Assedio urbanistico alla Città Santa

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Assedio urbanistico alla Città Santa
Assedio urbanistico alla Città Santa
(Ilaria De Bonis in Jesus, dicembre 2010)
Non c’è ressa oggi all’ingresso dell’Haram al Sharif, in Città Vecchia. Sono le
dodici e non è tempo di visite per i turisti. I fedeli entrano alla spicciolata. Piove e
senza sole la maestosa cupola d’oro della Moschea di Omar pare splendere meno.
Shibli e Sultan, i due uomini della security israeliana, si rilassano alle transenne.
Scherzano con Ahmad Masood, il guardiano della spianata. Shibli e Sultan sono arabi:
il loro compito (nel corpo della polizia di Israele) è quello di assicurare che non
scoppino disordini in Città Vecchia. E nel caso, quello di usare le armi, che tengono ben
in vista sopra i loro giubbotti antiproiettile. Shibli ha vent’anni, è un beduino di Israele
e viene da Haifa.
Sultan è arabo palestinese e vive a Gerusalemme Est. «Gli scontri con gli ebrei
avvengono eccome qui», racconta Ahmad il guardiano delle moschee. «I coloni ebraici
entrano nei giardini, spesso per sfregio. Non oggi, perché è shabbat. Entrano e
disturbano la nostra preghiera. Il Corano dice che questo è il nostro luogo sacro non il
loro».
In assoluto il più sensibile dei siti religiosi di Al Quds («la santa», Gerusalemme
in arabo), dentro il quadrilatero protetto dalle mura, la spianata ospita la Moschea di
Omar dai mosaici azzurri e l’antica Al-Aqsa. Lo stesso sito coincide pericolosamente
con il Muro del Pianto, sacro luogo di preghiera per gli ebrei su quello che chiamano
Monte del Tempio. Infine, i cristiani guardano al monte come al luogo del Vangelo per i
riferimenti alla vita di Gesù nel tempio.
Dentro le mura di Solimano tra odori di spezie e incenso i vicoli s’intersecano:
Via dolorosa, Bab Hutta e El Wad. Santo Sepolcro, Ecce Homo e Moschea Rossa. Le
processioni di fedeli si sfiorano senza intralcio. Ogni gruppo segue una propria
traiettoria. Quella degli ultraortodossi sefarditi e degli haredim somiglia a una corsa
a ostacoli. A passo spedito si dirigono ogni venerdì pomeriggio al Muro Occidentale.
Qui gli attriti, le tensioni provocate ad arte e gli scontri fisici tra musulmani e polizia,
ebrei ortodossi e arabi «sono all’ordine del giorno», spiega Yusuf Natsheh del Waqf,
fondazione islamica che tutela i beni culturali e patrimoniali. Quando si avvicinano le
grandi festività religiose ebraiche, come il Kippur o il Sukkot, e i controlli dei militari
si fanno più serrati, allora le provocazioni verbali diventano bombe. Notizie come
quella della costruzione di un tunnel sotterraneo che minerebbe alle fondamenta la
Moschea di Al-Aqsa, o del controverso progetto del centro Wiesenthal per la
costruzione di un Museo della Tolleranza proprio sulle ceneri di un antico cimitero
musulmano a Mamilla, provocano la reazione risentita degli arabi palestinesi che si
asserragliano ancor di più nei luoghi di preghiera come in una fortezza.
«Siamo sotto occupazione militare israeliana e questo dato si ripercuote a
maggior ragione sui luoghi sacri dentro e fuori la Città Vecchia», spiega Natsheh, «il
paradosso è che questi siti sensibili dovrebbero essere ancora più tutelati e rispettati
dalla forza occupante, ma di fatto così non è». Capita invece, talvolta, che siano
proprio i rabbini ultraortodossi (gli haredim che ritengono ancora lontana la venuta del
Messia e dunque prematuro un ritorno in massa degli ebrei in Israele) a mettere in
guardia i propri fedeli circa le provocazioni che generano violenza alterando, dunque,
la purezza dei luoghi sacri. «Secondo l’halacha’ (la legge religiosa ebraica) agli ebrei è
proibito recarsi al Monte del Tempio per due ragioni: per via della sua santità e per le
ripercussioni politiche che la loro presenza può avere in quel luogo», ha dichiarato di
recente l’anzianissimo rabbino capo lituano Sholom Elyashiv della comunità aschenazita
di Mea Shearim.
