi e gente di Bianchi. E non ha fatto per niente
male il Comune del piccolo centro ad assicurarsi il riuscito
“lavoro”di Vittorio Caligiuri, piemontese per elezione un
po’… coatta, ma soveritano nel sangue, nella pelle, nello “spirito pensante” e nel talento creativo.
Già… Vittorio, il figliolo di Giovanni Caligiuri (‘e Pepparanu, va ricordato il nomignolo, per… salvarlo dalle tante e
tante omonimìe!) e di Luigina Fabiano (la sorella del Preside
Pietro) che, prima dell’emigrazione al Nord, avevano domicilio e residenza in Via Indipendenza (Suverìa ad’irtu!). Che
si è formato ed è cresciuto… lassù, ma l’acaro delle meraviglie che suggerisce ad un Artista sensibile, molto spesso,
scorci panoramici e paesaggi d’incanto, tutti soveritani, deve
essere vivo ed operativo in lui che, di tanto in tanto, scende
114
quaggiù, a stringere sul cuore mamma Luigina e la sorella
Anna Maria Caligiuri in Anastasio (che tanto ha dato alla
gioventù studiosa del comprensorio avendo, per alcuni decenni, insegnanto al Professionale per l’Agricoltura di Soveria), ma anche per tirare fuori i “ferri del mestiere” ed immortalare i punti più belli ed indimenticabili del paese che
fu, e resta, dei genitori.
Naturalmente, l’Arte del Caligiuri, pittore e grafico figurativo, non è sempre improntata al sacro (anche se un suo 50 per 70
raffigurante il Santo Patrono di Soveria venne dato al sacerdote
Don Isidoro Di Cello ed è appeso sulla parete più in vista della
sacrestia della Chiesa parrocchiale consacrata a San Giovanni
Battista): egli – che non si è lasciato contaminare da deformazioni professionali (è geometra) – infatti, è paesaggista, ritrattista, raffinato “ideatore” di miscellanee floreali e di nature morte; e, per creare, ricorre a tutte le tecniche più in uso, anche se,
poi, predilige l’acquarello, la china acquerellata.
Importante quanto di lui ha scritto M. Puppo: “Il suo paesaggio, prevalentemente architettonico, fatto di archi, logge,
porticati, scorci di paesi, finisce per imporre regole armoniche alle quali anche la natura vera sembra assoggettarsi come
se obbedisse anch’essa ad un ordine rigoroso di compostezza
classica… Opere dove la verità supera la bellezza e dove la
certezza della prospettiva ne determina un indiscusso, singolare, fascino”.
Vero, tutto vero, per carità. Qualcos’altra, però, andrebbe
aggiunta, ché, diversamente, uscirebbero dal novero delle sue
opere più palpitanti e romantiche, più vere e sentite come,
per esempio, “Vecchio mulino” (che è il mulino ad acqua dei
Pascuzzi, sulla sponda del Galìce, lungo la stradella interpoderale che collega la zona del vecchio lavatoio dei Mannìalli
suttàni con il boschetto di Cilla ed il cimitero urbano) o come
“Natura morta in nero” (che è un ben intonato ed assortito
“insieme” di fiori e frutti della pre-Sila) o “Scendendo dal
Timpòne” (che è un’eloquente sintesi di Via dottor Cimino in
direzione di Corso Garibaldi, vista dall’incrocio della stessa
strada con Via Roma-Via De Franco) o, infine, la bella serie di
“Laghi silani”.
115
La verità è che Vittorio Caligiuri, da buon autodidatta, le
regole se le conia lui e le applica, di volta in volta, su input del
cuore che ne orienta le scelte sulla tavolozza ed all’atto della
“creazione”, in barba a tutte le… norme aride e glaciali ed alle imposizioni tecnicistiche che contano poco, anzi proprio
niente, negli attimi più decisivi della fantasmagoria e della
traduzione in accostamenti sensati di colori. E sta proprio
qui, a parere di chi scrive, il pregio di fondo di un Artista che
par sempre, con il Sommo Poeta, reciti – attraverso le sue belle creazioni – “Io mi son un che quando, amor m’ispira / ed a
quel modo che ditta dentro vo’ significando /”.
E già… perché chi potrà mai negare che nei “pezzi” di Caligiuri ci sia, nella sua dimensione più ampia, Poesia autentica? Sì, perché non si spiegherebbero diversamente, i successi
ed i Premi anche cospicui, da lui conseguiti nelle collettive di
pittura o, ancora di più, nelle “personali”, l’ultima delle quali
l’ha pure portato all’estero, a La Chapelle Saint Jacques a Porte de France. Ed è stata una ennesima affermazione brillante.
A questo punto, ad ogni modo, vanno ricordati anche i cimenti pittorici di un’altra soveritana, Maria Marchio, che ormai da tempo ha scelto di vivere nella Locride, ove ha continuato, naturalmente, a coltivare il suo interesse per la pittura,
realizzando anche delle tele di una discreta valenza e che hanno trovato posto in diverse collezioni private. La Marchio viene ricordata, a Soveria, oltre che per una sua mostra, anche
per quel libro per bambini, scritto da bambini, da lei curato
insieme a Sonia Patti, il quale fu presentato ad un uditorio
folto, attento ed ammirato, nel salone della Biblioteca civica
di Villa Pellico, nel quadro della rubrica “Librando, librarsi”,
nel corso dell’edizione 2002 di “Essere a Soveria”.
Né al Leo era sfuggita la riuscita manifestazione culturale
legata alla presentazione del volume “Soveria Mannelli. Zone
di tempo”, il foto-libro di Michele Peronace (con prefazione
di Silvana Sirianni), edito dalla Rubbettino, e su cui hanno discusso, alla presenza di un uditorio folto ed incuriosito, Moisè Asta, Emanuele Giacoia ed Antonio Panzanella.
Quasi in contemporanea con l’impegno giornalistico del
Leo, ad ogni modo, aveva incontrato un buon successo anche
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quello del più giovane Rosario Rubbettino (il futuro Editore,
che, come dirà, si sentirà sempre attratto dalla carta stampata!) che, agli inizi degli Anni Sessanta fu alla guida di una nutrita serie di “numeri unici”140, dopo aver scelto, Luigi Sacco
(il futuro professor Luigino, di tanto in tanto, scriverà, poi,
anche per «L’eco della Sila» di Nandino Leo) e Giuseppe (affettuosamente detto Peppinìellu) Talarico, rispettivamente
come Condirettore e Redattore capo. Il successo dell’iniziativa fu documentato da uno degli stessi numeri del giornalino
studentesco con la manchètte di prima pagina, in cui si ringraziavano tutte le Autorità scolastiche, i genitori degli studenti
ed i simpatizzanti, indicati con tanto di nome e cognome, per
il sostegno morale e materiale riservato all’iniziativa.
Il “campo” operativo scelto da Rubbettino, ovviamente,
era la scuola, ma i suoi “fogli”, anziché perdersi nelle pur simpatiche ed allettanti goliardie studentesche, si immergevano
nell’eterna polemica sull’inattualità della scuola (anche) di
quel tempo. E se nella colonnina con il “fondo” di presentazione c’era l’impegno a fare “un giornale studentesco che rifletta la vita e il pensiero dei nostri studenti, che accolga le loro primizie letterarie, che discuta i problemi che più da vicino
li riguardano, che li avvii verso la nobile arte del giornalismo,
e che, infine, porti tra i banchi della scuola la freschezza e il
calore dei loro giovani anni”, nell’articolo di spalla, Rubbettino, va più nel profondo della problematica.
E, se Sacco denunziava il baratro esistente tra scuola e società, anche alla luce della sua formazione operaistica, democratica e progressista, ereditata dal padre (lo stimatissimo mastru Franciscu Sacco), Rubbettino (anch’egli primogenito di
un operaio, molto valido ed apprezzato, dell’Anas, il cantoniere Florindo), apostrofava addirittura gli addetti del settore. “No, signori professori ed alunni – egli scriveva – voi lo sapete benissimo. Voi sapete benissimo che non è con questo
inestricabile labirinto di programmi da svolgere, con tante teste imbottite di argomenti pressoché inutili nella vita pratica,
140 Una copia de «Lo studente catanzarese», dell’aprile 1960, ci è stata,
gentilmente, messa a disposizione da Nandino Leo.
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con le nozioni più o meno vaghe acquisite nel corso di lunghi
e penosissimi studi, con la turlupinatura dei compiti scritti e
degli altrettanto fasulli numeri con i quali si dovrebbero giudicare gli alunni che si potrà avere una società sufficientemente preparata ad affrontare i nuovi e svariati problemi che
le esigenze di oggi richiedono. Quali risultati può dare questa
catastrofica situazione?”. E via, di questo passo, a denunziare
i mali cronici di una Scuola che (anche allora!) non era in linea con i tempi, non preparava alla vita, né si poteva dire elargisse l’istruzione e l’educazione occorrenti perché si fosse degli uomini votati al bene, dei cittadini probi e dei professionisti preparati…
Nella bella cittadina pre-silana, dirimpettaia di un affascinante Reventino (sempre al centro dell’attenzione dell’insegnante Ivone Sirianni, che aveva persino polemizzato con chi
scrive, reo di non aver corredato di alcun dato bibliografico, la
fiaba con protagonista un tal “re Ventino” che, poi, avrebbe
dato il nome – unendo apposizione e sostantivo – all’omonimo
rilievo montuoso, il cui picco, ove è allogata una croce rudimentale realizzata da boscaioli e pastori, è costantemente sferzato dal vento. Si doleva di non aver trovato mai una notizia del
genere – lui che aveva fatto un meticoloso lavoro di ricerca per
ricostruire a puntino, i fatti garibaldini dell’intero circondario141 – ma dimenticava trattarsi soltanto di una fiaba) comunque, non si erano ancora del tutto spenti l’eco ed il successo
del gustoso volumetto con la biografia romanzata di un “ladro per bisogno” che l’avvocato Giosuè Arcuri, anche quale
difensore di fiducia, aveva raccontato in “E ora non rubo
più”142.
Secondo Umberto Pascuzzi, che ne aveva curato la Prefazione, il ricercato scritto “è la biografia di una caratteristica figura dell’ambiente, viva ed attuale, anzi, direi, è una gustosa
141 I. Sirianni, “Il disarmo borbonico del 30 agosto 1860 in Soveria Mannel-
li” (Catanzaro, 1957). Sullo stesso argomento cfr. pure S. Foderaro, “Garibaldi a
Soveria Mannelli” (Roma, 1961) e B. Bevilacqua, “Un episodio del 1860: Garibaldi, Stocco, Cefaly e la contessa Martini della Torre” (Catanzaro, 1960).
142 Castaldi Editore, Milano 1958.
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episodica, un’esposizione di schizzi mirabilmente articolati… Le vicende dello strano protagonista, per quanto sembrino pervase da umorismo, che non è tale nel pieno senso, suscitano un vivo interesse, perché esse si svolgono senza frammentarismi…”.
In effetti, è lo stesso Carminuzzu Ventura (classe 1898),
“un ometto alto quanto un ragazzo di dieci anni”, a raccontare – per avere in cambio un pacchetto di sigarette e mille lire –
le sue “imprese ladresche”, curiose e complesse, audaci e rocambolesche, forse più conseguenza di una forma di cleptomania acuta che non di un vero e proprio stato di bisogno,
che, ad ogni modo, non era del tutto assente. Sono belle pagine, amene, distensive, scorrevoli, che rendono persino simpatico e da perdonare il bizzarro, semplicione, impenitente, poveretto, fotografato dalla penna rigorosa e fedele di un Autore – l’avvocato Arcuri – che, come assume chi ha redatto la
Prefazione, “da acuto analizzatore quale è, non sa trattenersi
nei limiti di capacità del protagonista e si scopre con slanci, in
cui vi è il palpito della compassione, il senso amaro della tristezza ed infine l’immenso sollievo per la redenzione di un essere senza speranza e senza domani”143.
I “colpi” portati a termine a Soveria e dintorni non sono
stati pochi, e tutti sono riusciti a strappare – anche con il modo di raccontare di chi li ha progettati e realizzati – il riso
amaro di chi legge, ma la scelta, alla fine, di redimersi viene ripagata da un gesto sicuramente emendativo del Comune di
Soveria, che lo chiama a fare l’operatore ecologico. E Carminuzzu è tanto pago e riconoscente da assumere, spontaneamente, come per incanto, l’impegno solenne che diventerà il
titolo del volumetto che lo riguarda e che finirà in molte, moltissime case soveritane.
Ma c’entra il lavoro di Arcuri con Sermòne e con Poesia?
Certo che c’entra. Forse che Poesia non aveva, pure, rubato il
cuore di Sermòne? Si era persino riconosciuta come colei
che, in maniera tanto spontanea, era entrata in possesso dell’amore di un giovanottino che le piaceva e che non si impe143 Ibidem.
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gnava meno di lei, nell’opera (si fa per dire!) di conquista. Del
resto, narrativa, pittura ed, a tratti anche foto di un certo tipo,
e realizzate con un certo garbo e versatile professionalità, sono sempre Poesia…
Poesia e Pitra – con Sermòne sempre alla larga, ad evitare
problemi – cominciavano a trovarsi più spesso, anche – quando
non c’era da discettare o fare avventate illazioni sui sogni strani,
premonitori di… sciagure – per appagare il loro improvviso bisogno di leggere, e possibilmente afferrare il senso di un’esistenza cui si continuava a negare il diritto all’amore. E tra le pieghe
dell’attesa di certi incontri impossibili, vietati, Sermòne era riuscito a far recapitare alle due brave figliole, tutti gli scritti editi di
un professionista che di poesie ne aveva fatte tante, accompagnandole anche con notazioni e discorsi, dotti e pertinenti, ponderati ed esplicativi. Già… Ora, Poesia e Pitra, potevano accostarsi anche al mondo letterario tumultuoso ed incisivo di un altro soveritano autentico, di cui si sapeva ancora, tanto poco veramente. Oh impietosi silenzi, quasi da… congiura!
Dovrebbe essere lecito parlare del “Pavese della Calabria”
quando si fa riferimento a Raffaelino (come veniva affettuosamente chiamato in famiglia o dagli amici e dai conoscenti)
Proto (1941-1987), il poeta suicida di Soveria Mannelli. E
non soltanto per l’estrema scelta di darsi personalmente la
morte con l’intenzione di esprimere il proprio ultimo gesto di
piena libertà, che innegabilmente li accomuna, ma anche, e
soprattutto, per una serie di affinità che, indagando e riflettendo, non è per nulla difficile individuare.
E vengono, così, subito a mente, a proposito del grande
letterato di Santo Stefano Belbo e delle Langhe (che ha fatto
largo uso delle lingue, anche straniere, pur se non ha lasciato
spazio al complesso dialetto piemontese) certi “miti” o certi
motivi, come quelli del “sangue”, del mondo classico e della
mitologia, del “valere alla penna”, della voglia di comunicare
neutralizzata dalla (forse presunta) ostilità che lo assediava
completamente, dell’impegno politico di cui, con sofferenza
immane, viveva le contraddizioni e, quindi, le difficoltà obiettive a parteciparvi, in prima persona, salvo poi ad invidiare
120
(creandosi, persino degli scrupoli sinceri ed usuranti) quanti,
con più coraggio e più spiccata personalità, sapevano egregiamente dare il loro contributo ai fatti.
Il discorso potrebbe continuare, enumerando chissà
quanti altri punti di contatto che imperversano nell’opera e
nei giorni dei due. Basta, però, di certo, approfondire i pochi
aspetti già detti per legittimare la visione analogica tra di loro.
Non manca, infatti, in Proto, il “mito del sangue”, della famiglia (l’amore sconfinato per la madre, la moglie, i figli, la cui
presenza è fortemente avvertita in tutta quella che è la sua “lirica
focolaresca”) e neppure il gusto per tutto ciò che è classico (dalla storia alla filosofia, dalla letteratura alla mitologia ed alla religiosità) sicché il suo “valere alla penna” è ben chiaro nei suoi
scritti in lingua (ed il sonetto – annota Gambino144 – è “uno dei
componimenti più antichi e diffusi della nostra tradizione poetica”), anche quando esprime quella poesia di ribellione e di
protesta “incentrata – sottolinea il Piromalli145 – sulla figura del
poeta che sente, riflette e pensa, sull’ethos della civiltà contadina
plurimillenaria e che ha il suo monumento in Esiodo, la saggezza civile in Solone antibraminico e antipopulista, in Gioacchino
da Fiore che presenta, contro la lussuria di palazzo, mistiche
trame di ascese purificatrici”. Ed è in essa che si scopre l’idea
che – come osserva Sharo Gambino – “Raffaele Proto ha del
poeta, della sua funzione, del compito che egli è chiamato ad
assolvere nella società, sul credo che lo anima e lo spinge a
scrivere” e che è tutta contenuta nel sonetto “Il poeta”:
Quel tesoriere di neglette fole, / ghermito da gradevoli bagliori, /
veste la nudità delle parole, / arabescando turgidi sapori. /
Il cantico dell’alma rugiadosa /
stormisce… dipanando l’emozione. /
Lo spasimo dell’onda procellosa /
vibra la sferza della ribellione. /
Fulvi grovigli e gemiti lustrali, / accesi da patetici sgomenti, /
dissertano sopiti memoriali. /
144 S. Gambino, “La poesia di Raffaele Proto”, in R. Proto, Tormenti bruzi,
Rubbettino 1985.
145 A. Piromalli, Prefazione a R. Proto Tormenti bruzi, cit.
121
Quando tintinna l’eco del trastullo /
e scorrono vermigli godimenti, /
l’indignazione prega… nel fanciullo. /
Il linguaggio è, senza dubbio, ricercato; sembra contenere
una grande voglia del poeta di essere ed apparire aristocratico, sembra insistere con lemmi aulici, ridondanti, esornativi.
E sembrerebbe, lì lì, per essere “attaccato” e rifiutato, ma sarebbe poco generoso, anzi fuori dalla Storia, perché, tutto
sommato, si tratta di quello stesso stile che si trova in tutto
Pavese, con particolare accentuazione in “Lavorare stanca” e
in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
Siamo, semmai, dinanzi ad una vera realtà osmotica di teoria e pratica, di pensiero ed azione, di reale e ideale, di conosciuto e conoscibile, di natura e intervento umano. E ci troviamo, certamente, non di fronte a un poeta che sogna, o, almeno, un poeta che solamente sogna.
Tornando a Pavese ed alla sua drammatica presa d’atto che il
“davvero tragico” dell’uomo consiste nell’impossibilità o nell’incapacità di comunicare con gli altri, per cui è reso problematico il “mestiere di vivere” che non riesce mai a sbarazzarsi di
quell’incalzante “vizio assurdo”, o ricerca volontaria della morte, il raffronto con il Nostro diventa quasi obbligatorio.
Questa difficoltà terribile – l’incomunicabilità tra esseri
umani – è, infatti, visibile anche in Proto, il quale – pur con i
suoi limiti e le sue fisime, con il suo confessato carattere difficile ed i suoi possibili pregiudizi – aveva piena consapevolezza del suo essere professionista che ha studiato sul serio, ricercato e lavorato, per davvero, ad ampliare quanto più possibile, il proprio patrimonio culturale.
Il nemo propheta in patria, perciò, lo ha sempre avvertito
come ingiusto ed insopportabile. E, forse, avrebbe meritato più fortuna uno che, come lui, aveva tanta sensibilità
verso i semplici ed i reietti, verso gli affetti antichi e recenti,
e che non aveva mancato di accostare, nella dedica del suo
ultimo lavoro editoriale sui “proverbi e modi di dire del Reventino”, alla figura del proprio compianto genitore, Ubaldo, il suo tanto stimato maestro delle scuole elementari,
122
Raffaele Marasco, un signore autentico e molto apprezzato
che, a parte la notorietà professionale (non troppo diversa
da quella di cui beneficiava il cognato Carmelo Peronace, il
don Ciccio matematico, che aveva insegnato a “far di conto”, con le sue note, invidiabili, capacità didattiche, alla
quasi totale gioventù studiosa del comprensorio, anche nei
periodi in cui era impegnato a fare l’amministratore civico), ha lasciato un buon ricordo, persino tra gli avversari
politici, come primo cittadino di Soveria.
Il rapporto di Proto con il paese che gli ha dato i natali, insomma, non era dei migliori, anche se è veramente difficile
stabilire da quale parte fossero il torto e la ragione.
Raffaelino Proto amava fortemente la sua terra, la sua gente, ma non accettava di non essere apprezzato per quello che
era riuscito a “farsi” e per quello che era, che sapeva, che faceva anche per gli altri; eppure quelli che sono stati suoi allievi non hanno mai avuto di che rimproverarlo. Sapeva informarli e formarli, impegnarli e spronarli e pretendeva, soprattutto da quelli con la mente più aperta, maggiore slancio e più
intensa applicazione, perché un po’ di fredda, acritica, erudizione, tante volte, non può neppure dirsi faccia male a chi è
impegnato nello studio.
Anche i soveritani, tra cui tanti erano i parenti e gli amici,
stimavano lui, ma, evidentemente, la stima non gliela dimostravano a sufficienza. Non c’era cattiveria, non c’erano riserve mentali, nell’atteggiamento strano (o presunto tale) che la
gente del luogo – o, almeno, buona parte di essa – assumeva,
forse involontariamente, nei confronti suoi, ma il “fenomeno”, a tratti, lo mortificava, se proprio non lo offendeva e lo
uccideva dentro. Ed era, allora, fenomeno che si sostanziava
di quegli stessi malintesi, di quelle stesse incomprensioni, di
quelle repulsioni che avevano, alcuni anni prima, minato l’umano sentire di Cesare Pavese.
Tra Proto e il suo paese (all’interno del quale – secondo
l’intellettuale dal confessato carattere difficile, se non ombroso – c’erano anche, con l’epico ciarlone, le “maschere”, gli
“angeli blasfemi”, gli intriganti ed i “futili mestatori d’ingordigia”) non sempre correva buon sangue.
123
Era in atto, insomma, una specie di rapporto di odio-amore tra il pensatore ed il suo ambiente, che, se non turbava per
nulla la moltitudine dei compaesani, guazzante per improbabile costituzione nell’apatia e nel pressappochismo, scavava
un abisso profondo nel suo animo di poeta, decisamente
orientato a fare dei suoi versi, uno strumento di riscatto per la
sua terra “martirizzata e mercanteggiata, oltre che dai capitolini anche da molti dei suoi figli”.
Ciò che tanto gli provocava dolore è rilevabile, per esempio, in “Jestìgne puterùse”:
Tr’amici ne parràmu e nne ridìmu /
ma sutta sutta, vòrramu scannàti. /
Si ne trovamu ‘nseme discurrìmu /
ma de cangiùrri simu ‘nghijllicàti. /
Jestìgne puterùse ne mandàmu, /
cundùte ccu ‘na gutta de valènu, /
russizze cancarène purveriàmu /
‘ncristàndu le satàte de lu trenu. /146
Proto non ammette che possa esserci chi si intrometta negli
affari altrui o che lanci velenose insinuazioni in danno degli altri. È il tema delle tre quartine di “Stasèra de brullùni”147:
Cumpàrma suspisàmu li sgrugnùni /
e ‘nduciscìmu ‘n’anima zirrùsa, /
se move ‘nna spasèra de sbrullùni, /
circandu d’accitàre la ‘ntinnùsa. /
Ppe dd’essere cristiani spaturnàti, /
orfani de ‘na stessa mammarella, /
potèrramu dormire abbrancicàti, /
146 Ecco la parafrasi orientativa in lingua, datane dallo stesso Autore. “Tra
amici ci scambiamo qualche parola ed un pallido sorriso, ma, sotto sotto, meriteremmo di essere scannati, perché, nonostante i goffi camuffamenti cui ricorriamo, il nostro modo di agire è infinito e strisciante. Quando ci troviamo in compagnia, discorriamo, ma la nostra vera indole è quella di barattare la coscienza propria ed altrui. In caso di accesi litigi, ci rivolgiamo alle poderose imprecazioni condite con una goccia di veleno e scagliamo delle sanguinarie maledizioni con un ritmo ossessivo e cadenzato simile al saltellante sferraglio del treno sulle rotaie…”.
147 Parata di sbruffoni.
124
senza lu spinnu de ‘na cuvertèlla, /
Ma… l’anima se ‘mprasca dde limàrra, /
de zanchi e de pisciazza fetarùla. /
Se ‘ncapunìsce ccumu ‘na ciotàrra,/
‘ngrugnàndu ‘na timpèsta squetarùla. /148
Tra l’altro, Proto detesta, odia la “gramalerìa”149
‘Nu trivulu strucìna lla criànza /
e ll’altri si nde fanu meraviglia. /
‘A cancarena de la malignanza /
‘ntippa llu vuccularu d’a bottiglia! /150
Un dramma autentico, quello del rapporto non sempre lineare, tra un poeta ed il suo paese, già conosciuto da Leònida
Répaci, (che tanto amava Soveria, ove gli sarà consegnato il 1°
Cariglio d’oro 1984), in relazione alla sua Palmi, “rupestre tedoforo del messaggio letterario bruzio nell’Italia e nel mondo”, cui Proto aveva dedicato i suoi Tormenti bruzi, la già richiamata silloge di sonetti “dotti” in lingua.
Quanto all’impegno politico del letterato soveritano, c’è
in primo luogo da contenere l’assunto di Natale Colafati che,
nell’Introduzione di “Mamma Adelina”, ha sottolineato il va148 Ancora la parafrasi orientativa dell’Autore. “Non appena cerchiamo di
incoraggiare le persone taciturne e mitighiamo le asprezze di un carattere suscettibile, avanza lentamente una barriera di cadenzati sbruffoni, i quali cercano di intralciare il nostro lavoro di resurrezione e di zittire le corde della nostra
anima perché è conveniente per loro che i derelitti annaspino nell’ignoranza,
nel malcostume e nella sofferenza. Essendo dei cristiani raminghi e senza padre, accomunati da un bizzarro destino ed orfani della stessa genitrice, potremmo dormire strettamente abbracciati, senza l’istintivo bisogno di una coperta, che possa, riscaldarci. La nostra anima, però, si imbratta di sudiciume,
di fango e di urina fetida. Si intestardisce come una zoticona e suscita una tempestosa reazione di inquietudine e d’odio”.
149 La semplicioneria maligna.
150 Parafrasi in lingua dello stesso Autore: “Un assillante e spinoso problema costringe, spesso, le persone ad essere sbrigative ed a mettere da parte la
buona creanza e le maniere protocollari, con grande sorpresa di alcuni perversi conformisti, i quali, invece di porgere una mano, gongolano di gioia e si meravigliano delle disgrazie altrui. Al di là di ogni ridicola montatura eufemistica,
la verità consiste nel fatto che la cancrena della malignità ingombra l’orifizio
della bottiglia, che contiene il tesoro della bontà”.
125
lore sociale della poesia del Proto “che non è sociologo e, tanto meno, politico, ma è e vuole essere poeta”.
Raffaelino Proto, invece, a parere di chi scrive, era un politico nell’animo, democratico e progressista convinto, ma, ad ogni
modo, un libertario anarchicheggiante, il cui credo repubblicano, costruito sulla base del pensiero o del messaggio di Mazzini
e Garibaldi, ma anche di Solone e di Francesco d’Assisi, non gli
impediva di prendere le distanze dalla maggioranza governativa, quando il suo partito dell’Edera, nell’ambito del quale, in alcune fasi della sua milizia ufficiale, aveva assunto anche delle
importanti cariche interne, si accontentava di rinunziare alla
propria matrice ed alla propria identità per non dispiacere agli
alleati maneggioni e mestatori. E questo non è certo non fare
politica, anzi… Biasimare il tipo inquinante dell’andazzo politico, semmai, è collocarsi ad un livello che gli consente di rinfacciare – come dice ancora il Gambino – “alla classe politica, l’offesa di una Calabria innocente sulla quale si accanisce la babele
delle promesse mai mantenute”.
Calabria mia, velata di mestizia, / anche se la politica ti offende, /
l’inclita profusione di giustizia /
tempera l’ostracismo e non s’arrende. /
Sull’innocenza della tua persona /
guerreggiano babeliche promesse. /
I fiordalisi della tua corona / diventano sataniche scommesse. /
Ma… dispiegando l’ùbere talento, /
che palpita nell’Estro di San Luca151 /
interpreti lo scempio del sacrario /
e con lacrimazioni di tormento, /
schiudi, nell’abituro del granduca, /
l’intima verità dello scenario. /
E, del resto, se dovessimo acriticamente condividere il rispettabile convincimento di un Proto apolitico, come faremmo a far sparire, o a liquidare in tutta fretta, i “Ludi circensi
del politicante” che occupano tutta la seconda parte della sua
preziosa, succulenta, silloge “Sicille”?
