Rivista "Università Notizie" n. 4 2012
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Rivista "Università Notizie" n. 4 2012
4 A CURA DELL’UNIONE SINDACALE PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI - ANNO XXXII - N. 4 OTTOBRE - DICEMBRE SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE - ART. 2 - COMMA 20/C LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE CMP 2 0 1 2 ♦♦ I precari dell’università ♦♦ Divenire e avvenire della riforma universitaria ♦♦ Il diritto allo studio ♦♦ Università e industria: l’ossimoro delle convergenze parallele ♦♦ Il dipartimento riformato ♦♦ Un programma di riforma dell’università Procedura da seguire da parte dei Colleghi per mantenere la posizione di socio, o per iscriversi all’U.S.P.U.R., in occasione del pensionamento. A. Se sei già socio U.S.P.U.R. e, in occasione del tuo pensionamento, vuoi mantenere la tua posizione, puoi seguire uno dei due percorsi di seguito indicati. 1. Compilare la “Delega per la riscossione della quota sindacale”, riportata sia in terza di copertina sia sul nostro sito internet (www.uspur.it). La delega deve essere inviata sia alla sede I.N.P.D.A.P. della tua città, o direttamente, o per il tramite dell’ufficio “professori” della tua università, sia alla Segreteria nazionale U.S.P.U.R., via del Parione 7, 50123 Firenze, che la utilizzerà anche per la spedizione della rivista “Università Notizie”. 2. Se trovi difficoltà nell’accettazione della medesima da parte dell’I.N.P.D.A.P., puoi inviarla direttamente alla Segreteria nazionale U.S.P.U.R., via del Parione 7, 50123 Firenze, assieme alla quota associativa, pari a € 8,00/mese. Riteniamo che sia più facile per te fare un unico versamento e, in tal caso, dovrai versare l’ammontare relativo alla quota annuale pari a € 96,00 entro il 1° trimestre dell’anno di riferimento. Il versamento va fatto sul c.c. bancario 290, acceso presso la “Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze, IBAN IT 15 V 03043 02800 00957 0000 290. B. Se non sei già socio, e vuoi iscriverti all’U.S.P.U.R., devi compilare la delega di cui sopra ed inviarla alla Segreteria nazionale U.S.P.U.R., via del Parione 7, 50123 Firenze. Per il versamento della quota puoi seguire le indicazioni sopra riportate. L’U.S.P.U.R. segue i soci in pensione e sta dietro all’aggiornamento della loro pensione e alle nuove disposizioni di legge che li riguardano. Se hai bisogno di contattarci, o di avere notizie dalla Segreteria nazionale, puoi inviarci una lettera via e mail ([email protected]) o a mezzo Fax (055 574388). Se credi, potrai inviarci articoli che volentieri pubblicheremo sulla rivista “Università Notizie” e che certamente ci aiuteranno nella formulazione delle proposte che l’U.S.P.U.R. è chiamata ad esprimere durante la discussione, a livello di Parlamento, di nuove leggi per l’Università e per noi docenti, sia in attività di servizio che in pensione. Il Segretario Nazionale U.S.P.U.R. Antonino Liberatore A CURA DELL’“UNIONE SINDACALE PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI” Via Del Parione, 7 – 50123 Firenze – Tel. 055-5276891 – Fax 055-574388 SITO USPUR: www.uspur.it – E-mail: [email protected] Associata alla “INTERNATIONAL ASSOCIATION OF UNIVERSITY PROFESSORS AND LECTURERS” Direttore responsabile ANTONINO LIBERATORE 4 ANNO XXXII NUMERO OTTOBRE - DICEMBRE 2012 SOMMARIO I Precari dell’università di Antonino Liberatore 3 - Divenire e avvenire della riforma universitaria di Paolo Stefano Marcato 5 - Il diritto allo studio di Rosario Nicoletti 13 - Università e industria: l’ossimoro delle convergenze parallele di Maurizio Masi 14 - Il dipartimento riformato: eccellente, cattivo o di compromesso? di Italo Michele Battafarano 17 - Un programma di riforma dell’università di Rosario Nicoletti 19 - L’intelligenza emotiva dei computer di Aldo Bardusco 21 - Le pensioni INPS nel 2011 di Aldo Bardusco 21 - Corrispondenza a cura di Antonino Liberatore 23 Rassegna stampa a cura di Paolo Stefano Marcato 26 Opinioni e commenti L’Uspur per i colleghi Direttore responsabile Antonino Liberatore Segreteria e redazione Giovanni D’Oro Via Del Parione, 7 - 50123 Firenze Tel. (055) 5276891 – Fax (055) 574388 Autorizzazione Tribunale di Firenze n. 3183 del 12 dicembre 1983 4 OTTOBRE - DICEMBRE 2 0 1 2 SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE - ART. 2 - COMMA 20/C LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE CMP Comitato di redazione Aldo Bardusco Pier Paolo Civalleri Vincenzo Lo Cascio Paolo Stefano Marcato Rosario Nicoletti A CURA DELL’UNIONE SINDACALE PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI - ANNO XXXII - N. 4 ♦ I precari dell’università ♦ Divenire e avvenire della riforma universitaria ♦ Il diritto allo studio ♦ Università e industria: l’ossimoro delle convergenze parallele ♦ Il dipartimento riformato ♦ Un programma di riforma dell’università Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero di chi lo firma e pertanto ne impegna la responsabilità. Ufficio pubblicità: Emmeci Digital Media S.r.l. Via Arno, 47 - 50019 Sesto Fiorentino (FI) Telefono 055 38.31.281 Impaginazione, composizione e stampa: Emmeci Digital Media S.r.l. Via Arno, 47 - 50019 Sesto Fiorentino (FI) Telefono 055 38.31.281 [email protected] Distribuzione solo per abbonamento Per associarsi all’U.S.P.U.R. I docenti in attività di servizio, per associarsi all’U.S.P.U.R., oltre a chiedere l’iscrizione, devono autorizzare l’ufficio stipendi dell’Università di appartenenza a trattenere mensilmente sullo stipendio la quota associativa, pari a Euro 10,00/mese. Per effettuare entrambe le operazioni è sufficiente compilare il “Modulo di iscrizione” di seguito riprodotto (il modulo può essere anche prelevato dal sito USPUR cliccando le parole “Modulo di iscrizione”), in tutte e due le parti e inviarne: a) la prima alla Segreteria Nazionale U.S.P.U.R. Segreteria Nazionale - Via Del Parione, 7 - 50123 Firenze Tel. 055.5276891, Fax 055.574388, e-mail: [email protected] 2 UNIVERSITÀ NOTIZIE b) la seconda all’Amministrazione dell’Università, del proprio Ateneo, Ufficio stipendi. Modulo di iscrizione All’U.S.P.U.R. Unione Sindacale Professori e Ricercatori Universitari Da inviare alla Segreteria Nazionale, via Del Parione 7, 50123 Firenze, a cura del nuovo socio Il sottoscritto, professore/ricercatore (*) in servizio presso l’Università di Qualifica (**) Dipartimento/Facoltà chiede di iscriversi all’U.S.P.U.R., sezione di Cognome Nome Indirizzo CAPCittà e-mail Data Firma Da inviare all’Amministrazione dell’Università di (Ufficio Stipendi) a cura del nuovo socio. Oggetto: Delega per la ritenuta ed il versamento della quota sindacale Il sottoscritto professore/ricercatore (*) (**) essendo iscritto all’U.S.P.U.R. presso l’Università di (Unione Sindacale Professori e Ricercatori Universitari), Sezione di delega codesta Amministrazione a trattenere dalle proprie spettanze la somma di € 10,00 quale quota mensile di iscrizione, ed a versarla contestualmente alla Segreteria Nazionale della stessa, sul c.c. bancario 290, acceso presso la “Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze, coordinate bancarie: IBAN IT 15 V 03043 02800 00957 0000 290. Data Firma (*) di ruolo / fuori ruolo; (**) ordinario / associato Privacy Informativa ai sensi della Legge n. 675/96 I dati richiesti sono necessari per la formazione e la gestione della lista di distribuzione delle informazioni U.S.P.U.R. ed a tal fine saranno raccolti, registrati e trattati anche in maniera automatizzata con le modalità strettamente necessarie a questo scopo. I dati non saranno diffusi né comunicati a terzi. Per verificarne l’utilizzo, per correggerli, aggiornarli, cancellarli