DIMISSIONI 13 09 2005
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DIMISSIONI 13 09 2005
MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2005 LA REPUBBLICA 37 DIARIO DI DI ANALISI DI UN ATTO CHE IN ITALIA HA POCHI ESEMPI Ci sono quelle auspicate per Fazio e quelle che i politici minacciano ma raramente danno italiano non si dimette mai. E Antonio Fazio non si illuda, la sua resistenza alle dimissioni non è una grandezza morale da spirito ribelle, ma è italianità pura, pimento e fuoco della stessa filosofia difensiva che Fazio ha praticato verso le banche e le imprese indigene e autoctone, Fazio non si dimette perché è italiano, perché essere consapevoli della propria inadeguatezza è antinazionale quando si confonde se stessi con la nazione. Persino il verbo, “dimitto”, nella lingua madre - il latino - è solo transitivo: «mandare via, licenziare, congedare». Non esiste la forma riflessiva “se dimittere”, che in italiano è dunque un francesismo, un’astruseria, una obliquità importata. Fazio non si dimette perché la sua lingua non prevede la parola. Al massimo potrebbe “abdicare”, come Napoleone che, scrisse De Sanctis, «non si dimette ma abdica all’Impero di Francia, al regno d’Italia e si ritira all’Elba». Ma uscire è molto più difficile che entrare, e la battuta finale vale più di quella d’ingresso. Il grande attore esprime la sua arte nell’uscita, sa che il gioco del teatro è fatto di uscite e di entrate e ogni uscita di scena prepara un nuovo ingresso da protagonista che a sua volta troverà la sua perfezione in un’altra uscita. L’imbroglio morale nel quale si è incartato Fazio è tutto qui: solo lasciando la poltrona confermerebbe d’essere stato l’uomo più adatto ad occupare quella poltrona. La morte illumina la nascita perché sempre la fine è la perfezione dell’origine. E’ forse impossibile, certamente raro, trovare nella storia, soprattutto in quella italiana, un dimissionario vero, uno che non sia stato dimesso, deposto, costretto alle dimissioni. Così Mussolini che il 25 luglio fu portato in galera; così il re belga Baldovino che, dimissionario per un giorno, consentì al suo governo di varare la legge sull’aborto salvando la propria anima e lo Stato laico; così il presidente Leone minacciato di impeachment; così i tanti segretari dei partiti italiani, da De Mita a Craxi allo stesso Occhetto, che fu dimissionato da un “complotto”; così Prodi, dimissionato dalla presidenza del Consiglio da un ribaltone aritmetico-politico consumato sotto il naso di Arturo Parisi. Persino Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, secondo i pettegolezzi d’epoca, veniva ossessionato durante la notte dai cardinali che, nascosti sotto il suo letto e dietro le tende, gli mormoravano «dimettitti, dimettiti, dimettiti», facendogli rischiare l’infarto. In Italia non è previsto Cincinnato. Non ci sono dimissioni. Al loro posto ci sono rimozioni-promozioni, fughe, avvisi di garanzia, interventi dei servizi segreti, intercettazioni telefoniche, esilio e latitanza, temporaggiamenti, conflitti di interesse, leggi ad personam. Ci sono, molto spesso aggirati da trucchi “legali”, i pensionamenti. E qualche volta c’è pure il suicidio, fratello maggiore delle dimissioni, condannato dalla Chiesa con la dannazione eterna. In un vecchio, dimenticato libro di Giovanni Ansaldo, Il vero Signore, c’è un capitolo dedicato alle dimissioni dell’italiano. Ebbene, Ansaldo racconta di un alto funzionario al quale la mattina era stato chiesto di dimettersi e che perciò la sera, per eleganza, si sparò un colpo di