NEWSLETTER - Centro per la Formazione alla Solidarietà

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N°2 | Giugno 2016
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Un nuovo presidente al CFSI
Cambio al vertice per il Centro per la Formazione alla Solidarietà
Internazionale di Trento. Il Presidente Mauro Cereghini - attivista,
ricercatore e formatore sui temi della pace e della cooperazione
internazionale - ha fatto un passo indietro a causa di impegni
lavorativi, ma resta attivo come Consigliere all’interno del
Direttivo. Negli ultimi anni, grazie a una strategia volta a
potenziare i partenariati nazionali e internazionali, il Centro
per la Formazione alla Solidarietà Internazionale è cresciuto in
dimensioni, attività e contatti. I servizi che eroga sono richiesti
anche da enti ed organizzazioni extraprovinciali, e al Presidente è
richiesto un impegno sempre più ingente. “Ringrazio l’assessora
Sara Ferrari – ha dichiarato Cereghini – che ha sostenuto a suo
tempo la mia presenza al Centro come componente nominato
dalla Giunta provinciale. Ho potuto così toccare con mano – in particolare dopo la mia elezione a
Presidente - la collaborazione fra le associazioni trentine ed il Centro, che le accompagna sul piano
formativo, e insieme lavorare perché la solidarietà internazionale non sia associata solo ai volontari. Le
imprese, i giornalisti, l’università, la scuola, la politica dovrebbero interrogarsi altrettanto sul mondo che ci
sta accanto, e il Centro è uno strumento prezioso a disposizione del nostro territorio”.
Il Consiglio Direttivo del Centro ha oggi nominato presidente Paolo Tonelli: già consigliere provinciale,
già segretario di presidenza in Federazione della Cooperazione, impegnato da sempre nel sociale e nella
cooperazione internazionale - è stato tra i consiglieri proponenti la legge istitutiva del Forum per la Pace
(n.11/1991) e la legge provinciale sulla cooperazione internazionale allo sviluppo (n.10/1988) -, Paolo
Tonelli è attualmente vicepresidente della cooperativa Arcobaleno di Riva del Garda che si occupa, tra i
molti servizi, anche dell’accoglienza dei rifugiati nell’Alto Garda. “Il mio lavoro sarà in continuità con quanto
fatto finora. Ritengo centrale valorizzare e rendere più scientifiche tutte le azioni solidali che il territorio
esprime, e cercare di far comprendere che l’umanità ha futuro solo se tutta insieme. Ringrazio per la
fiducia concessami: la condivisione di ragionamenti e visioni continuerà ad essere il punto d’avvio per la
crescita di un pensiero in grado di guidare le azioni del Centro”. Presidente uscente e nuovo presidente
lavoreranno dunque insieme, supportati dall’intero Consiglio Direttivo, per continuare ad arricchire il
territorio di percorsi e progetti.
L’assessora Ferrari ha ringraziato il Presidente uscente Cereghini per il lavoro fin qui svolto con passione
e competenza ed ha augurato al nuovo eletto un buon inizio e un percorso di fattiva collaborazione,
affinché il Centro diventi sempre di più un punto di riferimento per l’intero sistema della cooperazione
internazionale trentina.
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Apprendere dall’esperienza con l’infanzia
Presentazione del libro, pubblicato con la casa editrice Erickson,
venerdì 17 giugno 2016 presso la Libreria Arcadia, a Rovereto.
Alle ore 19.00 le tre curatrici dialogheranno con le sei associazioni
protagoniste del percorso che ha portato alla pubblicazione del
testo.
Apprendere dall’esperienza con l’infanzia – “Di chi ti stai dimenticando?
