la terapia sistemico-relazionale - Psicologi

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la terapia sistemico-relazionale - Psicologi
LA TERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE
a cura di
Manlio Masci
Attualità in psicologia, vol. 5, n. 1 - 2, 1990
Manlio Masci
intervista
MAURIZIO ANDOLFI
MARISA MALAGOLI TOGLIATTI
GASPARE VELLA
Masci: In quale contesto nasce la terapia relazionale in Italia?
Andolfi: Nasce sostanzialmente con due filoni: quello dell'antipsichiatria e quello delle teorie sulla
Comunicazione Umana. Per quanto riguarda il filone dell'antipsichiatria, la terapia relazionale nasce
intorno agli anni settanta, ossia negli anni in cui in Italia si sta
lavorando molto sul tema della psichiatria sociale e della
de-istituzionalizzazione.
All'inizio nasce in un clima di contrapposizione poiché é
presentata come una tecnica che dovrebbe riuscire a risolvere i
problemi individuali attraverso il gruppo familiare. Non bisogna
dimenticare che quello era il periodo in cui le tecniche erano bandite
e considerate in modo indiscriminato come forme di controllo
sociale. Da ciò si può capire come tra il movimento basagliano e gli
esordi della terapia familiare ci sia stata una fase di grande
contrapposizione. Infatti, se nell'impostazione basagliana si doveva
negare qualsiasi specificità tecnica, qualsiasi ruolo professionale ben definito, non era così per la
terapia familiare che era giunta in Italia soprattutto per importazione dall'America come un nuovo tipo
di tecnica. In quegli anni, tornando dagli Stati Uniti, mi sono trovato, io come tanti altri, immerso in
questo dibattito culturale tra ciò che attiene all'individuo e ciò che riguarda il sociale.
E' stato proprio con l'esaurirsi della fase basagliana e della tensione culturale, tutta proiettata nel
sociale, che la terapia relazionale entra nell'istituzione pubblica. Uno dei messaggi basagliani, ovvero
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l'idea che in qualche modo ci sia una componente sociale molto forte nel sostenere la malattia mentale,
viene raccolta dal movimento di terapia familiare e sintetizzato nell'idea che il paziente non é il
paziente, ma il paziente designato ossia una persona alla quale viene assegnata una funzione sociale
importante, quella di catalizzare su di sé disturbi e conflitti del suo gruppo familiare. Quindi, se
vogliamo, nonostante l'unità di osservazione fosse più ristretta in quanto la famiglia non era la società
in senso lato, di fatto le due concezioni hanno molti punti di somiglianza.
Un altro filone, come sopra dicevo, che ha permesso l'entrata della terapia familiare, é stato lo
studio delle Teorie della Comunicazione Umana e devo dire che purtroppo per molti anni in Italia,
soprattutto nell'arca della psicologia, si é identificata la terapia relazionale con Palo Alto ossia con il
gruppo dei Mental Rescarch Institute. Nonostante “La pragmatica della comunicazione umana" fosse ai
tempi un libro sicuramente ricco e innovativo, soprattutto nella parte riguardante gli assiomi della
comunicazione umana, é finito per diventare una prospettiva distorta e molto riduttiva di tutto quello
che era invece il contributo dinamico delle terapie relazionali e familiari. Era finita l'era dell'individuo
come "scatola nera" e l'enfasi sulla prima cibernetica era ormai superata dai nuovi e più integrati
sviluppi del movimento familiare.
Malagoli: Sicuramente il contatto culturale sia con gli scritti che,
attraverso seminari, con alcuni degli studiosi americani più rappresentativi è stato fondamentale. Credo però che tutto ciò non sia avvenuto a
"caso". Voglio dire che l'affermazione dell'ottica relazionale sistemica in
Italia avviene a partire dalla fine degli anni sessanta - il gruppo della
Selvini si formò a Milano nel 1967, mentre il nostro gruppo ossia quello
del Centro Studi di Terapia Familiare, si è formato a Roma nel 1970 - in
un contesto culturale e politico molto specifico ossia nel momento in cui
in Italia abbiamo il movimento antipsichiatrico, e quindi la lotta per la
deistituzionalizzazione e la chiusura dei manicomi.
Quello che ci ha unito a questo movimento è stato l'aver sempre
condiviso il discorso antipsichiatrico inteso come discorso di stigmatizzazione del malato mentale. Quindi, sia dal punto di vista politico
che dal punto di vista culturale, il discorso anti istituzionale ha fatto
sempre parte del nostro bagaglio. Quello che invece ci ha distinto, e per
cui durante tutti questi anni abbiamo mandato avanti una nostra precisa linea, specifica e indipendente
anche rispetto all'America, è stata la possibilità di utilizzare una serie di tecniche rispondenti a un
modello teorico più ampio e che conciliasse e inserisse il movimento anti istituzionale, in un ambito
culturale e scientifico che non fosse semplicemente quello di “abbattere le mura”.
Vella: Il movimento antipsichiatrico ha influito su di me per altre ragioni e per altri versi. Il
problema dell'antipsichiatria era il condizionamento della cultura nella concettualizzazione della
patologia mentale e nel conseguente atteggiamento pratico degli operatori nei confronti del malato. Il
fatto che Basaglia originariamente privilegiasse una cultura di tipo socio-assistenziale e quindi
l'attualizzazione negativa della manicomializzazione, dunque l'atteggiamento oppressore dello psichiatra, era una sfida giustissima ma che non ha avuto influenza sulla prospettiva relazionale.
Masci: Quindi se ho ben capito non esiste una relazione tra “paziente designato” e
“vittima sacrificale” termine quest’ultimo utilizzato dall’antipsichiatria?
Vella: Il concetto di paziente designato, dal punto di vista relazionale e sistemico é erroneo, e non a
caso nessuno lo usa più in quanto implica una causalità lineare di tipo aristotelico e ad un livello morale
implica una responsabilità genitoriale. Questa del paziente designato era una bella trappola in quanto
con tale condanna implicita, a volte ineducatamente esplicita, venivano danneggiati gli stessi operatori.