pistola. Suicidio, nel codice etico italiano, è dimettersi da sé stesso, ma siamo già nel pirandellismo, che è la sola dimensione nazionale accetta- Ecco la storia di un gesto che mette a nudo cosa significa perdere il potere Hippolyte Paul Delaroche, “Napoleone dopo l’abdicazione” DIMISSIONI La difficile arte del congedo FRANCESCO MERLO ta di dimissioni: «Sono un grand’uomo, ma dimissionario». Il prete può spogliarsi, mai dimettersi; ottiene la dispensa, non l’annullamento. Spesso le dimissioni, proprio come il suicidio, sono ricatti, minacce retoriche: «o fate così o me ne vado». In Italia abbiamo inventato le “quasi dimissioni”, come il “quasi gol”, il “quasi alleato”, il “quasi amico” che ovviamente è anche “quasi nemico”. L’Italia è il Paese della “quasità”. Ma le tentate dimissioni, come il “quasi suicidio”, sono un altro imbroglio morale. C’è infatti una sola maniera, secca e defintiva, per uccidersi; come c’è una sola maniera per dimettersi: tornarsene a casa e farsi dimenticare. E non si tratta di autenticità e di falsità. Il tentato suicidio è il contrario del suicidio: tieni tanto alla tua vita che la JOSÉ SARAMAGO DIMISSIONI IL SILENZIO fu interrotto dal rumore improvviso di una sedia spostata, il ministro della cultura si era alzato e annunciava dal fondo con voce forte e chiara, Presento le mie dimissioni, Questa poi, non mi dica che, proprio come il suo amico ci ha appena promesso in un momento di lodevole franchezza, anche lei ci penserà alla prossima occasione, tentò di ironizzare il capo del governo, Non credo sarà necessario, ci avevo già pensato all’ultima, Questo significa, Solo quello che ha udito, niente di più, La prego di ritirarsi, Stavo per farlo, signor primo ministro, se sono tornato indietro è stato solo per prendere congedo. La porta si aprì, si chiuse, al tavolo rimasero due sedie vuote. Questa poi, esclamò il presidente della repubblica, non ci eravamo ancora riavuti dal primo colpo e ci siamo presi un nuovo schiaffo, Gli schiaffi sono ben altri, signor presidente, ministri che vengono e ministri che vanno, è cosa normale nella vita. “ “ Repubblica Nazionale 37 13/09/2005 L’ vuoi ulteriormente coccolata; attiri l’attenzione sulla tua vita perché non sei contento di come ti trattano e non di come sei. Allo stesso modo le tentate dimissioni sono una variante dell’arroganza, un’altra maniera per ribadire che il tuo posto è tuo, come la Corona di Napoleone: «Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca». In Italia non ci sono dimissioni anche perché il galateo nazionale e istituzionale prevede che sempre e comunque e esse siano cortesemente respinte. Ebbene, un Paese che non conosce l’istituto delle dimissioni riflessive, «mi dimetto perché sono inadeguato», è un Paese malato, gerontocratico, un Paese dove il vecchio resiste ai giovani che sempre, per legge naturale, lavorano alle sue dimissioni. Le dimissioni infatti salvaguardano le istituzioni, stabili- scono la differenza tra l’istituzione e il suo funzionario come tra la specie e l’individuo. Solo quando il lavoro è quello testamentario, biblicamente inteso come pena, allora le dimissioni diventano un’aspirazione, una liberazione. Ma si tratta di lavori usuranti, come l’operaio d’altiforno, l’autista di mezzi pubblici, lo spazzino, il minatore; o di lavori alienanti, come l’impiegato di concetto, il bancario, il contabile. A differenza di Fazio, nessuno di loro si farebbe pregare per andarsene, chiederebbe uno “scivolo”, una baby-pensione, un anno di paga, una superliquidazione: loro lavorano per lo stipendio mentre Fazio