Sì certo, ovviamente, i bambini” è un testo edito nel marzo scorso
a seguito di un corso proposto dal Centro, in cui i progetti di sei
associazioni sono stati utilizzati come strumenti di formazione
attraverso la rilettura delle esperienze di cooperazione con
l’infanzia. CAM, GAV, Lucicate, Melograno, Shishu, Why Onlus, che
si occupano di cooperazione internazionale con l’infanzia, si sono
messe in gioco e hanno cominciato a raccontare il proprio
progetto, dapprima con pochi vincoli narrativi e poi in maniera sempre più strutturata, senza sottrarsi al
confronto (creativo) con gli altri, senza paura di ammettere le fatiche e le soddisfazioni, senza l’ansia di
dimostrare la propria competenza se non in relazione a risultati difficili da prevedere, senza il timore di
essere valutati ma trovando gli strumenti per auto-valutarsi. La narrazione ha permesso di moltiplicare
le visioni e le opzioni, elaborando nuove proposte e interpretazioni, per imparare dagli esiti positivi come
dagli errori, propri e altrui, e scoprendo solo alla fine che, insieme, si può apprendere dall’esperienza.
Il percorso, che viene raccontato nel testo con richiami metodologici puntuali ed efficaci, diviene un valido
strumento per la costruzione di pratiche significative anche in altri contesti, con tematiche diverse e con
persone diverse. Di modo che, scrive Marianella Sclavi nella prefazione, “ognuno alla fine se ne torni al
proprio orticello con una visione più ampia e una ricca cassetta di attrezzi comune che verrà da allora
in poi ulteriormente arricchita da tutti coloro che sono interessati”. Un’importante elemento del testo
consiste infatti nell’utilizzo di una metodologia trasversale, utile non solo a chi fa cooperazione, ma a
tutti coloro che sono interessati ad acquisire strumenti per progettare in maniera partecipata. Di questo
e di molto altro dialogheranno le curatrici, le sei associazioni e Mario Cossali, esperto e critico d’arte, che
introdurrà la serata roveretana.
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ECG: caratteristiche e prospettive di evoluzione
A Trento per un incontro nell’ambito del progetto europeo
Global Schools, abbiamo incontrato Alessio Surian per parlare
di Educazione alla Cittadinanza Globale. Ricercatore presso
l’Università di Padova, coordinatore dello Special Interest Group 21
(Teaching and Learning in culturally diverse settings) dell’European
Association Research on Learning and Instruction, Alesiso Surian è
psicologo, consulente per programmi educativi e formatore.
Cos’è l’Educazione alla Cittadinanza Globale (ECG) e quali sono le sue
prospettive di sviluppo?
La Global Citizenship Education viene tradotta in italiano in modi
diversi, a volte come Educazione alla Cittadinanza Mondiale e a
volte come Educazione alla Cittadinanza Globale.
L’ECG si è sviluppata inizialmente come evoluzione dell’educazione allo sviluppo, ma ha sicuramente
raccolto anche altre sensibilità educative: educazione ambientale, educazione ai diritti umani, educazione
allo sviluppo sostenibile, educazione alla pace (anche se è l’ambito meno praticato), e poi l’insieme di
educazioni antirazziste, multiculturali e interculturali più in evidenza negli ultimi anni.
L’ECG racchiude, in ambito formale, scolastico, quattro grandi ambiti: sviluppo, ambiente, pace e diritti,
e con il tempo anche intercultura. Nell’ambito dell’educazione non formale, in particolare degli adulti,
racchiude soprattutto l’animazione sociale, un modo di fare comunità che parte spesso da documenti di
inchiesta e di solidarietà internazionale.
Negli ultimi anni alcuni enti – penso al Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa e all’Unesco – hanno
prodotto sia iniziative (ad esempio la Settimana dell’Educazione Globale), sia strumenti di definizione di
obiettivi e di competenze, che ne confermano l’importanza in tutti i processi educativi. Anche il Consiglio
Internazionale per l’Educazione degli Adulti ha recentemente condiviso con i suoi membri una serie di
testi di riferimento di carattere interculturale per capire che significato abbia nell’educazione per adulti il
mettere insieme cittadinanza, educazione e prospettive mondiali.