Ma questa posizione pare rappresentare piuttosto un’eccezione nel panorama
religioso ebraico moderno. Eppure, come ben sanno i funzionari internazionali che a
Gerusalemme vivono da anni, la contesa sull’holy basin, il bacino santo, è solo la punta
dell’iceberg di una tensione costante nata con l’occupazione militare di Gerusalemme
Est e Cisgiordania. E non si risolverà finché la città non verrà divisa in due
giurisdizioni, una araba palestinese e l’altra israeliana. Ponendo la Città Vecchia «sotto
tutela internazionale», secondo i sempre validi «Clinton parameters» discussi a Camp
David.
La comunità internazionale, rappresentata dagli Stati Uniti e dall’Europa «vuole
veramente un doppio stato con una Gerusalemme capitale per due nazioni. E vuole
anche una città aperta con garanzia internazionale a statuto particolare. Ma questo
punto deve essere discusso assieme agli altri, nel pacchetto del negoziato di pace:
insediamenti, ritorno dei profughi, confini del futuro stato e status quo di
Gerusalemme. Non si può risolvere uno senza l’altro: formano un mosaico», dichiara
monsignor William Shomali, vescovo ausiliare del patriarcato latino di Gerusalemme.
Perché «Gerusalemme non è una città qualsiasi», aggiunge, «e questa sua
particolarità religiosa dovrebbe essere tradotta in misure concrete da parte di
Israele: dare uguaglianza di diritti e di doveri alle tre religioni senza guardare al
numero di ciascuna rappresentanza. I cristiani sono diecimila a Gerusalemme ma non
vuol dire che essi debbano godere solo del 2 per cento dei diritti rispetto agli altri.
Gerusalemme è sacra per tutte le fedi allo stesso modo».
Il messaggio dei vescovi, veicolato tramite il documento finale presentato a
Roma dal Sinodo per il Medio Oriente parla chiaro: «Non è permesso ricorrere a
posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento che giustifichi le ingiustizie», si
legge, «al contrario il ricorso alla religione deve portare ognuno a vedere il volto di Dio
nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e dei suoi comandamenti». Dal canto
loro i padri francescani della Custodia di Terra Santa in diverse occasioni hanno
evidenziato aspetti legati al particolare status degli arabi cristiani penalizzati su
entrambi i fronti. «Il vero problema per un cristiano», ha dichiarato in una recente
intervista il Custode padre Pierbattista Pizzaballa, «è quello di essere cittadino
israeliano ma non ebreo, di essere arabo ma non musulmano».
Si tratta dunque «di una minoranza dentro una minoranza». Non ci sono, dal
punto di vista della legge, delle vere discriminazioni, «ci sono però de facto delle
disuguaglianze di trattamento». Il mondo religioso ebraico è a sua volta estremamente
variegato in Israele, tanto che il rabbino capo dei sefarditi, Shlomo Moshe Amar, ha
sentito il bisogno di dichiarare recentemente a una radio israeliana: «Il maggior
pericolo che affrontiamo è dato da noi stessi non dal terrorismo». Perché il «vero
fondamento del popolo ebraico è l’unità. Ma noi diamo priorità agli aspetti materiali del
mondo e non all’unità del nostro popolo». Le posizioni all’interno della compagine
eterogenea del mondo religioso ebraico, in effetti, vanno da quella più moderata dei
rappresentanti del gran rabbinato di Israele (rabbino Yona Metzger, aschenazita e il
rabbino Shlomo Moshe Amar sefardita), a quella dei rabbini estremisti alla guida della
cosiddetta "ortodossia moderna", che abbracciano posizioni nazionaliste (sionismo
religioso) spesso di estrema destra e si identificano con partiti come lo Shas o il Kach,
dalle pericolose derive messianiche. Sfociate di recente nell’arresto di uno dei rabbini
della colonia di Yitzhar in Cisgiordania. Era autore del libro scandalo Torat Hamelekh.