lavora per la gloria di Dio. E ci si può dimettere restando in carica. Ci sono infatti lavori, anche molto importanti, che sono svolti con spirito dimissionario. Gli insegnanti, per esempio, sono demotivati, si sentono maltrattati e, non potendosi dimettere dal lavoro, si dimettono dall’attaccamento al lavoro, dall’amore per un lavoro mal retribuito che in Italia non ha più riconoscimenti né sociali né istituzionali. Per tutti, ma soprattutto per le eccellenze, le dimissioni dovrebbero essere il tributo della consapevolezza celebrato alla dignità. Del resto le dimissioni possono essere liberatorie e redditizie, perché l’ufficialità impedisce di coltivare l’umanità. Persino Fazio qualche volta deve aver sognato le dimissioni dalla convezionalità ufficiale: ci si dimette per immettersi nella pienezza della realtà, dei sentimenti, delle emozioni. Ci si può dimettere da manager per immettersi nel padre di famiglia, nell’amico. Ci si può dimettere dalla direzione di un giornale per curare se stessi, i parenti, gli amori, la scrittura, i viaggi, lo studio, gli affari. Francesco Giuseppe fingeva di essere sordo, si dimetteva cioè dalla acusticità, per non dover commerciare verbalmente e intellettualmente con i suoi cortigiani. E lo scrittore Guido Morselli, che morì suicida, vale a dire dimissionario dalla vita, raccontò nel romanzo Divertimento 1889la pratica nascosta di dimissioni di Umberto I, il re che nel 1900 fu poi assassinato, vale a dire “dimesso” con un colpo di pistola dall’anarchico Bresci, il quale, a sua volta, l’anno dopo “si dimise” togliendosi la vita in galera. Umberto I, secondo Morselli, di tanto in tanto si dimetteva da re concedendosi ai valori e ai piaceri banali: si travestiva da persona quotidiana, si mescolava alla gente, frequentava gli alberghetti di campagna. Invece Fazio è coerente: non ha nulla di cui liberarsi, non ha da riacquistare una vita spumeggiante, al di là dei mobili di mogano e dei divani di pelle, del cerimoniale e della recita da boiardo. Non è come re Umberto, con una vita privata densa e inconciliabile con i tempi ufficiali della regalità. Fazio ha trovato il modo di maritare pubblico e privato, di coniugare amici e affetti con le funzioni istituzionali. Il tutto, con il crisma della filosofia tomistica. Il suo italiano infatti è il latino medievale, una lingua dove non c’è il “dimissionario” ma ci sono il “dimettitore” e il “dimesso”, che in italiano significa anche umile, modesto, di poco conto, di scarso valore, persino spregevole e volgare. Dimettersi non è previsto nella sua Italia, nel Paradiso dove Dante incontra Betarice: «Avete il Nuovo e Vecchio Testamento / e il pastor della Chiesa che vi guida / questo vi basti a vostro salvamento». In Italia ci si dimette dalla decenza piuttosto che dal Consolato. DIARIO 38 LA REPUBBLICA LE TAPPE GIOLITTI 1893 Accusato di aver coperto le irregolarità della Banca romana, Giolitti è costretto a dimettersi da presidente del Consiglio. Lo scandalo coinvolse il mondo politico e la speculazione edilizia e finanziaria WILLY BRANDT, 1974 Il 6 maggio il cancelliere tedesco si dimette a causa del coinvolgimento di un suo collaboratore, Günter Guillaume, in uno scandalo spionistico. La decisione sorprese molto l’opinione pubblica MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2005 NIXON 1974 Coinvolto nello scandalo Watergate, l’8 agosto Nixon annuncia le sue dimissioni dalla carica di presidente degli Stati Uniti. Per evitare l’impeachment ammette di aver tentato di insabbiare i fatti DALLA PRIMA ALLA SECONDA REPUBBLICA: COME SI DANNO E SI RITIRANO LE DIMISSIONI QUANDO TUTTO FINISCE A “TARALLUCCI E VINO” FILIPPO CECCARELLI I LIBRI FERNANDO SAVATER I dieci comandamenti del ventunesimo secolo Mondadori 2005 LUIGI STURZO La politica e la menzogna Rubbettino 2005 MAX WEBER La politica come professione Armando 1997 JOHN K. GALBRAITH L’economia della truffa Rizzoli 2004 MANUEL VAZQUEZ MONTALBAN Il potere e la boria Frassinelli 2004 F. COTULA, M. DE CECCO, G. TONIOLO a cura di) La Banca d’Italia Laterza 2003 ZYGMUNT BAUMAN, KEITH TESTER Società, etica, politica Cortina 2002 ROBERT A. DHAL Politica e virtù Laterza 2001 JÜRGEN HABERMAS Morale, diritto, politica Edizioni di Comunità 2001 MICHAEL WALZER Geografia della morale Dedalo 1999 SALVATORE NATOLI, LUIGI F. PIZZOLATO Politica e virtù Lavoro 1999 ella “proverbiade” della Repubblica, Prima o Seconda che sia, vale l’antico motto di Alcide De Gasperi: «Le dimissioni non si annunciano, si danno». A distanza di mezzo secolo, capitò che quel monito fosse ripetuto pari pari dal ministro Willer Bordon, impelagatosi a fine legislatura in una battaglia contro le onde elettromagnetiche della Radio Vaticana: «Le dimissioni non si annunciano, si danno» disse Bordon con volto grave e voce impostata. Volle quindi spiegare il senso del suo imminente sacrificio: «C’è un limite in ognuno di noi, un limite morale e politico». L’individuazione di quella impegnativa soglia andò avanti per un paio di giorni perché Bordon non si decideva. Al terzo giorno si fece vivo con una nota che nel suo sbrigativo nitore solennizza il paradigma nazionale dell’abbandono retrattile, dell’addio provvisorio, del congedo rinnegato: «In relazione a fatti nuovi che sono occorsi non posso che ritirare le mie dimissioni». Era la primavera del 2001, e nemmeno gliele avevano chieste. Non che ai tempi di De Gasperi fossero tutti integri e coerenti. Basti pensare che Giulio Andreotti aveva stabilito di mollare la vita politica al compimento dei 60 anni. Martinazzoli idem. Non si fatica a conteggiare le mancate promesse dimissorie della Prima Repubblica. Più volte De Mita ha minacciato di tornarsene a Nusco. Un giorno, ignaro che da segretario sarebbe divenuto anche presidente del Consiglio, annunciò di essersi pure fatto i calcoli della pensione. Ebbene, proprio a De Mita spetta il primato delle dimissioni più corte: appena otto ore, nel corso di uno psicodrammatico consiglio nazionale agostano (1991); mentre il record di rinuncia prolungata e apparente appartiene senz’altro a una dozzina di sottosegretari della sinistra dc che mollarono solo formalmente le loro poltrone rimanendo a bagnomaria per mesi. Ripensarci, d’altra parte, è un diritto; mentre mentire, anche a se stessi, lo è già un po’ meno. Certo fa riflettere quel che scappò detto ad Antonio Gava quando per un malanno fu costretto a lasciare il Viminale. Aveva compiuto quel passo «perché me l’aveva chiesto Dio». Ma almeno i vecchi politici credevano in Dio. Per cui, allorché Fanfani rovesciato dai dorotei prese cappello e abbandonò Roma dimettendosi da segretario del partito, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, beh, si pensò che non so- N ‘‘ ,, LITURGIE E PARODIE C’è chi le dimissioni le congela e chi preventivamente si autosospende, in attesa di poterle al più presto ritirare lo fosse scappato in convento, ma si fosse proprio fatto monaco camaldolese. In realtà quella fuga mundi era l’indispensabile premessa del glorioso ritorno — donde il fantastico soprannome che Montanelli affibbiò a quell’altro toscano: «il Rieccolo». Dice: ma erano