Quindi in realtà il cosiddetto paziente designato in un'ottica circolare e sistemica ha la sua parte
attiva per mantenere il suo ruolo provocatorio. Pertanto da questo punto di vista é molto lontano dalla
posizione di vittima sacrificale concepita da un certo tipo di antipsichiatria.
Masci: Prof. Andolfi, quale é l'impostazione teorica della sua scuola?
Andolfi: Innanzi tutto a me non piace l'idea che si parli della mia scuola; ho la sensazione che l'idea
di una scuola sia molto pericolosa in particolare oggi tra l'altro in cui c'é bisogno di corporativismo, di
adesioni quasi cieche concetti e appartenenze rassicuranti e assiomatiche: personalmente ho sempre
combattuto contro l'idea che si parlasse di scuole. Che si voglia poi parlare di scuola in quanto esistono
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degli allievi, dei docenti, degli insegnamenti fondamentali va bene, ma
non credo però che la caratterizzazione di scuola sia corretta. Semmai
credo che sia più utile capir quali siano state le matrici culturali che
hanno animato un gruppo.
Per esempio il mio gruppo originario, ed io in prima persona,
tentammo di fare entrare la terapia familiare all'interno dell'Istituto di
Neuropsichiatria Infantile. La cosa fallì. Un po’ perché era troppo presto stiamo parlando dell'inizio degli anni settanta - e un pò perché era
impossibile pensare che in un'istituzione in cui il bambino appartiene al
neuropsichiatra infantile, si potesse pensare al bambino come
appartenente alla famiglia. L'ideologia dominante di una famiglia
incompetente che arrivava con un bambino problematico e lo consegnava
al neuropsichiatra infantile affinché lo curasse era praticamente
impossibile da modificare. Insomma, non si poteva pensare che il neuropsichiatra infantile potesse
"ridare" il bambino alla famiglia considerando la famiglia come unità di cura e risorsa terapeutica.
Dopo aver impostato un programma d formazione intenso e articolato per specializzandi di
Neuropsichiatria Infantile, mi resi conto che era impossibile, almeno allora, far entrare una cultura
familiare a via dei Sabelli e me ne andai: fu lì che lasciai il camice bianco per venire a psicologia nel
1975. Con me se ne andarono parecchi altri neuropsichiatri infantili con i quali istituimmo l'Istituto di
Terapia Famigliare.
Penso che un punto di forza per la mia crescita sia stato quello di entrare nella terapia familiare
attraverso il bambino. Purtroppo molte delle teorie, anche nell'ambito relazionale, sono state elaborate
dimenticando il bambino e le sue innate competenze nel guidare il terapeuta nell'intricato mondo degli
adulti. Per molti terapeuti il bambino é difficile da gestire, non si sa come inserirlo in terapia, è
rumoroso oppure va protetto escludendolo dal processo terapeutico.
Per un adulto ascoltare un bambino e capire il suo linguaggio fatto di immagini simboliche e di
metafore necessita di una competenza speciale; di fatto deve fare tabula rasa di tante sovrastrutture
adulte e molti terapeuti non sono in grado di rischiare e di mettere in discussione competenze e teorie
ormai collaudate.
La matrice infantile ha inoltre condizionato e differenziato fortemente il mio modo di insegnare.
Purtroppo il bambino è mancato nella fase di importazione della terapia familiare dall'America e Nathan
Ackerman é stato un pioniere della terapia familiare dimenticato troppo presto. Così in Italia è arrivato
un tipo di terapia relazionale più legata ai problemi della comunicazione umana che hanno finito per
riguardare più l'adulto che il bambino.
Masci: Quali sono le matrici culturali del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale?
Malagoli: Io credo che per i didatti dei Centro Studi di Terapia familiare e relazionale il personaggio
più rappresentativo sia Bateson: un antropologo che durante il suo percorso culturale ha aggregato
intorno a sé una serie di persone di provenienza culturale diversa come Haley, Watzlawick, Jackson e
via dicendo. Egli ha creato un gruppo interdisciplinare e ciò è stato particolarmente significativo
nell'ambito della cultura americana dove la tendenza è alle super-specializzazioni. Senz'altro questo
gruppo ha costituito, nell'ambito delle discipline psicologiche e psichiatriche, un elemento dì
discordanza in senso estremamente positivo, proponendo un nuovo modello epistemologico legato ad
una visione più ecologica, pluriprofessionale e integrativa del sapere umano.
Masci: Di quali influenze risente invece il Centro Studi e Ricerca per la Psicoterapia della
coppia e della famiglia?
Vella: Da più di venti anni lavoriamo con il gruppo dando una priorità al contesto relazionale e
familiare.
In questi anni abbiamo avuto parecchi incontri, scambi di idee e di impressioni con personaggi più o
meno carismatici. Il primo incontro é stato con la comunicazione umana di Palo Alto. Siamo poi passati
attraverso Whitaker e vari rappresentanti della terapia familiare e relazionale americana, come Hoffman, Stanton e tanti altri.
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Masci: Come avviene la formazione del terapeuta familiare?
Andolfi: Anche qui c'é una profonda diversità tra i vari gruppi. Per il gruppo di via Reno la
formazione si é sviluppata su tre livelli ed i tempi dell'apprendimento si sono notevolmente allungati.
Partiamo dalla laurea: uno é laureato in psicologia, in medicina, oppure é uno psichiatra o un
pediatra. Nel corso degli anni ci siamo resi conto che una persona quando comincia, nel lavoro clinico
tende a vedere e a connotare la realtà in termini di patologia al punto tale che se non vede patologia
"si annoia".
Allora l'obiettivo era come riuscire a creare un interesse propedeutico a quello terapeutico. Abbiamo
così pensato che bisognasse prima fornire un solido bagaglio sulla teoria dell'osservazione e sulle
conoscenze relazionali dei processi evolutivi normali della famiglia. Insomma, il nostro obiettivo era che
lo studente si incuriosisse a vedere come inquadrare anche eventi patologici in termini evolutivi e si
chiedesse come collocare disturbi psicologici e sintomi nel ciclo vitale della famiglia.
Masci: Che cosa avviene concretamente in questi due anni?