od opporsi al loro trattamento ai sensi dell’art. 13 della citata legge ci si può rivolgere alla Segreteria Nazionale U.S.P.U.R., Firenze, via Del Parione, 7 – 50123 Firenze Tel. 055 / 5276891, Fax 055 / 574388, e mail: [email protected], sito Internet: www.uspur.it. Esprimo il mio consenso al trattamento dei suddetti dati per le finalità istituzionali dell’U.S.P.U.R. Data Firma EDITORIALE 3 Per iniziare ricordiamo che “precario” è un termine giuridico per indicare un tipo di comodato peggiorativo, nel senso che la scadenza del contratto con cui viene stabilito l’uso gratuito di un bene, anziché essere prestabilita, rimane non prefissata e il comodatario è tenuto a restituire la cosa concessagli non appena il comodante la richieda. Precisiamo poi che, soprattutto nel settore dell’istruzione pubblica, si parla di precariato e di precari della scuola e si fa riferimento all’insieme dei lavoratori che non hanno garanzia di stabilità nel lavoro che fanno. Una volta richiamato il significato di precario diamo ora risposta alla domanda: perché si dà origine ai precari e chi si trova coinvolto nella dinamica del precariato. La risposta a questa domanda ha un’ampiezza, con un margine di incertezza, non facilmente definibile, a meno che non si limiti il discorso ad una specifica categoria di lavoratori. Ed è ciò che vogliamo fare, tenuto conto dell’ambiente in cui svolgiamo ed abbiamo svolto la nostra attività lavorativa di ricercatore e di docente universitario. E’ a tutti noto che ogni fenomeno naturale ha una sua fase transitoria, che va dall’istante della sua nascita a quello in cui raggiunge l’andamento cosiddetto di regime. Così pure è risaputo che ogni attività umana lavorativa ha una sua fase transitoria, che un tempo veniva, nella generalità dei casi, compresa in prestazione di regime: il lavoratore viveva questa fase alla conquista del posto certo, che poi avrebbe ricoperto. In questa maniera non si dava luogo alla nascita di precariati. Ed è ciò che è accaduto nell’università dalla seconda metà degli anni sessanta ai primi anni novanta del secolo scorso, durante i quali abbiamo assistito al passaggio dall’università di elite all’università di massa: facilità nel trovare un lavoro con contratto a scadenza breve, certamente rinnovabile, e poi passaggio in ruolo su base legge o in seguito a concorso con larga disponibilità di posti. Succcessivamente la legge (ed altre leggi negli anni a venire, e così fino all’anno 2010) ha introdotto le figure di laureati a contratto a tempo determinato, con l’assegnazione di: borse di studio, borse PostDoc, assegni di ricerca, co.co.co. (superiori a sei mesi), ricercatore a tempo determinato, con un numero complessivo di circa 34.000 precari alla fine del 2010. Per completezza di trattazione riteniamo necessario ricordare che, sempre alla fine del 2010, c’erano nell’università circa 41.400 docenti a contratto. Trattandosi di una categoria composita, fatta anche da personale con altro lavoro di ruolo, da professionisti, da docenti in pensione, ecc., riteniamo di non includerla nelle fila dei precari dell’università. In considerazione di quanto esposto siamo ora in grado di dare risposta alla domanda: Chi ha dato origine, nel tempo, ai precari? E’ stato il legislatore (Governo e Parlamento) quando ha approvato le leggi di assegnazione della borsa di studio citate e non ha poi provveduto a trasformarne una buona percentuale in posti a tempo indeterminato. Siamo tutti preoccupati se pochi giovani non superano l’esame di maturità e lo ripetono l’anno successivo, ma poi non poniamo, e gli stessi giovani assegnisti di borse di studio non pongono, alcuna attenzione ai tanti anni in cui essi rimangano borsisti per poi sparire in poco tempo dal contesto del personale di ricerca dell’università. Con l’inizio del 2011 è entrata in vigore la riforma