democristia- ni; e come tali coltivavano la cultura del purgatorio. Però anche diversi laici nel corso del tempo mostrarono la stessa naturale tendenza a fare dietrofront, a ritornare sui loro passi e quindi a rientrare. Così rientrava Ugo La Malfa. Rientrava alla presidenza della Camera, dopo un’epica sfuriata, Sandro Perti- GEORGE SIMENON ni. E dopo il congresso di Rimini (1991) rientrò Achille Occhetto che pure, trangugiato un amarissimo whisky, se ne uscì con le classiche ultime parole famose: «Cercatevi un altro segretario». A voler essere realisticamente maliziosi, si può dire che quell’accorto codice contagiò addirittura l’onorevole Cicciolina che al termine della XI legislatura, disse addio, addio politica, addio Montecitorio. Ma poi finì per ripresentarsi al Senato. Ora. E’ difficile stabilire con esattezza se il passaggio fra la Prima e la Seconda Repubblica abbia comportato sostanziali alterazioni nel modello pseudo dimissorio detto anche, con compiaciuto autolesionismo, «all’italiana». Forse sì, o forse no. Perché ancora oggi nessuno, vedi Fazio, si dimette volentieri. Ma certo l’istituto ha mutato le sue forme espressive. Come tutti i rituali politici della post-modernità, si impone agli occhi del pubblico come un fenomeno più esteso, sincretico e polivalente. Ma anche, e soprattutto: più spudorato. Tanto più la politica si allontana dalla vita reale, tanto meno se ne vergogna, e si fa spettacolo, e manfrina. Si pensi al contributo di Bossi che in fatto di dimissioni vanta una impressionante contabilità. Celtica o padana, di sicuro la sceneggiata leghista — mesi fa il ministro ABBRACCIO Richard Nixon abbraccia la moglie dopo aver annunciato le proprie dimissioni PAUL GINSBORG Ancora una volta fu sul punto di andarsene, buttar giù una lettera di dimissioni e mettersi a letto La testa gli bruciava, e aveva delle fitte lancinanti In Inghilterra se un uomo politico è imputato di accuse, gravi o lievi che siano, da parte della magistratura, nel 99 per cento dei casi si dimette La prima inchiesta di Maigret 1949 Intervista Rai Educational, 1999 STEFANO BENNI RALF DAHRENDORF Ho fatto quello che l’opposizione avrebbe dovuto fare da tempo: ho chiesto le mie dimissioni e le ho accettate Ma perché i ministri si dimettono? E alcuni al contrario non si dimettono pur avendo forti motivi per farlo? Le mie dimissioni 2003 La politica dimentica la virtù Repubblica, 21 giugno 2004 Calderoli ne ha dato magnifica conferma — non ha nulla da invidiare a quella napoletana, «la puttana dell’arte per eccellenza» secondo la cruda definizione di Raffaele Viviani; o alle recite dei bulli romani: «Areggeteme!». Nel frattempo la logica nazionale “Tarallucci & Vino” s’è arricchita di formule preventive tipo il “congelamento” e l’“autosospensione”, per cui le dimissioni valgono solo se sono accettate, quasi fossero un contratto, e non invece un atto unilaterale. E comunque: «Non bisogna mai dare le dimissioni», anche in caso di condanna. Parola del presidente Berlusconi, febbraio 2002. Si capisce. Da sempre oscura si presenta, nel gioco del potere, la distinzione fra diritti di sopravvivenza e obblighi per così dire morali. In altre e più brutali parole: le dimissioni non solo fanno parte del gioco del potere, ma in qualche modo ne rappresentano il compimento, e al tempo stesso ne prefigurano sul piano immaginario le più terribili potenzialità. Perciò se nella Prima Repubblica, ai tempi della strana fuga di Kappler (1977), il ministro Lattanzio venne faticosamente costretto a mollare la poltrona della Difesa, ma ne ebbe in