151 Il riferimento è a Corrado Alvaro.
126
E se questo è il Proto importante e colto, il Proto combattivo e contestatore, il Proto che guarda con compunta diffidenza alle vicende politiche paesane, c’è anche l’altro Proto,
quello che cura con rispetto ed amore la civiltà nella quale è
nato e si è formato.
Per acclararlo basta percorrere, a ritroso, l’opera – almeno
quella edita (tutta per i tipi della Rubbettino), che consta di
quattro volumetti , veri scrigni di saggezza e di lirica.
Il suo punto di approdo è la raccolta di dittèri locali “Saggezza popolare calabrese”.
Proto paremiologo…152 E perché no? Dinanzi alle domande
su “a che serve” ed “a chi può interessare” una raccolta di proverbi e di “modi di dire”, d’una zona ben limitata (per giunta)
l’apposizione di paremiologo potrebbe risuonare come restrittiva, se non del tutto punitiva, dell’attività pubblicistica e letteraria di Raffaelino Proto che, invece, ha saputo imprimere, anche in quest’ultimo lavoro, quel tocco personale, rigoroso e
classico che ne fanno un’opera interessante, da studiare.
Ché, se non bastasse, già di per sé, il lungo, certosino lavoro di ricerca da lui svolto, casa per casa, per sentire, fin nei remoti casolari rimasti abitabili nei recessi collinari pre-silani e
della conca del Reventino, i vegliardi, e soprattutto quelli dal
vernacolo non contaminato, sarebbe sufficiente la versione in
perfetto italiano che egli ha dato di ciascun proverbio e di tutti i “modi di dire” raccolti ed annotati. O, ancora, varrebbe la
pena di ricordarlo, appunto, come “interprete e chiosatore,
che qui – scrive Sharo Gambino – emerge nella sua statura di
uomo di cultura quale lo avevano rivelato le sillogi poetiche
ricordate, ed in particolare Tormenti bruzi, ricca di pensiero
filosofico, religioso e politico”.
Né mancano, in calce a qualcuno dei proverbi esaminati,
le testimonianze circa l’origine di “sentenze” così diffuse e ricorrenti nel linguaggio di ogni giorno tra la nostra gente (penso, per esempio, a Tuttu ‘u mundu è frìttule)153.
152 Colui il quale ricerca, studia ed annota i proverbi locali.
153 Ecco quanto vi annota, in calce, lo stesso Proto: “Stasera, tutto il mondo
è cotenne di maiale, cioè, siccome me ne sto rimpinzando io a crepapelle, suppongo che anche gli altri facciano come me” ed aggiunge: “La frase, secondo la
127
Del resto, già in una bella pagina di “Sicille”154, lo stesso
Proto aveva spiegato che “Il proverbio esprime, nella maniera più semplice ed immediata, l’essenza dell’anima di una comunità etnica, nelle sue varie sfaccettature, da quella sentimentale e nostalgica, a quella satirica, burlesca, sarcastica e
beffarda, malinconica e risentitiva” e che “l’aspetto interessante e singolare della questione è che, questa poetica saggia e
colorita, è stata ed è governata dagli strati più semplici, più
umili ma intraprendenti di un popolo, perché sono proprio
essi quelli che vivono con più genuina poesia ed aderenza alla
realtà. Le classi agiate e forse anche colte hanno anch’esse la
loro poetica che non è fresca come quella popolaresca, ma è
artificiosa e cerebrale…”155.
Torniamo, però, all’odio-amore che si cela dietro il rapporto difficile tra il poeta ed il suo paese ove la “aria salubre e
balsamica sta, però, divenendo irrespirabile e velenosa per i
malefici vapori esalati dall’ipocrisia e dall’adulazione che
compromettono lo spirito di solidarietà sociale”.
Paìse mio ‘ncurmatu de’ carigli, /
de tìcini, de chjiuppi e dde castagne, /
daveru ‘nu prisebbiu n’assumigli /
ammasunatu sutta ‘ste muntagne. /
La Mente de zu’ pàracu Vicienzu /
t’alluce de luntanu e tte cunzùla. /
St’ammasunàru… pecca dde discienzu /
e, ppe lla rusca, l’erva sicca ssula. /
Anima ‘ncurunata de sapìre, /
sìmmina ‘ngiru n’àcinu ‘e speranza… /
testimonianza orale di alcuni soveritani, quali Achille Marasco, Antonio Sirianni
e Francesco Bonacci (‘e Spuntùne), sarebbe stata pronunziata enfaticamente, ed
in un momento di particolare soddisfazione fisica e di frenesia bacchica, da Giacomo Pascuzzi (mastru Jàpicu), il quale, abbondantemente sazio di cotenne (frìttule) in cottura nella sua dimora, avrebbe manifestato dal balcone il suo stato di
grazia con le parole divenute, poi, proverbiali e codificate per stigmatizzare l’egoismo di chi, vivendo nell’opulenza, gode satanicamente nel vedere gli altri battersi nelle ristrettezze e nelle vicissitudini e quella sua finta partecipazione di solidarietà è soltanto una riprova di uno stato d’animo malvagio e perverso”.
154 Scintille.
155 R. Proto, “Il proverbio”, in “Sicille”, Rubbettino 1982.
128
Ràpere l’uocchi a cchine vo dormire, /
ca ccà… se scafunìja… ppe lla panza!156
E devono, necessariamente, esserci, tra i Suveritani, quelli
da tenere al largo perché presuntuosi, arroganti ed avvezzi al
clientelismo, se Proto deve cantare
Suveritàni mie, spìerti e vurpìgni, /
ch’a llu dinàru simu ‘ncarpinàti, /
ne rucciuliàmu sempre ccu prestìgni /
e d’affriggienze simu ‘ncarcarati. /
Scordàmune taluorni e ddispiacìri, /
sgrusciamu cuverchielli e ppisciaturi. /
Sta vita nostra è fatta de suspìri, /
de vèrvari, ‘ncriscienza e dde languri. /157
Gli basta, ad ogni modo, sentire “in lontananza la melodia
alpestre di alcuni strinàri158 e l’anima palpita di gioia, ma anche di malinconica dolcezza”. È quasi la riappacificazione
con se stesso, con i suoi compaesani, cui vuole bene, pur non
sentendosi ripagato con la stessa moneta.
Passa lla strina… passa nna canzuna /
e ll’anima se sente scarcagnàre. /
Passa llu suonu… passa e te ‘ncuruna… /
passa llu tiempu e… làssalu passare…
‘A strina è cumu l’acqua de Gargiglia, /
156 Paese mio, ricolmo di carigli / di àceri, di pioppi e di castagni / davvero
ad un Presepe rassomigli / appollaiato sotto questi monti. / La mente del Sacerdote Vincenzo (ndr. Sirianni) / t’illumina di lontano e ti consola: / questo
dormitorio ha le convulsioni/ e per l’odio l’erba ingiallisce da sola. / Anima sublimata dal sapere, / semina in giro un poco di speranza… / Riapri gli occhi a
chi vuol dormire, / ché qua ci si affanna solo per la pancia. /
157 Soveritani miei, bravi e furbastri / che al denaro siamo assai legati /
noi temporeggiamo sempre con pretesti / pur essendo di affanni arcicarichi. / Dimentichiamo problemi e dispiaceri, / rumoreggiamo con coperchi
e stoviglie. / La nostra vita è fatta di sospiri, / di tormenti, pigrizia e di lamenti. /
158 I cantanti della Strenna benaugurante natalizia.
129
‘nzertàta ccu ll’addùru de le rose. /
È chijacarùla cumu ‘na visciglia /
e spacchjusella cumu le frambòse. /
Se spàmpula llu sùonu ‘ntra lu scuru… /
Se perde… suspirandu… ppe lla via. /
Arrìcchjiu a ssa canzuna e lla nzapùru /
cumu ‘na cofanella de gulìa. /159
Raffaele Proto diventa insuperabile, poi, quando celebra il
suo “mito del sangue”: Mamma Adelina (che è anche il titolo
della raccolta di poesie dell’esordio)… i figli Adele, Ubaldo… l’amata consorte Anna Marasco (“ccu vèrvari ‘ncrostati
de speranza, ssa vita nostra ‘nzeme è nna rumànza”)160.
Alla genitrice si dice “legato da un affetto senza aggettivi,
oltre che da un sodalizio caratterialmente elettivo”, ma è il di
lei amore per i nipotini, i suoi figli cioè, che lo incanta, lo rasserena, lo realizza.
‘Mbèrbera nna siràta fridda e scura /
ccu scotulàte ‘e nive e ppurverìnu.
Tacchijiu a mme ‘ntanare ‘ntra ‘ste mura… /
ppe mme ‘nciurràre… n’àcinu de vinu.
M’assiettu ‘nter ‘u fuocu e me quadìju, /
mentre i tizzùni vanu ‘mbèrvarandu.
Me friju due patate, me ricriju / e lle cuscùglie vaju reminàndu. /
A nn’àngulu, seduta a ’na seggiùlla, /
cc’è mamma mia chi’nghjima nu sinàle. /
Adele va ‘ngiràndu ccu nna culla /
e… ssente lla rumanza de Jugàle.
Nanna e nnepùte jocanu a ‘nnu cantu… /
Se scòrdanu d’u mundu… Cchi allegria!
159 Passa la Strenna… passa una canzone / e l’anima si sente stravolgere /
passa il suono… passa e t’arricchisce / passa il tempo e… lascialo passare. / La
strenna è come l’acqua di Gargiglia / raggiunta dal profumo delle rose / è feritrice come un buon virgulto / e dissetante come dei lamponi. / Si disperde il
dolce suono nel buio… / Si perde… sospirando… per le vie, / ascolto la canzone e la assaporo / come un cofanetto di leccornie. /
160 Con gli affanni rivestiti di speranza / ‘sta vita nostra insieme è una fiaba.
130
‘A nive ne cumbòglia ccu nnu mantu… /
Mamma Adelina ‘ncigna… “Vita mia…
Dorme..! Ca vene mmo lu zampugnaru /
e ‘nghjièrmita nna ricca ninna-nanna… /
Tu duormi… Nanna dice llu Rusàru… /
‘U principe te raga ‘nna succànna…” /161
I figlioli, ancora in tenera età, sono sempre presenti nel
suo cuore e moltissime volte nei suoi versi, a riprova che, veramente, “Sti papuzzàni su’ lla vita mia”. Li osserva e coglie
fin le minuzie dei loro impegni di gioco, semplici, spontanei,
innocenti e le traduce in Poesia.
Fazzu ‘na carizzèlla a mamma mia /
e scàrminu i capilli d’Ubarduzzu. /
Pracchjiune joca ccu ‘nnu sciallu ‘e zia /
e vva cilijàndu cumu n’aggellùzzu. /
‘Sti papuzzàni su’ la vita mia… /
M’abbrazzanu ccu core e nne ricrjàmu. /
Me dùnanu ‘nu pocu de chjiarìa, /
me stròppanu i mustazzi e nne prejiàmu… /
Adele, ammasunàta a ‘na rasìlla /
conza ‘na cammisella a Vvicenzinu… /162
Il poeta, compiaciuto, ammira la sua bambina che, secondo la lezione pratica della nonna, si cimenta nel tentativo di
161 Si accende una serata fredda e oscura / e fiocca la neve e polvere ghiacciata. / Corro a ripararmi in queste mura, / per tracannare un nappo di buon vino. /
Mi siedo accanto al fuoco e mi riscaldo, / mentre la legna brucia sempre più. /
Friggo delle patate, mi diverto / e i resti dei rametti vo accostando. / In un angolo,
seduta su una sediolina, / c’è mamma mia, che cuce un grembiule: / Adele va girando con una culla, / mentre ascolta la fiaba di Jugàle. / …Nonna e nipote giocano in un angolo / e dimenticano il mondo… Che allegria! / La neve ci ricopre con
un manto… / Mamm’Adelina comincia: Vita mia… / Dormi! Chè adesso vien lo
zampognaro/ e arrangia una ricca ninna-nanna… Tu dormi… Nonna recita il Rosario. / “Il Principe ti porta un bel gioiello!”.
162 Faccio una carezza a mamma mia / ed accarezzo i capelli ad Ubalduccio. / Il volpone gioca con lo scialle della zia / e va cinguettando come un uccellino. / ‘Sti piccoletti sono la vita mia… / m’abbracciano con cuore; ci divertiamo: / mi danno tanto di lucidità / mi strapazzano i baffi e ne ridiamo… /
Adele, appollaiata all’angolino, / aggiusta la camicia a Vincenzino (ndr. il bambolotto).
131
fare la sarta per rattoppare la camicia del suo bambolotto cui ha
subito imposto il nome al maschile dell’amica di famiglia che
glielo aveva regalato, Vincenzina Sirianni (moglie del maestro
elementare Michele Sirianni, ricordato oltre che per essere stato
un bravo professionista ed un buon sindaco della cittadina, anche per la sua abitudine di trascorrere gran parte del suo tempo
libero alla Turra, una bella località con tanto di casetta ben fatta,
circondata da gigantesce pigne ad… ombrello convesso, e madre di Raffaelino Sirianni, anch’egli stimato maestro elementare
ed attento, “scomodo”, amministratore comunale).
Anche la consorte diventa motivo poetico quando, sottolineato trattarsi di “una donna paziente e silenziosa che sopporta le mie impennate caratteriali”, la sorprende a muoversi
in casa per le consuete faccende domestiche ma anche a dar
prova della sua connaturata tendenza al giusto risparmio e,
ancora di più, al suo accontentarsi di poco.
Cumpagna mia, garbùsa e ‘ngalapàta /
tu sì ddavèru l’Angilu d’a casa:
a ‘nna rasìlla ‘e fuocu ammasunàta, /
pari ‘nzippiàta cumu na ceràsa. /
Arripìezzi quazietti e mmaccaturi, /
‘nghjimi ‘na mappinella e nnu stiavùccu.
Divàchi ‘u suzzu dintra i salatùri, /
mentr’allu fuocu ‘mbèrvara llu zuccu.
Prepari ’u sucu, spandi ‘na tuvàglia, /
remìni i vermicielli e lli strangùgli:
Canti de gioia, ‘nghjièrmiti ‘na maglia, /
curchi ssi quatrarìelli pugli pugli.163
Il Proto vernacolare più maturo, veramente completo, e
che si preoccupa, piuttosto opportunamente – attraverso le
163 Compagna mia, garbata e molto attenta, / sei veramente l’angelo della
casa. / All’angolo del focolare, adagiata / sembri vogliosa come una ciliegia: /
Rattoppi calzini e fazzoletti, / cuci uno strofinaccio e un tovagliolo, / svuoti
delle provviste i recipienti / mentre sul fuoco s’infiamma pur il ceppo. / Appronti il ragù, apparecchi la tavola, / rigiri gli spaghetti o pasta di casa: / canti
di gioia, t’arranci a far maglia, / e corichi i bambini, soffici, soffici.
132
annotazioni e le parafrasi orientative in lingua dei vari componimenti poetici – di far giungere al lettore, chiaro, puntuale,
integro, il suo messaggio, si trova, però, in “Sicìlle”, prefato
dal compianto scrittore e saggista Domenico Teti, che tanto
amava Soveria Mannelli e che, perciò stesso, era tra quelli che
poteva e sapeva leggere meglio nel mondo misterioso del Proto, anche sacerdote dell’antico culto della bellezza femminile.
Prendiamo il sonetto che dà il titolo alla silloge.
Quando te vijiu, l’anima se zulle, /
quando te parru, l’anima se danna!
Ppe le sicìlle mie sì ‘nna cundanna /
e ‘ntra lu sangu, ‘n’ èmparu me vulle! /
‘Mpicciùsu mi se ’mbèrvara llu fele /
mu ‘nzìrricu la prescia de lu scuru. /
Si ti ‘nde parti, làssame… n’addùru /
de ‘ste labbrùzze càrriche de mele. /164
E, ancora, quanto “desiderio di vivere, di soffrire, di amare” in “Jurìlli de ceràsu”!165.
Spandùtu ’ntra ‘na scola de laprìste, /
s’annàca, sprecuratu, ‘nu gornàru. /
‘Na furmichella ‘ncrocca lle pruvìste, /
nguàcciu le corchjie de ‘nu sarcinàru. /
I vèrvari de’n’ànima ‘ndurcàta /
‘nzèrtanu ‘na sciartèra d’allumanza. /
‘U chjiantu de ‘na fimmina scirchjiata /
scuse ‘nna vertulèra d’affrittànza. /
S’arrùgnanu le zite purmentìe /
e ‘ntròppanu lu spacchjiu de’nu vasu. /
‘N’aria, ‘nciuciunatìzza de gulìe, /
zìllica lli jurìlli d’u ceràsu. /166
164 Quando ti vedo, l’anima gongola, / quando ti parlo, l’anima si danna /
per le scintille mie, sei ‘na condanna / e nel mio sangue un calore divampa. /
Terribile si inalbera il mio fiele / ad innescar la fretta del buio. / Se ti allontani,
lasciami un… profumo / delle tue labbra cariche di miele. /
165 Fiorellini di ciliegio.
166 Ecco la parafrasi orientativa dell’Autore: “Tranquillamente e malinconicamente adagiato in una conca erbosa, un laghetto di acqua stagnante si
dondola spensierato. Una formichina aggancia qualche chicco di grano, di
133
Ma non ci si era dimenticati dei meravigliosi versi che danno corpo ad un breve ma molto efficace inno ai prototipi soveritani dello splendore mulìebre, incontrati in “Mamma
Adelina”?
Suveritàna bella e ssapurùsa, /
si’ cumu l’erva frisca quando è ttisa! /
Si’ rrussulìlla, tennara e ggarbùsa /
ccu ll’uocchji nìuri e ‘nna vuccuzza ‘e rosa. /
‘A vuce tua è gguljùsa e’nzippatella, /
‘mparinàta ccu zzùccaru e ccannèlla. /
Ccu la zinnàta c’è… ‘na fossarella… /
suveritana mia spizzjusa e bbella!167
Ma riemerge anche il Proto politico, repubblicano fin nei
più profondi recessi del suo sangue, quando si rivolge a Garibaldi se c’è da trovare, finalmente, chi sappia guarire i mali
della nostra Italia.
Caru Peppinu, si risuscitèrre / e ‘nciprèrre ‘st’Italia rascuniàta, /
li cìfari de razza grullulèrre / e spampulèrre l’ùrtima gridata. /
Te si’ smenzàtu ppe nne liberare, /
ma ‘mpròspera llu vizzu d’a surdìa. /
Mentre circàmu de te ferzariàre, /
ne ‘mpraciscìmu ‘ntra la zampunìa. /168
fronte a un mucchio di cortecce scuoiate da un tronco di castagno, il quale
verrà utilizzato, come trave maestra, per sorreggere il tetto di una casa in costruzione. Mentre le fervide preoccupazioni e le apprensioni di un’anima innamorata dipanano una lunga fune di attese e di luminosa ansietà, in una stanza
gelida e solitaria il pianto accorato di una donna, sfigurata dalle sofferenze,
disserta una bisaccia stipata di afflizioni e di maltrattamenti. Alcune sposine,
precoci e deliziose, si stringono ai loro mariti ed aspettano il ristoro di un bacio. Un venticello, ebbro di vogliose sensazioni, sollecita i fiorellini di ciliegio”.
167 Soveritana, bella e saporosa / sei come l’erba fresca quando è viva! / Sei
molto rosea, tenera, garbata / con gli occhi neri e una bocca rosa! / La voce tua
appetibile e vogliosa, / irrorata di zucchero e cannella. / Con l’occhiolino alimenti una fossella… / Soveritana mia, furbetta e bella.
168 Questa la parafrasi orientativa dell’Autore: “Caro Giuseppe Garibaldi,
se tu potessi resuscitare e ti preoccupassi di spargere un sottile strato di benefica polvere sulle graffiature che tormentano quest’Italia ricca di tradizioni artistiche e letterarie, ma disorientata dalle contorsioni partitiche, non faresti altro
che redarguire energicamente gli imbonitori di razza e getteresti l’ultimo grido
134
O quando esorta alla concordia per risolvere i gravi problemi, quella stessa che, di solito, si riesce a trovare dinanzi ad
una semplice partita di calcio.
‘U zumpu de ‘na palla corchjiarùla /
sìmmina ‘ nnu vurbìnu de cuncòrdia. /
‘A vrama de’na torta ‘ndurcarùla /
scasa llu mazzacàne d’a discordia. /169
Altro eloquente sonetto è ‘U votu170, del quale a lui non
piace il modo come, ai giorni nostri, viene preparato e usato
dai soliti furbastri a fini propri, e dai grulli che ne ricavano
ben poco.
‘U votu è ‘nnu ciarrùne de carnàzzu / duve li gurdi càrmanu la site. /
Dopo ‘n’ abburdacàta de vinàzzu, / se ‘mpòca lla vrascèra de la lite. /
‘U spertu si ’nde ‘ncùrma llu granàru /
‘U ‘ngromu si ’nde serve dde carriòla. /
Mentre lu primu ‘ncucchia llu dinàru, /
l’atru se coce ‘ntra ‘na cassarola. /171
di allarme e di sdegno. / Ti sei strenuamente sacrificato per contribuire, in maniera determinante, alla nostra indipendenza ed alla nostra redenzione ma, tra
di noi, si diffonde il vizio dispettoso di essere sordi ai tuoi appelli di solidarietà
nazionale. Mentre da un lato cerchiamo di blandirti con infiorate manifestazioni celebrative fingiamo di essere uniti, dall’altro, perseveriamo nella nostra
burbanza individualistica e viviamo in un clima di tracotante consumismo, di
ansimante credibilità gestionale e di esose impostazioni fiscali, che gravano solo sulle classi meno abbienti e strappano dei beffardi sorrisi agli speculatori mimetizzati in mille modi e non ancora spremuti a dovere”.
169 Ecco la parafrasi orientativa dell’Autore: “Il salto di un pallone coriaceo sparge il seme della concordia; il desiderio di una torta appetitosa ed allettante genera un vespaio e smuove la pietra della discordia”.
170 Il voto.
171 Cediamo, ancora una volta, la parola all’Autore: “Il voto può essere paragonato ad una capiente giara dove gli ingordi ed i profittatori possono attingere a piacimento e saziare i loro robusti appetiti. Dopo una solenne e copiosa
libagione, turbata da una irriguardosa distribuzione del bottino, i laboriosi accordi di vertice si tramutano in aperto litigio. / Il furbacchione se ne serve per
convogliare acqua al proprio mulino. Il grullo, sprovveduto e fiducioso, si
preoccupa di arraffare consensi, a beneficio di maliziosi pontefici. Mentre il
primo impinguisce le proprie sostanze, l’altro, amareggiato e perplesso, sconta
la sua zelante dabbenaggine, lessandosi completamente in una casseruola e ripromettendosi di essere più accorto. /
135
Ma come “saltare”, in conclusione, Quatràri gurramàti172
in cui si condannano quanti, con estrema leggerezza, addirittura per accendere il fuoco, bruciano i libri, che sono veicoli
di libertà e di cultura?
Quantu dispèru ppe lla gente nostra /
cùndere li trusciùni sballottati!
Càdenu, cumu jùri de jinostra /
l’arzìlli d’i quatràri gurramati… /
D’i libri, ‘nzarzagnàti de sudùre, /
‘nd’attìzzanu la vampa, la matina. /
Senza la prica de ‘nu bonsegnùre, /
ne scùrmanu lu saccu d’a farina. /173
O, da ultimo, Minestre scunditizze174, in cui biasima il vizio
di deridere e scorticare i poveri.
Ccu ‘nna barrètta storta de pittùri, /
ppe nn’ura, pripendìmu ‘na misàta. /
Ni ‘nde futtìmu de li prufessuri, /
chi spìnnanu curìni de’ ‘nsalàta! /
Liccàndu li pedùzzi d’i gramàli, /
tenimu sempre curma la vrodèra. /
Basta ‘nna ciampatìna de stivàli /
ppe sumbarcàre chine se dispera. /
Cumpàrma ne sentimu forzicùti, /
172 Ragazzi balordi.
173 Ecco la parafrasi orientativa dell’Autore: “Per la nostra gente umile, sem-
plice e patriarcale è veramente un atto di prostrante disperazione il dover offrire i
propri servigi a dei pelandroni untuosi e stracotti di balordaggine, come i fagioli
freschi conditi in una terrina. Poiché le migliori offerte occupazionali vengono
assicurate a quei galoppini, i quali non hanno mai affrontato una prova di concorso, ne consegue che le fanciullesche e saltellanti speranze di molti giovani cadono
come fiori di ginestra, mentre cresce a dismisura la beffarda ringhiosità di un’interminabile e disordinata ciurma, sistemata indiscriminatamente con leggine di
comodo, che mortificano la professionalità ed appiattiscono l’intelligenza./ Coloro che apprezzano solo la volgarità della materia si affrettano a strappare i libri incartapecoriti dal sudore e ne utilizzano le pagine per alimentare il fuoco, la mattina. Tra i vari mali che affliggono l’umanità, esiste anche quello di ottenere poco o
niente, senza il premuroso interessamento di qualche monsignore e non è raro assistere allo svuotamento graduale del proprio sacco quasi colmo di farina”.
174 Minestre piuttosto scondite.
136
ppe lle ‘mbolicatìne de ‘na cerza, /
scurciàmu la pellìcchjia de li ‘mbuti /
e nne facìmu jùngere la sberza. /175
Altro che poeta e non politico! Del resto, le due cose non
necessariamente devono essere intese o viste come incompatibili. Gli esempi di quanti hanno saputo coniugare Sermòne
e Poesia non mancano. Ci sarebbe, semmai, il doveroso bisogno di andare a scavare vieppiù nella produzione letteraria di
Raffaelino Proto, non sia per altro che per sottolineare quanto nel torto siano stati, oltre alla critica ufficiale che si vuole
conti per davvero, anche quanti, a livello locale, lo abbiano in
fretta, sbrigativamente, dimenticato. Egli costituisce una parentesi che non può essere, nel modo più assoluto, considerata chiusa.
Era proprio questa la conclusione cui erano pervenute Poesia e Pitra, a lettura ultimata di tutti i quattro volumetti del poeta, suicida a quarantasei anni, quando proprio niente lasciava
presagire uno sbocco così tragico, non condiviso in assoluto
dalle due romantiche adolescenti. Secondo loro, scelte come
queste non trovano mai la soluzione ad alcun problema.
Era evidente, in loro, la formazione cristiana che vieta a
chiunque di autoprivarsi del dono della vita. Per le stesse,
però, non era solo una questione di fede e, ben sapendo che
175 Ancora la parafrasi dell’Autore: “Calcandoci in testa un variopinto ber-
retto, ci qualifichiamo come pittori e, per un’ora di lavoro, pretendiamo il corrispettivo di un mese di stipendio. Ce ne freghiamo di tanti professori, i quali,
dopo aver conseguito un robusto titolo di studio, o sono a spasso o insegnano
tra mille mortificazioni retributive e professionali e si vedono costretti a defogliare grumoli d’insalata, mentre bastano un aulico attestato di licenza media
ed un concorsino asfissiante per elargire delle sistemazioni redditizie. / Poiché
lecchiamo i “profumati” piedini di alcuni bisunti mestatori, non ci manca
niente e la nostra zuppiera è sempre ricolma. Se vogliamo prevaricare coloro
che si disperano, ci è sufficiente sferrare un colpo rabbioso di stivale e calpestare, con il tacito consenso di invisibili protettori i principi più elementari di
pietà. / Non appena ci sentiamo forti e ben piazzati, grazie alle furbesche magagne di qualche statuario gerarca, scuoiamo la pelle di alcuni poveri guitti costringendoli a far combaciare i risvolti delle nostre coperte e ad espletare i lavori più umilianti”.
137
per gli stoici era doveroso darsi la morte se non si fosse riusciti a tenere a bada le “passioni” umane, non rinunziavano a
trovare giusto che, in qualsiasi circostanza e di fronte ad ostacoli di qualsiasi tipo, fosse la ragione ad intervenire, dall’alto
della sua autorevolezza.