Le prospettive future sono diverse a seconda degli ambiti. Per l’educazione formale bisogna oggi
osservare le cose dall’alto e capire che è difficile promuovere l’ECG e parallelamente aderire alla proposta
di decenni dedicati solo all’educazione all’ambiente, all’educazione alla pace o all’educazione ai diritti
umani: o tutto questo si interseca e si propone un discorso coerente dentro una cornice unitaria oppure
si creano specialismi. La prospettiva auspicata è che si discuta un quadro dinamico ma coerente, anche
se temo faticherà ad accadere: mi pare che ci si sia specializzati a tal punto che probabilmente sarà più
facile continuino le varie fronde. Bisogna inoltre chiedersi se questi temi entrino nella scuola dalla porta di
servizio in maniera sperimentale oppure abbiano cittadinanza piena nel curriculum e quindi abbiano anche
la capacità di essere trasformativi in termini metodologici e strutturali. Ma non vedo in tal senso segnali
particolarmente confortanti.
La società civile come può contribuire a sostenere gli insegnanti in questo percorso di ECG?
Deve essere un sostegno reciproco, non c’è solo un vettore dagli educatori agli insegnanti, ma vedo
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necessità di reciprocità. In questo credo che, per guardare avanti, debba essere fatto qualche passo
indietro. Rimango molto deluso da un documento come “La buona scuola”, che dice in modo secondo
me ipocrita che la scuola italiana è la scuola di quattro grandissimi educatori, che io stimo moltissimo
e da cui traggo ispirazione: don Milani, don Bosco, Montessori e Malaguzzi. È ipocrita perché porta
quattro esempi che per motivi diversi sono stati fuori, anche fisicamente, dalla scuola italiana. Non cita
invece quegli insegnati che caparbiamente – e qui vengo al rapporto con la società civile – sono rimasti
sempre nella scuola italiana, e non certo per ritorni personali, quando avrebbero potuto fare ben altro,
come ad esempio Mario Lodi e Alberto Manzi. E non lo fa forse proprio perché questi sono insegnanti
che con forza hanno realizzato esperienze molto significative. Hanno ad esempio posto la questione
di come la valutazione – per lo meno la riduzione al voto – sia controproducente rispetto ai processi
di apprendimento, ma pare invece ancora centrale in un documento come “La buona scuola”. Va capito
se la scuola è una merce con una forte valenza di carriera individuale e competitiva, oppure se è un
contesto che, pur preparando gli individui alla creazione di un proprio percorso nella società, pone le basi
per un dialogo e un’azione collettiva, come hanno proposto Manzi, Lodi e molti altri. In questo hanno
un ruolo fondamentale l’esercizio dell’inchiesta, del pensiero critico e la dimensione territoriale: una
scuola deterritorializzata come può incontrare la comunità? Attraverso figure ispiratrici transnazionali?
E qual è il grado di riconoscimento di ciascun singolo allievo e delle proprie interazioni collettive senza
riferimenti alla comunità? Io credo che la scuola e gli insegnanti debbano incontrare la comunità locale,
e la comunità locale si inserisca in un processo di apprendimento, nella misura in cui insieme ragionano,
incoraggiano un’inchiesta e un pensiero critico rispetto al territorio in cui vivono. Il confine tra comunità e
scuola non deve essere netto o facilmente identificabile. Credo che ci sia una corrispondenza tra i processi
di cittadinanza che noi auspichiamo in democrazie adulte e i processi educativi che sono funzionali e
ispiratori per queste democrazie.
Forse chi di più ha cercato di fare questo percorso è Danilo Dolci nella Sicilia occidentale degli anni
Cinquanta, Sessanta e Settanta, che non a caso ha creato un centro educativo – quello di Mirto – in cui ai
bambini venisse dato non soltanto il riconoscimento di uno spazio di educazione in libertà, come diceva la
Montessori, ma anche di restituzione alla comunità di uno sguardo dei bambini rispetto alla pianificazione
territoriale. Oggi siamo ben lontani dall’aver raccolto quel tipo di intuizioni.
A proposito di pensiero critico, una persona con cui ha condotto diverse ricerche, Johannes Krause, ha affermato
che sviluppare nei cittadini un senso critico, in particolare rispetto alla cooperazione internazionale, porterà in
realtà alla negazione delle azioni di cooperazione internazionale. Cosa pensa a riguardo?