cambio altre due, Trasporti e Marina mercantile, ecco, ci si aspetterebbe qualche personaggio dell’oggi ad illustrare gli sviluppi sacrificali della rinuncia, vera o finta che sia, e con essi la gloria del giocatore che riesce a restare in partita. E invece no, nessun homo novus potrebbe competere per maestria di abbandoni e ritorni DIARIO MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2005 LEONE 1978 In seguito allo scandalo Lockheed, una vicenda di tangenti, Giovanni Leone si dimette da capo dello Stato. Le dimissioni erano state chieste dalla stampa e da alcune forze politiche LA REPUBBLICA 39 NEW ORLEANS 2005 La gestione del disastro provocato dall’uragano Katrina fa saltare la poltrona di Michael Brown, il capo della Fema che inizialmente Bush aveva elogiato per il suo lavoro IL CASO FAZIO Il governatore della Banca d’Italia nello scandalo Antonveneta. Il ministro dell’Economia Siniscalco: «Ci saremmo attesi un atto di sensibilità istituzionale che non è venuto» QUELLO CHE LA STORIA CI INSEGNA UNA QUESTIONE TRA ETICA E STILE FRANCO CORDERO arola latina dal sibilo dolce: «dimissio est actus dimittendi». “Dimittere” è verbo transitivo: mandare in giro; tra i molti sensi ulteriori, destituire. Nell’italiano moderno diventa riflessivo, dimettersi. Le dimissioni sono l’atto con cui il titolare d’un ufficio se ne spoglia, gesto abdicativo. Se ne vedono poche. Giolitti le usa quale espediente tattico: sensibile agli umori assembleari, recede tra le quinte in attesa dell’epifania seguente: l’aspetta ancora nell’ottobre 1922, e sarebbe la sesta, troppo vecchio per capire subito le novità dirompenti scatenate dalla guerra, sebbene avesse previsto tempesta, odioso ai guerrafondai. L’unico schivo, ombroso, insofferente della ribalta, era l’avvocato penalista Enrico De Nicola, severo gentiluomo napoletano, due volte ministro (delle Colonie, 19131914, e Tesoro, sei mesi nel 1919): poi presiede la Camera, 1921-1923; Capo provvisorio dello Stato repubblicano, 1946-48, infine presidente della Corte costituzionale, anche lì terribilmente volatile. Consideriamo le figure dell’abdicante, cominciando dalle dimissioniprotesta. Le ventilano o presentano i dissidenti da una linea le cui responsabilità rifiutano. Due esempi. Il solstizio d’inverno 1941 porta sventura alle armi tedesche sul fronte russo: il neocomandante del gruppo d’armate centrali, Günther-Hans von Kluge (detto “der kluge Hans”, Giovanni l’assennato, perché non sbaglia mosse) soffre Heinz Guderian, condottiero della 2a Panzerarmee, i cui movimenti retrogradi ritiene pericolosi; a Natale intavola l’aut aut; «o lui o io»; e Guderian perde il comando (riappare due anni dopo, vendicandosi post 20 luglio 1944). Nell’estate 2005 scoppia lo scandalo Bankitalia. Il santuario della moneta era nato da riforme giolittiane nel dissesto della Banca Romana, braccio d’una finanza familiare romanesco-papalina. L’istituto vanta tradizioni austere. L’ultimo governatore però appare svagato in due clamorose bancarotte: dà via libera ai poco presentabili scalatori d’una banca patavina, contro l’avviso degl’ispettori; c’est moi la Banque; dialoghi confidenziali svelano uno stile alquanto dubbio. Familismo italiota, commenta l’Europa. Governo e oppositori convengono sul giudizio negativo. Il ministro dell’Economia lo vuole dimissionario o rimosso, altrimenti se ne va: parole dure e maschera paciosa; i curiosi stanno a vedere; sinora non è successo niente. Spontanee o riluttanti, le dimissioni sottintendono una regola: l’ufficio richiede delle qualità nel titolare; presumiamo