D’altra parte, anche quando elimini la tua esistenza, il problema o l’affanno che ti ha portato all’esasperazione, continua a sussistere e ad resistere. In pregiudizio degli altri, quanto meno. Ed, allora, che risolvi?
Del problema della morte volontaria, come scelta estrema
dell’uomo incapace di affrontare e dipanare tante avversità
che investono anche la collettività, oltre che il singolo, si discute, anche a livello filosofico, da secoli, ma, alla fine, si è
sempre pervenuti alla conclusione che la vita conserva senza
soluzione di continuità, i requisiti e gli spazi, gli appigli ed i
motivi, per essere vissuta. In fondo, a qualsiasi situazione, anche ingarbugliata e senza apparenti vie d’uscita, si può sempre razionalmente far fronte.
«Appunto, – concludeva Pitra – dallo “stagno” in cui siamo venute a trovarci entrambe, come possiamo uscire? Come
fare? Che cosa fare?».
L’allusione delle due amiche del cuore all’impossibilità di
un approccio concreto, normale, con gli oggetti dei rispettivi
desideri, era fin troppo evidente, ed anzi era, essa stessa, la
prova provata che il problema del consolidamento di un rapporto sentimentale, così indefinito, aleatorio, ideale, non se lo
poneva soltanto Sermòne.
E Pitra, imperterrita, continuava a parlare dei suoi sogni
veri, autentici, che “agitavano” o allietavano le sue notti insonni da… single (almeno fino a quando lo era stata!) e che
moltiplicavano la tensione dei suoi giorni, del tutto tristi,
quando non riusciva neppure ad incontrare la prediletta Poesia, piantonata dalle solite congiunte acide e persino perfide.
Era una sorta di ossessione: ho sognato questo… ho sognato quello… può significare questo… può significare quest’altro… A livello di paranoia!
Sprecava il suo tempo, Poesia, a circoscrivere e ridimensionare le interpretazioni, anche ardite e nefaste, che Pitra da-
138
va della sua ossessiva attività onirica, un po’ elevata al rango
di… prefica, preposta a lamentare l’impossibilità, il miraggio
di un amore. Non che, a quell’età, sognare fosse proibito, a
patto però che ciò si facesse ad occhi aperti, in stato di coscienza, un po’ per scelta e, soprattutto, per valorizzare al
massimo e tenere sempre presente la persona del cuore.
Sì, per Poesia era bello scorazzare sulle ali della fantasia, con
i saltelli pindarici tra l’ieri, l’oggi e il domani, tra l’antico e l’attuale, tra il presente ed il futuro, in una saggia anticipazione dell’aristotelica unità di spazio, di tempo e di azione, ma non si trattava per nulla – come in Pitra – di interpretare i sogni fino a ricavarne tristi presagi, sì da costruire un futuro idealizzato al massimo e, quindi, da augurarsi, piuttosto che da scongiurare.
Se non si fanno a quell’età i progetti da… sogno, non c’è
pericolo che se ne possano fare in prosieguo, quando l’esistenza, con tutto il suo bagaglio di contrattempi e di amarezze, ti si para innanzi e si… diverte a struggerti. Di sogni, da ragazzi, se ne fanno forse più del giusto. Qualche volta si avverano, il più delle volte svaniscono nel niente, solo qualche volta sfociano in qualcosa che appaga, senza tuttavia corrispondere a quello originariamente congegnato. Di esempi, in relazione ai tre esiti possibili, se ne potrebbero formulare a… iosa. Quelli, però, che somigliano solo un po’ al sogno di partenza, sono i più plausibili. I più possibili, quindi…
Tra i precedenti più celebri, c’è, certamente, quello del filosofo Abelardo e della sua diletta, adorabile discepola Eloisa; una “storia” che, nonostante alcune fasi non belle, addirittura drammatiche, del loro meraviglioso rapporto, aveva, poi,
raggiunto un approdo consolatorio di tutto rispetto.
Pietro Abelardo, che si era particolarmente distinto (fino
ad essere di gran lunga superiore ai suoi maestri Roscellino,
prima, e Guglielmo di Champeux, poi) nella lunga, appassionata, disputa sui rapporti tra la Fede e la Ragione, era pervenuto alla conclusione che una fede non intesa razionalmente
non ha motivo di esistere, perché non ha significato, in quanto non diversa dalla condizione di chi dà per scontato il senso
di un grande assembramento di termini e di parole, di cui non
si conosce a perfezione il significato.
139
Ergo… la ragione, nell’ambito della vita intellettuale è, in
assoluto, preminente sulla fede che, solo attraverso la prima,
può essere resa comprensibile ed accettabile. Era, in pratica, il
discorso che avevano finito di fare, poco prima, Poesia e Pitra.
Abelardo, però, aveva consegnato alla storia, oltre che il suo
grande ruolo assunto nella lunga polemica sulla questione degli
“universali”, anche una sorta di segno del Destino, che aveva
sconvolto la sua esistenza, che ne aveva fortemente segnato la
vita ma che, tuttavia, non era riuscito a separare la sua mente dal
suo cuore, il Sermòne dalla Poesia, che possono, comunque vadano le cose, coesistere nel nome di una forza superiore che, come tale, porta sempre via il particolare, il contingente, il finito.
Egli, ritenuto l’uomo più colto del tempo, era finito con l’insegnare Dialettica e Teologia, nella “scuola della Cattedrale” di
Parigi, ove aveva conosciuto una giovanetta di notevoli doti intellettuali e profondi sentimenti, Eloisa.
La colta giovane, affascinata dalla facondia del maestro, di
almeno quaranta anni più anziano di lei, ma anche dotato di
un carisma avvincente, seguendone le dotte prolusioni, se ne
era ardentemente innamorata, con una intensità di dedizione
e di sentimento che, presto, doveva portarli ad una relazione
duratura.
Per vincere i dinieghi e le ostilità dei familiari di lei – tra cui
l’austero, spietato canonico Fulberto – docente e discente,
quasi Sermòne e Poesia, congegnarono le loro nozze segrete,
dalle quali presto sarebbe nato Astrolabio. Sembrava chiuso il
discorso ed invece no. Lo zio prevosto si rifiutò di ingoiare
quell’amara pillola e, sentendosi personalmente ferito, ordinò
ai suoi sgherri di punire severamente il grande filosofo razionalista. E, durante un’incursione notturna, Abelardo fu evirato.
Solo quell’orrenda mutilazione determinò, nel sostenitore
del “sermo” come “fatto logico” nel quadro di una visione generale che può dirsi concettualistica176, tanta umiliazione e tan176 La soluzione abelardiana può essere detta concettualistica in quanto assegna una importanza notevole al processo logico nel significare il reale ed, inoltre,
considera la logica come “Scientia sermocinalis”, anche se alcuni critici hanno
sottolineato lo stretto rapporto esistente tra “sermo” e “status”, nel senso della
priorità del secondo per arrivare al primo.
140
to scoramento da fargli abbandonare Parigi per rinchiudersi
nell’Abbazia di San Dionigi ed abbracciare la vita monacale.
Eloisa ne imitò la scelta, forse anche sotto la spinta delle di lui
sollecitazioni.
Il rapporto tra i due, però, non subì alcuna interruzione,
anzi… propiziò uno scambio costante di lettere dall’elevato
spessore culturale, tra le quali anche quelle d’amore, struggenti e circostanziate, capaci di dare corpo ad un Epistolario
che, di là della valenza dottrinaria, testimonia ancora dell’esistenza di sentimenti profondi e puri, terribilmente umani, eppure trasumanati.
Gli inni all’amore, elevati quando non c’è più alcuna possibilità di lasciare posto alle brame della carne ed alle effusioni passionali, sono per davvero l’appiglio probante di un
amore vero, disinteressato, incondizionato che, appunto, sublima l’essere umano e lo colloca molto lontano dalla voglia
di cercare la morte.
La soluzione, alla fine, trovata da Abelardo ed Eloisa – sotto la spinta di una cattiveria subita, e non voluta – era senza
dubbio razionale, apprezzabile, bella, fors’anche esemplare.
Ma, il pretenderla dagli adolescenti, senza se e senza ma, deve
essere un pochino troppo. Un assurdo, anzi. Quando i bollori
fervidi – che la Natura coltiva ed alimenta nei vasi sanguigni
degli adolescenti avviati a divenire adulti – aumentano la loro
gradazione, fino al massimo magari, l’appello alla ragione lascia il tempo che trova, in quanto è solo il cuore a rivendicare
il riconoscimento dei suoi diritti.
Già… perché neppure Eloisa, forse, se prima non avesse
appagato le sollecitazioni degli istinti fino a procreare un figlio,
avrebbe accettato questo amore puro e disinteressato di cui,
tanto spesso, si va cianciando nel nome di una teoria, destinata
a restare sempre tale, forse per sempre. Bah… Che dire?
È certo che, almeno con riferimento ai tempi della sua pubertà, questi problemi non se li poneva proprio. Come tutte
le ragazze della sua età, e come, peraltro, Sermòne ed i suoi
coetanei. Il bisogno della presenza fisica del prescelto, o della
prescelta, si avverte sempre, imperioso e sconvolgente. Il sogno, troppo spesso, è identificato con la realtà e le visioni ete-
141
ree, evanescenti, si pretende siano materializzate, senza troppi fronzoli e senza distrazioni oniriche.
C’era, allora, da verificare fino a che punto è valido il convincimento che, quando la donna ne ha veramente voglia, sa di riuscire a superare qualsiasi ostacolo, ad ingannare perfino il più
attento e vigile angelo custode. E non si trattava affatto di un solo caso; perché se Poesia non riusciva a concretare la sua aspirazione, neppure Pitra aveva saputo fare di meglio. Così la filosofia spicciola dei ceti meno colti continuava ad essere, puntualmente, smentita dai fatti, dalle ansie quotidiane e dalle illusioni
e delusioni ricorrenti, che colpivano quei giovani innamorati.
Veramente difficile, se non del tutto impossibile, trovare
una via d’uscita. La Psicanalisi di Freud e di Jung avrebbe
consigliato il “transfert”, quella sorta di grosso trucco che
avrebbe fatto da sbocco accettabile ogni qualvolta c’era da
neutralizzare – spostando l’attenzione su di un’altra situazione – la bestialità degli istinti, la tendenza cieca a soddisfare i
bisogni della carne, la vocazione per tutto quello che il “senso
comune” addita come negativo, illecito, come il male addirittura. Ma chi, tra gli uomini, ha il metro vero, infallibile, per
computare la saggezza o la deriva mentale di un simile?
Poesia, come Pitra del resto – non meno di Sermòne, ovviamente – cominciava ad avvertire il tremore e le sollecitazioni dell’istinto a scoprire ed apprezzare il suo corpo, placando, fin dove possibile, il suo stesso desiderio di conoscere
le funzioni ed il ruolo delle sue diverse parti. Ed erano proprio queste esigenze naturali, per fortuna saltuarie, intermittenti e ad intensità variabile, che alimentavano certi sogni ad
occhi aperti che occultavano ogni difficoltà a generoso vantaggio di impossibili, o almeno difficili, esiti positivi, provvidi, consolatori.
Al postutto, in chi ama, non può non esserci il sogno di
stare, sempre e comunque – anche “due cuori e una capanna”
come, molto ingenuamente, si diceva e giurava una volta, ancora ai tempi di Sermòne e Poesia, nel pieno della loro adolescenza – con la persona amata. La “cosa”, però, non doveva
essere ben salda a livello di “senso comune”, attratto piuttosto dalla malinconica consuetudine anche di “contrattare” il
142
matrimonio, per mire economico-finanziarie, a scapito, in genere, delle esigenze dello spirito e del cuore.
Nella “lotta” tra tendenza illuministica e tendenza romantica,
la seconda, tutto sommato, non è mai riuscita ad avere il sopravvento o, almeno, una certa, ragionevole, prevalenza. Allora c’era
in gioco l’avvenire dei giovani – non per nulla matrimonio era sinonimo di “sistemazione” – e, quindi, nella “trattativa di nozze”
entravano pure… le case, i terreni, i titoli di studio, la dote… Figurarsi, perciò, se Poesia e Pitra potevano mai essere secondate
da acide congiunte ancora non accasate, nella loro voglia di incontrare, conoscere, vedere da vicino, i loro corteggiatori. Alle
“sentinelle”, di quella specie lì, non poteva, certo, venire in mente che anche quei giovani, fossero pure i più indigenti e spiantati,
ma anche con tutta una vita (da vivere) davanti, avrebbero potuto essere in grado di rendere felici e “sistemate” le loro parenti!
I tempi, però, erano quelli. Ed ogni epoca ha le sue… norme e le sue assurdità. E spazio per i giovani, ardenti d’amore,
ce n’era ben poco!
Certo, dinanzi ad una situazione difficile, la soluzione migliore restava, forse, quella di un ripiegamento sullo studio,
sulla cultura. Magra consolazione per i ragazzi che si amano?
Forse, ma una strada più sicura non c’era, anche se, a Soveria
Mannelli, di questi tipi di impegno nel campo del sapere, se
ne vedevano, ancora, ben pochi.
Difettavano le strutture che, in un primo tempo, si riducevano al Centro di lettura (collegato alla Scuola statale, cosiddetta dell’obbligo), guidato dall’insegnante Angelo Tucci,
prima, e poi, per qualche altro anno, dal maestro Italo Cardinale. A questo punto di ritrovo e di piccole ricerche, frequentato molto spesso anche da adulti, si sostituì, pian piano (a
partire, però, solo da circa la metà degli Anni Ottanta), una
piuttosto modesta Biblioteca comunale che ebbe, per alcuni
anni, l’impostazione e la guida, l’organizzazione e la gestione
dell’attenta dottoressa Silvana Sirianni, peraltro dotata di
un’invidiabile preparazione specifica177. Tutto qui.
177 Cfr. S. Sirianni, “Ruolo e funzioni delle pubbliche biblioteche”, in «Calabria letteraria» nn. 10-11-12 ottobre 1983. Alla Sirianni ed al sindaco Caligiuri si deve la funzionalità della Biblioteca comunale, che consta, oggi, di oltre
143
E si capisce, allora, perché facevano tanta fatica a reperire
materiale per i loro impegni editoriali, Santino Chiodo (“Soveria Mannelli una volta…”)178, Carla Colombo Marasco
(“Mo ve cuntu”)179 e, poi, Elvira Musicò (“Proverbi calabresi
e altro”)180, come, del resto, avevano incontrato tante difficoltà (per fortuna, poi, rimosse con le ricerche negli Archivi
di Stato, in Calabria e altrove) Mario Gallo per i suoi volumi
“Scritti storici sui comuni del Reventino”181 e “Soveria Mannelli”182, o Mario Felice Marasco per “Soveria Mannelli e il
suo territorio”183. Ne aveva fatto, certamente, di meno Domenico Loiacono, per il suo ruolo di sindaco di lungo corso, cui
per davvero non faceva difetto il materiale per il suo “Tra memoria e progetto”, pubblicato da Rubbettino. Egli, proprio
per questo, oltre ad avere a portata di mano, la documentazione occorrente, era stato anche il protagonista delle vicende
e dei progetti descritti nel volumetto che, in fondo, si configurava come un omaggio a quanto egli aveva saputo fare da
politico militante, da amministratore civico, probo e consumato, da cittadino ligio e responsabile.
Il “memoriale” di Loiacono, pubblicato sotto l’egida della
Cooperativa “La Provvidenza”, era prefato da Don Natale
Colafati (secondo cui “un uomo senza memoria è un uomo
senza identità” ed “il proiettarsi verso il futuro sarà tanto costruttivo ed aperto all’accoglienza del diverso, quanto più
forte è il senso della propria identità”) ed introdotto dal sindaco Mario Caligiuri, che si era soffermato sulle “Prospettive
cinquemila volumi (ivi compresi quelli – circa quattrocento – della donazione
fatta dai familiari del sacerdote Don Vincenzo Sirianni, in prevalenza testi di
Teologia e Filosofia) e di una Emeroteca che comprende una trentina di periodici a prevalente interesse locale. I libri risultano collocati in scaffali secondo il
sistema Dewey e catalogati per Titoli e per Autori. La struttura è pure dotata
del catalogo per materie e di quello topografico, oltre che di due sezioni speciali destinate, rispettivamente, alla Letteratura per l’infanzia e l’adolescenza
ed alla Storiografia locale.
178 Catania, 1989.
179 Soveria Mannelli, 2003.
180 Soveria Mannelli, 2002.
181 Cosenza, 1989.
182 Cosenza, 1991.
183 Ellerani, 1969.
144
di impiego nel campo turistico per i giovani di Soveria Mannelli” e sull’impegno a creare tra i cittadini quella coscienza
ecologica che è essenziale nel dovere di tutela dell’ambiente.
A tante premesse, seguivano due ricche note, a firma della
Cooperativa, su Soveria, le sue origini ed il suo sviluppo, oltre
che sul “progetto” per una serie di “interventi turistico-culturali” con individuazione di nuovi itinerari nel bosco con particolare attenzione all’area silvicola circostante l’Ostello della
Gioventù”.
L’opuscolo trovava, e trova ancora, in ogni modo, il suo arricchimento contenutistico nelle due belle note del dott.
Loiacono su “I linari” (una circostanziata ricostruzione della
fondamentale risorsa dell’economia soveritana di altri tempi,
cioè la coltura del lino, su cui aveva già raccolto dati di prima
mano l’insegnante Ivone Sirianni, definito “il maggiore studioso delle cose di Soveria Mannelli”), e sugli “Itinerari turistici” (in cui sono “tracciati” i percorsi più suggestivi e gratificanti che “riassumono” le caratteristiche essenziali della paesaggistica e della flora indigene ma, pure, si invocano provvedimenti di difesa della silvicoltura in quanto “i boschi attraversati da questi percorsi turistici andrebbero tutelati in tutti
i modi dagli incendi e dall’abbattimento incontrollato delle
piante, perché essi, oltre a costituire un forte richiamo ecologico e di vita, offrono a primavera e in autunno i profumatissimi funghi porcini, la cui richiesta va di anno in anno aumentando”).
Il bel volumetto si chiude con l’elenco delle suppellettili,
degli strumenti, dei manufatti domestici, degli attrezzi rudimentali agricoli, raccolti nel comprensorio ad allestire la Mostra della Civiltà contadina, che tanto successo ha riscosso
nell’ambito dell’Iniziativa di utilità collettiva n. 03 voluta dalla stessa Cooperativa “La Provvidenza”.
La situazione restava, ad ogni modo, quella che era. Manco
male, allora, se cominciava a muoversi qualcosa di “culturale”
ad iniziativa pubblica (con l’intervento dell’Amministrazione
comunale, cioè). Si avviò, così, senza una precisa programmazione, un “Agosto soveritano” che si riduceva, poi, a rappresentazioni teatrali ed a qualche sagra (con l’intervento pure dell’As-
145
sociazione pro-Loco), disseminate nei quattro-cinque sabati, in
pieno agosto, quando, in genere, la gente del luogo, appagata
dalla parentesi feriale lungo le belle coste regionali dello Jonio o
del Tirreno, rientrava a Soveria, quasi a prorogare l’estate festaiola e riposante.
Si registrava, inoltre, anche spesso, l’inserimento di spettacoli-concerto di complessi e di cantanti, di “voci nuove” e
“nuovi talenti”, in cui il momento promozionale ed operativo
era rappresentato da Rosario Arcuri. Figlio dell’avvocato
Giosuè e direttore di «reportage», a Soveria, era notissimo,
oltre che per il giornale, che raggiungeva quasi tutte le famiglie del circondario, anche per avervi vissuto la fanciullezza
fino alla più matura adolescenza.
Punto di riferimento obbligato per la parte riguardante il
teatro popolare restavano la locale Compagnia, che aveva come
animatore convinto e tenace, Rosario Rubbettino (sì, proprio
l’Editore!) ed il compianto commediografo indigeno Umberto
Pascuzzi. Ma al Concorso dell’Agosto soveritano partecipavano tanti sodalizi teatrali della Calabria, che presentavano opere
calabresi, sia in lingua e sia, soprattutto, in dialetto.
Gli spettacoli in piazza – con tanto di Giuria chiamata a
redigere la graduatoria a premi tra le Compagnie teatrali in
gara – incontravano tante volte, i rimbrotti e il malcontento
degli esercenti del Corso principale, soprattutto dei titolari
dei bar, con un occhio alle folle ed ai potenziali clienti che facevano la calca dinanzi ai palcoscenici allestiti, di volta in volta, per gli spettacoli. E si era così escogitata, a tutela del quieto vivere tipicamente paesano, la soluzione dell’alternanza tra
piazza Bonini e piazza dei Mille. Ed erano contenti tutti. Nel
1983 era stato così anche organizzato un Concerto, nella
Chiesa di S. Giovanni, del flautista Michele Marasco e del
pianista Andrea Severi.
E, manco a dirlo, il flautista, ora così affermato in Italia ed
all’estero, è soveritano di razza. Figliolo del già funzionario
delle Imposte, Francesco (‘e Fherra) e dell’insegnante Maria
Marasco (secondogenita del non dimenticato “mastro Rosario”, cittadino semplice e ligio nonché artigiano provetto e
stimato) si è diplomato a Firenze sotto la guida del Maestro
146
Fantini, ed ha ben presto vinto il concorso di Primo Flauto
nell’Orchestra Aidem di Firenze e, successivamente, nell’Orchestra sinfonica di Sanremo184.
Ci vorrà l’agosto pieno degli Essere a Soveria, perché certe
pretese… commerciali si ridimensionassero almeno un po’, al
fine di lasciare più spazio alla cultura prevalente, senza tuttavia inficiare l’iniziativa della Civica amministrazione che, finalmente, si lanciava a capofitto perché le diverse edizioni
raggiungessero la migliore delle riuscite possibili, anche attraverso ben definite e piuttosto rigorose programmazioni.
Essere a Soveria ha, però, un precedente di tutto rispetto,
che è il Premio annuale del “Cariglio d’oro”, perfettamente
bipartisan (come si dice oggi), dovuto allo spirito di iniziativa
della Rubbettino Editore, del Ce.pro.cu.s. di Don Colafati e
Tomarchio, ed anche del Comune che, però, non sempre partecipava con l’entusiasmo necessario, nonostante la gente del
paese l’apprezzasse, lo seguisse, lo lodasse con tanta spontaneità e compiaciuta convinzione. Ad ogni edizione (e ne sono
state realizzate nove!), i soveritani si lasciavano prendere dall’entusiasmo e dall’emozione.
Ma anche questa buona predisposizione a tutto ciò che è
cultura, aveva, a sua volta, dei significativi precedenti. La presenza, cioè, di un settimanale di politica, attualità, cultura e
bibliografia, attento ed ampiamente aperto a tutti, che l’Editore Rubbettino aveva voluto fortemente. Si sta dicendo de
«il piccolissimo», di cui l’editore aveva affidato la direzione al
capo del suo Ufficio stampa, Moisè Asta, ed al giornalista catanzarese Vincenzo De Virgilio. Un pregevole strumento di
informazione e di formazione, uscito puntualmente ed ininterrottamente, per dieci anni (per otto nell’insolito formato
17x24 – il giornale, dunque, era molto piccolo, di… nome e
di fatto, ma non certo di contenuti – e, poi, nel formato
23x40) con una tiratura iniziale di cinquemila copie, ben presto portata a settemilacinquecento, anche se in occasione di
184 Cfr. F. Marasco, “Concerto musicale”, in «Calabria letteraria», nn. 7-8-9
luglio-settembre 1983.
147
iniziative culturali ed editoriali di un certo livello, la tiratura è
stata elevata fino a quindicimila e anche diciottomila copie.
La data di nascita? Il 14 febbraio 1985. La periodicità fissa
è stata interrotta nel maggio 1994, proprio nel cuore del decennio di vita del periodico e quando si era scelto di passare,
nel gennaio 1993, al formato più grande. Tanti altri numeri,
senza periodicità fissa, ad ogni modo, sono stati pubblicati
successivamente, in occasione di eventi particolari.
La diffusione, realizzata con il servizio postale, copriva
tutta la regione e quei centri, in Italia ed all’estero, ove erano
presenti comunità di emigrati calabresi. In Soveria veniva distribuito gratuitamente a tutti i cittadini che lo volessero, attraverso le due edicole che vi operavano.
Ne erano destinatari politici, amministratori, operatori
economici, enti pubblici, giornalisti, artisti, sindacalisti, che
potevano disporre, così, di un’informazione attenta alle problematiche più vive ed attuali della regione.
La testata incontrò ben presto un successo notevole, sia
per l’originalità e la praticità del formato (tascabile e tale da
poter anche essere “letto, in piedi, in autobus”) sia per la
mordace e garbata vis polemica (da ricordare, soprattutto, la
popolare rubrica “La colonna di Zeno”, dovuta alla penna
graffiante di Enzo De Virgilio, che riusciva, in genere, gradita
anche a quanti, di volta in volta, diventavano oggetto di acuminate “punzecchiature” critiche, comunque sempre sobrie
e costruttive).
Del vivace settimanale è stato animatore Moisè Asta (fondatore e gestore per più di tre lustri dell’Ufficio Stampa e PR
della Casa Editrice), che ne approntava il progetto grafico, ne
curava e coordinava la redazione e le titolazioni, correggeva
le bozze, assisteva premuroso alla cosiddetta video composizione e vigilava perché il giornale non pesasse, più del dovuto
e del necessario, sul bilancio dell’Editore.
Il cambiamento del formato (non condiviso da tutti i lettori) e, soprattutto, la forte, improvvisa, lievitazione delle tariffe
postelegrafoniche avevano, poi, determinato la scelta dell’interruzione della periodicità fissa e alla fine, anche, la conclusione dell’esperienza.
148
Tantissimi i collaboratori. Impossibile elencarli tutti, ma
almeno i più assidui è il caso di ricordarli, almeno così, come
tornano alla memoria: Nino Gimigliano, Giuseppe Pavich,
Antonio Piromalli, Pasquale Poerio, Filippo Vecchio, Sharo
Gambino, Pierfranco Bruno, Claudio Stillitano, Giuseppe
Guzzo, Cesare Mulè, Biagio Amato, Fabio Menin, Nicola Zitara, Antonia Capria, Alessandro De Virgilio, Bruno Gemelli,
Annunziata Pisani, Franco Martelli, Pino Gigliotti, Mara
Martelli, Don Paolo Aiello, Annarosa Macrì, Cosimo Bruno,
Giap Parini, Ivan Ciacci, Gianni Carteri, Clemente Angotti,
Antonio Ferraro, Domenico Menniti, Mario Casaburi, Antonio Condò, Michele Garrì, Tiziana Cosentino, Amedeo Meloni, Giancarlo Caroleo, Quirino Ledda… La stragrande
maggioranza di loro (con la sola eccezione dei politici e dei
rappresentanti delle Istituzioni) avevano un loro modesto
compenso forfetario. Accadeva per la prima volta, in Calabria, che un piccolo periodico “pagasse” i collaboratori…
La redazione, dunque, era robusta ed aveva, perciò stesso,
stoffa e potere di convincimento per dare un contributo serio,
effettivo, alla crescita culturale e spirituale anche della comunità all’interno della quale, il pimpante, sobrio, settimanale si
stampava. E, del resto, in particolari momenti, come in occasione dell’allestimento di numeri speciali o monografici, si tesaurizzavano anche le risorse giovani locali, tra cui lo stesso
Mario Caligiuri, Raffaele Cardamone e molti altri (più tardi
sarà dato spazio anche a Santino Pascuzzi – sì, il figliolo di Giuseppe “Garibaldi”, il gioviale e simpatico alfiere della “Lambretta” a Soveria – e Giulio Comerci – primogenito di un Preside, Nicola, che alla qualità di intellettuale saggio accoppia
quella del signore autentico, del galantuomo che “in disparte il
tutto mira”). Si capisce, ancora meglio, allora, perché le manifestazioni di un certo livello, poi, incontreranno i consensi e le
simpatie di un pubblico sempre crescente, fatto anche di studenti o, comunque, di giovani di entrambi i sessi.