Bisogna intendersi su cosa significhi cooperazione internazionale. Se intendiamo la cooperazione
internazionale come un vettore che dal mondo cosiddetto “sviluppato” muove verso un mondo
cosiddetto “sottosviluppato”, sono d’accordo con Johannes. Credo che la cooperazione migliore abbia
sempre lavorato per poi non esistere più, e però non avendo poi dimostrato questa sua capacità di
scomparire o di incidere profondamente sui meccanismi che generano la disuguaglianza a livello globale
forse qualcosa da ripensare c’è. Se invece per cooperazione internazionale intendiamo una possibilità
di stabilire partenariati, di cambiare e di esprimere una solidarietà reciproca a livello internazionale, io
auspico che invece questa ci sia. Penso che esperienze come quella del Forum Sociale Mondiale siano
andate in quella direzione, penso che organizzazioni che hanno avuto una certa dimensione e stabilità
a livello internazionale, con tutti i loro problemi –Oxxfam, ad esempio –, abbiano saputo incorporare
alcune di queste dimensioni di partenariato, e da questo punto di vista ritengo che il pensiero critico possa
essere particolarmente stimolato e rigenerato da questo tipo di partenariati se mettiamo a tema che i
processi di sfruttamento a cui abbiamo assistito, accelerati negli ultimi anni dalla dimensione finanziaria,
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hanno una radice profonda nei processi di colonizzazione, che poi sono anche processi di esaltazione del
patriarcato, della violenza e della competizione. Non credo che in Europa e in Nord America si sia messa
sufficientemente a tema la necessità di decolonizzare il modo in cui insegniamo la storia, l’economia, le
relazioni. Dobbiamo non solo ripensare, ma anche sospendere una certa modalità di fare cooperazione
quando questa continua palesemente a riprodurre relazioni e processi che sono figli della colonizzazione, a
volte in forma diretta a volte indiretta, a volte con effetti devastanti sul modo in cui accogliamo i migranti.
Se noi diciamo in Europa di voler sgombrare a Calais una “giungla” e non ci vergogniamo di quello che
stiamo facendo, dei modi in cui lo descriviamo e dei suoi effetti, forse abbiamo proprio bisogno di fermarci
e decostruire un pensiero coloniale che ci ha profondamente colonizzati, noi stessi prima degli altri.
Come si possono stimolare i Ministeri a rinnovare le competenze degli studenti e dei cittadini seguendo le linee
guida dell’Unesco e le direttive europee relative all’ECG?
Penso innanzitutto che ognuno dovrebbe fare il suo mestiere. Se ci sono dei Ministeri che governano
l’educazione, sono questi che devono farsi carico di promuovere processi educativi adeguati. Le
sperimentazioni nell’ambito dell’Educazione allo Sviluppo o alla Cittadinanza Globale proposte dalla
Direzione Generale che si occupa di Cooperazione Internazionale a livello di Commissione Europea, o
dal settore del MAE che si occupa di Cooperazione Internazionale, mi sembrano foglie di fico e mi pare
mandino messaggi contraddittori in particolare nei confronti dell’educazione formale. La capacità di
integrare queste sperimentazioni, che proseguono da decenni, è stata scarsa: molte ONG agiscono da
anni nel settore educativo, relazionandosi con pochissimi insegnanti e producendo materiale che poi non
viene diffuso. Paradossalmente una federazione come la FOCSIV negli anni Ottanta aveva la capacità di
intercettare pedagogisti come Damiano per fare dei lavori strutturali che intersecavano un mondo della
pedagogia che si muoveva su questi temi. Oggi invece mi sembra ci sia un’ottica sempre più intimista che
non sfida i meccanismi riproduttivi delle disuguaglianze nel mondo, mi pare manchi legittimità al settore
della ex-educazione allo sviluppo, oggi ribattezzata ECG senza momenti di effettiva rigenerazione. Mi
sembra importante che un Ministero che si occupa di affari internazionali, e in particolare di cooperazione
internazionale, abbia interesse a intersecare i processi educativi che si occupano di questo e a interpellare
i cittadini su queste tematiche, ma trovo grave che questo non passi attraverso forme di incoraggiamento