che le abbia; se però opinioni autorevoli lo considerano inadeguato in congiunture critiche, deve togliere il disturbo. P Repubblica Nazionale 39 13/09/2005 con Francesco Cossiga, che è personaggio insieme antico e tardo-moderno e una volta ha avuto la civetteria di definirsi «cattedratico di dimissionologia». A lui si deve l’ennesimo proverbio: «La politica è guerra e le dimissioni un’arma». E dunque nel giugno di tre anni orsono Cossiga si dimise dal Se- GLI AUTORI Il Sillabario di José Saramagoè tratto da Saggio sulla lucidità, edito da Einaudi nel 2004. Franco Cordero è giurista e scrittore. Il suo ultimo libro è Fiabe d’entropia. L’uomo, Dio e il diavolo (Garzanti). I DIARI ONLINE Tutti i numeri del “Diario” di Repubblica sono consultabili in Rete nel sito www.repubblica.it, sezione “Cultura e spettacoli”, dove i lettori troveranno riprodotte le pagine con tutte le illustrazioni. nato. Come capita spesso nell’era delle rappresentazioni, a malapena si ricordano le cause di quella sua scelta (una protesta con Ciampi per una mancata difesa in una indagine giudiziaria), oscurate come sono dallo spettacolo che generarono. Tra liturgia e parodia, nel silenzio dell’aula bomboniera di Palazzo Madama, il giorno della discussione Cossiga appariva distratto e beato. Il presidente Pera diede lettura di due lettere. Nella prima l’emerito presidente della Repubblica chiedeva con cortese fermezza che le sue dimissioni venissero esonerate dal consueto atto rituale della loro non accettazione da parte dell’assemblea. Nella seconda, letta al termine del dibattito pochi istanti prima del voto, Cossiga ringraziava, pur confermando la sua scelta. Tra i due momenti prese la parola, e fu alto teatro: «Dopo 44 anni, in questo doloroso momento», attaccò. Anche solo i frammenti di quel discorso rendono la scena: «Il mio commosso, affettuoso e memore saluto», «per me è straziante uscire da questa assemblea e anche separarmi da voi», «prendendo qui la parola per quella che ritengo sarà l’ultima volta», «ciò faccio ritenendo di dare con questo atto al paese e alle istituzioni un utile scandalo, perché io credo nel Vangelo» e così via. Poi, com’è noto, Cossiga rimase. A riprova che ieri, oggi e quasi certamente anche domani la politica procede per conto suo: senza troppo preoccuparsi della realtà — e un po’ forse anche della verità. ‘‘ ,, IL TERMINE Dalla parola latina “dimittere”, che è verbo transitivo e significa mandare in giro. In italiano moderno diventa il riflessivo “dimettersi” ‘‘ ,, ESEMPI Carlo V d’Absburgo sente il peso dei suoi 55 anni gottosi e in una cerimonia sontuosa cede il trono al figlio Filippo Ad esempio, Neville Chamberlain, premier inglese 1938-40, vecchio politicante testardo, stupido, fautore dell’appeasement con Hitler: gli otto mesi d’una guerra ancora finta consumano quel poco carisma; nella notte sul 10 maggio i tedeschi invadono Olanda e Belgio; al mattino, convinto d’essere l’inamovibile postiglione della diligenza in corsa, esibisce un’ottima forma, male accolto dai colleghi, allora va dal re; subentra Winston Churchill. I tempi chiamavano un leone. L’attuale governatore Bankitalia non è fair player: forte della nomina a vita, sta impassibile, «hic manebimus optime», mentre oppositori, ministri, vice-primi ministri, indicano gentilmente la porta; ha la co- CAMPAGNA Sopra, i radicali Spadaccia e Bonino durante la campagna per le dimissioni del presidente Leone Nell’altra pagina, si legge per strada la notizia delle dimissioni di Mussolini scienza immacolata; l’unico suo giudice è Dio. Non lo