Ma torniamo al “Cariglio”. Erano personaggi “grossi” quelli che scendevano a Soveria Mannelli, a ritirare il premio simbolico, materializzato in una preziosa, fantastica creazione dell’illustre orafo crotonese, Gerardo Sacco. E partecipavano per
149
davvero in tanti all’annuale manifestazione, patrocinata dalla
Regione Calabria e dalla Comunità montana dei monti TirioloReventino-Mancuso (la quale ultima, con sede istituzionale
proprio a Soveria, sul piano culturale, aveva, quasi da subito,
cominciato a dare preziosi, apprezzabili contributi di ricerca e
divulgazione. Accanto ad alcuni giornalini, depliant e simili,
l’Ente, infatti, non ha mancato di svolgere un’intensa attività
convegnistica né di editare interessanti opuscoli e “Guide” turistiche corredate da documentatissime schede con l’indicazione di itinerari escursionistici, archeologici, storici, artistico-religiosi e dell’artigianato).
C’era, naturalmente, posto anche per Poesia e per Pitra,
mentre Sermòne – né poteva essere diversamente – era nello
staff che realizzava il Premio. Dunque una felice occasione,
anche per propiziare incontri, magari veloci, furtivi, così lungamente attesi… Che la cultura portasse, per davvero, un po’
di fortuna e di spazio a dei giovani che, sul piano sentimentale, ne avevano avuto sempre poca?
Siamo alle solite. Impossibile rendere conto degli sviluppi
reali di questi “amori a distanza”, molto probabilmente destinati alla lenta dissoluzione, formale almeno, dinanzi all’incalzare di prospettive diverse (mai progettate e volute) che, con
il fluire inesorabile degli anni, non potevano assolutamente
mancare al quartetto di adolescenti, alle prese con la situazione ormai ben nota. La partecipazione a queste manifestazioni
culturali, perciò, diveniva sempre più un diversivo, capace di
sopire ardori implacabili e dipanare visioni futuribili, complesse e defatiganti.
Né è possibile stabilire se è giusto, meno giusto o ingiusto,
accantonare le proprie scelte originarie per ripiegare su delle altre, che restano, ad ogni modo, sempre, appunto, un ripiego.
Sono quegli interrogativi senza risposta che, tuttavia, non cessano di essere, giammai, latori di un eloquio sub-cosciente, che è
sì impercettibile ma, pure, tremendo: un eloquio che, manco
male, era, per il momento, sfociato nell’interesse per la cultura.
Solo che, Cariglio a parte, non poteva – soprattutto secondo Pitra – essere trascurato un altro importante precedente,
dovuto sempre a Don Colafati che, in fondo, s’è giustamente
150
ritagliato un cospicuo pezzo di storia, a Soveria, impegnando,
fin quando possibile, i giovani militanti, o solo simpatizzanti,
del locale movimento cattolico. Il riferimento era a «Eco giovanile», il cui ruolo e le cui vicende saranno poi raccontati, in
un interessante volumetto185, dallo stesso valoroso sacerdote.
Rileggiamolo. “Eco giovanile è stato un periodico mensile
di attualità e di informazione, da me fondato e diretto in Soveria Mannelli, dal dicembre 1969 ad aprile 1974. Era un ciclostilato, gestito in proprio, ed era nato dall’entusiasmo di
un gruppo di giovani che ricercavano una soluzione ai tanti
problemi che si ponevano, partendo da una coscienza ispirata dai valori cristiani e stimolata da profonde istanze sociali.
Eco giovanile era l’eco di tale ricerca e lo strumento per proporre agli altri, e verificare insieme a loro, gli stessi spunti di
riflessione ed i tentativi di soluzione. Lo scopo era l’interpretazione delle istanze provenienti dalle condizioni di vita reale
del popolo e dalla cultura popolare, ma, allo stesso tempo, di
costituire una palestra per la formazione di una coscienza sociale e cristiana, capace di proporre soluzioni alternative più
umane, più giuste, più libere, in una parola più cristiane.
Eco giovanile non voleva essere contro nessuno, ma al servizio di tutti. Ma la libertà dinanzi alla verità non è di tutti.
Eco giovanile ha finito così, necessariamente, per scontrarsi
con delle forti resistenze. E la sua vita non è stata facile… La
vera causa della sua morte non fu però di natura economica.
Fu invece il crollo dell’entusiasmo in tanti suoi collaboratori.
E l’entusiasmo non crollò per caso. Furono la prepotenza ed
il ricatto a spegnerlo; fu il calcolo a stroncarlo; furono la paura di compromettersi, l’aspirazione ad una sistemazione, il
rientrare nei ranghi; fu l’insorgente e trasandato qualunquismo materialistico; fu l’offa in bocca; fu la rivincita della
schiavitù, sempre pronta ad uccidere la libertà della verità…”.
Parole che pesano come macigni, a disdoro di quelle forze
occulte, così misteriosamente invincibili, che ancora, purtroppo, stentano a dissolversi soprattutto nelle piccole comu185 N. Colafati, Eco dell’eco, Rubbettino 1980.
151
nità di provincia. Forze che, se sono riuscite a sgretolare il
corpo redazionale di quel mensile ciclostilato, ricco di contenuti e di proposte, spietato nello stigmatizzare il male e le deviazioni, non altrettanto hanno potuto per un altro gruppo di
giovani che, sempre convogliati e illuminati da Don Colafati,
sono riusciti a realizzare qualcosa di forte e di veramente utile
nel sociale.
Racconta il presidente Giovanni Cavalieri186: «Era il 1987
quando, in un piccolo paese di montagna, Soveria Mannelli,
nove famiglie decisero di incontrarsi settimanalmente per dare vita alla Pastorale Familiare della Parrocchia di San Giovanni Battista. Settimana dopo settimana, in questo gruppo
cominciò a crescere l’ardente desiderio di voler dare risposte
concrete a chi si trovava nel bisogno; e dopo tanta riflessione
nacque l’idea di offrire ai nostri compaesani anziani un luogo
di accoglienza, al fine di evitare loro di dover ri-emigrare ancora ad ottanta anni, così com’erano stati costretti a fare a
venti. Nel febbraio 1989, il gruppo diventò una squadra:
Cooperativa di solidarietà sociale “Emmaus”. Scelto il campo
di gioco, ciascuno assunse il proprio ruolo, convinto che la
vittoria sarà possibile solo se ciascuno saprà giocare con e per
la squadra. Il gioco della squadra, il rispetto delle regole, il
gioco svolto con lealtà e onestà, le partite giocate con sacrificio e spirito di abnegazione…».
Era, così, sbocciata, anche a Soveria, la cultura della solidarietà e del volontariato, tanto importante ed insostituibile
ai giorni d’oggi, e, con essa, anche il bisogno di rispolverare
(per rilanciarli) antichi valori come quello del rispetto e dell’assistenza a chi giovane non è più. Né tarderà a sorgere il
Centro di aggregazione sociale “Maria Cristina Luinetti” con
una serie di compiti d’istituto, che costituivano una vera e
propria valvola di sicurezza per gli anziani in particolari condizioni psico-fisiche, i quali potevano contare su di una serie
di servizi, anche fuori della Casa di accoglienza o del loro
stesso domicilio, ferma restando la gestione di tanti servizi di
186 «Mentalità UG», anno I, n. 12 del 13 aprile 2003, periodico indipendente diretto da Francesco Aragona.
152
cui al “Progetto della solidarietà” promosso dal Comune e finanziato dalla Regione Calabria.
L’iniziativa, destinata ovviamente a crescere, mantiene intatte le sue iniziali prospettive di base, anche per la felice prosecuzione del “gioco di squadra”, auspicato e solennemente
promesso da quanti si sono messi insieme per il raggiungimento del loro obiettivo, ora giustamente ampliato, una volta
verificati la positività ed il successo della fase del rodaggio e
dei primi anni del funzionamento a pieno ritmo. Un magnifico esempio di come e quanto si possa partire dalla situazione
di fatto, precaria e difficile per quanto sia, e, quindi, progettare e realizzare strutture adeguate.
Lo stesso può esser detto della Sezione comunale Avis (Associazione volontari italiani del sangue) che, costituita nel
febbraio del 1978 su iniziativa dell’allora presidente del Consiglio di amministrazione dell’Ospedale civile zonale di Soveria, il farmacista Basilio Molinaro, e da altri ventidue soci fondatori, è presieduta dal prof. Vincenzo Sirianni, figliolo del
compianto Ninnì e pronipote di “Donnu Vicìenzu”, l’ottimo
sacerdote di cui si è già parlato.
La cultura della solidarietà e del volontariato, quindi, aveva già cominciato a trovar posto, all’insegna del “Solidali non
si nasce, si diventa, e con l’aiuto degli altri”. Ormai da anni, la
Sezione garantisce la piena autosufficienza per le occorrenze
di sangue nel locale nosocomio civico ed è in grado pure di
dare cospicui contributi agli Enti sanitari di Lamezia e Catanzaro, grazie ovviamente all’encomiabile sensibilità di più di
cento donatori oltre che del Centro trasfusionale lamentino,
della Civica amministrazione soveritana e della Comunità
montana dei Monti Reventino, Tiriolo e Mancuso. Per il che
legittimo è da ritenersi l’orgoglio del presidente Sirianni, oltre che dell’intera cittadinanza.
Si pensava anche ai giovani, del luogo, o che venivano da
lontano. E si realizzava il buon locale ove dovrà funzionare un
Ostello della gioventù. Puntualmente, «il piccolissimo»187 dava
l’anteprima sul sopralluogo del funzionario regionale – il gior187 Cfr. A. IX, n. 14 del 30 aprile 1993, pag. 6.
153
nalista Saverio Carino – chiamato a stilare una relazione per
l’Aig (l’Associazione italiana degli Ostelli della Gioventù) perché autorizzasse l’avvio della struttura che – spiegò Domenico
Loiacono, quella volta nella sua qualità di presidente della
Cooperativa “La Provvidenza” – dispone di quarantaquattro
posti-letto, di moderne cucine, bar, ampio parcheggio, campi
di bocce e di tennis. Era presente anche chi scrive che, su sollecitazione dei due interlocutori, suggerì, estemporaneamente
ed anche tenendo conto dello stato dei luoghi lussureggianti
per la presenza di una vegetazione così sviluppata ed incantevole, “La Pineta” come denominazione dell’Ostello.
“Oggi – dirà Loiacono, durante la cerimonia di inaugurazione della struttura ricettiva, avvenuta nel luglio dello stesso
anno – è una festa molto particolare, non solo perché in questa magnifica oasi di verde inconfondibile inizia l’attività l’Ostello della gioventù, unico complesso turistico del genere
esistente in Calabria, ma perché vi avviene un significativo incontro. Sicuramente oggi, dall’aldilà, esultano felicemente
due grandi amici del mondo giovanile, il generale Powel, padre dello Scoutismo, ed il Maestro tedesco Schirman, ideatore degli Ostelli della Gioventù, la cui rete oggi consta di sessantacinque unità sparse in tutti i cinque continenti. È, quindi, stante anche la presenza dei giovani scouts di Vibo, una festa del mondo giovanile, del turismo giovanile, un sodalizio
votato al bene dell’umanità ed alle buone azioni…”188.
Ma torniamo al Premio del Cariglio d’oro. Il “cariglio”
– spiegava il dialettologo Luciano Romito189 – è il Quercus cerris,
la cui imponenza e le cui profonde radici attecchiscono magnificamente lungo tutto l’arco dell’Appennino calabrese, il che, come lemma, lo rende presente in tutti i lessici dei dialetti regionali, anche ad indicare personalità forti, tetragone, tenaci.
Gli faceva pronta eco mons. Natale Colafati190, ricordando
che l’elevazione del cariglio a simbolo del Premio omonimo è
188 «il piccolissimo», A. I. n. 27 del 30 luglio 1993, pag. 8.
189 L. Romito, “‘U carigliu”, in «il piccolissimo», A. VIII, n. 37 del 4.12.1993.
190 N. Colafati, “Premio come simbolo”, nello stesso numero e nella stessa
pagina del giornale di cui alla nota precedente.
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legata al fatto di essere radicato nell’habitat calabrese più difficile e di vincere qualsiasi avversità, affermandosi con caratteristiche inconfondibili. “Proprio per questo – aggiungeva il
dotto sacerdote – il cariglio campeggia sul Trofeo che da esso
prende il nome e che viene assegnato a persone che, con la vita e con le opere, hanno onorato la Calabria. La motivazione
del premio vuole essere simultaneamente riconoscimento a
persone che per diversi motivi emergono e, allo stesso tempo,
sprone per tutti i calabresi”.
Basterebbero solo questi due precisi, autorevoli, assunti
ad illustrare il senso e la portata di un Premio, divenuto anche
ambìto e, comunque, ben distinto da tutti gli altri Premi, più
o meno scimmiottati e tali da determinare una vera e propria
deriva inflazionistica fino allo sconcerto. Ma ha lasciato tracce troppe profonde per non parlarne più. Anche per questo
torna spesso alla mente di tanti, soveritani e non.
Sono state, in tutto, nove le edizioni del “Cariglio”, di cui
tante circostanze – non ultime quella del trasferimento di
Don Colafati ed i motivi di salute accusati dagli altri due artefici dell’iniziativa – decretarono, ad un certo punto, la fine
proprio quando stavano per essere avviati i preparativi del
Decennale del Premio, che avrebbe dovuto concretarsi in
una festa grande.
Il “Cariglio”, ad ogni modo, si era dimostrato, fin dall’inizio, una gran bella cosa, di cui andava molto fiero l’Editore Rosario Rubbettino, che, annualmente, metteva a disposizione
completa l’Ufficio stampa della sua azienda, per quanto di
competenza, ed alcune unità del personale dipendente, le quali, oltre alle incombenze, diciamo così, burocratiche legate alla
fase organizzativa, finivano con il tramutarsi in eleganti “vallette” durante la giornata clou della consegna del riconoscimento
a calabresi illustri, di primo piano, e di cui, tante volte, moltissimi corregionali non avevano conoscenza, quanto meno per
quel che concerneva la regione di origine dei prescelti.
La serie dei “Carigli” cominciò, nel 1984, con Leònida Répaci (meno di un anno prima della sua morte, avvenuta, all’età di 87 anni, nella sua casa, ai Parioli, in Roma, a seguito di
155
un impietoso ictus cerebrale). “Scrittore, giornalista, organizzatore di cultura, antifascista della prima ora, uomo inquieto
della sinistra storica – scrisse Bruno Gemelli su «il piccolissimo”191, il giornale che tornò, sul grande Palmese, comprensibilmente, più volte, in diversi numeri, anche consecutivi – Répaci visse intensamente e in costante contraddizione queste
sue poliedriche attività. Capace di grandi slanci, ma anche di
forti rancori, il grande vecchio fu, nel bene e nel male, rispettato e stimato dagli ambienti culturali italiani”.
L’illustre figlio di Palmi (Reggio Calabria) – che, da socialista
militante era stato chiamato da Antonio Gramsci a collaborare
alla rivista «Ordine nuovo» e che lavorò, poi, a «l’Unità», a «La
gazzetta del popolo», a «La Stampa», a «L’illustrazione italiana», fondando insieme a Renato Angiolillo il quotidiano «Il
Tempo» e dirigendo il rotocalco settimanale «Epoca” – a Soveria, tra la frescura verdeggiante di villa Pellico, dopo una sosta
ristoratrice in un accogliente albergo di Gesarìellu, il CarDel –
ebbe un’accoglienza enorme, inattesa ed adeguatamente enfatizzata da un’imponente presenza televisiva, pubblica e privata,
mai vista, fino ad allora, in tutta la conca del Reventino.
La prima designazione, fatta dagli organizzatori, dunque,
si era rivelata veramente felice e condivisa da un uditorio,
composto anche da tanta gente venuta da fuori. E quanti meriti avesse acquisito, per cotanto successo, l’Ufficio stampa
della Casa editrice locale, fu subito riconosciuto anche ben
oltre la sfera organizzativa.
Del “difficile” autore dei “Fratelli Rupe” – padre del Premio letterario “Viareggio”, ma anche vincitore del “Crotone”,
del “Villa San Giovanni”, del “Sila”, competizioni tra letterati
che allora andavano per la maggiore – “hanno scritto in molti,
ma – sottolineò Giacomo De Benedetti – forse, per aver egli
fatto sue le classiche impostazioni del nostro Verismo regionale, non ha trovato grandi consensi nella sua epoca”.
Leònida Répaci, ad ogni modo, non ha certo dovuto attendere la morte, “giusta di gloria dispensiera”, per essere rico191 B. Gemelli, “Le spoglie di Répaci nell’aristocratica Palmi”, ne «il piccolissimo», A. I, n. 25 dell’1 agosto 1985, pag. 3.
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nosciuto nella pienezza della sua valenza letteraria, per i Rupe
ma anche per i suoi tanti saggi, per i suoi lavori di poesia (l’ultimo – La Pietrosa racconta – pubblicata, già in precedenza,
proprio a Soveria) e di narrativa, per i suoi scritti politici e
meridionalistici. Era già tanto stimato ed apprezzato, letto ed
annotato, quando venne a ritirare il “Cariglio”.
E Don Colafati, in occasione dell’improvvisa dipartita del
grande Palmese, ricorda: “La testa e la barba bianche sullo
sfondo di un verde intenso, al braccio dell’editore Rubbettino, come un vecchio patriarca: così vidi, per la prima volta,
Leònida Répaci, lo scorso anno, il 18 agosto 1984, quando
venne a Soveria Mannelli per ricevere – lui, onusto di gloria, e
creatore di Premi letterari come il Viareggio – il Cariglio d’oro. Come un vecchio patriarca, ho scritto, perché proprio di
questo Répaci si lamentava: di essere, cioè, considerato una
istituzione ma che pochi conoscevano la sua opera. Io mi ero
nutrito delle sue opere, ma non lo avevo mai incontrato di
persona. Ciò che subito mi colpì fu il suo occhio, di una vivacità sofferta, attento a cogliere anche le sfumature di ciò che
lo circondava, e la sua capacità – lui, rotto a mille esperienze –
di meraviglia, come un bambino e, quindi, di scoprire le dimensioni più profonde ed autentiche di ogni avvenimento”.
Il letterato di Palmi, così, era subito entrato “nelle grazie” dei soveritani e lo si vide, peraltro, anche dal successo
del numero speciale della rivista di bibliografia «Calabria libri» – anch’essa della Rubbettino – con l’Omaggio critico a
Répaci: sessant’anni di impegno letterario e civile, in attesa
che la Casa editrice onorasse l’impegno (e lo sta facendo
proprio in questi ultimi anni, anche con il patrocinio della
Regione Calabria) di pubblicarne l’opera omnia.
Tra la folla, non erano mancate Poesia e Pitra ad onorare,
appunto, un patriarca della cultura non solo calabrese e che si
era cimentato, a lungo, e riuscendo anche molto bene, nelle
“belle arti” di cui loro stesse, portandone praticamente il nome, erano il simbolo più eloquente.
La loro attenzione non poteva mancare – anche se non
erano riuscite a centrare il sommesso, sottile, ascoso obiettivo
vero, che non avevano per nulla mancato di rincorrere, parte-
157
cipando al “meeting” culturale – visto che ci si trovava proprio dinanzi ad un esperto cesellatore di versi, dal significato
profondo e tagliente, ma anche di un estroso tessitore di colori, ben fusi o, con estremo buon gusto, accostati tra di essi, a
delineare contenuti pittorici di un’universalità sconfinata e
d’una religiosità laica, che commuovevano almeno tanto
quanto quelli della sua preziosa collezione. Perché, sì, tanti
grandi nomi della pittura contemporanea, che lo avessero
trovato nella sua casa romana e nella sua villa della Pietrosa,
nel Basso Tirreno calabrese, non si erano mai privati del piacere di dare una delle loro opere, ad un “collega” che avrebbe
potuto ricavare tanta gloria, anche dalla Pittura.
Cariglio d’oro, anno secondo. Per il 1985, l’ideale riconoscimento alla personalità che, in qualsiasi settore, abbia, con
la vita e con le opere onorato la Calabria, è stato assegnato a
Saverio Strati. Ancora un letterato. Ma ciò non significa – è
stato ricordato con reiterata sottolineatura – che, in prosieguo, il premio debba finire, necessariamente e solo, nelle mani di un esponente del settore letterario. Era, questa, la mezza
novità venuta fuori, soprattutto e fors’anche con un sottofondo impercettibilmente polemico, nel corso della cerimonia di
consegna del Premio al “narratore” di Sant’Agata del Bianco
(Reggio Calabria) dinanzi al pubblico vasto, attento, qualificato, arricchito dalla presenza del presidente della Giunta regionale calabrese, Bruno Dominijanni, di parlamentari, di assessori e consiglieri regionali, a riprova che l’iniziativa aveva
già catalizzato l’attenzione anche delle Istituzioni.
Alla “festa” faceva da scenario la splendida facciata di Palazzo Giacchetti, ancora nel parco Pellico. A parlare del Premio e
di Strati c’erano, con lo stesso letterato (in apertura della cerimonia, Alfonso Costanzo aveva letto, sicuro ma forse anche un
po’ emozionato, l’autopresentazione che l’autore di “Tibi e Tascia”, de “Il selvaggio di Santa Venere”, de “Il diavolaro”, di
“Terra di emigranti” ecc. aveva scritto per la monografia di
“Cultura calabrese” curata da Giuseppe Grisolia), anche l’editore Rubbettino, il prof. Colafati, il giovanissimo sindaco Mario
Caligiuri, il prof. Giuseppe Falcone, dell’Università di Messina.
158
Con quest’ultimo, anzi, forse poco opportunamente, la
manifestazione di premiazione si è trasformata, all’improvviso, in un convegno, un “piccolo convegno” (come, poi, dirà
lo stesso festeggiato) sull’opera di Saverio Strati che, da ultimo, si è detto commosso ma anche sorpreso di aver scoperto
come altri, nei suoi libri – il che, del resto, sempre accade, in
genere – avevano scoperto delle “cose” che egli non aveva
mai pensato né di scegliere né di scoprire, assicurandosi così
tante altre calorose ovazioni.
Una manifestazione, dunque, che è riuscita quasi… a pieni
voti (un “quasi” da addebitare, forse, a tanti professionisti,
giovani o non più giovani, del luogo, che non avevano saputo
rinunziare, almeno per quel giorno, ai loro hobby, disertando, ampiamente rimpiazzati, ad ogni modo, da forestieri, venuti anche da lontano).
È stato, invece, assegnato al prof. Cesare Mirabelli, vice
presidente del Consiglio superiore della magistratura, calabrese di Gimigliano, il Cariglio 1986. Docente universitario
ed esperto di Diritto ecclesiastico e di Diritto canonico, dal
1970, era stato particolarmente impegnato in relazioni scientifiche internazionali. Era anche stato segretario della Delegazione italiana per il negoziato sul Concordato, membro per il
Governo, della Commissione paritetica che ha elaborato la
nuova disciplina degli Enti e dei beni ecclesiastici, nonché
componente la Commissione per le intese con le altre confessioni religiose e la Commissione per la riforma della legislazione concordataria. Per più mandati, membro del Consiglio
centrale dell’Unione giuristi cattolici italiani, aveva contribuito ad indirizzarne le riflessioni sui problemi istituzionali.
Un Giurista ad altissimo livello, quindi, la cui opera, intensa
e di notevole spessore, è stata, per l’occasione, ripercorsa ed illustrata da mons. Vincenzo Rimedio, Vescovo di Lamezia Terme, dal magistrato Giovanni Pileggi, Procuratore della Repubblica del Tribunale lamentino, e dal penalista, avv. Nino Gimigliano, del Foro di Catanzaro. Anche questa volta un successo
grande è toccato alla manifestazione, che, quasi, cominciava a
profilarsi come una delle belle tradizioni soveritane.
159
La quarta edizione del Premio è stata appannaggio dell’avv. Raffaele Cananzi, nativo di Caulonia (Reggio Calabria)
ed Avvocato dello Stato a Napoli, nella sua qualità di Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, le cui opere e
vita sono state illustrate con tre interessanti e documentate
relazioni tenute, rispettivamente, dal saggista Roberto Petrolino (“L’azione cattolica in Calabria: aspetti di una presenza”), dall’Arcivescovo di Catanzaro e Squillace, mons. Antonio Cantisani (“Il proprio del cristiano nel sociale”) e dal
giornalista reggino Domenico Nunnari (“Valore formativo
dell’informazione”).
“Nell’attuale crisi di valori – ha scritto mons. Colafati su «il
piccolissimo»192 – l’Azione cattolica è l’associazione ecclesiale,
voluta dalla stessa Chiesa, che con chiarezza e coerenza, pur
nel rispetto di un autentico pluralismo, si richiama nel suo essere ed operare al messaggio evangelico nello spazio di presenza
e testimonianza propri del laico cattolico, rivolgendosi al cristiano nelle varie tappe della sua vita, dalla fanciullezza all’età
adulta, per formarlo ed aprirlo alle responsabilità sociali. Il
Presidente nazionale ne è la più alta espressione. Ecco perché il
Presidente Cananzi ci è sembrato la persona più idonea cui assegnare il Cariglio 1987. Cananzi è calabrese. La Calabria, tra
tante virtù di cui troppo spesso ci si riempie la bocca con vuota
retorica, è ammantata di atavico fatalismo e di attuale sfiducia
per mille mali che l’attanagliano e che la relegano a sempre più
lontana periferia e a cui le strutture pubbliche e private sembrano impotenti a porre rimedio”. Così la scelta caduta su Cananzi è da intendere come “una ricetta di fiducia ed un invito
alla speranza: è possibile cambiare, è possibile riuscire”.
Le due ultime edizioni del Premio avevano destato maggiore interesse presso Poesia e Pitra. Più nella seconda che
nella prima. La di lei formazione indiscutibilmente cattolica
non poteva che restare paga, forse un po’ faziosamente, della
circostanza che si era consegnato, per due volte consecutive,
il bel Trofeo, sempre parto proficuo del cuore e della mente,
192 N. Colafati, “Il Cariglio d’oro ad una limpida testimonianza cristiana”,
in «il piccolissimo», A. III, n. 32 del 17 settembre 1987, pag. 3.
160
oltre che della creatività, dell’orafo Sacco, ad altrettanti intellettuali, apertamente e chiaramente legati all’universo della
Chiesa apostolica romana.
Era bastata, però, l’osservazione di Poesia a rimettere tutto a posto: “Non farti prendere dalle… vertigini. Cosa sono
queste cose? La fede, certo, illumina e risolve tante problematiche, ma non è scritto da alcuna parte che chi non ne ha, o
ne ha solo poca, debba essere accantonato o anche sottovalutato!”
Così, la serenità e la gioia di partecipare a quella manifestazione, erano tornate ben presto nelle due amiche. O, ciascuna, aveva avuto l’occasione per scambiare, a gesti, da lontano come sempre, con i ragazzi dei loro desideri, una rinnovatasi promessa d’amore? Non lo si saprà mai, ma quando accade che tutto diventa sereno, tutto appare bello e solubile,
tutto diventa semplice ed abbordabile, tutto fila in perfetta
armonia? La risposta, forse, è tanto inutile, perché scontata.
Cariglio 1988. Questa volta, il premiato era indigeno a tutto tondo. Si trattava di Francesco Chiodo, docente universitario e direttore dell’Istituto per le malattie infettive dell’Università di Bologna. Nato a Soveria Mannelli nel 1940, da Gaspare, segretario comunale (e dispone, quindi, in loco, di un
cospicuo parentado, essendo nipote del compianto Direttore
didattico, Vittorio Chiodo, e del Docente ordinario di lettere
nei Licei, Ernesto Chiodo) e dalla popolarissima maestra elementare Tallarico, ha compiuto i suoi studi lontano dalla Calabria, intraprendendo poi la carriera accademica nella dotta
città emiliana. La cerimonia di questo Cariglio si è tramutata,
praticamente, in una manifestazione ad alto contenuto culturale, focalizzatrice di una problematica di drammatica attualità, con due grandi esperti (lo stesso Chiodo e il prof. Ignazio
Schinella) a discutere dell’Aids.
Raccontando il prof. Chiodo nella sua vita e nella sua opera, dalle colonne ancora de «il piccolissimo»193, il prof. Demos
193 D. Gotti, “La vita e l’opera del prof. Chiodo viste da chi lo ha sempre seguito”, in «il piccolissimo», A. IV, n. 33 del 6-13 ottobre 1988, pag. 7.
161
Gotti, dello stesso Ateneo bolognese, ha sottolineato che “La
sua buona produzione scientifica (168 lavori) comunicata in
convegni e congressi, pubblicata in prestigiose riviste nazionali ed estere (una trentina, circa) spazia nei vari campi della
ingettivologia (epidemiologia, patogenesi, clinica e terapia),
pur privilegiando particolari filoni da lui particolarmente approfonditi (le epatiti virali, le campilobacteriosi, la sindrome
di Reye, la sindrome da immunodeficienza acquisita). Pregevole la sua monografia sull’Aids, esaurita in breve tempo, sintesi della sua rilevante esperienza clinica in questo settore…”.