Ossia, quando è lecito uccidere i non ebrei: «C’è una giustificazione nell’uccidere i
bambini se risulta chiaro che in futuro essi possano danneggiarci», si legge nel testo.
Di sicuro interesse, anche se ancora marginale in Israele, è la corrente
dell’ebraismo riformato, che all’Hebrew Union College di Gerusalemme ha tra i suoi
esponenti di punta una donna: il rabbino Naamah Kelman. Estremamente aperti e
tolleranti, gli ebrei della riforma guardano con preoccupazione alle posizioni estreme
di un universo ultraortodosso sempre più razzista e sessista.
Le donne ebree religiose a Gerusalemme inoltre stanno scardinando un mondo
fatto di regole declinate solo al maschile e a fatica cercano di imporsi nel panorama
ebraico israeliano: le "Donne del Muro", in particolare la leader femminista Anat
Hoffman che al Muro del Pianto indossa i paramenti religiosi maschili e pretende di
pregare anche negli spazi riservati ai soli uomini, sono un’espressione vivace di questa
rivoluzione al femminile.
Aprirsi finalmente alle tre fedi e appartenere nella stessa misura a cristiani,
ebrei e musulmani non impedirebbe affatto a Gerusalemme di essere materialmente
spartita. Anzi. Secondo la maggior parte degli osservatori internazionali la divisione è
il presupposto per una pace duratura. «Una spartizione giurisdizionale e
amministrativa renderebbe giustizia ad entrambi i popoli», afferma Meir Margalit
consigliere comunale del Meretz, il partito di sinistra. Al contrario di quanto fa il
Muro di separazione costruito da Israele, che s’incunea nei quartieri Est di
Gerusalemme e in Cisgiordania spezzando in due la continuità di quartieri, terre, case
e famiglie.
Perfino i politici della destra, a partire dal sindaco di Gerusalemme Nir Barkat,
sanno che prima o poi la città andrà divisa. E in parte restituita. La comunità
internazionale preme per questo. Va divisa perché un giorno dovrà essere, che piaccia
o meno, capitale di due stati autonomi. «Ma più tempo passa più la parte destinata agli
arabi si assottiglia e Barkat ne è consapevole», precisa Margalit. Anzi, è lui l’artefice:
«consente ai settler di proseguire nell’opera di colonizzazione dei quartieri
palestinesi».
E che il sindaco di Israele assecondi l’opera di costruzione degli insediamenti
illegali dentro i quartieri arabi "storici" di Gerusalemme Est, lo conferma anche il
demografo di Gerusalemme, Sergio Della Pergola, docente universitario alla Hebrew
University. «Barkat è responsabile di questa politica», dice, «sono stato il demografo
del piano regolatore di Gerusalemme e dico che è un grave errore costruire una casa
di un certo tipo culturale nel mezzo di una zona identificata con un altro tipo
culturale. È un errore perché sa di provocazione». Il riferimento è a intromissioni di
coloni nazionalisti dentro Silwan, ad esempio, nel sito archeologico della Città di
Davide. Quella che Della Pergola chiama «provocazione» altri la chiamano «politica
dell’apartheid» o, ancora, «giudaizzazione» di Gerusalemme, per dirla con le parole
dell’attivista palestinese Omar Barghouti. Perché se è vero che più tempo passa più i
muri invisibili crescono è vero anche che più tempo passa più i numeri si capovolgono:
gli ebrei di Gerusalemme erano il 74 per cento della popolazione totale nel 1967, sono
il 65 per cento oggi. Gli arabi palestinesi sono passati, nello stesso lasso di tempo, dal
26 per cento al 36 per cento. È per questo che, secondo i pacifisti palestinesi, la
«giudaizzazione» di Gerusalemme è stata accelerata.