Gelmini e dobbiamo prendere atto che, per quanto attiene agli incarichi di ricerca, sono state abolite le borse di studio, le borse PostDoc, ed i co.co.co., ed è stato lasciato posto solo ai contratti per ricercatore a tempo determinato e agli assegni di ricerca. A metà Giugno del corrente anno si UNIVERSITÀ NOTIZIE I Precari dell’Università. EDITORIALE 4 UNIVERSITÀ NOTIZIE contavano 1.037 ricercatori a tempo determinato e 13.300 assegnisti di ricerca, con un numero complessivo di poco superiore a 14.330 unità. Alla stessa data il conteggio degli incarichi di ricerca non più previsti ammontava a 13.250 unità. Va pure evidenziato che la legge Gelmini ha precisato la durata degli incarichi di ricerca non soppressi, prevedendo: a)per il ricercatore a tempo determinato, contratti triennali non rinnovabili, riservati a candidati che hanno già usufruito, per almeno tre anni, di assegni di ricerca, e contratti triennali rinnovabili, una sola volta, per soli due anni; b)per i titolari di assegni di ricerca, la durata complessiva dei rapporti instaurati, compresi gli eventuali rinnovi, non può comunque essere superiore a quattro anni, con esclusione del periodo in cui l’assegno è stato fruito in coincidenza con il dottorato di ricerca. Tralasciamo di precisare la durata dei rapporti avuti da uno stesso titolare di assegni di ricerca e di contratto come ricercatore a tempo determinato, anche con atenei diversi, per non appesantire la trattazione. Ben definiti sono anche i nuovi contratti per attività di insegnamento: durata annuale, rinnovo annuale, durata massima del rapporto 6 anni. Sono assegnati solo a esperti dipendenti da altre amministrazioni, enti o imprese, ovvero titolari di pensione. Questi contrattisti certamente sono fuori le fila dei precari universitari. Con la legge Gelmini, come già detto, la tipologia dei precari è passata da cinque a due categorie. Anche il tempo massimo di permanenza con il lavoro a tempo determinato si è ridotto ed è, comunque, ben definito. Ben definita risulta anche la competenza di chi deve stipulare il contratto di lavoro subordinato: essa, nell’ambito delle risorse disponibili, è dell’università, mentre, per gli assegni di ricerca, la competenza, può essere esercitata, sempre nell’ambito delle relative disponibilità di bilancio, da: università, istituzioni e enti pubblici di ricerca e sperimentazione, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie (ENEA), Agenzia spaziale italiana (ASI). In considerazione di quanto detto è fuor di dubbio che la nuova normativa della legge Gelmini pone delle limitazioni al possibile numero dei precari della ricerca, che dovrebbe comunque avere un collegamento piuttosto stretto con il numero, prevedibile, dei posti di ruolo che si libereranno in seguito a pensionamento. Verrebbe così stabilita la dinamica annuale del rinnovamento delle posizioni di ruolo del personale docente di ciascuna sede universitaria e, contestualmente, si conoscerebbe con buona approssimazione, il numero dei titolari di assegni di ricerca e dei ricercatori a tempo determinato di tipo a), ovvero contratto 3+2, costretto a interrompere il collegamento che aveva stabilito con l’ateneo. E per terminare diamo risposta alla domanda: Chi si trova coinvolto nella dinamica del precariato? Sono i giovani laureati dotati di un elevato senso critico: durante gli studi compiuti hanno cercato, ma non hanno trovato in pienezza ciò che ricercavano. Sono desiderosi di continuare nella rincorsa della verità delle loro ricerche ma, purtroppo, per molti di loro, questo cammino avrà una durata piuttosto breve. Segretario Nazionale USPUR Prof. Antonino Liberatore OPINIONI E COMMENTI DIVENIRE E AVVENIRE DELLA RIFORMA universitaria Alcuni giudizi sulla riforma Al termine della lunga gestazione parlamentare la riforma era gratificata da giudizi