Andolfi: Abbiamo definito questi primi due anni come Corso di Psicologia Relazionale. Abbiamo
cercato di costruire un laboratorio di ricerca dove il gruppo stesso degli studenti, potesse apprendere
sulla propria pelle processi evolutivi normali. Per esempio i membri del gruppo presentano il loro
genogramma, definendo la loro famiglia in termini generazionali; portano le fotografie di famiglia
oppure vengono fatte interviste dal vivo di un'ora con le loro famiglie; lo studente invita i suoi familiari
per parlare con loro di un particolare momento evolutivo che può essere del passato, di quando era
bambino, di quando era adolescente soprattutto nei momenti in cui c'era qualche crisi evolutiva; parla
della morte di un genitore, se si é separato qualcuno, una malattia importante in un membro della
famiglia, se c'é stato un matrimonio ecc.
Abbiamo usato anche mezzi immediati come ad esempio la scelta di films di cui si potesse studiare
in qualche modo tutti gli aspetti tra fratelli, aspetti di relazione ecc.
Dopo questi due anni post-laurea che noi abbiamo definito corso di psicologia relazionale, si entra
nei quattro anni di training clinico che sono quelli più formativi sul piano della pratica clinica con le
famiglie.
Sostanzialmente gli allievi vengono seguiti tramite supervisione diretta e/o co-terapia nel
trattamento con le famiglie. Osservano gruppi familiari di ogni tipo, con bambini, con adolescenti, con
problematiche di coppia ecc. Più si allarga l'intervento a più generazioni, meglio si riesce a cogliere la
storia della famiglia e ad inquadrare in questa storia i sintomi presentati.
In questi anni ci siamo interessati a studiare la psicopatologia familiare in termini evolutivi, non in
termini del qui ed ora nemmeno cercando una risposta semplice e circoscritta ai sintomi presentati;
cerchiamo piuttosto di inquadrare i sintomi all'interno di una cornice evolutiva.
Finito il training quadriennale lo studente non viene definito a nessun livello psicoterapeuta
familiare; noi pensiamo che questi quattro anni forniscono una buona base di formazione relazionale
con particolare riferimento alla famiglia, sia in chiave di istituzione pubblica che di pratica privata.
Dopo tale periodo, e questa è stata una mia idea personale che forse ha anche precorso un po' i
tempi, non sapendo come definire questo training, che a mio modo di vedere non poteva essere
sufficiente per definire una cosa così complessa come essere uno psicoterapeuta familiare, lo abbiamo
chiamato training di base. Chi voleva andare oltre doveva fornire una motivazione e una competenza
più specifica per proseguire il suo iter formativo. Si accede così ad una vera e propria Scuola di
Specializzazione in Psicoterapia Familiare. All'interno di questa scuola le persone scelgono i supervisori
e il rapporto non è più di gruppo ma diventa un rapporto individualizzato. Un supervisore per due
studenti in due cicli di un anno e mezzo ciascuno, quindi altri tre anni.
Insomma, un medico o uno psicologo per diventare psicoterapeuti familiari devono impegnarsi due
più quattro più tre che in totale fanno nove anni, e questo dopo la laurea. Chi conclude questo
discorso, e al momento se ne sono graduati dal 1985 circa un centinaio, si accorge che nove anni di
formazione clinica sull'area familiare forniscono spalle solide e un bagaglio di esperienze importanti
nella propria attività di psicoterapeuta.
Masci: Come avviene invece la formazione all'interno del Centro Studi di Terapia
Familiare?
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Malagoli: Il lavoro di formazione è centrato innanzi tutto sull'allievo, poi sul gruppo, quindi sulla
tecnica specifica. Pertanto ogni allievo fa parte di piccoli gruppi di sei, sette persone al massimo ed ha
durante il suo itinerario didattico almeno tre didatti dei quali due nel periodo centrale della sua
formazione, cioè nei primi tre anni. In questi tre anni l'allievo partecipa a due gruppi di lavoro
settimanali, della durata di tre ore ciascuno per la durata di dieci mesi. Inoltre almeno due volte al
mese, unitamente agli allievi di tutti i vari gruppi (circa quaranta allievi), partecipa ad incontri più
specificatamente seminariali dove si privilegiano le riflessioni sulla teoria della tecnica, e vengono
affrontati argomenti di psicopatologia, di psicopatologia differenziale sia dal punto di vista teorico che
attraverso la visione di nastri didattici.
Masci: Che cosa intende per lavoro sul gruppo?
Malagoli: Lavorare sul gruppo significa innanzitutto creare una grossa
solidarietà nell'ambito del gruppo di lavoro, quindi la possibilità che le persone
abbiano fiducia l'una nell'altra e che imparino ad essere solidali con il
terapeuta quando questi entra in terapia. Questo elemento è necessario per
poter effettuare la supervisione diretta tra didatta e allievo con la
partecipazione attiva e fattiva di tutto il gruppo. Quando il terapeuta entra in
terapia, fase molto delicata, il supporto del gruppo non é solo un supporto
emotivo ma anche conoscitivo e riflessivo, qualora si sia creata una fiducia e una conoscenza reciproca
tra le persone, altrimenti anche la migliore informazione non può passare.
Nel gruppo viene dato molto spazio alla “crescita” del singolo allievo e ad un processo continuo di
autoriflessione sui propri vissuti emotivi attuali e su quelli relativi al proprio passato attraverso il
racconto della storia (trigenerazionale) della propria famiglia di origine.
La scultura dei momenti più significativi della propria vita relazionale fatta utilizzando come attori i
compagni del gruppo accentua le possibilità di riflettere e rielaborare il proprio modo di relazionarsi con
gli altri.
Nel gruppo le persone parlano molto di sé stesse, viene dato molto spazio alla conoscenza reciproca,
che non é finalizzata esclusivamente alla conoscenza di sé e degli altri componenti del gruppo sul piano
emotivo ma ha soprattutto come obiettivo quello di focalizzare le riflessioni sugli aspetti relazionali in
modo che l'allievo diventi consapevole del suo modo di relazionarsi con gli altri.