Il trenino leggero che collegherà la colonia ebraica di Pisgat Zeev alla Porta di
Giaffa in Città Vecchia, ad esempio, portando i suoi "residenti" direttamente in
centro, è una delle prove più evidenti del tentativo di normalizzare uno status quo.
Israele considera oramai a tutti gli effetti parte integrante di Gerusalemme quegli
insediamenti ebraici che le Nazioni Unite ancora chiamano illegali (Gilo, Ramot, Neve
Yakov, Pisgat Zeev). E su questi ben poco potranno gli interventi della comunità
internazionale e degli esponenti religiosi. Il discorso è invece potenzialmente aperto
su altre zone arabe che ancora hanno una chance di restare tali.
«Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa», scrivono i
vescovi del Sinodo del Medio Oriente, «e siamo preoccupati delle iniziative unilaterali
che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto». La prima zona nel mirino
della destra israeliana in questo senso è Silwan. Seguono Ras al-Amud, Sheikh Jarrah
e Monte degli Ulivi. In questi quartieri la presenza dei coloni ebraici – di norma
appartenenti ai gruppi nazional-religiosi – mina qualsiasi dialogo di pace. Imponenti
residenze costruite ad hoc per i coloni (che anche Israele definisce illegali) sono
sorte nella parte più sacra di Gerusalemme Est, tra Ras al-Amud, appena fuori le mura
della Città Vecchia, e il Monte degli Ulivi. Come Maale Hazeitim, nei pressi del
Getsemani, che presto verrà ulteriormente ampliata con la costruzione di un sec ondo
insediamento Maale David.
A Sheikh Jarrah la politica di sfratto e demolizione di case arabe ha lasciato
senza un tetto decine di famiglie. Ma l’allarme maggiore riguarda Silwan: la
demolizione sistematica di case arabe ha alzato il livello di tensione, la presenza dei
vigilantes privati armati a difesa delle case di coloni ha provocato episodi spesso
mortali. Sul Monte degli Ulivi invece accadono storie paradossali come questa: la
famiglia di Mahmoud Abu-al hawa, araba palestinese cristiana, vive in un edificio
occupato per metà da un settler ebraico che ha piantato un’enorme bandiera bianca e
azzurra proprio sul tetto. Quell’appartamento all’ultimo piano è stato comprato nel
2005 da Irving Moskovitz, noto magnate ebreo americano che finanzia le colonie di
Gerusalemme Est. Mahmoud non sapeva che dentro ci sarebbe finito un colono
estremista. Suo fratello l’aveva infatti venduto ad un arabo. Poi un giorno al posto del
palestinese cui era stata venduta la casa si sono presentati alcuni ebrei israeliani,
bagagli alla mano, e si sono trasferiti lì. La famiglia Abu-al hawa da quel giorno vive con
il terrore che gli portino via anche l’altro pezzo di casa. Dopo due mesi da quell’incauta
vendita il fratello di Mahmoud è stato ammazzato. «Adesso vengono a chiedermi di
poter comprare anche l’altra parte della casa. Vengono, bussano, si siedono. Una volta
avevano pure i contanti più di mezzo milione di dollari! E volevano casa mia», sorride
mentre racconta. «Ma non gliela darò mai. È la casa dove sono nato e dove mia madre
ha vissuto. Eppure se accettassi sarei ricco. Potrei rifarmi una vita in America e i miei
figli studierebbero lì. Ma no, io non gliela darò mai questa casa».
Così vivono insieme, Mahmoud e il colono. Uno sopra e l’altro sotto. Non si
conoscono e non si parlano. Ognuno con le sue preghiere e i suoi riti. L’ebreo ogni
giorno arriva a casa scortato da una guardia privata. Entra nell’appartamento con le
grate alle finestre, le grate sul cortile, le grate sull’abbaino e decine di telecamere su
ogni facciata del palazzo. Si chiude dentro. Dà qualche mandata alla porta e se ne sta
chiuso lì, protetto dai suoi vigilantes, senza uscire e senza guardare il sole fino al
mattino successivo.