Anche questa volta, tanta gente e tanti applausi. Che sia stata,
finalmente, neutralizzata l’assurda sentenza secondo cui nessuno è stato mai compreso, con la dovuta compiutezza, nel
suo luogo di origine?
Sembrava proprio questo l’orientamento dell’uditorio, tra
il quale non poteva mancare Sergio Chiodo, fratello di qualche anno più giovane del Premiato, un insegnante di educazione artistica, che è anche tanto noto come pittore, avulso da
qualsiasi corrente artistica. I suoi commossi dipinti – nature
morte, fiori, paesaggi – privilegiano gli acrilici, ma quando fa
uso dell’olio – il che accade molto spesso – lo tratta, con la
spatola, i cui tocchi testimoniano la decisione e la profondità
dei propri sentimenti, per nulla offuscati dalle difficoltà di
muoversi speditamente dovute ad un malanno che ha interessato i suoi arti inferiori. Sempre alla ricerca di motivi nuovi,
anche al passo con i tempi, non difetta per nulla il richiamo
paesaggistico, e soprattutto coloristico, dell’ambiente naturale in cui è nato ed ha vissuto la sua fanciullezza fino alla tarda
adolescenza.
Il 1988 è, però, anche l’anno in cui, a Soveria, arrivò l’Assessore alla Cultura di una Giunta regionale di sinistra, il magistrato Augusto Di Marco, a presiedere un importante convegno su Teatro e Meridione. “È vero, è stato sottolineato, che
il teatro può rappresentare l’occasione di progresso e di sviluppo della realtà calabrese, ma occorre che, finalmente, si
abbia il coraggio di sovvertire le strategie dell’andare avanti
con interventi senza alcuna programmazione, senza leggi di
settore, che si eviti di alimentare l’effimero che solo emotiva-
162
mente e momentaneamente dà risposte aggreganti; che si investa in cultura autentica sulla scia di taluni precisi e recenti
segnali che spingono verso terreni, non sempre facili; che si
smascherino le forze occulte responsabili del mancato decollo del teatro calabrese; che si cambi e si creino strutture adeguate, partendo, ovviamente, dall’esistente per potenziarlo di
più. Tutto ciò non è facile in una regione come la Calabria in
cui incrostazioni secolari, pressappochismo ed improvvisazione assunti a costume di vita non favoriscono l’emergere di
una lettura, di una editoria, di una pubblicistica del settore
teatrale. E allora? Continuare a… erigere il muro del pianto?
No, certamente, ma cogliere le occasioni che vengono da chi
ha saputo segnare una svolta e vincere la forza della non cultura…194.
Nel 1989, la scelta, per la sesta edizione del Cariglio, è caduta sul Direttore pro tempore del TG-Uno, Nuccio Fava,
un giornalista di fama, nativo di Cosenza e che non ha mai rimosso dal cuore la sua terra. La manifestazione si è svolta nel
salone del Centro sport Cardamone, ben più capace dei locali
utilizzati in precedenza, ove hanno tenuto bellissime relazioni
il già Ministro dei Trasporti ed ex Presidente del Consiglio regionale, Mario Casalinuovo, pubblicista di vecchia data oltre
che già componente della Giunta esecutiva della Federazione
nazionale della stampa, e Gregorio Corigliano, redattore della Rai-Tv nella sede cosentina.
Fava – scrisse il direttore responsabile de «il piccolissimo195 – operatore della stampa parlata, che ben conosce uomini
e cose del nostro Paese per avere egli scavato magistralmente
negli avvenimenti più significativi dell’ultimo quindicennio,
pertanto, può essere (e certamente sarà) un punto di riferimento obbligato perché la Calabria trovi, quanto ad immagine, una
collocazione veramente di là da quella, talvolta in maniera spe-
194 G. Guzzo, “L’esigenza di un teatro diverso per il riscatto della Calabria”
in «il piccolissimo» A. IV, n. 30 del 15 settembre 1988, pag. 8.
195 M. Asta, “Con Nuccio Fava si irrobustisce un Premio serio nato sei anni
fa”, in «il piccolissimo», A. V, n. 35 del 17 settembre 1989, pag. 3.
163
ciosa e cattiva, costruita e voluta, stranamente, dai mass-media.
“Discreto e decisamente poco incline all’autoelogio – evidenziò
Federico Mungo, sempre dalle colonne del settimanale locale –
quando parla della sua vita e della sua carriera giornalistica non
può fare a meno di raccontare, con un pizzico di orgoglio, anche le glorie sportive del suo passato di nazionale di basket
che per una ragazzo del Sud era una qualifica abbastanza rara.
Ed è proprio lo sport il filo conduttore attraverso il quale
Nuccio Fava ama raccogliere i ricordi della propria vita. Dall’adolescenza tra il mare e la campagna della sua Pellaro agli
studi fuori regione…”. E già da allora Fava parlava di una
questione meridionale che “attraversa un momento opaco”
per cui “occorre rilanciare la sfida dello sviluppo del Mezzogiorno e della Calabria” tenendo conto che “il fronte dell’impegno… è anche un fronte interno: esiste una responsabilità
politica e culturale della intera società italiana nei confronti
della Calabria… ma, d’altro canto, i protagonisti dell’evoluzione e dello sviluppo non possono essere che calabresi”.
1990. Settimo Cariglio d’oro. Ancora un professionista eccellente di Cosenza, un ex alunno del Liceo classico “Bernardino Telesio”. Era il prof. Francesco Sicilia, Direttore generale al Ministero per i Beni Culturali, sulla vita e sull’opera del
quale sono stati chiamati a relazionare il Preside della Facoltà
di Lettere dell’Università della Calabria, Giancarlo Alessio,
ed il Direttore della Biblioteca nazionale di Cosenza, Mauro
Giancaspro.
Questa volta, dunque, la circostanza aveva ancora più lustro perché, come scrisse Francesco Fantasia, sulla rivista
“l’altraItalia” nel maggio 1988 “tra i libri spunta un manager”
il quale, alla guida dell’Ufficio centrale per i Beni librari e gli
Istituti culturali, “dovrebbe fare il superburocrate e invece
crea poli operativi intorno ai processi critici”196.
La cerimonia di consegna del Premio, per di più, aveva come degna, eccezionale cornice, l’inaugurazione di una Mo196 Cfr. F. Fantasia, “Sorpresa: tra i libri spunta un manager”, in «il piccolissimo» A.VI, n. 36 del 12 ottobre 1990, pagg. 8-9.
164
stra bibliografica nazionale su “1957-1990: Quindici anni di
attività dell’Ufficio culturale per i Beni librari e gli Istituti del
Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali”. Un evento eccezionale per davvero. La cosa più viva e nuova di tutti i tempi, per Soveria e dintorni, che non aveva mancato – come ormai si era abituata a fare – di nobilitare l’evento con una partecipazione, sobria e convinta, andata anche molto di là delle
legittime aspettative.
E poi… questa volta si erano messi in movimento anche i
Marasco (l’avv. Lello ed il dott. Ugo) che, con il loro ascendente, avevano convogliato tanto pubblico in più, rispetto a
quello già pingue delle precedenti edizioni, anche per dare affettuosamente una mano ad uno dei nipoti prediletti. Il premiato, infatti, a parte i suoi pregi e le sue qualità di integerrimo operatore nel mondo dei Beni librari, era, e resta, un
grande amico del dott. Gino Grandinetti (il futuro Direttore
amministrativo dell’Università agli Studi “Magna Graecia” di
Catanzaro), nelle cui arterie scorre abbondantemente sangue
soveritano, essendo il figliolo del non dimenticato Don Guido, Dottore in Giurisprudenza ed alto funzionario del Comune di Roma, e della distinta Donna Mimìna Marasco, entrambi nati ed a lungo vissuti a Soveria, prima del loro trasferimento a Roma.
Il VII Cariglio ha avuto un’eco notevole se Giusy Cuceli,
due settimane dopo la premiazione di Sicilia, ha potuto ancora scrivere su «il piccolissimo»197: “I vari e qualificati interventi sono valsi, per la maggior parte, a sottolineare l’impegno manageriale del vincitore del Premio, che, scavalcando le
immobilizzanti secche della ben nota burocrazia italiana, ha
riportato il bene librario e le istituzioni che lo riguardano a
svolgere attivamente una prioritaria funzione di testimonianza e documento del passato e di strumento per una crescita
anche sociale. Il suo dinamismo ha accelerato considerevolmente quel movimento di evoluzione delle biblioteche, fornendo ad esse mezzi anche tecnici di crescita”.
197 G. Cuceli, “Al prof. Sicilia il Cariglio d’oro 1990”, in «il piccolissimo»,
A. VI, n. 38 del 26 ottobre 1990, pag. 15.
165
Il ricordo di quella fausta giornata restava vivo anche in
Poesia ed in Pitra che, questa volta, avevano avuto la possibilità di verificare di che, e di quanto, possa beneficiare una comunità, anche piccolina purché attenta e partecipe, dall’intesa senza riserve tra cultura ed operosità, tra pensiero ed azione. Ed erano riuscite, peraltro, a procurarsi – non si sa come,
quando e perché – lo scontato assenso, la piena concordanza
sia di Sermòne e sia di Mario il quale ultimo, una volta tanto,
aveva sopito la sua passione tenace di collezionista ed ideatore di “ex libris” di alto pregio.
E questa volta non doveva trattarsi di messaggi mimati, a
fatica, da lontano. A parte l’identità di vedute e di interessi
che caratterizzavano i partner di ciascuna coppia, doveva esserci stato un abboccamento concreto, rispettivamente, tra
Sermòne e Poesia e tra Pitra e Mario. Non lo si saprà mai, e
ciascuno si sforzerà di non farlo sapere, non sia per altro che
per non provocare disagio, se non dolore, alle altre persone
direttamente coinvolte, ormai, in questa storia lunga ed amara. Tante cose, però, è legittimo, naturale, spontaneo anche
intuirle, quando soprattutto, non si è nati… ieri!
Ed eccoci al 1991.“Capire e descrivere la complessità della
Storia, tenendo presente i conflitti sociali e la dimensione
ideale, politica, economica, religiosa che assumono; che il
mutevole aspetto e i dinamici rapporti di e tra questi fattori
sono il risultato di spinte eterogenee e spesso tra loro contraddittorie e, per alcuni periodi, difficili da decifrare, non
solo per le differenze di spazio, e a volte anche di tempo, tra
fenomeni apparentemente analoghi, ma spesso anche per
l’instabilità dei gruppi dirigenti e la lunga durata dei processi
di transizione incomprensibili senza la ricostruzione dell’azione dei gruppi dirigenti e dell’insieme del corpo sociale, gli
uni e l’altro, a volte, condizionati dall’emergere di figure dominanti: questo – scriveva, ancora una volta su «il piccolissimo»198 lo storico calabrese Saverio Di Bella, dell’Università di
198 S. Di Bella, “La linearità chiara ed esemplare dell’opera storiografica di
Villari”, in «il piccolissimo» A. VII, n. 37 del 25 ottobre 1991, pag. 4.
166
Messina – mi sembra il senso profondo dell’opera storiografica di Rosario Villari”.
Ed era, forse, quanto bastava a spiegare il perché della
consegna del Cariglio 1991 (ottava edizione) ad un figlio illustre di Bagnara Calabra, il Villari appunto, docente a “La
Sapienza” di Roma, il quale “appare di una linearità esemplare, facendo cogliere con chiarezza il legame vitale e
profondo, che unisce l’indagine, ormai classica sul Mezzogiorno e la Questione meridionale (“Mezzogiorno e contadini nell’età moderna”, “Il Sud nella Storia d’Italia”), alle
appassionate riflessioni sulla rivoluzione e la coscienza rivoluzionaria in epoca moderna (“Rivolte e coscienza rivoluzionaria nel secolo XVIII”), al banditismo sociale, al
riformismo illuministico (“Ribelli e riformatori”), alla ricostruzione esemplare di rivolte che hanno segnato, per il solo fatto di esistere storicamente, la vitalità profonda di una
società che non voleva subire una temuta emarginazione
dall’Europa borghese che si affermava decapitando sovrani
e annientando feudalità proterve”.
La bontà della scelta del premiando venne sottolineata non
solo dalla marea di autorità, professionisti giovani e non più
troppo giovani che sui testi di Villari si erano formati, ma anche
dalle note che tanti ex liceali, sul loro “Maestro” hanno approntato per «il piccolissimo». Tra gli altri, il giovane, bravissimo
giornalista catanzarese, Alessandro De Virgilio199. “Se è vero
che la storia è maestra di vita – scriveva – è altrettanto certo che
è difficile essere buoni maestri di storia. Raccontare i fatti tenendo a memoria tutte le circostanze, le idee e i comportamenti che
sono alla base del progresso sociale è impresa nella quale pochi
riescono a cimentarsi senza lasciarsi cogliere dalla passione delle
proprie convinzioni. Credo che, nell’opera di Villari, questa difficoltà sia stata rimossa. Il risultato non è di poco conto, soprattutto pensando alle finalità educative che un testo scolastico si
prefigge… Sfogliando i libri del liceo – l’occasione, lo confesso,
me l’ha offerta il Cariglio – ho pensato a quanto complessa sia
199 A. De Virgilio, “Dai ricordi alla storia”, a pag. 5 dello stesso numero del
giornale di cui alla precedente nota.
167
stata l’avventura del genere umano. Ogni pagina del Villari è un
segno del tempo che è trascorso…”.
La Storia, però, è fatta non solo dall’uomo che pensa, sì
anche da quello che agisce, che è impegnato a cercare le strade capaci di portare al miglioramento delle condizioni di vita
dell’umanità. Sicché, si è presto configurato quasi come un
atto dovuto la scelta – per la nona (ed ultima, purtroppo) edizione del Cariglio – del futuro vice segretario dell’ONU, Pino
Arlacchi. Anche lui (manco a dirlo!) calabrese, di Gioia Tauro, che, laureato in Sociologia nella mitica Università di Trento, ha insegnato “Analisi delle classi e dei gruppi sociali”, all’Università della Calabria, prima, e Sociologia Applicata all’Università di Firenze, dopo, per divenire, più tardi, anche
Visiting Professor alla Columbia University di New York.
La figura, l’opera, dalla bibliografia ricca ed interessante
e dall’attività didattico-scientifica di primissimo piano (peraltro attestata da una nutrita serie di Premi e riconoscimenti, anche se è stato lui stesso a sottolineare che lo ha molto
commosso quello assegnatogli a Soveria, nella sua terra
cioè), è stata illustrata dal già Ministro dell’Interno, prof.
Vincenzo Scotti, dal giornalista Orazio Barresi e dall’allora
Vescovo di Locri-Gerace nel mirino della mafia, ed attuale
Arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, mons. Antonio Ciliberti, che hanno dovuto mettere a frutto tutta la
loro abilità per sintetizzare l’opera immensa del sociologo e
mafiologo il quale, dopo essere stato consulente della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, ha pure
ideato ed elaborato – per conto del Ministero dell’Interno –
il progetto esecutivo della Direzione Investigativa Antimafia, la nuova polizia per il contrasto della grande criminalità,
chiamata la “FBI italiana”.
Si direbbe che, con Arlacchi, si è chiuso in bellezza. Invece, no. È stato proprio un vero peccato – come va dicendo, dall’alto della sua intima fiducia in un prossimo ripristino della… tradizione di un Premio serio, obiettivo e costruttivo, un politico autentico, della vecchia guardia, come
il noto ex sindacalista catanzarese Domenico Menniti – de-
168
cretare, qualunque sia stata la ragione del “passo”, la fine
del Cariglio.
C’è da condividerlo. Con la mente e con il cuore.
Poesia e Pitra, tirando le somme su quel che era stata l’iniziativa pluriennale del “Cariglio”, si dicevano dell’avviso che,
a parte ogni cosa, il Premio, quanto meno a livello dei designatori, dovrebbe restare sempre un’ottima occasione per
spremersi le meningi ed individuare i grandi calabresi che ne
siano degni. Già. Non è decisiva la circostanza di premiare o
non premiare questo o quello, ammesso che, come nei voti di
Menniti, e non solo, l’iniziativa venga ripresa. È innegabile,
però, che l’opera di cernita ha la sua importanza notevole per
ricordare, in qualche modo, chi, nella vita, ha saputo dare
tanto da non poter essere dimenticato.
Quando una Giuria si mette a fare i dovuti scandagli per
operare una designazione importante, il novero dei “concorrenti” (che brutta parola!) deve essere ampio, deve cioè
contenere elementi di caratura diversa. È dal raffronto tra
tanti – comunque dotati di una certa valenza nel campo in
cui, ciascuno di loro, ha operato – che, di solito, emerge il
più adatto ad un Premio che, già in passato, ha positivamente impressionato chi se ne intende.
Quanto giova la memoria ad un Paese intero, ad una piccola comunità di provincia! Se non altro ne nobilita la storiografia, oltre che la storia, specie se, allo stato, può vantarne ben
poca! Non è vanagloria né opera da sottovalutare, quella di effettuare una ricerca, possibilmente completa (ché la compiutezza non sempre è possibile!) in questa direzione. Nel caso
contrario, forse, la stragrande maggioranza dei soveritani non
avrebbe mai saputo delle belle affermazioni letterarie ottenute
dalla concittadina, da intellettuale emigrata che non si è mai
sognata di recidere il cordone ombelicale che continua a legarla a Soveria. Si vuol dire di Anna Maria Fabiano, la figlia del
popolarissimo, compianto e mai dimenticato Preside Pietro
Fabiano, che, al suo paesello, di cui è stato anche amministratore comunale dai banchi dell’opposizione, tanto ha dato anche sul piano occupazionale a giovani professionisti e non.
169
La Fabiano, che è nata a Soveria, ha trascorso la sua adolescenza nel Piemonte, dove il genitore, un vero pioniere
dell’insegnamento agrario moderno, ha guidato, secondo
criteri didattico-pedagogici di primissimo piano, l’Istituto
professionale “Umbertini” di Caluso (Torino). Completati
gli studi, insegnerà prima come maestra elementare e, poi,
come docente di lettere nelle superiori, ma il suo centro di
interesse e di devozione resterà sempre la campagna, soprattutto quando si metterà a scrivere poesie, racconti, diari, recensioni che giornali come «Il pungolo verde», «Battaglia letteraria» – senza contare la rivista «Scuola e Campi»
diretta dal padre – non disdegnano affatto di pubblicare,
anzi…
Una robusta sintesi della sua tesi su “L’esperienza pedagogica di Giovanni Castorp nella Montagna incantata di Thomas Mann”, il cui relatore Fabrizio Ravaglioli considera la
laureanda ricca di “talento letterario”, viene pubblicata dalla
Casa editrice Armando Armando, di Roma, che è specializzata proprio nella saggistica delle scienze umane e dell’educazione. Non è davvero poco! E, peraltro, la montagna del
Mann non è per nulla diversa da quella sulle cui pendici si distende con eleganza, ed è in continua espansione, la sua non
dimenticata Soveria!
Le soddisfazioni maggiori, però, le ha ricavate dal successo del suo primo, gustoso romanzo – Il colore del mare, pubblicato dall’editore calabrese Gangemi operante a Roma – in
cui si rivela, per intero, la sua personalità fondata su “l’amore
verso situazioni mentali diverse e varie: l’agricoltura, la psicologia, la musica, il teatro, la cucina e… i cani, che ama raccogliere per strada, curare e forse umanizzare”.
Nel libro della Fabiano, che porta il nome della buona,
esemplare nonna paterna, “la femminilità si scontra con se
stessa. Il titolo, nel suo apparente senso di quiete, nasconde lo
scontro dell’esistere simboleggiato da un colore inesistente,
com’è quello del mare, cangiante come la nostra quotidianità.
Una scrittura che ha assorbito le grandi lezioni della narrativa
internazionale riuscendo a narrare, in unità, rivolte e progetti
della società di oggi”.
170
E che dire, poi, di Amerigo Sirianni? Il mondo, in cui opera questo “soveritano” (ha dichiarato lui stesso di esserlo, in
una intervista in cui lo si indicava come originario del Crotonese), è completamente diverso, ma non per questo meno
espressivo della cultura dei nostri giorni. È, con i suoi mandolino, mandola, chitarra acustica e chitarra classica, il musicista forte della band “Il parto delle nuvole passanti” che l’artista bolognese Claudio Lolli, ad oltre un quarto di secolo dal
successo del suo disco “Ho visto anche degli zingari felici”,
ha realizzato con soli calabresi (in quegli anni lontani guidava
il “Collettivo autonomo dei musicisti di Bologna”), facendone (con Salvatore Di Siena alle percussioni e Peppe Voltarelli
alla fisarmonica, Mimmo Mellace alla batteria e Raoul Colosimo al sax) uno dei più interessanti ed apprezzati complessi
del panorama etno-rock italiano.
Sirianni (il ceppo di questo Sirianni non è sicuramente di
Soveria, ma, comunque, il bel centro pre-silano è sicuramente
il paese di elezione, non solo perché il fratello ed il padre, uno
degli ultimi più accreditati liutai calabresi, continuano a vivere ed operare a Soveria, ma anche per il fatto che egli vi rimase per tanti anni, dopo aver sposato la soveritanissima Angela
Cardamone, primogenita di mastru ‘Ntoni ‘u sartu d’ ’o munticìellu), allo stato attuale, è il fulcro de “il legno, la pelle e le
corde”, un originale concerto de “Il parto delle nuvole passanti”, incentrato su degli strumenti acustici “che non sono
solo chitarre, ma anche contrabbasso e violencello, mandòla
e mandolino, ai quali si legano fisarmonica e tamburi” e che è
stato al centro di spettacoli significativi come quello del 1°
maggio a Roma, o quello della pace a Bagdad, articolatisi anche “da momenti cabarettistici, in cui si fondono le esperienze teatrali (Roccu ‘u stortu) e cinematografiche (Doichlanda)
maturate negli ultimi anni, e da letture di poesie e di prosa”.
Amerigo Sirianni, così, ha avuto migliore fortuna – ma,
forse, anche più audacia, lontano dalla cittadina natia – di alcuni altri compaesani, pure tanto bravi, come Carmelo Cardamone, Renato Falvo, Alfredo Spina, Pino Cardamone (figlio di Tumasinu ‘e Carruzzu) che vengono ancora ricordati
per i loro virtuosismi alla fisarmonica.
171
Un impulso piuttosto massiccio alla tensione culturale
della cittadina, rimasta sempre fulcro, cuore palpitante della
ridente conca del Reventino, è stato dato, a partire dal 1988,
dalle annuali manifestazioni agostane di “Essere a Soveria”,
che, tra l’altro, hanno dato luogo a diverse iniziative pittoriche con la realizzazione di “murales” collocati nella “galleria
del corso” e che hanno arricchito il patrimonio dei beni culturali cittadini (con la sala della Giunta comunale ampiamente affrescata da Dolores Puthad, già scenografa della “Scala”
di Milano e con “pezzi” di Mimmo Rotella, noto al mondo
per la sua tecnica del “Collage”, e del grande Giovanni Marziano) e che pur non hanno mancato – come spesso avviene
negli ambienti ristretti e provinciali di un paese – di detrattori
e diffidenti. Ora, a voler essere sereni, distaccati e vergini da
visioni visceralmente partigiane, tutto può essere detto su
questi eventi, soprattutto in relazione al privilegio che si è potuto riservare ad uno solo dei due grossi schieramenti politici
in cui si articola l’odierna politica italiana, meno che non abbiano, almeno in qualche modo, inciso sulla crescita civile e
culturale della comunità all’interno della quale si vanno realizzando.
E, del resto, di Mario Caligiuri, sindaco ormai da quattro
lustri, si possono non condividere, o anche legittimamente
criticare, le scelte politiche ma non può esser detto che non
abbia consapevolezza – lui, che ha anche esperienza dell’insegnamento universitario al Dams dell’Unical – di cosa sia la
cultura senza etichette, senza se e senza ma, e del ruolo che
può avere nell’ambito di una comunità, soprattutto se, e
quando, favorisce quel confronto leale e chiaro, tra forze differenti per origine e formazione, che porti alla sintesi hegeliana, intesa come fusione e superamento di tesi e antitesi o, che è
lo stesso, di quel che dice l’uno e del suo opposto, voluto dall’altro.
I buoni propositi, peraltro, il sindaco Caligiuri, li aveva
ben espressi fin dall’inizio, asserendo solennemente: “Con
questa prima edizione di Essere a Soveria, si è cercato di coniugare cultura e divertimento, musica e spettacolo, cinema e
turismo, con la speranza di rendere più piacevole la perma-
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nenza dei cittadini nel nostro paese e anche di incentivare le
presenze turistiche… Insomma Essere a Soveria vuole essere
un’occasione in più per valorizzare la nostra cittadina e per
farla conoscere a tutta la Calabria”.
Il discorso del sindaco non fa una grinza ed è rivolto, praticamente, a tutta la Calabria, che non è esclusiva di questa o
quella parte politica. Ergo…
Nell’ambito del tutto, poi, sono venute fuori, di anno in
anno, delle vere e proprie “provocazioni”, che alcuni possono pure aver considerato stravaganze (la proclamazione della
Repubblica della Magna Graecia, con Sgarbi, in risposta alla
Repubblica della Padania con Bossi, l’inesistenza del Comune telefonicamente annunziata da Chiambretti, la vicenda di
Chirac sindaco di Parigi, l’offerta di ospitalità per l’improbabile esilio di Saddam Hussein, l’istituzione dell’Assessorato
comunale al Dissolvimento dell’Ovvio, e… via di questo passo), ma che hanno, obiettivamente, sortito positivi effetti, non
sia per altro che per la risonanza da esse prodotta anche presso la grande stampa e le Agenzie d’informazione, persino all’estero.
Vedeste le reazioni di soddisfazione e di gioia di decine e
decine di soveritani lontani dalla patria che, apprese tali incredibili notizie sui giornali dei loro luoghi di elezione, non si
sono privati del piacere e della voglia di ringraziare – con posta elettronica, ma anche ordinaria – l’Amministrazione comunale che è riuscita a far parlare, comunque e sempre, della
non dimenticata Soveria! E quanta gente ha voluto vedere, da
allora in poi, da vicino il simpatico centro pre-silano, capace
di sì tante iniziative fuori dal comune!
Tutto, quindi, deve essere andato per il meglio, se Essere a
Soveria ha superato le sue prime sedici edizioni – dal 1988 al
2003 – ed, ora, anzi, dispone finanche di un proprio “Archivio storico”, consacrato su di un cd-rom sotto l’eloquente titolo “Granaio di idee” che, realizzato dalla Civica amministrazione da un’idea del sindaco stesso, è stato felicemente
portato a termine da Raffaele Cardamone (per il progetto di
navigazione e organizzazione del contenuto), Guglielmo Sirianni (per il progetto grafico e la realizzazione dell’interfac-
173
cia grafica), Francesco Facciolo (per la programmazione javascript e html, montaggio audio-video e impaginazione), Emanuela Nero (per la digitalizzazione e l’implementazione) e
Annamaria Cardamone (per la ricerca e la selezione dei materiali).
Il provvido dischetto consta di sedici settori (uno, appunto, per ogni edizione annuale), ciascuno dei quali si articola in
quattro parti: la presentazione (è, in genere, fatta dal sindaco
che si sofferma sulle novità di volta in volta introdotte, rispetto alle edizioni precedenti), tutto il programma (il dettaglio
delle manifestazioni giornaliere che, tante volte, impegnano
pure alcuni giorni del mese di settembre), eventi principali (si
tratta della segnalazione delle iniziative di maggior spessore
culturale, illustrate attraverso apposite sotto-finestre, fin nelle particolarità più significative) e rassegna stampa (accanto
ai titoli degli articoli apparsi nelle varie testate, ultimamente
anche a diffusione nazionale, tante volte è possibile anche la
lettura delle note e dei servizi, nella loro interezza).
Proprio un buon lavoro, dunque, che esime, in pratica, anche dall’incombenza di scendere nei particolari, pena una ripetitività che potrebbe anche ingenerare disappunto e noia.
Giova, ad ogni buon conto, il richiamo di almeno qualcuna delle manifestazioni più popolari o apprezzate anche perché novità autentiche per la comunità.