della cooperazione decentrata. È difficile riuscire ad avere dinamiche generative interfacciandosi con
Roma, c’è molta più possibilità di ottenerle a livello locale – in questo il Trentino ci ha provato seriamente
–, mettendo insieme le risorse della cooperazione internazionale ed i processi educativi che cercano
di leggere e trasformare gli atteggiamenti e le competenze rispetto alle dimensioni della cittadinanza
globale. Mi sembra però una trasformazione per lo più simbolica, quasi superficiale. Pochissime
organizzazioni della cooperazione internazionale hanno provato a saldare il tema dell’ingiustizia a livello
internazionale con il tema dell’ingiustizia e delle povertà a livello europeo, e credo che questo sia invece
essenziale. Su questo si è creata un’insularità dell’ECG e dell’educazione allo sviluppo, che vive sui
finanziamenti del MAE e della Direzione Generale della Commissione Europea, ma che dialoga troppo poco
– in particolare in Italia – con i sistemi educativi. Diverso in Austria e in Germania, dove le interazioni con
chi forma gli insegnanti e con chi fa formazione continua sono più significative.
Come risolvere questo gap?
Dobbiamo pensare ai sistemi educativi come a sistemi che si trasformano e quindi mettere sul piatto
della bilancia quali competenze di cittadinanza sia possibile promuovere, oltre al modo in cui il MAE,
in maniera strutturale – non episodica né insulare –, possa offrire delle possibilità di evoluzione. Se
proviamo a svelare come sono state fatte le politiche educative, sveliamo una montagna di bugie.
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Vengono costantemente assunti impegni che poi vengono disattesi: impegni rispetto alla cooperazione
internazionale, gli obiettivi di sviluppo del millennio, gli obiettivi di sviluppo sostenibile, ecc. Sarebbe forse
più importante iniziare a prendere in considerazione le politiche internazionalmente considerate come
sostenibili, trasformative, capaci di incidere sui problemi importanti, e perdere di vista le politiche un po’
ipocrite da parte dei diversi Stati europei dentro un’ottica che possiamo definire più che altro coloniale,
senza in questo disconoscere le diverse azioni di partenariato che sono state fatte.
Può fornire qualche esempio di buone pratiche di ECG in ambito formale, non formale e informale?
La pratica educativa è intimamente connessa con la pratica di cittadinanza e a volte anche con i processi
produttivi. Io insegno all’Università di Padova nel corso di laurea in Sustainable Territorial Development,
in cui si cerca di capire qual è la capacità di pianificare trasformazioni territoriali realmente sostenibili.
Gli studenti che visitano l’esperienza di Navdanya promossa da Vandana Shiva in India tornano molto
arricchiti: le esperienze formative in cui si indagano sguardi altri, in cui si fa e si partecipa a diverse
attività che hanno a che fare con i semi indigeni e l’autosufficienza alimentare sono di estremo beneficio
per capire i processi informativi ed educativi. In Brasile il Forum dell’educazione popolare è un altro
interlocutore importante per uno scambio tra i diversi attori che hanno a cuore innumerevoli temi, dalla
salute pubblica all’alfabetizzazione, alla generazione di reddito per gli adulti. Si nota oggi uno scarto
tra alcuni paesi che abbiamo sempre considerato in via di sviluppo - che negli ultimi anni hanno avuto
una certa capacità di rinnovare, almeno in settori che hanno messo a sistema l’interazione fra ambiti
formativi, ambiti produttivi e territori locali che vogliono rigenerarsi - e un’Europa che invece si trascina
in maniera più stanca. Paesi che hanno ancora sfide molto grandi a livello complessivo stanno però
provando processi di democratizzazione su specifiche politiche, e vi si respira un’aria che in Italia è difficile
da sentire. Penso ad esempio alla salute pubblica: negli anni Settanta l’Italia veniva visitata per il suo alto
livello di innovazione, in particolare all’ambito della salute mentale, e oggi invece prestiamo pochissima
attenzione a processi di innovazione che sarebbero invece di beneficio all’attuale stanca gestione politica.