Ognuno parla della propria famiglia e partecipa al racconto della famiglia degli altri. Non é tanto
importante ricostruire la verità, é importante invece capire cosa quell'allievo ha vissuto quando
accadevano determinate cose e come rivede ora la situazione. Insomma quello che é importante far
capire agli allievi é come, nell'ambito del processo di sviluppo di un gruppo familiare, possano cambiare
anche le letture delle situazioni a seconda dello stato d'animo e degli "occhiali" di chi in quel momento
sta leggendo. Cosi il futuro terapista si abitua a vedere come nella famiglia del suo collega ci siano stati
dei momenti sintomatici e come questi siano stati superati.
Questi elementi in questa prima fase del training permettono, lavorando sull'individuo, una
maggiore autoconsapevolezza, in quanto correlano tra di loro le emozioni e le modalità di mettersi in
relazione. Insomma é come dire che ognuno di noi rivive nei rapporti con gli altri un certo tipo di
rapporti dei passato.
Masci: Il prof. Andolfi sostiene che "un terapeuta familiare dovrebbe fare una sua terapia
familiare per poter meglio capire che vuol dire far superare al paziente delle resistenze".
Insomma un iter formativo simile a quello dello psicoanalista. Che cosa ne pensate?
Malagoli: Questa é un'idea che é sempre esistita nel campo dei terapisti della famiglia. Per esempio
Framo, che nel 1971 abbiamo incontrato in occasione di uno stage che tenne a Roma, sosteneva
questo tipo di esperienze.
Noi abbiamo sempre dato attenzione a questi elementi, infatti il primo anno e mezzo dei training lo
dedichiamo alla conoscenza dell'allievo e dei modo in cui si rapporta e si è rapportato con la propria
famiglia. Egli rivive le sue emozioni attraverso la rievocazione delle relazioni, dei nodi e dei conflitti non
ancora risolti, egli sperimenta se stesso nel gruppo e il gruppo, come dicevo sopra, gli serve da
supporto in quanto nella scultura le figure del gruppo, assumendo le varie funzioni dei membri della
famiglia di origine dell'allievo, fanno rivivere i vari personaggi e sperimentano i diversi punti di vista.
Quando il racconto della storia della famiglia mette in evidenza che ci sono gravi conflitti e nodi
interpersonali non ancora risolti, consigliamo all'allievo di andare da un collega per alcune sedute di
consulenza familiare.
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Vella: Si, le idee ci sono; il Prof. Andollfi le sostiene, ma io sinceramente non le condivido.
Un'analisi relazionale non può non essere contemporaneamente relazionale e sistemica e pertanto
se si esclude dal sistema uno dei membri essa automaticamente non funziona. Non é come il setting
tra due persone dove la scena primaria, le tappe dello sviluppo affettivo, i meccanismi di difesa,
insomma i fondamenti epistemologici sono uguali per tutti e pertanto si può fare un discorso comune.
Come si può ottenere questo? Non penso che si possa fare l'analisi familiare sistematicamente del
terapista e della sua famiglia. In fondo quello della formazione é un punto dolente.
La cosa che io raccomando é la supervisione individuale e la supervisione di gruppo. La terapia
relazionale non é una terapia che si può fare da soli, deve essere fatta in un setting relazionale, sia
pure in maniera transcontestuale e qui c'é l'analogia con il setting analitico. Come ha già detto la
Malagoli, attraverso il gruppo di formazione é possibile riproporre la situazione familiare, coniugale,
genitoriale che viene sollecitata da un determinato problema della patologia, ma che é analizzata in un
gruppo di formazione permanente sostenuto dall'amicalità della relazione terapeutica.
Malagoli: Quello che noi cerchiamo di insegnare é proprio questo aspetto della relatività e della
eterogeneità dei punti di vista, ci interessa che il terapeuta non solo "veda" gli altri quando fa la terapia
ma impari a vedere sé stesso nel rapporto con gli altri. Quanto detto si sviluppa dall'approfondimento
culturale con l'aspetto cognitivo e costruttivo che si esprime nel pensiero di Bateson il quale parla
continuamente di deuteroapprendimento, di visione binoculare, di conoscenza per differenza...
Insomma il terapeuta non deve vedere soltanto l'altro ma anche sé stesso nel rapporto con l'altro;
deve quindi essere in grado durante il processo terapeutico di considerare la famiglia che ha di fronte
come un sistema di cui egli è l'osservatore ma anche di riflettere sul più ampio sistema terapeutico
(regole, relazioni, vissuti emotivi) nel quale egli é uno dei componenti insieme ai membri del sistema
familiare e quindi diventare osservatore di sé stesso in quel contesto interpersonale.
Masci: In che rapporto si trova il terapeuta relazionale con la nuova figura dello psicologo
clinico che oggi in Italia sta nascendo?
Andolfi: Penso che si tratti di due realtà molto diverse: lo psicologo clinico é uno specialista come lo
psichiatra, il pediatra, ecc. che può accedere successivamente, se lo vuole, a una formazione più
complessa e in un certo senso più settoriale, come diventare psicoanalista, psicoterapeuta familiare,
cognitivista ecc. Insomma io credo che lo psicologo clinico dovrebbe essere un professionista preparato
in modo basico su un ampio ventaglio di opzioni psicoterapeutiche e dovrebbe conoscere sul piano
teorico pratico le più diverse metodologie capaci di dare una cornice
di riferimento ai diversi saper fare dello psicologo.
Malagoli: Io conosco abbastanza bene l'impostazione della scuola
di specializzazione in psicologia clinica in quanto vi insegno e devo
dire che ho trovato molto interessante questo lavoro poiché quella
che viene definita analisi della domanda in realtà fa parte di quegli
elementi culturali che in questo momento indicano modalità di
confronto fra indirizzi diversi non basati su giustapposizioni ma
proprio sul riprendere gli elementi validi di discorsi culturali portati
avanti in altre discipline. Per fare un esempio, come lei sa,
l'attenzione in campo analitico al controtransfert é un fatto
relativamente recente. In campo relazionale si fa attenzione al
proprio modo di porsi in relazione e si sottolinea che il terapeuta non
è un osservatore neutro per cui è proprio partendo dai vissuti e dalle
emozioni del terapeuta che si hanno informazioni sul sistema.