Evento di particolare interesse è risultata la riscoperta degli “ex libris”, di cui, peraltro, è esperto a livello planetario un
soveritano come Mario De Filippis (sì, si capisce subito, che è
il primo figlio maschio del povero ‘Ggenu, il già tabaccaio di
piazza Bonini), che pur vivendo da tanti anni ad Arezzo, ove
conduce la notissima “Buca di San Francesco”, un ristorante
dalla clientela ampia e varia, che lascia, di frequente, trovare
nei suoi molteplici, gustosi menù, anche tipiche ricette e leccornie nostrane, non ha mai spezzato il filo rosso che lo lega a
Soveria, ove ha pure dato vita, per qualche tempo, ad un Istituto internazionale degli ex libris e della Piccola Grafica, oltre
che ad una Mostra di alto profilo.
Il De Filippis, intenditore raffinato di questi meravigliosi
contrassegni (sono oltre diecimila quelli che si compongono
174
anche del suo nome), ne possiede la collezione più grande del
mondo, con oltre centomila esemplari, datati dal XVI sec. ai
giorni nostri. “Gli ex libris – scrisse, in relazione alla Mostra,
Giuseppe Guzzo200 – originariamente erano un contrassegno,
un simbolo grafico, un piccolo disegno, una miniatura che si
applicava al libro per denotarne la proprietà, frutto ovviamente di riflessione sul carattere, sulla professione, sulle passioni del possessore del libro. Con l’avvento della stampa e
con il proliferare di metodologie sempre più perfezionate, ma
soprattutto con l’uso stesso che si fa ormai della carta stampata come di uno strumento da… usa e getta, gli ex libris hanno
finito con il perdere tutto il loro valore strumentale, ma non
anche quello culturale ed artistico.
Non deve, perciò, destare stupore che ci siano persino
persone come Mario De Filippis, un calabrese di quelli che
fanno onore alla terra di origine, che impegna la propria intelligenza, la propria creatività e la propria passione collezionistica nella raccolta di ex libris al punto di divenire un esperto
mondiale, uno tra i maggiori collezionisti.
Un modo, tutto sommato, di onorare la propria terra con
un’attività ed un’impresa che ha del certosino e in cui gli ex
libris finiscono con l’essere visti come un’occasione di circolazione di idee, come un messaggio culturale in cui l’arte, il
folklore, la mitologia, il paesaggio, la storia, la gastronomia,
per citare solo talune tematiche della raccolta, finiscono con
il veicolare l’originalità, la creatività di migliaia di artisti…”.
Un posto d’onore va riservato anche alla conferenza di un
altro soveritano illustre, il linguista prof. Ugo Cardinale (figlio del già richiamato insegnante Italo) coautore, con il prof.
Manlio Cortellazzo, di un “Dizionario di parole nuove”201,
prova di un’analisi attenta e capillare della nostra Lingua Ma200 G. Guzzo, “Un messaggio dagli ex libris”, in «il piccolissimo» A. IV, n.
29 dell’8-15 settembre 1988, pag. 6.
201 Edito dalla Loescher (Firenze, 1987). Altre sue opere sono: “La lettura” (Zanichelli, Bologna 1981) e “Scritti su Mario Doria” (Forum, Udine
1999). Ha, inoltre, curato gli Atti di un Convegno su G. Flechìa (Dell’Orso,
Alessandria 1994) ed ha pubblicato molti saggi sulla rivista milanese «Problemi del Romanticismo».
175
dre in evoluzione crescente. Preside ordinario del Liceo-ginnasio “C. Botta” di Ivrea, ha retto la cattedra di Linguistica
Generale all’Università di Trieste, ove poi ha insegnato Lingua italiana, orientando le sue ricerche sulla sinonimìa e sul
linguaggio giornalistico.
Cardinale, dinanzi ad un uditorio molto incuriosito ed attento, ha, tra l’altro, sostenuto che “la lingua italiana, nonostante sia da alcuni anni considerata in pericolo per tutta una
schiera di forestierismi dilaganti nel linguaggio comune, non
corre alcun rischio, perché essa si difende da sola” e, partendo
dalla concezione saussuriana della lingua intesa come un sistema di segni di natura omogenea che si distingue dal linguaggio
multiforme ed eteroclita, ha dimostrato, con una serie di esemplificazioni, che “la lingua è un insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per comunicare, alla base delle
quali vi è una struttura fortemente conservatrice”202.
Certo, l’argomento era da…. specialisti, e, quindi, di non
agevole assorbimento, ma, tutto sommato, ha soddisfatto di
molto i partecipanti, a riprova che la Cultura, in fondo, riesce
a sedurre sol che se ne abbia voglia.
L’edizione 1992 lasciò spazio ad un dibattito su “Economia e cultura per costruire una città” con espresso richiamo all’esperienza locale della Casa editrice. Con il sindaco
Caligiuri, c’erano a discutere il cav. Rosario Rubbettino, il
suo direttore editoriale Giacinto Marra, il direttore della
Biblioteca nazionale di Cosenza, Mauro Giancaspro, ed il
sociologo Paolo Jedlowsky, docente dell’Università della
Calabria. Qua il pubblico drizzò, molto di più le orecchie,
per motivi ben comprensibili, visto che si trattava di un’azienda del luogo, ampiamente impegnata a fare ed a promuovere cultura.
Giancaspro ha svolto il tema sviluppando il rapporto esistente tra libro e città ed ha affermato che la crescita culturale è
direttamente collegata con lo sviluppo economico e civile, attraverso l’esistenza di strumenti concreti quali le case editrici e
202 Cfr. «Il Giornale di Calabria» del 3 settembre 1989.
176
le biblioteche ed ha concluso sviluppando un puntuale panorama storico sul ruolo del libro per la diffusione delle idee.
Dal canto suo, Jedlowsky ha tratteggiato alcuni concetti
chiave, quali quelli di città, economia e cultura, incentrando
la sua attenzione su quello di “bene comune”. Ha, poi, evidenziato come al Sud ancora non si riscontri, in modo accentuato, né la percezione né tanto meno l’esplicazione di questo
concetto del bene comune che anzi viene inteso come “cosa
di nessuno”, alla quale non assegnare alcun valore. L’illustre
accademico ha concluso sostenendo che anche gli operatori
di cultura, ed in questo caso una Casa editrice, rappresentano, al contrario, un “bene comune” che tutta la collettività
deve accrescere e potenziare.
Il dibattito ha raggiunto il suo acme con Rosario Rubbettino, il quale ha portato, con il trasporto di sempre, la sua testimonianza di editore calabrese che, seppur tra innumerevoli
difficoltà, è riuscito a ritagliarsi uno spazio autonomo ed originale all’interno del panorama nazionale. “La Rubbettino –
ha molto orgogliosamente affermato l’Editore – ha sempre
fatto delle scelte controcorrente, cercando di privilegiare la
rinascita del Mezzogiorno alle comode fughe nel resto d’Italia. Ed aprendo una succursale a Messina dagli inizi dell’anno
in corso, si è testimoniato che, piuttosto che guardare sempre
al Nord, occorre invece accentuare la propria attenzione ancora verso il Sud”. Da Soveria, dunque, si lanciava l’appello
per un meridionalismo innovato e concreto.
1993. Attuale ed importante l’istituzione del Premio annuale “Calabriambiente”, inteso quale momento di riflessione su come in Calabria vengono affrontati i problemi del rispetto della natura e del risanamento ecologico. L’esordio ha
visto la premiazione di Fulco Pratesi, da intendere come un
primo riconoscimento all’attenzione prestata a questa regione dal WWF-Fondo mondiale per la Natura, di cui lo scrittore naturalista è il presidente nazionale.
Sorpresa locale, nell’edizione 1995. Alla Galleria “Enigma”, che già, da alcuni anni, propone interessanti rassegne
177
artistiche, è in programma “Fiori senza tempo”. Si pensa subito ad una mostra di pittura, ma è soltanto un qualcosa che
le somiglia; alla lontana, però.
Gilda Colosimo, nata lungo la costa atlantica statunitense
e con vene ed arterie imbottite di sangue soveritano (il padre,
emigrato e rimasto oltreoceano per… una vita, non ha saputo
resistere fino alla vecchiaia, al fascino del suo paese natio e, rifatti armi e bagagli, s’è presa la famiglia e se ne è tornato a Pirillo, in attesa che la morte lo sorprenda, il più tardi possibile,
tra le zolle e le case della sua terra) è venuta, adolescente, da
queste parti. Qui ha studiato (va detto che chi scrive l’ha avuta brava allieva al Liceo scientifico “Luigi Costanzo” di Decollatura?), si è formata ed ha mandato la sua fantasia creatrice al… galoppo, ad esprimersi spesso in versi e ad escogitare
il suo particolare “collage” che, in fondo, può ben stare alla
base di un’arte dell’abbandono.
Il “quadro”, insomma, Gilda lo monta, in una gustosa,
pregiata combination di fiori secchi, foglie appassite, bigiotteria di risulta e tanti altri “materiali poveri”, abbandonati, a
momenti anche insignificanti, che danno luogo ad una serie
di nature morte dalla policromia originaria ed originale, in un
accostamento che ha del miracolistico.
C’è tanto buon gusto, oltre che un innegabile estro artistico, in quelle creazioni cui sono state, per tempo, attribuiti anche dei bei titoli che incuriosiscono, e non poco. Eccone qualcuno: “magia d’estate”, “bouquet”, “il risveglio”,
“piccoli segreti”, “profumo di vita”, “riflessi di luce”,
“sinfonia”, “cartolina”… La cosa piace ed il riscontro c’è.
Opere e formati devono essere indovinati se è vero – ed è
vero – che la gente fa la calca ad osservare e anche ad acquistare.
Val la pena insistere, ma Gilda Colosimo non ama ripetersi. Per la prossima “Giornata della donna” allestirà tante altre
belle, complesse creazioni, ma, questa volta, si mette a ridurre
notevolmente la mole dimensionale dei suoi “quadri”. La
nuova scelta non incontra molti consensi. Le reazioni positive
non mancano, ma sono, di certo, inferiori a quelle registrate
alla Rassegna dell’esordio. Ma che importa? Questa “arte del-
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l’abbandono” può essere coltivata e, da buona soveritana,
Gilda insisterà.
Ed eccoci al 1997. Del tutto insperata, forse, la Mostra
di vignette e creazioni che sublimano i valori dell’intelligenza e della cultura, intitolata “Sostiene Cipputi” (col
probabile soggetto sottinteso “Soveria Mannelli”), inaugurata personalmente da Altan – il quale ha pure reso omaggio, con una vignetta sarcasticamente satirica, al decennale
di Essere a Soveria – alla presenza del vice sindaco ed assessore comunale alla cultura, Leonardo Sirianni, giustamente
fiero dell’iniziativa.
Un discorso a parte, però, merita la “trovata” del conferimento, da parte del sindaco, dell’incarico di Assessore alla
Provocazione culturale ed al Dissolvimento dell’ovvio (con
tanto di delega ufficiale, peraltro resa possibile dalle dimissioni presentate da un Assessore in carica) al noto giornalista,
storico e scrittore scomodo Giordano Bruno Guerri.
Nell’accettare la nomina, Guerri affermò solennemente:
“a chiunque mi avesse proposto di diventare assessore alla
Cultura, avrei risposto con un cachinno. La cultura come la
intende l’ufficialità italiana è solo un vecchio modello culturale, buono per assopire le nuove generazioni nelle scuole. La
cultura creatrice irrita di più: da qui l’inedito assessorato alla
Provocazione culturale”.
Ed ha aggiunto che “dissolvere l’ovvio è più difficile, significa rovesciare le certezze dell’epoca e della società in cui
si vive. Era ovvio che la Terra fosse piatta, prima di Copernico
e di Colombo. Ma proverò a insinuare qualche benefico dubbio nell’ovvio nazionale, identico a Soveria Mannelli, Roma,
Milano. Non mancheranno tentativi di dissolvimento dell’ovvio anche nelle più minute vicende di Soveria – ha aggiunto
l’autore del best-seller Povera santa, povero assassino, con riferimento a Santa Maria Goretti, la “martire” delle paludi
Pontine – ma l’esperimento dovrà esplorare i massimi sistemi: davvero bisogna rifare la seconda parte della Costituzione
e non la prima? L’Europa è davvero una buona cosa? Fanno
più danno milioni di tifosi buoni o qualche migliaia di tifosi
179
teppisti? Vogliamo chiederci perché siamo l’unico popolo a
gettare i neonati nei cassonetti della spazzatura? La politica e
la democrazia, come le conosciamo, sono valori irrinunciabili? E… via con domande affini o similari!”
Seguiranno i provvedimenti assessorili: un aumento iperbolico (per celia, ovviamente, visto che gli amministratori hanno
dovuto rinunziare ai loro emolumenti per poter finanziare questo mese di cultura e spettacolo!) dei compensi al sindaco ed
agli amministratori comunali (“amministrare la cosa pubblica è
un lavoro difficile, prezioso, da compensare bene”), uno Smoc
(Soveria Mannelli orario continuato) nel quadro di Calabria by
night come New York (“così liberiamo la luna. A nome della vita
e dell’insonne Amministrazione, vi incalzo a stare svegli il più
possibile” per “un’alba con cornetti caldi per tutti, come la notte vuole”, conclude l’Assessore… provocatore, con una chiara
allusione non del tutto casta). E il monumento al cassonetto della spazzatura, da elevare nell’aiola dinanzi al cinema-teatro “Nido”? E la proposta per “far sorridere i cani”?
Il 1998 è anche l’anno dell’istituzione, sulla scia dell’analoga esperienza francese delle Universites d’Etè, dell’Università
d’estate, alla cui guida viene chiamato il Preside della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Unical, prof. Franco Crispini. Le lezioni, frequentate da centinaia di iscritti (presto dovrà essere
introdotto il “numero chiuso”), sono state sempre tenute da
intellettuali di primo piano come, solo per fare qualche esempio, Antonio Baldassare, Presidente emerito della Corte costituzionale, e Franco Frattini, futuro Ministro degli Esteri.
Poesia e Pitra erano state piuttosto assidue nell’usufruire
delle iniziative culturali che si succedevano, a ritmo incalzante, durante la stagione estiva di ogni anno, ma avevano attualizzato il loro interesse per il nuovo, cercando di capire il più
possibile, il senso del processo di informatizzazione e, ancora, della cultura d’impresa e nell’impresa, così dibattuti, ormai, ad ampio respiro e su larga scala.
Già. La loro attenzione aveva cominciato a spaziare di
molto, rimpicciolendo un po’ i problemi che si ponevano in
180
piena adolescenza. Ed era naturale. Se gli anni sono passati,
devono essere passati anche per loro due…
Quando, però, si ha voglia di eterno, la personalità di un
essere umano, fondata sul temperamento più che sul carattere, resta sempre quella. Non c’è una Poesia antica, giovane,
futuribile… C’è solo Poesia e… basta! Che sono questi aggettivi, a qualificare un qualcosa che ha del divino, dell’assoluto
e, quindi, anche dell’ineffabile?
Certo, sarebbe strano se sfuggisse quanto di nuovo va
scorrendo intorno all’uomo, ma, questi, diventa un altro, o rimane sempre lo stesso? Rispondere ad interrogativi di questo
genere non è, certo, cosa semplice. Innegabile, però, dovrebbe essere che Poesia resta sempre Poesia e Sermòne sempre
Sermòne. Il pensiero e la vita li fa crescere, affinare ma, come
persona, con un cuore ed un’anima, restano sempre gli stessi.
Ben vengano, allora, anche l’informatizzazione e le culture
d’avanguardia!
Si deve, per esempio, all’edizione 2000 di Essere a Soveria
il primo contatto, la volgarizzazione in loco di “Soveria.it: un
laboratorio telematico europeo”, un buon lavoro editoriale di
Mario Caligiuri che, pubblicato dalla Rubbettino, è corredato della Prefazione di un esperto di grido come Paolo Mancini, e di un “Rapporto di sintesi dell’indagine tecnologica” curato da Raffaele Cardamone.
Si tratta, in pratica, dell’illustrazione ragionata e documentata del progetto redatto dal Comune per “favorire la partecipazione democratica, le occasioni di lavoro, lo sviluppo delle imprese ed a migliorare il funzionamento della pubblica amministrazione locale… attraverso l’uso consapevole di Internet e lo
sviluppo della capacità critica, per evitare il rischio prevedibile
dell’incomunicabilità che paradossalmente deriva dall’eccesso
di informazione e dalla personalizzazione dei media…”203.
L’iniziativa è finalizzata a “promuovere l’acquisizione di
una cultura moderna, premessa indispensabile per la scelta e
l’utilizzo corretti delle tecnologie, con la consapevolezza che
Internet è uno strumento per migliorare i servizi pubblici e
203 M. Caligiuri, Soveria.it, Rubbettino 2001, pag. 15.
181
una possibilità straordinaria per porre Soveria Mannelli un
anno avanti rispetto alla Calabria e si sa che un anno, tecnologicamente parlando, è davvero un’eternità. Le ricadute sperate sulla comunità possono essere identificabili sostanzialmente nell’abbattimento dell’isolamento geografico attraverso la
circolazione delle informazioni, essendo la Calabria una regione a rischio per disoccupazione, tassi di criminalità e ritardo nell’innovazione tecnologica. Ovviamente, si procederà in
modo integrato per migliorare nell’ambito locale le infrastrutture materiali, unitamente a quelle immateriali…”204.
Ricca di onestà mentale la parte conclusiva dell’esposizione. “Un elemento sicuramente prevedibile è che, se i risultati, com’è certamente possibile, si verificheranno in modo esponenziale, il caso di Soveria Mannelli potrà rappresentare un polo di attrazione per sperimentazioni ed iniziative, oltre che per misurazioni sugli effetti prodotti da nuovi
media anche in relazione ai cambiamenti sociali. Ovviamente, occorre precisare che gli obiettivi del progetto potranno
essere raggiunti soltanto nella misura in cui si potrà realizzare in tempi brevi la totale informatizzazione, con l’installazione in ogni famiglia di un computer collegato ad Internet.
Qualora questo non fosse possibile, l’iniziativa di Soveria
Mannelli continuerà ad essere sempre significativa, ma non
assumerà quel carattere sperimentale che si prefigge. Infine
va precisato che se la fase di piena informatizzazione si verificherà nei tempi previsti, sono previste altre indagini periodiche, quantitative e qualitative, (anche dal punto di vista
sociale e dei comportamenti individuali) per monitorare costantemente l’esperimento, al fine di individuarne non solo
le ricadute economiche, sociali e culturali ma anche il miglioramento dei servizi dell’organizzazione pubblica oltre
che la partecipazione democratica”205.
Le cose, in prosieguo, dovrebbero essere cambiate, e di
molto, ma già dall’inizio non s’erano taciute certe difficoltà
obiettive e certi possibili ostacoli di natura diversa.
204 Ibidem, pag. 16.
205 Ibidem, pag. 36.
182
Resta, comunque, sempre ben verificata l’importanza della Cultura come principio motore di ogni iniziativa da cui ci si
aspetti qualcosa di concreto. Com’è accaduto, di già, per il
Lanificio Leo, altra bella realtà locale.
Si sta insistendo, da pochi anni in qua, mentre c’è una sorta di gara – forse un po’ acritica o, per converso, sorretta da
un più o meno fondato ottimismo – a creare od operare nel
quadro della new economy e della globalizzazione, mediante e
per una cultura diversa, che sia anche una risorsa produttiva
(non solo spirituale), capace di incidere in modo determinante, decisivo, sull’economia e sul bisogno di benessere anche
di una comunità di collina, un po’ condizionata, come tale,
dalla geografia oltre che dalla storia. Si tratta della cultura dell’impresa, da intendere, però, in primo luogo, come cultura
nell’impresa.
E l’intraprendente centro pre-silano di Soveria Mannelli,
già tra i guiness per essere la comunità più informatizzata d’Italia, con una forte dose di energia e di fiducia, dimostrando
di crederci fino in fondo e senza riserve, non ha mancato,
neppure questa volta, di cominciare a rispondere all’appello,
che in molti, peraltro, considerano essenziale, insostituibile
se non proprio irreversibile.
Lo si deve alla vecchia, longeva, romantica màchina d’ ’a
lana di Via Cava, una creatura dei Leo che vi si sono insediati
nel 1935, dopo le promettenti esperienze nelle adiacenze dell’Abbazia di Corazzo, in agro di Carlopoli, prima, e su di una
sponda del fiume Corace, in territorio di Bianchi, dopo. Sempre, perciò, nell’ambito di un comprensorio che – grazie appunto al funzionalissimo opificio – non tarderà a divenire il
punto di riferimento esclusivo, e quindi obbligato, nel campo
tessile, e segnatamente in quello laniero, per il quale si è attrezzato ad eseguire cardatura, filatura, tessitura, follatura,
tintoria e decorazione dei prodotti.
Già… decorazione… sembra un lemma fuori posto, privo
di senso, quando si tratta di tessuti e, invece, no, perché la
stampa delle pesanti coperte a ruggine, si realizza a mano (o,
secondo un linguaggio alla moda, con un processo handma-
183
de). La procedura seguita, del resto, è documentata – se non
bastassero le dimostrazioni estemporanee, fatte in loco, in
occasione di centinaia di visite guidate, siano esse turistiche
o scolastiche – da una preziosa collezione con oltre duecento calchi, risalenti alla fine dell’800, tuttora efficienti, a suo
tempo (più di un secolo fa, quindi) intagliati, artigianalmente, a mano, nel legno di pero, per qualità il più adatto alla bisogna.
Il noto opificio – già oggetto-argomento, molto apprezzato
per completezza e originalità di contenuti, della tesi di Master di
Alta Formazione dell’archeologa Ginevra Gaglianese su “Lanificio Leo: tradizione tessile, patrimonio industriale e sperimentazione culturale in Calabria”, discussa brillantemente all’Università di Roskilde (Danimarca) – che, oggi, “per logiche di mercato e di gestione, è un’azienda a conduzione familiare”, rappresenta un unicum nel suo genere.
Sembra uno spot; è, invece, una sintesi, onesta e condensata,
reale ed incontestabile, di un impianto industriale, con un parco
produttivo fatto di macchine costruite tra il 1890 ed il 1965 (cardalupo, carde, filande a fuso, ritorcitori, telai a licciate e Jacquard, garzatrici, cimatrici, calandre, coglipezze e… simili, che
pare abbiano un’anima ed un cuore), ma che funzionano, ancora, perfettamente, sotto l’occhio vigile e la mano esperta del giovanile Peppino Leo, arricchito dall’apporto teorico e dalle visioni moderne e futuribili del figlio Emilio Salvatore – l’art director
aziendale – architetto e studioso, prototipo di giovane imprenditore scaltro e lungimirante, che sa il fatto suo ed ha le idee
chiare su quel che s’ha da fare per l’impresa che è legata a tante
generazioni dei Leo, tenaci nel lavoro, corretti nel rapporto con
gli altri, fiduciosi nelle innovazioni rese necessarie da un mondo
che cambia attimo per attimo.
È una sorta di archeologia industriale che non dà – e non
può dare – il senso dello statico, tipico dell’archeologia; si tratta,
viceversa, di un genere di conservazione a lungo del vecchio che,
però, si trasforma e, giganteggiando nell’attuazione del suo “ufficio”, vive intensamente il presente in funzione di un futuro diverso, più consono ai tempi ed ai gusti, ai bisogni ed alle vocazioni dell’oggi, come anticamera del domani.
184
E Peppino Leo è ancora là, tenacemente là, a rievocare,
anche e soprattutto per compiacere a chi lo ascolta, lo apprezza, lo ammira (con la carica disinteressata di sempre), la
non sempre agevole vicenda “esistenziale” del suo opificio,
con i suoi alti ed i suoi bassi, con le conseguenze brutali delle
crisi laniere, ma anche con la Poesia rasserenante delle macchine stridule e vocianti che, ancora oggi, sono in grado di
muoversi e produrre, tessere e tinteggiare, proprio come
quando, a pieno ritmo, si sfornavano decametri e decametri
di farzàta206 e di frandìna207.
Erano almeno venti, allora, gli addetti, che divenivano almeno il doppio nel tempo della tosatura degli ovini, che imponeva
l’aumento della manovalanza con personale “stagionale”. La
giornata, al Lanificio, era piena, scandita dai frastuoni metallici
dei macchinari che attendevano anch’essi, il sibilo prolungato
ed assordante di una “sirena” ad… autorizzare l’inizio di una
pausa ristoratrice e sottolineava l’operosità di un paesello rurale, abituatosi man mano, come per incanto, anche alla nuova attività produttiva, a metà strada tra artigianato ed industria.
Altri tempi! Diversi, belli, generatori di nostalgie, forse, se
è vero – ed è vero! – che l’eco di quel fischio, acuto ed in perfetto orario, della “macchina della lana”, riverbera ancora nel
cuore e nell’anima di chi allora c’era già, o c’era ancora!
Quant’è significativo il motto “Un futuro antico”, come
input ad una “nostalgia del futuro” che, nella sfera del Lanificio, agevola un crescendo costante, fattivo, efficace, lungo
una linea che va dalla piattaforma delle origini, nata in un
passato così remoto, all’attivazione dei processi culturali, in
grado di produrre innovazione e sviluppo!
E dal Lanificio soveritano sono già partiti segnali importanti, di considerevole interesse culturale, messi in circolazione attraverso un Museo-laboratorio del Tessile, dinamico
però, in vista del quale “anche il linguaggio viene messo in di-
206 Panno in pura lana merinos, destinato alla realizzazione di coperte da
peso e dalle grandi prestazioni termiche.
207 Panno simile alla farzàta per composizione e processo produttivo ma
destinato ad essere usato solo come tessuto sartoriale.
185
scussione e depurato dei residui di una tradizione mentale
che tende a riservare al passato e all’antico un atteggiamento
devozionale e celebrativo”.
E nasce Sheep (nel 2002), una factory preposta alla ricerca
di idee nuove e innovanti, ma anche all’individuazione di opportunità per lo sviluppo non solo dell’azienda promotrice, sì
anche per il centro in cui è attiva e per il suo hinterland.
E l’insostituibilità di Sheep è spiegata con il suo essere “l’unico modo per fare cose inusuali e complesse, cose che altri
non possono fare, non vogliono fare o, semplicemente, non capiscono”. Tutto, insomma, è legato al “progetto” che – spiega,
convinto ed entusiasta, Emilio Salvatore Leo, sotto lo sguardo
compiaciuto di papà Peppino – “non ha scadenze, in quanto il
proficuo rapporto che, con enormi sacrifici, il Lanificio ha avviato con il mondo della cultura, si è rivelato un’essenziale chiave di volta per lo sviluppo aziendale e per la crescita imprenditoriale e culturale dell’ambiente in cui opera. La filosofia del
progetto è quella di chi considera la cultura come uno degli elementi di cui dispone un imprenditore, che non può essere somministrato a dosi o a scadenze. La cultura nell’ottica della filosofia del progetto, è un fatto quotidiano, l’acquisizione di una
forma mentis di cui non si può fare a meno”.
E da idea nasce idea, in una sorta di concatenazione magico-miracolistica che incanta ed entusiasma: si prenda quella
della “cultura reticolare”, che implica ed impone, intanto, la
visione di un opificio non museificato ma “in grado di produrre imprenditorialità e lavoro, crescita economica e nuove
culture, ed al quale necessita – spiega ancora Emilio Salvatore
Leo – “una visione integrata dei settori e dei linguaggi, legati
ai processi produttivi e a modelli di pensiero mutuati dagli
ambiti più vari (architettura, design, grafica, arti visive, musica, antropologia) e a temi specifici (paesaggio, archeologia industriale, museo d’impresa, globale e locale), secondo un approccio critico che intende produrre una reale riflessione sul
senso della relazione, sul confronto tra orizzonti apparentemente distanti o marginali”. Si capisce, allora, il senso dell’arrivo dell’azienda alla finale del Premio Guggenheim 2001 –
Impresa & Cultura?
186
Ma, quella perseguita con Sheep dalla prima fabbrica laniera della storia tessile calabrese, nata nel 1873, è una filosofia che rincorre obiettivi particolaristici o riguarda pure il
contesto territoriale da cui si alimenta?
Se, qualche anno fa, l’azienda soveritana ha meritato, proprio per la sezione “Valorizzazione del territorio”, il Premio
Federculture-Cultura di Gestione, è segno chiaro che essa
trasmette “valore aggiunto” all’intero circondario.