lusinghieri come quello di Mario Monti: “Il disegno di legge Gelmini è un passo importante verso un sistema universitario più moderno e più funzionale. Trovo positiva la riforma degli organi di governo, la maggiore autonomia nella gestione del corpo docente, l’abolizione dell’attuale sistema dei concorsi. Nell’insieme, si riduce la presa del sistema corporativo sull’università. Come in altri campi, dai settori produttivi poco concorrenziali, alle professioni, alle amministrazioni pubbliche, c’è bisogno di togliere un po’ di potere a chi produce i servizi e darne di più a chi li deve ricevere, gli utenti e i consumatori. In questo senso mi pare che la riforma Gelmini vada incontro agli interessi degli studenti” (Il Messaggero 20-12-2010). Giudizio sostanzialmente positivo riproposto dallo stesso Monti in veste di presidente del Consiglio il 13-09-2011: “In campo universitario è giudizio del ministro Profumo e mio che il precedente ministro abbia lasciato una riforma certamente non perfetta e compiuta ma con dei solidi cardini”(Adnkronos). Anche sulla stampa più autorevole si leggevano commenti incoraggianti. “La riforma universitaria Gelmini, pur con i compromessi che sono stati necessari per vararla, è decisamente migliore delle pessime riforme fatte in passato” (A. Panebianco, Corsera 28-05-2011). 5 UNIVERSITÀ NOTIZIE La legge di riforma dell’Università (L. 240/10, “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e di reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, c.d. Riforma Gelmini), entrata in vigore il 29-01-2011, consta di ben 37 pagine, quasi 20.000 parole. Nondimeno, affinché l’articolato possa diventare integralmente operativo, occorre un iter regolamentare che prevede 47 provvedimenti normativi oltre alla riscrittura degli statuti nei singoli atenei. La complessità del testo valorizza la disponibilità di un’altra versione “liberamente interpolata, un ‘taglia e cuci’ in cui sono stati ‘sciolti’ o eliminati i riferimenti-matrioska, dove si è cercato di andare al sodo delle disposizioni normative tralasciando le declaratorie di principio, trascurando alcuni dettagli secondari”. E, comunque, alla fine di questo utile processo, è rimasto ancora un condensato normativo di 13 pagine per le quali si rimanda al link: http://www.eief.it/terlizzese/files/2011/01/commenti-alla-riforma-gelmini.pdf. Quando il corso della fase regolamentare era ancora incompleto, e a distanza di un anno dall’entrata in vigore, la riforma è stata sottoposta a un “tagliando” o, come si usa per strumenti digitali, a un “firmware” di alcuni articoli, con il D.L. 03-01-2012 (“Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo”) che reca all’articolo 49 (Misure di semplificazione e funzionamento in materia di università) modifiche agli articoli 2, 6, 7, 10, 12, 15, 16. 18. 21, 23, 24 e 29, e un’aggiunta all’articolo 6 recata dall’articolo 55 (si veda al link http://www.leggioggi.it/allegati/decreto-semplificazione-il-testo-definitivo/.) “La riforma costituisce un passo importante sulla via di un’innovazione compatibile con le caratteristiche del nostro Paese, cambiando in modo profondo la governance e il reclutamento dei docenti. Finalmente sono distinti in modo trasparente i compiti scientifici del Senato Accademico e quelli gestionali del Consiglio di Amministrazione. S’introduce un’abilitazione nazionale particolarmente rigorosa. Altre caratteristiche di questa riforma sono la riduzione delle costose e inutili sedi decentrate, la razionalizzazione di un’offerta didattica eccessivamente frazionata, nuovi meccanismi di valutazione dei docenti, strumenti per un più corretto controllo dei bilanci, riorganizzazione dei dipartimenti” (C. Gentili, Il Messaggero 03-12-2011). Meno positivi altri commenti, fra i quali ho preferito segnalare i seguenti. “Le idee guida della legge sono