L'ambiente culturale degli ultimi venti anni ha fatto si che il controtransfert, inteso come strumento
interno all'ottica del modello teorico psicoanalitico, potesse essere utilizzato anche in ottiche diverse da
quella analitica.
Lo stesso dicasi per il discorso sul contesto. E' chiaro che nonostante il contesto nasca in campo
sistemico relazionale, lo psicologo clinico, quando arriva il paziente deve porsi delle domande del tipo
"cosa pensa di venire a fare, chi pensa di avere di fronte, in che cosa questo ambiente condiziona sia il
terapista che il paziente, quali sono gli elementi istituzionali che definiscono il setting in cui avviene
l'incontro tra paziente e terapista. Insomma si é maggiormente aperti a fare attenzione a quegli
elementi che provengono da altri ambiti culturali e che non sono visti come da rigettare, ma da
rielaborare all'interno di un'ottica clinica.
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In fondo nell'ambito dei servizi pubblici il "saper fare" deve essere molto più articolato, deve
includere una pluralità di competenze, poterle inscrivere in un'analisi del sistema e in un'analisi di se
stessi in quel sistema, e solo successivamente si potrà parlare di psicoterapia secondo un modello o
l'altro.
Non é difficile osservare che coloro che sono entrati in un servizio pubblico super specializzati, si
sono trovati a mal partito se non sono stati capaci di elaborare gli elementi contestuali e istituzionali.
E'chiaro che se poi lo psicologo clinico vuole, ad esempio, fare il terapeuta relazionale dovrà farsi anche
la preparazione specifica in questo ambito.
Masci: Se per diventare terapeuta relazionale ci vogliono nove anni, come può lo
psicologo clinico in quattro anni essere preparato su un ampio ventaglio di possibilità
psicoterapeutiche?
Andolfi: Vorrei riprecisare che quanto dico che ci vogliono nove anni, non è codificato da nessuna
legge e da alcun accordo tra Scuole diverse di Terapia Familiare. Altri istituti ritengono che quattro anni
siano sufficienti, questa è la mia idea, idea che di fatto in questi anni ha formato diverse centinaia di
persone.
Io ho insegnato per anni psicoterapia nelle scuole di specializzazione di psichiatria, all'Università
Cattolica e Neuropsichiatria Infantile alla Statale e mi sono reso conto che purtroppo agli specializzanti
in realtà si davano sostanzialmente delle certificazioni e che le conoscenze erano molto generali.
Insomma si forniva il minimo indispensabile per sapere una serie di discipline, lo specialista poi era
sostanzialmente e fondamentalmente sprovvisto di conoscenze pratiche e di una supervisione seria e
individualizzata fornita dalla Scuola. Soprattutto manca di una formazione su se stesso e sulle sue
risposte emotive e cognitive al rapporto con la sofferenza e il disturbo mentale e psicologico.
Infatti noi prendiamo psichiatri adulti e infantili in grande quantità, che hanno avuto questa loro
certificazione e che nonostante siano già specialisti, chiedono a noi di iniziare un iter formativo di
psicoterapia relazionale. In realtà noi non è che non riconosciamo il fatto che sono già psichiatri, ma
riconosciamo anche i limiti di quello che gli è stato fornito attraverso la psichiatria.
Masci: Quindi lei come la vede la figura dello psicologo clinico?
Andolfi: A mio modo di vedere va rivista alla stessa stregua di uno specialista in psichiatria o in
pediatria, anche se mi auguro che possa ricevere delle basi più solide sulla psicologia generale e sulle
scelte cliniche.
D'altro canto se nella formazione familiare non prendessimo degli specialisti, ma prendessimo degli
studenti in medicina o in psicologia, faremmo dei gravi danni perchè daremmo loro una
super-specializzazione, molto specifica in una fase evolutiva del loro iter formativo che è assolutamente
prematura. Penso che sia nefasto che vengano immesse durante il periodo di studentato delle idee di
tipo specialistico. Lo psicologo clinico sarà nella migliore delle ipotesi un professionista che ha delle basi
su tutto, e questo sarebbe già una cosa estremamente utile, che però non è ancora formato.
Masci: Qual'é il rapporto tra psicoanalisi e terapia relazionale?
Andolfi: Il problema come lo vedo io è molto complesso. Per molti anni si è parlato di terapia
familiare o terapia relazionale e tutt'ora si parla del terapeuta familiare.
La domanda è: dov'è finito lo psico? Per molti anni togliere lo psico ha rappresentato un modo per
ampliare l'area dell'intervento e per aprire a diverse categorie professionali, soprattutto ha significato
ritagliare uno spazio culturale e formativo nell'ambito del sociale, cioè di problematiche di comunità,
all'interno di istituzioni pubbliche. Insomma una terapia che non avesse la stessa profondità, che non
richiedesse lo stesso sforzo, la stessa formazione che aveva la psicoanalisi. Quindi se vogliamo è stata
una forma di contrapposizione che in quel momento aveva anche una notevole validità.
Negli anni poi ci si è accorti che se la terapia familiare o relazionale non avesse riacquistato quello
psico, finiva per identificarsi a una psicoterapia di serie B o di serie C, cosa che tra l'altro negli Stati
Uniti, dove penso di conoscere bene la situazione, è avvenuto veramente. C'è stato un decadimento
delle qualità e delle motivazioni nella formazione del terapeuta familiare drammatica, perchè in realtà
la psicoanalisi nel Nord America, le discipline chiamiamole più forti, non hanno avuto nessun confronto
con la terapia familiare.
In Italia penso che il discorso sia diverso. Noi abbiamo avuto un confronto ricchissimo prima con
l'antipsichiatria nella fase basagliana, che purtroppo è stata un po' sepolta e poi con l'evoluzione della
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psicoanalisi che in Italia si è notevolmente modificata ed é sostanzialmente uscita dal “lettino”
dell'analista.