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Come Botero può sconfiggere Pablo Escobar
Nell’ambito del Festival dell’Economia, da poco concluso, si
è svolto un incontro sulle trasformazioni sociali che hanno
cambiato il volto di Medellin e sul processo di pacificazione che sta
coinvolgendo la Colombia, in cui è ancora attivo il conflitto interno
più lungo degli ultimi secoli. In un contesto in cui gli accordi di
pace paiono finalmente ad un punto di svolta, almeno con alcuni
degli attori protagonisti del conflitto, la città di Medellin ha saputo
crescere attraverso investimenti in cultura e servizi.
Gli ultimi sessant’anni di storia della Colombia sono stati segnati
dalla presenza di un conflitto interno che ha insanguinato ogni
famiglia e comunità del paese. Per anni il paese è stato conosciuto
nel mondo esclusivamente per il tasso di violenza e per la
presenza del narcotraffico e del narcoterrorismo.
Su questo sfondo Medellin ha deciso di cambiare, attraverso una presa di consapevolezza collettiva
delle responsabilità individuali di ognuno. Poco meno di vent’anni fa sono infatti iniziati dei tavoli di
discussione che hanno coinvolto tutti gli attori sociali: l’università, il mondo economico, la chiesa e gran
parte dei cittadini hanno iniziato a confrontarsi sulle prospettive di evoluzione della città desiderate e
immaginate. Negli anni la strategia prospettata ha preso forza: la città è divenuta un “luogo di crescita”,
con investimenti sociali che hanno permesso di raggiungere e rendere vivibili quartieri dove prima non si
poteva mettere piede. Biblioteche, mezzi pubblici, scale mobili hanno reso vive e vitali intere “comunas”
prima vocate ad un regime di morte e terrore.
“Il nome di Pablo Escobar simboleggia una cultura in cui si possono raggiungere determinate posizioni
sociali solo attraverso la violenza e cancellando i diritti”, ha affermato Mario Vargas Sáenz, dell’Università
EAFIT di Medellin. “Vi si oppone la figura di Botero, che rappresenta uno sguardo altro, aperto alla
comunità e alla partecipazione, intriso di desiderio di giustizia e di crescita culturale, proteso verso un
ideale educativo di consapevolezza e presa in carico delle proprie responsabilità. Sviluppo è una parola
plurale, non si può avere sviluppo senza tenere conto dell’altro. Ciò ci porta a uno scenario in cui politica,
educazione e formazione contribuiscono a far crescere le relazioni, in cui i rapporti sostituiscono la
violenza, in cui rispetto e dignità divengono centrali e in cui la pratica della corresponsabilità rappresenta
l’eredità che lasciamo ai nostri figli”.
Mentre la città di Medellin vive una crescita sociale reale e diffusa, lo stato colombiano ha iniziato da
alcuni anni a muovere importanti passi per arrivare alla pacificazione del paese. Se la crescita economica
della Colombia è superiore alla media mondiale, ben diverso il dato riguardante la crescita dello sviluppo
umano, ha ricordato Jairo Agudelo Taborda, dell’Università del Nord di Baranquilla. E la dimensione
del conflitto contribuisce a tale contraddizione. Gli attuali accordi di pace, che hanno luogo a L’Avana,
sembrano finalmente arrivati ad un punto di svolta: transitando dalla guerra ad una condizione di
postconflitto, la Colombia riuscirà a far crescere anche il suo capitale umano e a dirigersi verso un efficace
sviluppo sostenibile? L’interrogativo resta aperto, ma le coordinate per andare in tale direzione possono
essere rappresentate dall’esperienza di Medellin: puntare su formazione, educazione, partecipazione e
politiche pubbliche può rivelarsi vincente.