Il contesto territoriale, insomma, dopo le prime comprensibili riserve mentali e miscredenze, dopo le iniziali titubanze
ed uno spietato misoneismo – che, in genere, imperano nelle
comunità di montagna a lungo neglette – non ha potuto che
beneficiare, trarre vantaggio, dall’organizzazione, all’interno
del Lanificio, di rassegne ed iniziative culturali, articolatesi in
workshop ed incontri formali con artisti, architetti, giornalisti, studiosi, che hanno rappresentato una straordinaria opportunità di crescita culturale (da ricordare che il Progetto ha
avuto, come partners anche l’Associazione culturale “Aleph”
e la Cooperativa sociale “in Rete”).
Il termine ri-configurare è la parola d’ordine che, fin dall’avvio del progetto, ha sancito il processo innovativo escogitato
perché l’opificio, con più di un secolo abbondante di vita, si
mettesse al passo con i tempi. Ed è termine tanto forte e azzeccato da smentire il tertium non datur di aristotelica memoria,
visto che tra le prospettive della dismissione o della riconversione, si è optato, appunto, per quella della ri-configurazione,
un concetto culturale che si fonda sullo “approccio integrato
tra impresa e cultura, come idea di progresso che giustifichi e
realizzi il già richiamato principio del ‘futuro antico’”.
È, per davvero, uno schiaffo sonoro all’ipse dixit di Aristotele, magari anche nel nome dell’àpeiron di Anassimandro, da intendere come archè, o principio primordiale a fondamento anche dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco), tanto cari
agli ilozoisti oltre che a buona parte dei filosofi che precedettero i Sofisti e Socrate. Negare validità ad un assunto filosofico è,
ancora, filosofia che, di espressa, tra l’altro, ce n’è ancora tanta
nella teorizzazione della rinnovata impresa soveritana. Già,
perché nell’àpeironhouse, innovativo prodotto tessile con in-
187
serti in ceramica progettato dal gruppo di design EsclamationD, ha felicemente inserito, nel quadro del “piano” per un Lanificio “riveduto e corretto”, moderno, nuovo di zecca, futuribile, i quattro elementi del pianeta pre-socratico, rimpiazzati dai
simboli contemporanei del “radioattivo” del “facilmente infiammabile”, del “dosso” e del “lavare a mano”, nel quadro di
una decisa azione capace di decontestualizzare e risemantizzare segnali e codici più adatti all’oggi.
C’è, insomma, tanta filosofia classica specificatamente richiamata nel progetto dei Leo, ma non manca quella sottintesa, preconizzata dalla moderna visione complessiva di un
Max Weber. Sì, perché, come sottolinea Franco Ferrarotti208,
“la formazione dell’imprenditore torna ad essere ciò che è
sempre stata fin dalle origini del capitalismo, il momento più
importante, il fattore cruciale. Si può criticare quanto si vuole
la concezione weberiana dell’etica vissuta rispetto alla genesi
del capitalismo. In Italia lo hanno fatto con buona lena studiosi che hanno talvolta ceduto al gusto demagogico di criticare ciò che non avevano compreso. Resta fondamentale l’intuizione di Weber circa la funzione determinante del capitalista come agente sociale e del suo stile di vita”.
Dal che deriva che “il nuovo imprenditore tecnico, scientificamente provveduto, è la controfigura del vecchio capitalista arpagone, spilorcio e piratesco”, sicché è spiegabile come e quanto sia da ritenere un autentico investimento, con sicure prospettive di ritorni e ricadute, la scelta di passare dagli
impianti dell’impresa come beni di cultura alle attualizzazioni, endogene ed esogene, delle potenzialità di cui la stessa impiantistica ed i suoi arredi e… contorni, sono portatori.
La direttrice di marcia, al Lanificio Leo, sembra proprio
questa. Anzi, è assolutamente questa. È tracciata, del resto,
nel ruolo che si è dato il Museo-laboratorio, attorno al quale
rotea il tutto, dall’alto della sua costituzione trivalente (museo di se stesso, contenitore di eventi culturali e luogo di produzione sperimentale). E tra i fatti culturali di un certo rilie208 F. Ferrarotti, “Rieducare gli imprenditori”, in «l’Unità» del 21 febbraio
2004, pag. 23.
188
vo, sono da collocare “Events in” ed “Events out”, al primo
dei quali, è direttamente collocata la Rassegna, ormai divenuta annuale, di “Dinamismi museali”, nati per far interagire
l’opera d’arte con il suo contenitore “cercando di ottenere
una corrispondenza biunivoca tra le valenze intrinseche dell’opera e la qualità-proprietà dello spazio industriale”.
In particolare, i “Dinamismi museali” puntano sulle opere
di avanguardia visiva, sulla sperimentazione artistica, sulle
tecnologie che valorizzano l’aspetto umanistico, sul design
che innova e, insomma, su tutto quello “che è manifestazione
di pensiero audace, espressione di forme culturali non ancora
museificate o ancora da rievocare”.
Poteva, tanto fervore di impegno e di iniziative, lasciare indifferenti gli intellettuali, gli architetti, gli artisti e tutti gli altri
“creativi”?
È segno, allora, che ci si avvia, forse, verso una forma di
cultura diversa che, se non soppianta quella tradizionale, almeno la vivifica, la potenzia, la rende ancora più utile ad una
società che ha, certo, bisogno di trovare alternative. Ed è un
gran bene che Soveria non sia rimasta silente, inoperosa, restia, neppure in questo settore.
Proprio questa forma, veramente nuova, provvida, foriera di chissà quanti sbocchi positivi, aveva fatto ritrovare
Poesia e Pittura (si chiuda un occhio su questo lapsus freudiano che ha fatto, involontariamente, indicare con il nome
di Pittura, la tanto sensibile Pitra) nel vecchio Lanificio che,
entrambe, avevano di già conosciuto quand’era, ancora, solo un freddo, semplice luogo di lavoro, un opificio con le
sue regole ed i suoi compiti che assicurava il pane ad alcune
famiglie del luogo e che, perciò stesso, era tenuto in conto
solo per questo.
Ora la situazione era vistosamente cambiata ed ai rumori
meccanici e fors’anche un po’ banali e fastidiosi, scontati e
pervicacemente ripetitivi, erano subentrati spettacoli e proiezioni, danze e recitazioni che conferivano a quei macchinari,
così remoti e pur così funzionali e funzionanti, un’immagine
luminosa e viva che correva, gaia e accattivante, sulle ali dell’Arte e della Cultura.
189
Com’erano cambiati i tempi! E non solo per Poesia e Pitra e
per lo stesso Sermòne! Ma c’era, forse, da restarne crucciati?
La nostalgia non inficia né condanna il cambiamento che,
specie se evoluzione, è nell’ordine naturale delle cose. Sarebbe come non accettare la circostanza dei tanti libri che si possono trovare, oggi, a Soveria, ricordando quei tempi lontani
in cui, da queste parti, i giornali nazionali arrivavano nelle
edicole solo il giorno dopo, e di libri, in genere, si vedevano
solo quelli adottati nelle scuole e, ad ogni modo, acquistati a
Catanzaro, Nicastro o Cosenza.
Davvero… se la nostra gente, adesso, può bearsi di tanto
fervore culturale, una grossa fetta di meriti deve riconoscerla
alla Rubbettino che ha dato a Soveria, ed anche molto oltre i
suoi ristretti confini, la dimostrazione provata di quanto anche, in un luogo circoscritto, fatto pure di piccole, modeste
tradizioni e di mille potenzialità sentimentali e naturali, si
possono far nascere, crescere ed applicare le idee, in funzione
non solo di un’azienda ma anche, e forse soprattutto, di una
comunità che coinvolga tanto un piccolo centro, quanto una
provincia, una regione, una nazione.
Su questo, Poesia e Pitra, sentendosi coinvolte appieno,
erano disposte a giurarci.
“La casa editrice Rubbettino rappresenta, nella maniera
probabilmente più degna, lo spirito e le aspirazioni della città
di Soveria Mannelli. L’impegno per il lavoro, la propensione a
rompere un isolamento naturale, la necessità di comunicare
oltre i ristretti confini della regione sono infatti caratteristici
dell’intero paese. Rubbettino vi riesce attraverso la cultura,
con una produzione che non è limitata, come spesso accade,
alle esigenze locali, ma che spazia in un orizzonte più ampio,
in Italia e in Europa, con titoli ambiziosi e riconoscimenti significativi, contribuendo a pieno titolo alla costruzione della
città delle idee”.
Questo sermo, che ha tanto a che fare con quello abelardiano, sotto il titolo “Un editore a Soveria” aveva subito catalizzato l’interesse dei convenuti, nel 1998, a Palazzo dell’Arengario, in Milano, quando venne varato, appunto, il Manifesto per “Soveria Mannelli, la città delle idee”. E non è diffi-
190
cile spiegarne i motivi, visto e considerato che questa modernissima azienda tipografico-editoriale (che, forse, di simili, il
Mezzogiorno d’Italia, non può vantarne altre) dà piena sostanza alla metafora, attraverso la quale, questo splendido
piccolo centro della conca del Reventino, ai prodromi della
Sila Piccola, ha cercato di… raccontarsi. Da solo. Nei fatti.
Ed anche attraverso i suoi figli più aperti alla cultura e sempre
pronti a realizzarsi operando, indirettamente quando non
apertamente e positivamente, per la loro comunità. Grandi o
piccoli che siano stati. Risultati grossi o modesti che abbiano
mai potuto cogliere…
La Storia, del resto, per costituzione, non è elitaria; non è
tessuta, cioè, da pochi eletti da incensare o venerare, sì anche
dagli umili, dai semplici, da quelli che, pure senza averne consapevolezza o senza accorgersene, riescono a dare il loro contributo all’astrazione poetica o logica delle idee, alle loro analisi e concatenazioni, all’avvio dei processi per la loro attuazione, in funzione dell’arricchimento culturale e della creazione di benessere che fanno grande una piccola comunità.
Rosario Rubbettino, in fondo, ha impersonato appieno il
senso reale e vivido di questa metafora ed, anzi, con l’autorevolezza che gli deriva dall’aver realizzato quel che ha realizzato, induce (e, quasi, impone) a non trascurare, nel futuro, la
prosecuzione, più corale possibile, su questa strada maestra,
perché possano, in termini concreti, trarre vantaggio Soveria,
la Calabria, l’Italia, l’umanità intera.
Già… perché è solo a lui (i figli Florindo e Marco entreranno, entusiasti e preparati, dopo la laurea a fare il… rodaggio, ed alla di lui morte, a guidare le sorti di un complesso industriale formidabile) che si deve la nascita, la crescita e la
grandezza dell’azienda, che è veramente il fiore all’occhiello
della Soveria produttiva.
Raccontava: “Avevo appena terminato gli studi superiori
conseguendo il diploma di ragioniere ed avevo partecipato, vincendolo, al concorso per la segreteria della Scuola media. Potevo considerami più che fortunato ad aver trovato subito un posto di lavoro. Invece avevo voglia di fare altre esperienze; avevo
tanti desideri ancora inappagati. Mi piaceva per esempio fare ri-
191
cerche sul folklore, sui proverbi, sulle nostre tradizioni. E così
mi sono avvicinato al teatro dialettale: ho messo su una filodrammatica e ne sono diventato il regista”209.
A fare il “tipografo”, prima di partire con l’editare libri, si
mise nel 1972, dopo aver realizzato una società con degli amici ed essersi munito di una linotype. Non era molto, ma il segno che si contava di fare per davvero c’era. Sarà più chiaro,
anzi, quando, dalle vendite giudiziarie di mobili ed immobili
del vecchio «Giornale di Calabria», con stabilimento a Piano
Lago di Mangone, di proprietà dell’ormai fallita Gisi, legata
alla Sir (Società Italiana Resine) dei Rovelli e, localmente (almeno sotto il profilo politico) all’on. Giacomo Mancini, acquistò una buona parte dell’arredamento della Redazione e
dell’Amministrazione del quotidiano, oltre che un discreto
numero di strumenti ed attrezzature varie per la “stampa a
caldo”, peraltro, ancora tanto in voga.
Racconta ancora l’Editore: “Agli inizi degli anni Ottanta
arrivano le nuove tecnologie e le linotype fanno posto ai primi
sistemi di composizione elettronica, il piombo fa spazio alla
stampa offset. È un momento straordinario e, allo stesso tempo, delicatissimo per il settore delle arti grafiche in genere.
Nel giro di pochi mesi viene rivoluzionato il sistema di lavorazione che, sostanzialmente, era rimasto immutato fin dai
tempi, molto lontani, di Gutenberg. Il piombo viene sostituito dai videoimpaginatori elettronici e la stampa viene realizzata con il sistema offset.
Molte aziende – prosegue – non intuiscono che il passaggio è epocale per il settore: le professionalità vengono quasi
azzerate, bisogna cominciare con l’apprendere nuove tecnologie, le vecchie attrezzature divengono obsolete. Molte tipografie grandi, medie e piccole, nel giro di poco tempo saranno costrette a chiudere. La Rubbettino non perde il treno, anzi è in anticipo sui tempi. Arrivano i primi videoimpaginatori
e con essi la prima fotounità, i tavoli per il montaggio delle
pellicole, i torchi, la prima macchina offset. Ogni nuova macchina introdotta nello stabilimento viene da tutti festeggiata e
209 A. Minasi, op. cit., pag. 7.
192
vista come un traguardo timidamente da sempre pensato, ma
difficile da raggiungere”210.
Così, in parole povere, Rubbettino non si è tirato affatto
indietro. Azienda e nomea, perciò, crescevano. Cominciavano ad apparire note e servizi sulla grande stampa e, tanti, tra i
libri che andava sfornando, finivano nelle note bibliografiche, in calce alle opere di grossi luminari delle lettere e delle
scienze, di fama anche internazionale. La bontà dell’iniziativa
era evidente ma, per molti, non era sorta nel luogo più adatto.
E c’era tanta gente che suggeriva, ormai, di cambiare aria,
alla ricerca di una sede più… strategica, più centrale. “Chiunque arriva da me, la prima cosa che chiede è Perché a Soveria e
non almeno a Lamezia, o non a Roma, Firenze…?. Io non ho
mai pensato di andare altrove, perché questa cosa l’ho fatta
per Soveria, la vedo strettamente legata a questo paese, sì con
tutte le difficoltà che ovviamente un paese calabrese, di montagna, può comportare. Anche qui è possibile fare cose importanti, se si vuole”211. Parola di Rosario Rubbettino.
Ecco la prova palpitante, verace, che ad applicare le idee
nel luogo dove nascono, non ci si perde affatto. “Qui – aveva
dichiarato l’Editore a Fulvio Mazza, per il giornale «Espansione» – ci sono le nostre radici e da qui non ci muoveremo
per ascoltare le sirene cittadine. Si tratta anche di una scelta
morale: non possiamo abbandonare quei lavoratori che hanno costruito con me la casa editrice e la tipografia”212.
E questo è parlar chiaro. Che non ammette repliche. Né si
presta a false, o perverse, interpretazioni. Pensata qua, realizzata qua, deve restare qua. Perché, sì, la Cultura non ha posti
privilegiati ove erigervi i Sacri Templi!
Poesia, Belle Arti e momenti similari o affini, che danno
lustro e sostegno al Pensiero, possono nascere e crescere
ovunque, e, in ogni posto, possono sortire risultati concreti,
produttivi!
Anzi… al riparo dal bailamme delle metropoli, si può
realizzare anche di più. Forse. La bella avventura di questa
210 Ibidem, pagg. 19-21.
211 Ibidem, pag. 26.
212 Ibidem, pag. 33.
193
impresa, tutta indigena, ne rappresenta la testimonianza
più autentica, più afferrabile attraverso tutti gli organi di
senso.
Di pietre miliari, nell’avvincente storia della Rubbettino,
ce ne sono tante. Ogni volta che se ne erige una, nell’azienda
– divenuta poco meno che una grande, bella famiglia, composta e compatta – è una festa, perché, ogni componente, per la
sua parte, si sente a buon diritto, portatore di un contributo
essenziale alla sua vita ed alla sua vitalità.
Le idee non mancano. E, in men che non si dica, si attuano. Viene indetto, per esempio, il I Concorso regionale per gli
Annuari scolastici delle Scuole Medie inferiori e superiori,
presto ampliato nell’articolazione, in quanto includerà anche
le elementari, e nei confini, in quanto sarà poi indetto a dimensione nazionale.
L’iniziativa, sin dalla sua prima edizione, non ha lasciato
scontenti, non si è prestata a contestazione (il che è veramente raro, ai giorni nostri, quando pettorutismi e presunzione
sono una sorta di… pane quotidiano); ha, semmai, creato le
condizioni perché l’iniziativa editoriale allargasse le proprie
dimensioni oltre i confini della Calabria ed oltre il campo di
azione prescelto per la prima edizione. Da qui in poi, il Concorso si articolerà, infatti, in due sezioni: l’una per le scuole
dell’arco dell’obbligo (quindi, anche le “elementari” che il
Regolamento del Concorso, fino ad allora, escludeva) e l’altra
per le secondarie superiori.
È quanto era maturato nel dibattito aperto sull’introduzione del Presidente del Premio, don Natale Colafati, e sulle
relazione del preside prof. Tommaso Tanas (sul significato e
sul ruolo didattico-pedagogico dell’Annuario) e del giornalista Luigi Malafarina (sull’Annuario come strumento di concreto esercizio del giornalismo scolastico), nel corso della cerimonia di premiazione, svoltasi nella Biblioteca civica di Soveria, con larga partecipazione di presidi, direttori didattici,
insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, giornalisti, intellettuali, studenti.
Al primo, al secondo ed al terzo posto, tra i circa quaranta
Istituti partecipanti, erano finiti, rispettivamente, la Scuola
194
media statale “Monteleone” di Caraffa, la Scuola media statale “Manzoni” di Bella di Nicastro, ed il Liceo scientifico statale “Siciliani” di Catanzaro, i cui presidi hanno riscosso i
premi in denaro erogati dalla stessa Rubbettino Editore213.
Sotto gli auspici e con la direzione del prof. Saverio Di
Bella, dell’Università di Messina, poi, venne fuori una coraggiosa Collana editoriale finalizzata alla lotta contro la cultura
della morte e della violenza, a margine della quale fu realizzata anche la ristampa anastatica della famosa opera “Nel regno
della mafia. Dai Borboni ai Sabaudi” di Napoleone Colajanni, con prefazione di Daniele Pompeiano, di cui è stato scritto: “è da considerarsi uno di quei classici del settore, di cui
chiunque abbia in mente di affacciarsi e scandagliare nell’ambiente vasto e complesso della criminalità organizzata, non
può non tenere conto.
E se ciò è vero – come è indubbiamente vero – va dato merito alla Casa editrice, giovane ma apertissima e già tanto bene inserita nel dibattito socio-culturale dei giorni nostri, che
lo ha voluto riproporre di recente. Peraltro – altri hanno ancora scritto – la riproposta ulteriore del volume di Napoleone
Colajanni è la palese testimonianza della centralità che l’opera ha per chiunque si accinga ad analizzare e conoscere gli
universi mafiosi, nella concretezza della loro presenza storica.
Le scoperte, le intuizioni, le impasses del Colajanni hanno ancora il sapore di novità e di ovvietà delle cose scritte oggi,
drammatica cartina di tornasole del fatto che, mentre la mafia
muta e si trasforma, la società civile, su cui essa prevarica, non
riesce, altrettanto rapidamente, ad aggiornare i propri strumenti di analisi, prevenzione, repressione”214.
E, successivamente (erano i primi di gennaio del 1987), Leonardo Sciascia impegnò gran parte di una terza pagina del Corriere della sera215, per recensire il best seller dello storico inglese
Christopher Duggan, della scuola di Denis Mack Smith, che ne
redasse anche l’Introduzione, dal titolo “La mafia durante il fa-
213 Cfr. «il piccolissimo», A. I, n. 6 del 21 marzo 1985, pag. 7.
214 Cfr. «il piccolissimo», A. I, n. 10 del 18 aprile 1985, pag. 3.
215 Cfr. «Corriere della sera» del 10 gennaio 1987, pag. 3.
195
scismo”. Proprio da qui venne innescata la nota, appassionata
polemica sui “professionisti dell’antimafia”, sugli “uomini politici che esibiscono a parole il loro impegno contro le cosche e
trascurano i propri doveri amministrativi”. Il “rumore”, quindi,
c’è stato attorno e su questo libro che, di autore inglese, Rubbettino ha pubblicato, per primo, in italiano.
L’Editore, comunque, non aveva mai trascurato la prospettiva che Soveria Mannelli venisse tenuta, nel dovuto conto, anche circa gli altri problemi a respiro nazionale.
Nel maggio 1985, per esempio, venne realizzato un numero
speciale de «il piccolissimo»216 sui problemi connessi alla progettata realizzazione di una Centrale a carbone, nell’ubertosa
Piana di Gioia Tauro. Il settimanale intervenne massicciamente
nella polemica, indicendo anche una sorta di referendum per
posta, perché la gente della zona esprimesse un “no” o un “sì”
all’insediamento tra gli uliveti di una struttura così inquinante.
Vinsero i “no”, e non è che qui si vuol dire che la Centrale non si
fece dopo il referendum de «il piccolissimo», ma è innegabile
che questa intraprendente testatina rifletteva, in genere, anche il
pensiero della gente comune e di buon senso.
Attraverso di essa, insomma, Soveria cercava di dire, o di
far dire, qualcosa pure circa le problematiche di una portata
ben ampia. E, nel suo piccolo, dava anche un contributo alle
“grandi scelte” pubbliche che si andavano accavallando. E
non è poco. Il che – altro esempio eloquente – accadde anche
in relazione alla vicenda della Montedison e del fosforo nei
detersivi217. E che dire, poi, dei grossi problemi energetici,
delle energie alternative e delle politiche del settore? L’intera
raccolta delle varie Annate del battagliero settimanale presenta svariate decine di articoli e di servizi, dovuti alla garbata
penna di Domenico Menniti, un “elettrico” militante e attento, che aveva anche raggiunto i vertici della Cgil regionale calabrese e che continuava a sfornare idee e pertinenti riflessioni per potenziare il settore!
216 Cfr. «il piccolissimo», A. I, n. 16 del 30 maggio 1985.
217 Cfr. «il piccolissimo» A. I, n. 35 del 7 novembre 1986, pag. 7 e n. 37 del
21 novembre 1986, pag. 7.
196
Intanto, il riconoscimento ufficiale ed ambìto, da parte di
un Principe della Chiesa – il Cardinale Giuseppe Maria Sensi,
di origine cosentina – era venuto per l’ottima opera, in due
volumi, “Storia della Chiesa in Calabria, dalle origini al Concilio di Trento” di padre Francesco Russo, edita da Rubbettino218. I larghi consensi ed i qualificati e qualificanti riconoscimenti per l’indiscusso valore scientifico della meticolosa ricerca di Padre Russo non erano, in precedenza, mancati. Autore ed Editore avevano, in più circostanze, raccolto, con legittima soddisfazione, attestati di simpatia e congratulazioni
per il contributo notevole che, con l’opera, si era dato alla cultura ed alla storiografia ecclesiastica. Mancava, tuttavia, il
conforto delle alte gerarchie della Chiesa. Che, ora, con una
lettera del Cardinale, c’era.
“Si tratta – dissero quanti hanno potuto avere la lettera
in visione – di un successo che, di certo, rende onore ad una
piccola Casa editrice, che non dispone certo di grandissimi
mezzi, ma che crede fortemente nel ruolo che può, essa, recitare nel contesto della promozione culturale in Calabria e
per far conoscere la Calabria, in tutti i suoi risvolti ed in
ogni settore. Una piccola azienda editrice che punti esclusivamente alla “produzione” ed al guadagno non si mette ad
editare opere specialistiche, non tanto agevolmente commerciabili, specie se non… dispongono di strutture universitarie come “cassa di risonanza”. E Rubbettino si era, invece, buttato a capofitto nell’impresa e non ci aveva pensato
due volte a dare alle stampe un’opera della cui serietà ed
importanza non ha avuto alcun dubbio, un’opera per la
quale – scrisse il Cardinale Sensi – ‘la Chiesa deve essere riconoscente’”.
Successo anche per il volume Conoscere le Istituzioni per
combattere la mafia, un corso integrativo di Educazione civica, voluto dall’Assessorato regionale alla Pubblica Istruzione,
e «curato dal prof. Moisè Asta, docente di Filosofia nel Liceo
“Galluppi” di Catanzaro e giornalista da sempre impegnato
su un preciso piano politico in cui, senza mezzi termini, riesce
218 Cfr. «il piccolissimo», A. III, n. 6 del 19 febbraio 1987, pag. 8.
197
ad essere abbastanza autorevole nel dibattito, non sempre facile, della politica e della cultura in Calabria»219.
Il libro presentato dall’Assessore regionale Rosario Olivo
e dal Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione
all’Università della Calabria, Giuseppe Trebisacce, è introdotto da un pregevole studio di Saverio Di Bella, che, con
quella competenza acquisita attraverso studi specifici sulla
materia, dà un quadro abbastanza puntuale del “fenomeno
mafia” sia sotto il profilo storico che dell’interpretazione. Diviso in quattro parti (L’ordinamento regionale della Calabria,
La Calabria e la tragedia della mafia, La Costituzione repubblicana, Appendice documentaria), il volume si pone su un
piano interpretativo che, se ben usato, stimola alla scoperta
delle diverse “facce” del problema, nonché alla consapevolezza di quanto non è stato fatto per evitare che il fenomeno
acquistasse un volto tanto nefasto, ma, pure, di cosa si è tentato per sradicare dal cuore dei calabresi certe convinzioni e,
soprattutto, di che cosa ancora c’è da fare220.
Né mancano gli apprezzamenti per la Collana editoriale di
Antonio Minasi e Antonio Panzarella, volta ad assecondare
l’orientamento di una società che privilegia l’immagine. In
particolare, può bastare il ricordo della presentazione di Caro
Catanzaro, l’elegante e ricco volume edito da Rubbettino a
sublimare il cimento, artistico e meritorio, da parte di fotografi dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento, che hanno tramandato immagini e bozzetti, per buona parte scomparsi, di una Catanzaro diversa, forse più pittoresca, certamente rimasta tale e quale nel cuore dei suoi figli migliori.
La città sceglie di rivivere il suo passato, piuttosto che guardare avanti: è stato il commento estemporaneo, non del tutto
sibillino o almeno ambiguo, di un notissimo cattedratico catanzarese, progressista per costituzione e che non ama mettersi in mostra; un commento che poteva anche suonare quasi
una sorta di disprezzo per manifestazioni di questo tipo (per
219 G. Guzzo, “Conoscere le Istituzioni per combattere la mafia”, in «il piccolissimo», A. III, n. 22 dell’11 giugno 1987, pag. 3.
220 Ibidem.
198
l’occasione si era organizzata una sfilata di auto e carrozze
d’epoca) e che voleva essere, invece, nient’altro che una sottile denuncia per i tempi correnti, inadeguati a far bene sperare
per il futuro e che, perciò stesso, comportano la implicita rivalutazione del passato e delle tradizioni, delle memorie e
delle vecchie immagini.
S’erano viste piangere, all’interno di Palazzo Fazzari, ove
c’è stata la presentazione del libro221, gente anziana e meno
anziana, dinanzi alle gigantografie di scorci urbani ed incanti
paesaggistici catanzaresi, ora inghiottiti o fortemente alterati
od occultati, da un’urbanistica insolente e talvolta anche fuorilegge. Oh, potenza delle immagini!
La città ed il suo hinterland risposero benissimo a quella
grande iniziativa, autenticamente culturale, i cui protagonisti
– Mazzocca, Panzarella, Rubbettino – furono giustamente
fatti segno ad ovazioni calorose ed a riconoscimenti sentiti.
Anche, e forse soprattutto, nell’atto in cui, tra tanta folla vinta
dall’emozione, hanno fatto “riprendere”, da altri fotografi e
cineoperatori, scenette in costume (“pacchiane” con i loro
uomini per le strade della città nel dì di festa, la simulazione
di Corrado Alvaro mentre usciva dal convitto nazionale
“Galluppi” o della folla di dame e giovanette in abiti castigatissimi e ricolmi di trini che lasciava la Basilica dell’Immacolata dopo la messa della tarda mattinata di domenica, ecc.) che,
certo, costituivano brani stupendi di un cortometraggio tutto
da realizzare.