condivisibili, più problematico è il giudizio sulla loro concreta realizzazione. Spesso mancano dettagli importanti per valutare l’efficacia concreta di una determinata disposizione; l’entità delle risorse per realizzare alcune delle sue disposizioni spesso non è indicata o sembra eccessivamente limitata; molti dei meccanismi introdotti dalla legge per la valutazione o l’incentivazione della qualità sembrano eccessivamente dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono dalla scelta fondamentale fatta dalla legge: regolamentare invece di responsabilizzare (e liberalizzare)(D. Terlizzese, lavoce.info 14-01-2011). “Sembra di confrontarsi con un ordinamento ‘in deroga’, che non segue più la strada della riduzione delle regole e degli oneri amministrativi connessi, della semplificazione organizzativa e procedimentale o, comunque, dell’amministrazione leggera e che talvolta non segue più neppure i principi che presiedono al sistema delle fonti del diritto. Ma un’innovazione che si affida a cascate di regole affidate a nuovi soggetti, spesso da loro stessi prodotte, a nuove pratiche e a nuovi procedimenti creati ad horas, che si sovrappongono l’uno sull’altro, rischia di trasformarsi in un’innovazione che rimette in scena un’amministrazione del passato, quella che parla tramite regole caotiche, incomprensibili anche a chi le ha scritte e che talvolta si dimentica finanche di averle scritte per quante ne ha scritte. Un’amministrazione intrusiva che, per innovare, introduce lacci e laccioli, gravami e aggravamenti procedurali asfissianti la cui novità si risolve, spesso, nel solo utilizzo, in alcuni casi costosissimo dal punto di vista degli adempimenti, della forma e della modalità telematica” (C. Barbati, intervistata da Redazione roars 25-07-2012). “Nelle sue parti migliori e più coraggiose, questa riforma mostra chiaramente il proposito di inserirsi nel solco dei mutamenti avvenuti nel resto d’Europa e di colmare i ritardi nella modernizzazione dell’università italiana… Ma dirigismo sui dettagli e lassismo sui nodi cruciali rischiano di non risolvere quei problemi che una riforma della governance degli atenei in senso europeo era chiamata ad affrontare” (M. Regini, Il Mulino 01/2012). “Se la ‘gestazione’, l’approvazione e la fase della prima applicazione della legge sono state complesse e molto criticate – in particolare per la concreta difficoltà a comporre a unità il variegato e spesso aspro dibattito tra i molti soggetti sociali e istituzionali attori della OPINIONI E COMMENTI 6 UNIVERSITÀ NOTIZIE vicenda – la fase attuale di attuazione della legge sembra caratterizzata, non solo (e forse non tanto) dal perdurare dei ritardi e delle inadempienze, ma dalla preoccupante mancanza di certezze rispetto ai contenuti e ai tempi dei provvedimenti, e al persistere di molti dubbi di legittimità, anche costituzionale, evidenziati anche dagli organi di controllo o in fase di consultazione istituzionale” (P. Marsocci, Rivista AIC 2/2012, 19-06-2012). All’interno della riforma “la contraddizione maggiore sembra quella legata alla dimensione dell’autonomia dell’università. Da una parte, la legge tende a rinforzare il potere dei vertici dell’ateneo (rettore, consiglio di amministrazione, professori ordinari quali unici membri delle commissioni di concorso) secondo una logica che prevede la necessità/capacità di gestire una politica di ateneo, ma, dall’altra, introduce una serie di vincoli all’organizzazione della vita e delle attività degli atenei secondo uno schema tipico del modello centralistico-burocratico di origine napoleonica, fondato su un controllo formale ex ante che nessun altro sistema nell’Europa continentale mette oggi in atto in modo così minuzioso” (R. Moscati, il Mulino 2/2012). La riforma Gelmini “soffre dell’ansia iper-regolatrice, della difficoltà a scegliere