Ci sono dei gruppi, alcuni anche vicini a questa facoltà di psicologia, che a mio avviso hanno
mantenuto ancora il livello della psicoterapia familiare senza lo psico. In qualche maniera hanno
preferito che la terapia familiare si ritagliasse e mantenesse uno spazio operativo molto pragmatico e
pensando soprattutto che ci sono dei sintomi che vanno riparati. Un altro tipo di terapia familiare, per
esempio quella nella quale sento di rappresentarmi, ha recuperato ampiamente lo psico - nei miei libri
per esempio se si vede il primo si chiamava “la terapia con la famiglia", l'ultimo si chiama “Tempo e
mito nella psicoterapia familiare”.
Questo significa che in qualche modo ci si ripropone ad un dibattito, non più ad un livello di serie B.
Gli psicoterapeuti familiari hanno la possibilità di avere una conoscenza anche del profondo
dell'individuo, diversa da quella di chi lavora in settings individuali. Così, se io lavoro da venticinque
anni con famiglie e vedo tre generazioni, ho una conoscenza dei singoli individui sicuramente diversa
da un'analista che lavora venticinque anni con pazienti individuali, però non per questo meno ricca e
articolata.
Masci: Prof. Vella anche Lei pensa che la terapia relazionale abbia finito un po'con il
perdere lo "psico”
e che tale cosa l'abbia resa una terapia di serie B rispetto alla
psicoanalisi?
Vella: Perché lo ha perso? Dire psicoterapia di serie A o di serie B lo si può dire da due punti di
vista: da un punto di vista politico e da un punto di vista scientifico.
Da un punto di vista politico non c'é dubbio che la terapia relazionale é ancora di serie B. La
psicoanalisi é entrata dappertutto, nel cinema, nella televisione ecc... Ma dal punto di vista scientifico
non vedo proprio perché la terapia relazionale debba essere di serie B. Diciamo piuttosto che siamo ai
primordi. Chi studia, chi porta avanti lo studio della pragmatica e della relazione sistemica,
cominciando a tirare dentro il problema dell'analisi della relazione sistemica, che era stato prima programmaticamente escluso dicendo che era una contradictio in termini e invece non lo era affatto, si
rende conto che non si esclude lo "psico". Noi includiamo tutto quello che é relazionale nello psicologico
a cominciare dalla fantasia.
Mi trovi una fantasia che quanto di più privato possa essere che non sia relazionale. E questo é psico
o non é psico? Non lo vediamo anche con il comportamento? Pensi ai rapporti genitori figli o ai rapporti
coniugali all'inizio dei matrimonio.
Masci: Come si pone il terapeuta relazionale di fronte al
problema del transfert e del controtransfert?
Andolfi: Questo è un tema con il quale per un periodo si è pensato
non si dovesse fare i non si pensava che si dovesse mettere in il
coinvolgimento del terapeuta. Nel mio gruppo, da molti anni, questo
discorso lo abbiamo non solo cambiato ma abbiamo pensato che la cosa
principale fosse studiare soprattutto le reazioni del terapeuta nei
confronti del processo terapeutico e quindi i suoi coinvolgimenti, la
natura dei suoi coinvolgimenti sia sul piano emozionale che nella
costruzione dei significati. Cosi, non solo al abbiamo analizzato tutto ciò,
ma abbiamo incoraggiato delle crisi personali nei nostri didatti e nei
nostri studenti che hanno spinto molti di noi a scegliere di fare anche
l'esperienza del paziente.
A differenza dell'analisi secondo la quale un analista individuale deve
fare una psiconalisí individuale per diventare un analista non siamo
riusciti ancora a coniare un parallelismo: che un terapeuta familiare dovrà fare una sua terapia
familiare per poter meglio capire che vuol dire far superare al paziente delle resistenze. Dovremmo
arrivare a poter permettere che anche la famiglia di un terapeuta familiare sia studiata come la
famiglia dei pazienti. Questa è una cosa che non interessa tutti i terapeuti familiari ma interessa
moltissimo me e molte persone con le quali in qualche modo ho condiviso in Italia e all'estero questo
pensiero. Tra l'altro in questo se ci sono dei pionieri della terapia familiare come Bowen, Framo,
Whitaker, ecc. Di quest'ultimo uscirà fra breve un volume, a cura dell'Astrolabio, in cui il primo
lunghissimo capitolo è tutto sulla sua vita familiare, la evoluzione nell'ambito della sua famiglia.
Arrivare a settantasette-settantotto anni e lasciare in un libro scientifico una specie di messaggio
morale che viene prima lo studio sulla propria famiglia, credo che sia un messaggio molto importante
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che però potrà produrre anche l’effetto che molti terapeuti familiari rinunceranno a fare i terapeuti
familiari perché se costa troppo dover rianalizzare i propri legami familiari, i
propri miti, probabilmente preferiranno non farli e questo sarà pure un
bene, perchè non è sulla quantità ma sulla qualità delle motivazioni che si
farà una buona psicoterapia.
Vella: Innanzi tutto bisogna dire che il transfert ed il controtransfert
hanno un proprio senso solo nel contesto di una relazione analitica anche se
in seguito, in senso lato, il significato si é ampliato. Per il fatto che anche
all'interno di una terapia relazionale esiste una relazione, possiamo
chiederci che rapporto esista tra relazione ed inconscio personale. In ogni
caso esiste un inconscio relazionale nel senso che ciascuno dei due
contraenti la relazione ha appreso il giudizio rispetto alla natura, al
significato, al fine, al tipo di relazione che non coincide con quella dell'altro
e non coincide con la propria. E' possibile vedere quanto detto nelle
relazioni coniugali dove tutti si sposano con delle idee mitiche, illusorie,
fantasmatiche, reciprocamente proiettate sull'identità dell'altro coniuge e sulla natura del significato
della relazione coniugale. Questo ha sicuramente a che fare con l'inconscio personale.
Questa é una realtà che, insieme ad altre realtà della relazione, si sta cominciando a studiare.
L'emozione di una relazione e altri fattori incidono sulla realtà relazionale che prima era vista
semplicemente come parte della comunicazione, come messaggi che informano, comandano, e cose
analoghe.