nomini invano, finirà col dirgli qualche monsignore: siamo a Palazzo Koch, sulla terra; esca da gentiluomo, dedicandosi al san Tommaso del quale racconta d’essere assiduo lettore. Nessuno pretende che l’abdicante si riconosca inferiore al modello. Tali crudeltà implicano un rigore autocritico costoso e superfluo: Chamberlain attribuisce lo scacco a casi sfortunati; non importa cosa pensi de se ipso, purché s’inchini al verdetto pubblico. Che bestia ingorda l’Io: quanto meno vale, tanto più ringhia; subculture televisive stimolano corse sguaiate al successo, grosso o minuscolo. Anestesia logica, insensibilità al fatto, mimetismo ipnotico rendono possibile ogni diavoleria: gl’italiani hanno l’acqua alla gola e l’impresario del peggiore ministero visto negli ultimi sessant’anni racconta meraviglie, mentre asini dignitari annuiscono muovendo la testa su e giù: «siete ricchi»; abbiamo solo più gli occhi con cui piangere; «ma no, allegri, le mie aziende vanno bene». Verissimo, le ingrassa strepitosamente in barba alle ridicole norme sul conflitto d’interessi che i maggiordomi gli hanno servito sul piatto. Al ribasso etico contribuiscono anche massime teologali e relative prassi. La virtù è umanamente possibile, insegna Pelagio, monaco britanno e umanista cristiano, sedici secoli fa. Sant’Agostino, vescovo africano, gli salta alla gola: siamo una massa spregevole, bacata nel seme dal peccato d’Adamo; essendosene scelti alcuni ab aeterno, Iddio li manipola affinché compiano atti virtuosi; gli altri peccano come i pesci nuotano o i gravi cadono. Sotto lune mediterranee idee simili fiaccano le schiene: i devoti vivono angosce tremebonde, questuano grazie, fingono umiltà; è lo scenario antropologico cantato nel Dies irae. Esistono anche, rarissime, dimissioni da Io imploso. Pan è un macaco al terzo posto nel branco: senza motivi apparenti s’allontana sempre più spesso dal campo riservato ai suoi pari; passano vari mesi, finché lo sfida uno al 18° posto; lui rimane passivo, ormai relegato tra gli ultimi. Carlo V d’Absburgo, sulle cui terre non tramonta mai il sole, sente il peso dei 55 anni gottosi: in una sontuosa cerimonia (Bruxelles, venerdì 25 ottobre 1555) cede il trono spagnolo, Paesi Bassi inclusi, al figlio Filippo; gli aveva già trasferito Napoli e Milano; al fratello Ferdinando devolve de facto l’Impero. Vive ancora tre anni in un monastero, assorbito dalle pratiche pie con qualche passatempo meccanico: nel tardo agosto 1558 s’inscena le esequie figurandovi con una candela in mano; trapassa venerdì notte, 21 settembre, san Matteo. Cose impensabili nella commedia italiana: qui regna Alcina (Orlando furioso, canto VII); i vecchi ringiovaniscono sotto una cosmesi macabra. I FILM TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE Robert Redford e Dustin Hoffmann interpretano Woodward e Bernstein, la coppia di giornalisti del Washington Post che portò alla luce lo scandalo Watergate, costringendo alle dimissioni il presidente Nixon. Di Alan J. Pakula 1976 SCANDALO IL CASO PROFUMO La storia dello scandalo sessuale che, nel 1963, costrinse il ministro della Guerra britannico John Profumo a rassegnare le dimissioni. Di Michael Caton-Jones 1989 007 VENDETTA PRIVATA Per vendicare un vecchio amico eliminato da un trafficante di droga, James Bond (Timothy Dalton) si dimette da agente segreto di Sua Maestà. Di John Glen 1989 SERPICO Al Pacino è Frank Serpico, poliziotto di New York che, dopo aver denunciato la corruzione dei colleghi, decide di lasciare il suo incarico. Dal romanzo di Peter Maas. Di Sidney Lumet 1973