Aiuti di stato, una scomoda sentinella

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Aiuti di stato, una scomoda sentinella
Aiuti di stato, una scomoda sentinella
Domenica 24 Gennaio 2016 10:41
di Michele Polo da Lavoce.info del 22/1/2016 - La Commissione europea si è opposta a una
soluzione attraverso il Fondo interbancario di tutela dei depositi per le ormai famose quattro
banche locali italiane in base alla disciplina degli aiuti di stato. Ed è stata una scelta corretta. Le
tentazioni di una politica industriale “interventista”. Le ragioni del divieto. Un convitato di pietra
siede a fianco di molte dispute che hanno contribuito ad accrescere le tensioni tra il governo
italiano e la Commissione europea, la disciplina degli aiuti di stato. È infatti appellandosi al
divieto di questi aiuti che la Commissione europea si è opposta all’intervento del Fondo
interbancario di tutela dei depositi per salvare le quattro banche locali poi poste in liquidazione a
fine novembre, con le perdite dei capitali investiti da azionisti e obbligazionisti subordinati.
Nei prossimi giorni si aprirà a Bruxelles il dossier Ilva, per comprendere se i contributi pubblici
che hanno permesso all’acciaieria di proseguire le proprie attività e avviare le prime fasi di
bonifica ambientale siano da considerare come aiuti di stato, e quindi non possano essere
erogati. Altri dossier, in modo forse meno appariscente, hanno passato il vaglio severo degli
aiuti di stato, come il piano per lo sviluppo della rete a banda larga o i sussidi alle fonti
rinnovabili.
È quindi utile richiamare le ragioni e i principi di questa disciplina, per uscire dalla logica degli
schieramenti e comprendere se, da Bruxelles, arrivino interventi e freni impropri o invece uno
stimolo a calibrare l’intervento pubblico secondo logiche di efficienza.
La disciplina degli aiuti di stato si applica a tutte le forme di intervento pubblico diretto,
attraverso trasferimenti, sussidi, strumenti di agevolazione fiscale e altro, che abbiano un
impatto sui costi delle imprese creando artificialmente un vantaggio nei confronti di altri
concorrenti che ne risultano invece esclusi. È quindi evidente che sono i più tradizionali
strumenti della politica industriale, oggi tentata da una nuova primavera, a finire sotto la lente
degli aiuti di stato.
Le regole comunitarie non implicano un divieto assoluto, poiché si riconosce che queste forme
di intervento diretto possono avere giustificazioni che le riportano nell’alveo delle valutazioni di
efficienza cui sono chiamate tutte le politiche dell’offerta, dall’antitrust alla regolazione alla
politica industriale. Alla base di un intervento diretto deve tuttavia esserci un ben individuato
fallimento di mercato, quale per esempio una esternalità ambientale, l’incapacità dei soggetti
privati di realizzare investimenti che abbiano come risultato un vantaggio generale, la garanzia
di obiettivi pubblici quali la stabilità e la difesa del risparmio. A partire da questi fallimenti del
mercato, le forme di supporto pubblico debbono realizzarsi nel modo meno distorsivo possibile,
sia per entità dei contributi erogati che per la non discriminazione nell’accesso a questi, e
operando in modo residuale dopo che altri strumenti siano stati adeguatamente utilizzati.
Rimane tuttavia un margine di flessibilità nel bilanciare i diversi effetti, che ha portato, a
seconda delle fasi del ciclo economico, a una applicazione più o meno stringente. Il caso forse
più evidente è proprio quello delle crisi bancarie, dove un elemento forte riguarda l’impatto
sistemico di un fallimento.
Nelle fasi drammatiche della crisi finanziaria del 2008-2009, il timore di un effetto a catena, che
partendo dal fallimento di una azienda di credito avviasse un collasso generale del sistema del
credito, ha portato ad allentare notevolmente i criteri per salvataggi attuati con fondi pubblici.
Consentendo aiuti pubblici per 238 miliardi di euro (8 per cento del Pil) alla Germania, 42
miliardi di euro (22 per cento del Pil) all’Irlanda e interventi superiori al 5 per cento del Pil ad
Austria, Paesi Bassi e Portogallo.
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Quanto gli interventi siano stati giustificati da un reale timore di crisi sistemica e quanto invece
abbiano consentito di includere tra le aziende di credito beneficiarie istituti di piccole dimensioni
incapaci di innescare effetti a catena, è un punto di difficile valutazione, che comunque finora
non è stato adeguatamente indagato. Ma l’impressione di una fase di vacanza delle regole, di
fronte alle priorità di tenuta del sistema, ha sicuramente buoni argomenti a cui appoggiarsi.
Rischi di un eccessivo interventismo
Venendo alle vicende di casa nostra, nonostante il Fondo interbancario di tutela dei depositi sia
alimentato dai contributi di aziende di credito private, e non gestisca quindi fondi pubblici, la
Commissione ha ritenuto che la natura obbligatoria dei contributi, unita alla governance del
Fondo e al ruolo di autorizzazione della Banca d’Italia, configurassero un organismo finalizzato
a perseguire obiettivi di natura pubblica e non guidato da logiche puramente private. Il
salvataggio delle quattro banche, inoltre, andava al di là della mera tutela dei depositanti, cui il
Fondo è destinato, rafforzando la convinzione di uno strumento attraverso cui le politiche
pubbliche utilizzavano fondi privati per finalità proprie. La natura locale di queste banche, infine,
rendeva poco plausibile l’innescarsi di effetti a catena. Da qui il divieto, secondo la disciplina
degli aiuti di stato.
Ritengo che questi argomenti abbiano un fondamento, e il confronto con il trattamento ben più
lasco di cui altri paesi europei hanno beneficiato nei primi anni della crisi, pur difficile da
digerire, non modifica la bontà degli argomenti: aver peccato di lassismo in passato, non è buon
argomento per proseguire su questa strada.
Sempre che si giudichi la strada condivisibile. E da questo punto di vista ritengo che la
disciplina degli aiuti di stato sia un presidio imprescindibile per evitare che le nuove sirene della
politica industriale riportino l’orologio venti anni indietro, dando nuova vita a vecchi fantasmi
come l’Iri.
All’interno del governo si colgono approcci e impostazioni differenti, che ad esempio sono
apparsi evidenti nelle vicende delle nuove reti a banda larga di cui abbiamo spesso discusso su
queste pagine. Nell’ultimo anno si sono di volta in volta presentate impostazioni fortemente
interventiste, che conferivano a Metroweb e alla società Infratel del ministero dello Sviluppo
economico un ruolo di campione nello sviluppo delle nuove infrastrutture, quasi in competizione
con gli operatori privati. E altre visioni che invece immaginano un rapporto di complementarietà,
con il pubblico che investe dove i privati non hanno un ritorno sufficiente – le aree a fallimento di
mercato – e che invece lascia campo libero a questi ultimi, eventualmente rafforzandone
l’investimento con incentivi selettivi, nelle aree più sviluppate. Il passaggio a Bruxelles dei piani
italiani ha sicuramente rafforzato questa seconda impostazione. Ma l’impressione è che ne
rimanga sotto la cenere una più interventista e, ogni tanto, dia un bagliore.
Anche se a volte la disciplina appare amara e indigesta, meglio che le sentinelle degli aiuti di
stato rimangano allerta.
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