Anche il terapeuta può avere di questi problemi nel contesto della relazione terapeutica; può avere
delle idee sbagliate, dei pregiudizi sul senso della relazione, sul senso della patologia, sulla realtà delle
relazioni dei pazienti: può commettere degli errori. Se vogliamo chiamare tutto ciò transfert,
chiamiamolo pure transfert relazionale con tutto quello che una situazione di questo genere comporta
dal punto di vista pragmatico.
Malagoli: Un ruolo importante nell'affrontare il problema del transfert e del controtransfert, lo
svolge la discussione post-seduta dove il terapeuta comincia a raccontare cosa ha visto o cosa gli
sembra di aver visto, quali sono state le sue emozioni, con "gli occhi di chi" ha letto la situazione. E'
chiaro che in questo modo allievo-terapeuta tira fuori i suoi elementi controtransferali e ponendo così
l'attenzione alla reciprocità del rapporto, si individuano anche gli elementi transferali.
Come diceva il prof. Vella nella supervisione avviene un continuo lavoro di riflessione comune con
l'allievo prima, durante e soprattutto dopo la seduta. li motivo per cui registriamo la seduta é quello di
poter effettuare queste riflessioni insieme con il terapista che diventa più consapevole dei propri vissuti
controtransferali.
Masci: Ritenete necessaria l'analisi personale per chi voglia intraprendere una formazione
relazionale?
Vella: lo penso che aiuti in quanto l'ottica relazionale-sistemica non esclude minimamente, né dal
punto di vista della concettualizzazione teorica né dalla considerazione clinica, l'intrapsichico e
l'intrapsichico ordinato in senso analitico.
Da un certo punto di vista lo scopo dell'educazione relazionale e quello dell'educazione analitica é lo
stesso.
Il fine ultimo dell'educazione analitica é far si che il soggetto abbia un buon rapporto con sé stesso.
Scopo dell'educazione relazionale é quello di riconoscere la necessità della presenza dell'altro per
educare al rapporto con se stesso. Insomma io riconosco l'importanza della tua presenza di altro da me
per conoscere me stesso in rapporto a te e noi due nell'ambito della realtà.
Malagoli: Senz'altro l'analisi personale é un elemento di conoscenza che noi incoraggiamo a fare.
Sicuramente molti nostri allievi l’hanno fatta. Tra l'altro oggi giorno certe barriere sono meno
dogmatiche, negli itinerari di crescita delle persone ci sono spesso diversi percorsi formativi come
anche una recente ricerca di Girolamo Lo Verso ha messo in evidenza.
Masci: Quali le indicazioni e le controindicazioni alla terapia relazionale?
Andolfi: La prima controindicazione è che non la deve fare chi non la sa fare. Trovo che nel lavoro
di supervisione clinica che ho fatto in questi anni l'handicap maggiore non viene quasi mai dalle
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famiglie problematiche ma da terapeuti problematici. Quindi controindicherei la terapia familiare a quei
terapeuti che non hanno avuto sufficiente curiosità di analizzare loro stessi, di vedere nella propria
capacità di osservare se stessi una parte del processo terapeutico che portano avanti, che non hanno la
capacità per esempio di mettere a nudo tutta una serie di loro problemi personali. Soprattutto quei
terapeuti presuntuosi e idiosincratici che non riescono a capire che per poter fare i terapeuti familiari
devono porsi anche loro come pazienti altrimenti non capiranno mai le situazioni di sofferenza degli
altri.
Quindi secondo me una controindicazione è per quel terapeuta che sia così difeso e resistente da
non riuscire a vedere che tutto sommato è soprattutto a livello umanistico ed esperenziale che avviene
un rapporto. Questa persona non dovrebbe fare questo mestiere.
Per quanto riguarda il lato delle famiglie, controindicherei la terapia familiare a quelle aree di
cronicità che sono invece quelle su cui si fa più palestra per formarsi come terapeuta. Andare a vedere
in terapia familiare pazienti, che sono stati pazienti cronici per trentacinque-quarant'anni e cercare di
risvegliare aspetti familiari, ho la sensazione che siano utili esercizi per terapeuti in apprendimento, ma
del tutto inutili per i pazienti. Perchè la famiglia diventi una risorsa terapeutica deve esistere nel suo
interno una certa plasticità, altrimenti ci sono altre aree di intervento più utili, tipo la riabilitazione di
cronici in case famiglie, ecc.
Controindicherei poi la terapia familiare dove esistono già altri processi terapeutici in atto. E'
possibile che ci siano due coniugi che vengono a fare una terapia di coppia o la terapia familiare e
magari ognuno dei due fa già una terapia individuale. Credo che sia un errore quello di immaginare che
uno contemporaneamente possa impegnarsi in più di una psicoterapia. Aspetterei che la gente abbia
concluso, se lo vuol concludere, un rapporto di intimità con una terapia individuale per poi
eventualmente fame una familiare. Quindi controindicherei la coesistenza di tante terapie parallele, il
che purtroppo sta diventando una moda.
Controindicherei inoltre la terapia familiare in una situazione di grave patologia o comunque non la
considererei come l'elemento principale di lavoro per esempio rispetto a famiglie di alcoolisti molto
gravi, croniche. Laddove ci si accorge che c'è un limite invalicabile nel sollecitare risorse familiari credo
che bisognerebbe non intervenire con un discorso con la famiglia.
Non farei terapia familiare laddove per esempio esistono situazioni in cui la famiglia è realmente
fortemente distruttiva, in quanto penso che vada tutelata l'integrità di quelli che non sono stati ancora
danneggiati, soprattutto se minori.
Le famiglie distruttive non sono quelle che arrivano in terapia e si criticano o litigano, quelle sono
famiglie normali. Per famiglie fortemente distruttive intendo quelle, per esempio, dove ci sono state
separazioni violente, quelle in cui i figli sono fortemente palleggiati, quelle in cui ci sono dei
risentimenti economici, dei risentimenti violenti. Tentare in questo caso di ricostruire un'unità familiare
è pressoché illusorio.
Vella: La terapia relazionale, come qualsiasi forma di psicoterapia non é indicata in tutto il percorso
di patologia mentale in cui é accertata la causa somatica. Insomma non ci sono controindicazioni in
senso teorico. E' chiaro che ci sono patologie sulle quali si é lavorato di più e quindi si conoscono
meglio.