Dinanzi all’azienda Rubbettino si cominciava, inoltre, a
registrare qualche timido accenno all’interesse della classe
politica dirigente, di solito indifferente, restia, apatica dinanzi a fatti culturali di un certo spessore, salvo ad essere presenti
in sagre paesane ed iniziative pseudo-culturali, che possono,
in qualche modo, fruttare voti.
Così, in momenti diversi, presero, allora, contatto anche
fisico con lo stabilimento tipografico-editoriale (allora, sorgeva ancora all’inizio del vecchio Viale dei Pini, poco a sud del
passaggio a livello delle Calabro-lucane), l’on. Rosario Olivo,
221 Cfr. «il piccolissimo», A. III, n. 39 del 5 novembre 1987, pag. 13.
199
prima da Assessore regionale alla Pubblica Istruzione e, poi,
da Presidente dell’Esecutivo della Regione Calabria e, qualche mese ancora dopo, l’on. Franco Politano, vice Presidente
della Giunta regionale (mezzo soveritano anche lui, trattandosi del figliolo d’una bravissima signora di Soveria, sorella
del già richiamato prof. Ivone Sirianni e di quell’autentico galantuomo che era il funzionario delle Poste, Michele Sirianni).
Insieme al capo della sua Segreteria particolare, Francesco
Piroso, l’illustre ospite222 è stato accompagnato, dall’amministratore unico e dal capo dell’ufficio stampa in tutti i reparti
dell’azienda, ove ha potuto rendersi conto degli impianti e
degli strumenti modernissimi di cui è dotato lo stabilimento e
si è dimostrato ricco di interesse per le diverse fasi operative
nella realizzazione e nella confezione della modulistica, dei
periodici e dei libri.
Ricordato, a cura degli ospitanti, che l’azienda operava, da
oltre quindici anni, senza alcun sostegno esterno e senza altri
aiuti, puntando invece solo sulle proprie capacità e sulla qualità del prodotto, Politano ha poi colto questo particolare,
sottolineando come la Casa editrice, che ha catalizzato, per la
bontà delle sue scelte, l’attenzione di illustri critici e dei più
importanti quotidiani e settimanali italiani, “deve trovare la
giusta attenzione in una regione che ha bisogno, per la sua
crescita, anche e soprattutto di questi importanti momenti
culturali che nascono dall’iniziativa privata. Momenti che
vanno oltremodo valorizzati proprio perché ribaltano la vecchia e logora immagine della Calabria piagnona e incapace di
produrre cultura, oltre che esprimere capacità imprenditoriali serie e qualificate”.
Per l’occasione, il vice presidente della Giunta regionale
ha preso atto, con soddisfazione, che “l’altra Calabria” è una
realtà che va incoraggiata e sostenuta aggiungendo che “c’è
una Calabria, forte e positiva – egli ha detto – che si esprime,
appunto, in queste piccole e medie iniziative imprenditoriali,
capaci di creare posti di lavoro oltre che di affermarsi per il
222 Cfr. «il piccolissimo», A. IV, n. 18 del 19 maggio 1988, pag. 4.
200
modo di essere tenaci nell’operosità creativa e nella ricerca di
una sempre più affinata professionalità. Certe cose, fino ad
alcuni anni fa, si potevano realizzare solo nelle grandi città,
fors’anche fuori del Sud: oggi si realizzano, benissimo, anche
in piccoli centri come Soveria Mannelli. La cosa ci inorgoglisce e ci impone di prestare ancora di più mente a questo genere di piccola imprenditoria seria ed onesta”.
Apprezzamenti sinceri? Teoria? Estemporaneità e superficialità dei… politici? E chi lo sa! Ma era un fatto che, della
Rubbettino, ora si era costretti, comunque, a parlare!
La Casa editrice volle approntare anche un numero speciale de «il piccolissimo» per il 12 giugno 1988, quando Papa
Giovanni Paolo II tornò a Reggio Calabria per concludere il
XXI Congresso eucaristico nazionale.
La già tanto affermata “centrale di cultura”, però, aveva ormai fatto notare di già l’apparizione fisica anche all’estero. La
Calabria, con Rubbettino, infatti, era finita a Francoforte sul
Meno, in Germania, alla Fiera internazionale del Libro. Un
successo. Lo ha, a suo tempo, raccontato chi scrive, dalle colonne di un ennesimo numero speciale de «il piccolissimo»223,
in un servizio che giova rileggere, per intero. Ha valore di testimonianza. Eccone il testo, così come è apparso sul pimpante
settimanale.
È la prima volta che, in quarant’anni di Fiera del Libro, la
Calabria va a Francoforte. E ci va con Rubbettino. Proprio così.
La Rubbettino Editore è l’unica editrice calabrese ad essere, attivamente e fattivamente presente alla più importante delle
manifestazioni internazionali del genere. Un vero e proprio segnale di svolta perché significa che, qui, in regione, esiste una
produzione di qualità, e non solo specialistica e localistica. Nella città tedesca, infatti, si va per “vendere” i libri da tradurre e,
quindi, per presentare una produzione che può interessare il
mercato europeo.
È il succo di una riflessione franca, estemporanea, avulsa
da ipocrite modestie, che il dott. Carlo Carlino, scrittore forbito e saggista meticoloso, direttore editoriale della Casa edi223 Cfr. «il piccolissimo», A. IV, n. 32 del 29 settembre 1988.
201
trice di Soveria Mannelli, ha fatto, ad alta voce, nel momento
in cui mi ha proposto la “manchéte” pubblicitaria con cui il
piccolissimo della settimana scorsa doveva annunziare l’evento. Ed è – ritengo – proprio da pubblicare la cronaca del breve dialogo di quel giorno con Carlino, la cui schifiltosità linguistica ed il cui buon gusto nel suo essere giocoliere dosato
della parola, massime di quella scritta, ho imparato a conoscere ed apprezzare non solo attraverso i suoi elzeviri, lucidi
ed essenziali, su «Gazzetta del sud», ma anche nei momenti
settimanali del nostro lavoro, fianco a fianco, a supportare gli
sforzi di un imprenditore, piuttosto giovane e pur con idee
chiare e tanta disponibilità a proseguire per la sua strada.
Con Carlino lavoro, ormai, da più di un paio di anni. Ho
avuto, persino, qualche scontro con lui, sul modo di affrontare e risolvere certe questioni aziendali. Ha un carattere discutibile, se volete; non recede facilmente da certe scelte; ci sarebbe, in qualche momento persino da odiarlo; ma certi meriti li ha. Sono il primo a riconoscerglieli.
In tre anni Rubbettino è riuscito a produrre qualcosa di
nuovo in Calabria, con titoli che hanno avuto consensi ai più
alti livelli e che hanno mobilitato la grande stampa quotidiana
e periodica. Ed in tutto questo egli c’entra eccome! Sta, forse
inconsciamente e, certo, senza spirito di vana ostentazione,
esternando il suo legittimo orgoglio. Mi piace ascoltarlo, come solo poche altre volte mi era capitato. Al postutto, sprizza
sincerità e gioia da ogni poro!
A Francoforte – dice – portiamo Macaluso, Di Falco, Barrese, Franzoni, Zizola, Guarino, Catalano, Calasso. Sono autori
ai quali non occorre aggiungere alcun aggettivo. Ma a parte la
vendibilità dei testi, l’importante è che esista finalmente una
produzione che ci consente di essere a quella Fiera internazionale, segno di un modo nuovo di fare editoria, di produrre cultura. Tutto ciò grazie ad una lunga e paziente opera, a scelte
oculate, a coraggiosi investimenti: andando, quindi, a spese nostre, senza alcun contributo pubblico, anche se, in immagine, la
Calabria ci guadagnerà qualcosina.
Poi la considerazione amara. Che non vuole essere vittimismo, assolutamente no; ed appare pur chiaro. È rabbia, sem-
202
mai. Pure in questa circostanza – egli dice – la Calabria sarebbe
stata assente se non ci fosse stata l’iniziativa di un privato. Altrove, come in Toscana, la Regione ha finanziato la partecipazione alla Fiera di cinque piccoli editori. E noi siamo piccoli editori di una regione e di una cultura marginale nel senso della
nostra condizione economica, con il sette per cento di analfabeti
e con pochissimi rappresentativi scrittori.
Per Carlino, noi, quaggiù, si avrebbe bisogno di più adeguati strumenti per poter promuovere la cultura, non di assistenza, quindi servizi. Occorrerebbe, caso mai – aggiunge il
direttore editoriale della Rubbettino – uno specifico Convegno per discutere della cosa, e mi pare che l’Assessorato alla
Cultura della Regione Calabria intenda muoversi in questo
senso, ma i problemi sono tanti!
Poi, Carlino torna sulla Fiera di Francoforte. È una tappa
fondamentale perché conferma la nostra volontà di perseguire le scelte fatte; perché vogliamo operare in rapporto ai tempi, ai mutati bisogni culturali, spingendo il lettore al libro di
qualità.
Il discorso con il mio amico-interlocutore sembra concluso. Ma mi accorgo che, se vogliamo non aver fretta, ha da aggiungere dell’altro. E, naturalmente, non “stacco” il mio registratorino.
Editore – egli spiega – non ci si inventa, ci si diventa.
L’improvvisazione la lasciamo agli altri. Il nostro rammarico
è il pessimo rapporto del lettore calabrese con i libri. Le poche librerie, la scarsa vivacità culturale: noi, in parte, per
quanto ci compete, vogliamo contribuire a modificare questa
situazione, ma certo non ci possiamo sostituire a coloro che
istituzionalmente dovrebbero promuovere la cultura, che
non dovrebbe passare, specie in Calabria, attraverso il potere
politico e i libri di occasione e gli scrittori della domenica. I
Comuni, le Province dovrebbero un po’ riflettere su questa
situazione. Del resto, credo che anche la promozione culturale, quella seria, paghi politicamente…
Una domanda a me stesso, per concludere. C’era di meglio della pubblicazione del mio discorso a quattr’occhi con
Carlino per dare conto ai lettori de «il piccolissimo» della
203
qualificante presenza della Rubbettino Editore alla Fiera internazionale di Francoforte?224.
Della ormai ricorrente partecipazione al Salone del Libro
di Torino ha, invece, parlato ampiamente, lo “speciale” de «il
piccolissimo»225, aperto da una colonnina di “fondo” di Rosario
Rubbettino che, con la solita modestia, ma anche con le consuete incisività e lucidità, scrive: “Sia chiaro: la partecipazione in sé
non aggiunge né toglie nulla alla consistenza di una Casa editrice; ma non v’è dubbio che la presenza a Torino è il segno di una
raggiunta maturità, un inequivocabile impegno a voler continuare a fare sul serio. Al Salone del libro si espone e ci si espone;
si rinnova la sfida prima che con gli altri, con se stessi: perché
non basta fare libri di qualità; bisogna anche sapersi muovere
sulla scena in modo da imporre l’evidenza della propria linea e
del proprio stile; occorre, in altre parole, uscire più decisamente
in campo aperto e reggere l’impatto con il mercato. Questa è la
sfida che Torino ci lancia; questa è la sfida che raccogliamo, con
l’augurio di poterci dimostrare degni della fiducia che i sempre
nuovi lettori ci accordano”.
Il direttore del settimanale, dal canto suo, fa una chiacchierata con il nuovo Direttore editoriale e, quindi, racconta
il senso della presenza nel capoluogo torinese226.
Giacinto Marra, uomo di cultura con tanta esperienza specifica nel settore dell’Editoria, approdando, tre anni or sono
alla Rubbettino ha trovato un ubertoso terreno da coltivare.
Ed i frutti, si può ben dire, sono risultati pingui e succulenti.
Grintoso, attento, difficile, severo, ricco di fiuto, ha fatto propria la politica aziendale che, peraltro, ha contribuito a ridisegnare. Schivo e restio a parlare del suo lavoro, ma soprattutto
dei suoi meriti, riusciamo a carpirgli qualcosa con l’antico
metodo di poche estemporanee “botta e risposta”. E ci piace
consacrarle in questa nota. Eccole:
– Cosa significa, per la Rubbettino, partecipare al Salone del
Libro, per la prima volta con uno stand proprio?
224 Ibidem.
225 Cfr. «il piccolissimo», A. IX, n. 17 del 21 maggio 1993.
226 Ibidem.
204
– Come ha ben scritto l’Editore, Torino è per la Rubbettino il segno di una raggiunta maturità. Ci presentiamo con la
consapevolezza di avere qualcosa di valido da proporre. Ma
senza presunzione. Anzi, con la giusta umiltà di chi non è più
piccolo, ma ancora deve crescere. Esponendosi al giudizio di
un pubblico così qualificato qual è quello del Salone, mettiamo in conto anche possibili critiche.
– Un catalogo di 238 titoli, 19 Collane, 25 novità prodotte
dall’inizio dell’anno, di cui 14 proprio in occasione del Salone.
Un bagaglio di tutto rispetto, mi pare…
– Sì, ci presentiamo all’appuntamento di Torino con le
carte in regola: la produzione si è ormai stabilizzata sui 40 titoli all’anno, che è una dimensione giusta per stare sul mercato in maniera non occasionale; è stato avviato un potenziamento della rete distributiva; si è ampliata la fascia dei lettori
con un conseguente aumento del fatturato complessivo e per
singoli titoli. È poi cresciuta significativamente la nostra presenza nel settore universitario; siamo presenti con puntualità
nel dibattito culturale di forte rinnovamento della società civile e politica italiana. Che cosa si vuole di più da un piccolo
editore della Sila?
– Tutto benissimo, dunque?
– Parlano già i fatti. Ma il futuro è tutto davanti a noi.
Il 2000, ad ogni modo, è il momento culmine del “piano”
dell’Editore che realizza un sogno e che riesce a viverlo e gustarlo con la forza della volontà quando un male incurabile lo
ha già impietosamente aggredito ed, anzi, sta proprio per abbatterlo. Egli riesce, tuttavia, a tenerlo un po’ a bada, perché
possa predisporre quanto necessario alla vita dell’azienda.
“La nuova struttura – dice – è la conclusione di un sogno,
quei sogni che sembrano impossibili, ma che con un po’ di testardaggine si possono poi anche realizzare. In questo sono stato aiutato tantissimo dall’entusiasmo dei miei figli, forse non
l’avrei neanche pensata una cosa del genere se non ci fossero
stati loro. Il nuovo stabilimento si estende su un’area di 9.000
metri quadrati, ha attrezzature sicuramente all’avanguardia,
potenzialità per sopportare qualsiasi produzione importante,
205
sia dal punto di vista qualitativo, sia quantitativo. Ci consentirà
sicuramente di entrare in mercati nuovi, forse anche in mercati
internazionali. Intanto ci ha permesso di aumentare la mano
d’opera occupata. Siamo già arrivati a settanta persone e sicuramente ne assumeremo delle altre. Sono tutti giovani – l’età
media dei nostri dipendenti non supera i trenta anni – tutti
qualificati, tutti ormai padroni del proprio mestiere”227.
Rosario Rubbettino andava orgoglioso delle riviste che
editava228; ma aveva nel cuore, soprattutto «Cittàcalabria»,
segno dell’operosità e della creatività dell’azienda. Minasi,
che ne era stato uno dei maggiori ispiratori e dirigenti, sottolineava: «Cittàcalabria», già nel nome rivelava, più che una
realtà, un proposito o forse piuttosto un desiderio, quello di
poter raccontare una regione unita, che aveva messo da parte
antiche divisioni nella ricerca di un non più rinviabile processo di modernizzazione. Aspirazione profonda, espressa nell’editoriale-manifesto – I segni del nuovo – del primo numero. Doveva essere mensile la periodicità della rivista. In realtà
uscì in modo irregolare dal febbraio del 1983 fino al 1988 secondo gli umori e le difficoltà della Cooperativa editoriale
“Proposta sud” che si era appositamente costituita e dello
stampatore, Rubbettino, che poi ne assunse la piena titolarità. Il rimpianto, oggi, di chi fece, con passione e dedizione,
quell’esperienza è Ah se avessimo avuto all’epoca la formidabile struttura della Rubbettino di oggi!
E il ricordo corre – prosegue Minasi – alle raccomandateespresso con gli articoli dei collaboratori, perennemente in ritardo (il fax, strumento mitico, era in dotazione alle redazioni
dei grandi quotidiani), pacchi di bozze e/o originali affidati
alla buona volontà di qualche ferroviere delle Calabro-lucane
in servizio tra Soveria Mannelli e Cosenza; chilometriche strisciate che Silvana Totino sfornava pazientemente quando si
arrivava alla composizione finale in tipografia, l’andirivieni
227 A. Minasi, op. cit., pag. 55.
228 «L’Acropoli», «Archivio di Etnografia», «Calabria letteraria», «Cassio-
dorus», «Città d’Utopia», «Daedalus», «Filologia antica e moderna», «Le forme e la storia», «Nosside», «Ora locale», «Panorami».
206
affannoso tra camera oscura e tavolo luminoso di Alfonso
Costanzo. Eppure, tra una sospensione e l’altra, perché invariabilmente esigenze più urgenti premevano, la rivista era
stampata. Il complimento ricorrente che inorgogliva, ma nello stesso tempo irritava tutti, era che «Cittàcalabria», per contenuti e qualità grafica, sembrava una rivista prodotta al
Nord, comunque non in Calabria!
La rivista raccolse intorno a sé le migliori intelligenze
giornalistiche e culturali che la Calabria in quel momento
esprimeva, dentro e fuori regione. «Cittàcalabria» rappresentò un’occasione preziosa di riflessione e di dibattito,
guardata con sospettosa e programmata indifferenza dalla
classe politica locale, ma probabilmente eccessivamente affidata allo spirito volontaristico del suo gruppo dirigente.
Fare un giornale significa costruire un’impresa editoriale,
quindi: distribuzione capillare, puntualità nelle uscite, redattori adeguatamente retribuiti, supporto pubblicitario…
tutti fattori che furono rigorosamente estranei a quell’esperienza. Eppure, a rileggere tanti dei servizi proposti da
«Cittàcalabria» non sembrano trascorsi 10-15 anni: un
esperimento in anticipo sui tempi o una regione che arranca perennemente in ritardo?229.
Si è trattato – disse l’Editore – di un’esperienza certamente positiva “che dal punto di vista dell’immagine ha accresciuto la credibilità della nostra azienda grafica, ma che lungo
la strada ha incontrato tante difficoltà di tipo organizzativo
ed ambientale”230.
Sul piano librario, invece, Rubbettino aveva “varato” la
fortunata Collana editoriale “Biblioteca austriaca”, diretta da
Dario Antiseri, Massimo Baldini, Lorenzo Infantino e Sergio
Ricossa, con il dichiarato scopo di introdurre e divulgare, in
Italia, per la prima volta, il messaggio di pensiero della grande
Scuola Viennese di studi economici e sociali, di orientamento
nettamente liberale, inaugurata da Carl Manger e proseguita
con Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek.
229 A. Minasi, op. cit., pag. 94.
230 Ibidem, pag. 93.
207
Un tempismo veramente eccezionale, tradottosi – fuori un
po’ dal “coro” e dalla “moda” – nell’opportunità di offrire al
pubblico italiano, nel momento storico forse più indicato ed
adatto, i testi fondamentali della Scuola classica di economia,
i lavori di maggior rilievo del pensiero neo-austriaco in Europa e negli Stati Uniti, insieme ai significativi saggi dedicati a
temi di mitologia, economia, sociologia e politologia, specifici del “Marginalismo” austriaco e della tradizione da esso generata.
Articolata in tre settori (Documenti, con i testi classici dei
padri e degli esponenti maggiori della Scuola -– come per
esempio Von Mises, Kirzner, von Hayek, Menger, Miller, Salin; Saggi, con le ricerche e gli studi di Antiseri, Di Nuoscio,
Infantino, Lai, de Soto, su Karl Popper, “Le ragioni dell’individuo”, “Ignoranza e libertà”, “Metodo e mercato”, “Mercato e creatività imprenditoriale”; Immagini, con un’ampia raccolta di documenti fotografici, a firma di Raybould o di Antiseri o Infantino, relativamente alla Scuola austriaca o ad alcuni dei suoi rappresentanti più significativi), alla Collana non
tardò di giungere il successo.
Era il momento-sfida più eccelso: per Rubbettino non
contava altro che la validità, la scientificità, la coerenza di un
testo, indipendentemente, cioè, dal taglio politico e da questo o quel trend. Convinto che la Cultura vera è quella senza
aggettivi, non per nulla aveva voluto creare una centrale culturale, che non fosse, assolutamente, una parrocchia, nell’ambito della quale dispensare e diffondere dogmi e sentenze definitive, sì il punto di incontro in cui dialogare, confrontarsi, competere, alla ricerca sempre di nuove idee e di nuovi
valori.
Nulla quaestio, dunque, sul rilancio di una vecchia Scuola
austriaca di economia (risalente al 1871) – antitetica a quella,
più di moda, allora, che faceva capo a Marx ed Engels – che,
anzi, “era sorta con l’intento di correggere la teoria del valore
di Marx. Bastò questo per indurre i più a giudicare l’economia neoclassica “di destra”, visto che Marx era “di sinistra”.
Quale sciocchezza! Eppure oggidì un politico di sinistra, se
non anche un intellettuale di sinistra, rimane convinto che l’e-
208
conomia neoclassica, compresa la versione austriaca, debba
essere sbagliata perché di destra. Non importa che Menger e
Mises non abbiano mai inteso fregiarsi di tale insensata etichetta o denominazione. D’altronde, pure Keynes non fu un
grande estimatore di Marx. Per quanto mirasse a rivoluzionare l’intera teoria economica, Keynes restò qua e là un teorico
neoclassico. Dagli austriaci lo divideva, però, il giudizio politico sulla bontà degli interventi nell’economia da parte di autorità pubbliche…”231.
Grosse gatte da… pelare, dunque. Ma tant’è. La Cultura,
per crescere, ha bisogno pure di aver a che fare con i… felini
domestici, appunto, da… pelare. Tirarsi indietro? Manco per
sogno. Anzi, un motivo in più per insistere con questa Collana che, peraltro, non tarda a trovare riscontri e ricadute di
successo, a bizzeffe.
4 luglio 2000. Soveria Mannelli ed il “suo” Grande Editore hanno tramutato un sogno in realtà.
Con l’inaugurazione ufficiale dello stabilimento ampio, attrezzato, moderno, dotato di un’impiantistica complessa e
formidabile, il piccolo centro pre-silano, non più in sordina,
ha realizzato la fertile coniugazione razionalizzata di luoghi,
idee, riflessione, programmazione ed attuazione, proponendosi, così, come nuovo, grosso punto di riferimento, nazionale ed europeo, per l’editoria, per la cultura ma anche come
espressione di una civiltà con la voglia di cambiare e crescere,
senza mai rinnegare ciò che è stata.
Alla giornata, incentrata su di un Convegno di alto profilo
culturale, è seguita quella più propriamente festaiola, con
tanto di fanfara dei bersaglieri (a suonar la carica!) e dalla
quale non poteva, né doveva, mancare proprio nessuno dell’intera comunità soveritana, a brindare ed a prendere atto
della nuova, bella, realtà.
La ridente cittadina, quindi, aveva il suo primo vero, autentico, contatto fisico con quella struttura industriale, ben
231 S. Ricossa, Prefazione in AA.VV., La Scuola Austriaca contro Keynes e
Cambridge, Rubbettino 2000, pagg. 5-6.
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equipaggiata, in cui molti, all’inizio, non credevano e che, in
tanti, ora invidiano. Un centro di promozione culturale, attento ed aperto, che, da qui in poi, poteva essere seguito, nelle
sue evoluzioni ulteriori, attraverso il sito www.rubbettino.it
(ove è possibile aver conto anche della non trascurabile produzione di «Iride», «Cittàcalabria» e «Calabria letteraria editrice») o, anche, il suo mensile “on line” Scriptamanent.net,
con articoli, spunti e servizi sulle pubblicazioni Rubbettino,
ma anche con approfondimenti culturali di una certa dimensione. Tutto ciò se non bastasse il ruolo del periodico quadrimestrale R-notes, una rivista ben fatta e vivace, con una tiratura elevatissima, distribuita gratuitamente, a richiesta.
Poesia, Pitra e, per suo conto, anche Sermòne, erano stati
costantemente presenti alla “due giorni” che, vivaddìo, aveva
propiziato anche l’avverarsi inaspettato di un altro tipo di sogno. Sì, perché se Pitra continuava ad ispezionare ed ammirare tutti gli angoli del luminoso stabilimento, alla ricerca di
motivi e modelli per dare sfogo alla creatività artistica dei
“suoi” sacerdoti del colore, Poesia aveva, finalmente, trovato
la sua grande occasione.
È, allora, anche una questione di attesa paziente e fiduciosa.
Se si persevera, pur tra mille contrarietà e formidabili ostacoli,
la mèta – una qualsiasi mèta e, se non oggi, domani – viene raggiunta. Per tanto tempo, neppure la mediazione di un aggeggio
miracolistico come il telefono, aveva consentito il contatto tra i
due adolescenti, poi giovani ed, infine, adulti, che si amavano,
sempre più ignari e distratti dalle vicende esistenziali, ma, ancora in silenzio, quasi con rassegnazione coatta. Ora però…
La splendida e sempre incantevole bruna (non più “brunetta”, perché anche lei cominciava ad essere beffata e bistrattata dallo scorrere capriccioso ed inesorabile degli anni!), eludendo la possibile curiosità di quella folla, felice e soddisfatta,
era riuscita a trovare riparo, appena appena per qualche minuto, tra quella selva di “rotative” e macchinari Heidelberg e
“quattro-colori” che facevano da degna corona alla stampatrice-ammiraglia, costruita in Germania dalla KBA (una macchina velocissima capace di sfornare, di fogli da cento centimetri
per centoquaranta, ben quindicimila copie all’ora!).
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Ed era proprio lì, tra tanta testimonianza di quanto sia capace una sinergia responsabile e razionale tra un’idea e la sua
messa in atto, che aveva, dopo tanti anni, potuto dare il suo
bacio, appassionato e profondo, a Sermòne, che lo desiderava, lo aspettava con comprensibile ansia ma, questa volta,
non aveva avuto neppure bisogno di sollecitarlo. Quell’intenso abbraccio, dalla durata di pochi attimi, aveva finalmente
coronato il magnifico sogno durato per tanti e tanti lustri. Il
corteggiamento, vicendevole, tra Sermòne e Poesia, a lungo
protrattosi, si era risolto nella creazione (attraverso un bacio
ed un abbraccio) del simbolo di una indissolubilità spirituale,
eternante e produttiva, da cui l’avvenire potrà trarre, solamente, tanti benefici.
Neppure questa volta, quindi, c’era stato un grosso scambio di parole e di idee. A riprova che le parole servono molto
poco dinanzi alla sostanza delle cose.
Certo, possono pure avere la loro importanza ma, al cospetto di un cumulo tanto grande di esperienza racimolato
sull’uno e sull’altro fronte, in quella circostanza, contavano
molto di più quel bacio e quell’abbraccio. Poteva, quindi, essere così anche nel caso di Pitra, la cui improvvisa latitanza
poteva nascondere anche un “finale” identico. E chi lo sa?
Buon per ella, se l’era capitato! A che serve indagare?
I dettagli, forse, a questo punto, non contano più. Non
hanno importanza. Sermòne e Poesia si erano, alla fine, ritrovati, ad inaugurare una realtà nuova, fatta di prospettive variegate. La grande lezione dell’Abelardo da vecchio, nei fatti,
aveva sortito i suoi effetti migliori. Completamente razionali.
E Soveria poteva gioirne!
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Indice
Prefazione di Vincenzo De Virgilio
7
Introduzione di Gino Grandinetti
9
Sermòne e Poesia
13
Finito di stampare nel mese di agosto 2004
dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali
per conto di CittàCalabriaedizioni
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Collana
La Città delle idee
11. L’Occhio della Città. L’Ospedale di Soveria Mannelli
12. MARIO CALIGIURI, Breve storia di Soveria Mannelli
13. FONDAZIONE CENSIS, Soveria per te
14. COMUNE DI SOVERIA MANNELLI, Stato fatti più in là
15. GAETANO MATTALIANO, Radici future
16. OTTAVIA ANTONELLA PAOLA, Sviluppo e solidarietà
17. MOISÈ ASTA, Sermòne e Poesia