Teoricamente é indicata per le fobie, per le ossessioni, per i disturbi del comportamento alimentare,
per le sindromi di conversione isterica, ecc.
Abbiamo fatto anche terapia familiare in due casi di paranoia - siamo nel campo delle psicosi - e
abbiamo avuto degli ottimi risultati.
Malagoli: E' chiaro che se lei fa una domanda del genere bisogna scendere nella tecnica in modo
specifico. Quindi il problema é quando fare l'intervento sul gruppo familiare e quando non farlo. Dico
gruppo familiare poiché in realtà muovendosi secondo il modello teorico relazionale si può anche fare
l'intervento sul singolo individuo. Ma diciamo che qui siamo già in un campo particolare e quindi é
preferibile restare sulla famiglia.
La tecnica relazionale è specifica nelle terapie di coppia per problemi conflittuali, psicologici o
sessuali di uno o di tutti e due i partner. E' bene che crescano e che cambino insieme. Per quanto
riguarda l'intervento con la famiglia è chiaro che se per esempio la domanda mi viene rivolta da un
giovane adulto, io tendo a fare un lavoro individuale oppure due o tre incontri con tutto il gruppo
familiare per poi arrivare il più rapidamente possibile a degli incontri individuali quindi ad una impostazione in cui il singolo individuo si responsabilizza in prima persona.
Se la domanda di aiuto per il giovane adulto mi viene rivolta da un genitore propongo la consulenza
con tutta la famiglia. Se i problemi riguardano un bambino senz'altro l'intervento sarà con la famiglia e
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in taluni casi solo con i genitori se il bambino è molto piccolo, o se é molto protettivo nei confronti dei
medesimi come succede nelle sintomatologie di tipo psicosomatico.
Come diceva il prof. Vella con la terapia relazionale si possono trattare casi di patologia anche gravi.
Personalmente ho avuto terapia una ragazza anoressica alla quale, nonostante sostenesse di essere lei
la malata, ho suggerito di andare da un terapeuta individuale dopo aver sostenuto un certo numero di
incontri insieme con la sua famiglia per far si che gestisse "il suo andare" in modo responsabile e non si
mettessero in moto quei meccanismi di intrusione o di boicottaggio dell'intervento individuale
tipicamente messi in atto nei casi in cui genitori e figlio sono troppo coinvolti (invischiati) sì da non
rispettare i reciproci confini. Ugualmente in altre situazioni patologiche in cui i meccanismi collusivi e gli
aspetti simbiotici della relazione sono prevalenti è opportuno intervenire sulle dinamiche familiari in
modo che tutti i componenti del gruppo collaborino e partecipino al cambiamento.
Masci: In che rapporti si trova il terapeuta relazionale con l'attuale legge che tra le altre
cose regolamenta anche l'attività terapeutica?
Andolfi: Credo che si trovi nei confronti della legge allo stesso modo di tutti gli altri tipi di
psicoterapia. Immaginare che si possa formare uno psicoterapeuta sui banchi di scuola universitari
credo che sia non solo un'illusione ma sia estremamente pericoloso. Nonostante io insegni all'università
non penserò mai che questa possa essere luogo più adatto dove ci si possa formare psicoterapeuticamente.
Si può fornire una cultura psicoterapeutica, si possono dare, anche molto meglio di quanto non è
avvenuto in passato, dei contenuti teorici, delle metodologie. Ad esempio io insegno da anni la
metodologia relazionale nei miei corsi di laurea, e credo di aver dato un ottimo contributo
all'apprendimento della metodologia relazionale a quegli studenti che per anni hanno seguito le lezioni.
Però non mi permetterei mai di pensare che possano uscire sia dal corso di laurea che da una
specializzazione successiva delle persone formate.
La formazione è, un concetto molto più complesso in cui il coinvolgimento personale, familiare,
gruppale, di un individuo è talmente importante che non si può pensare di “tornare" dentro
un'università sia essa pubblica che privata.
lo ho insegnato, e tutt'ora insegno Visiting Professor presso l'universitá americana come l'Hahneman
Medical College di Filadelfia, dove ci sono proprio dei Master o dei Ph.D in psicoterapia familiare.
Da tali università, sicuramente più ricche e più organizzate delle nostre, nessuno esce formato
perchè l'università, ha dei limiti accademici; inoltre il motivo per cui uno fa un corso, diventa
professore, è molto diverso dal motivo per cui diventa uno psicoterapeuta, un supervisore di
psicoterapia familiare o individuale ecc.
Credo che la legge fosse importa quindi è utile che ci sia. Prima c'era un vuoto mentale e credo che
ci saranno nel futuro psicoterapeuti impreparati però legiferati, ossia ufficiali, così come fino ad ora ci
sono state tante altre specializzazioni esempio nell'area medica o nell'area di altre discipline con aree di
conoscenza fortemente carenti. A questo punto però io spero che un professionista, una volta che
viene definito ad esempio "psicologo clinico” si accorgerà della clinica vera negli anni successivi quando
uscirà dall'università e si renderà conto che dovrà andare a riflettere da qualche parte formarsi
realmente e allora se si vuol formare si andrà a formare... non più per la legge, per la sua vita, almeno
quella professionale.
Masci: Si può insegnare la terapia familiare all'interno dell'università?
Malagoli: All'interno dell'Università si può insegnare tutto, dipende qual'é il progetto. Se lei mi
domanda se l’Università può formare dei terapeuti relazionali allora in questo senso sarei più prudente
in quanto non bisogna confondere l'acquisizione di strumenti di base, che sicuramente devono essere
comuni per tutti, con la competenza. Per fare un esempio, tutte le persone che lavorano nell'ambito
psicologico devono sapere che esiste il transfert e il controtransfert, ma questo non li abilita ad essere
psicoanalisti. Insomma una persona deve imparare a riconoscere gli aspetti contestuali e le dinamiche
delle relazioni interpersonali di un gruppo familiare, ma un conto é sapere queste cose e un altro é
saperle gestire.
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