visioni nette e chiare e di un’evidente difficoltà a indirizzare l’implementazione nei tempi e nei modi necessari” (G. Capano, il Mulino 2/2012). La lentezza della fase attuativa della riforma L’ultimo giudizio (v. sopra) mette opportunamente in vista la mancanza di certezze rispetto ai contenuti e ai tempi dei provvedimenti attuativi della riforma. Infatti, in merito, tutte le previsioni, anche le più rosee e quelle formulate in alte sfere, hanno dovuto subire smentite. «Entro sei mesi faremo tutti i provvedimenti attuativi», garantiva il ministro Gelmini al traguardo dell’approvazione definitiva della legge (Il Sole24Ore 24-12-2010). Il MIUR poi allungava un poco i tempi: “Entro il mese di luglio 17 decreti saranno completati e pubblicati in Gazzetta Ufficiale e i rimanenti decreti diventeranno legge, e saranno quindi operativi, entro il mese di settembre” (www.tecnicadellascuola.it 30-06-2011). Anche il governo, seppur meno ottimista sui tempi, assicurava a Bruxelles: “Tutti i provvedimenti attuativi della riforma universitaria saranno approvati entro il 31 dicembre 2011” (da Documento del governo presentato a Bruxelles il 26-10-11). E un mese dopo il neo ministro Profumo costatava: «È necessario dare corso a tutta la fase regolamentare della riforma universitaria, manca la parte attuativa” (Adnkronos 17-11-2011). E a chi gli chiedeva se volesse porre mano a una revisione della riforma, ribatteva che «quando s’inizia un lavoro è indispensabile far funzionare quel che c’è. La riforma ha aspetti positivi e altri meno, ma questo Paese non può campare in eterno con rivoluzioni e fasi transitorie» (ragionpolitica.it 27-02-2012), anche perché “il transitorio sul transitorio non funziona” ribadiva, e la soluzione è piuttosto “oliare il sistema, magari facendo leva sull’autonomia delle istituzioni” (università.it 30-08-2012). Nonostante i buoni propositi del ministro, “il processo di attuazione della legge 240/2010 è davvero ancora nella fase di assemblaggio di tutti gli elementi necessari alla sua operatività. E quindi non è possibile, per ora, alcuna valutazione sulla sua efficacia nel raggiungere gli obiettivi previsti” essendo verosimile che comincerà a lavorare a pieno regime solo dal 2014 (G. Capano, lavoce. info 16-03-2012) ossia che la piena attuazione verrà rinviata alla prossima legislatura (G. Forges Davanzati, sbilanciamoci.info 21-08-2011). La governance degli atenei nella riforma La riforma ha fissato un tempo massimo entro il quale gli atenei avrebbero dovuto riformulare i propri statuti per adeguarli alla nuova disciplina: 29 luglio 2011. Termine puntualmente rispettato soltanto da 4 università su 67 (Tuscia, Piemonte orientale, Ca’ Foscari, Magna Graecia). Mentre tutte le altre si sono avvalse di una proroga che ha spostato in avanti il termine a fine ottobre 2011. Ma a fine marzo 2012 solo 33 atenei avevano tagliato il traguardo; gli altri vi sono giunti solo a maggio. Le modifiche statutarie dovevano essere predisposte “da apposito organo istituito con decreto rettorale, composto di quindici componenti, tra i quali il rettore con funzioni di presidente, due rappresentanti degli studenti, sei designati dal Senato accademico e sei dal Consiglio di amministrazione”. A fronte della pur chiara norma della L. 240/10, si sono messe in discussione in alcuni atenei le modalità di scelta dei membri di tale commissione. A chi, in ragione della “funzione costituente” cui sarebbe chiamata la commissione, sosteneva l’opportunità (se non la necessità) d’indizione di elezioni, si è replicato inequivocabilmente (in una nota ufficiale dei docenti membri del Senato accademico dell’università dell’Aquila, 27-012011) che: “1) è erronea la premessa iniziale secondo cui tale commissione svolgerebbe una “funzione costituente” perché la commissione svolge solo funzione istruttoria di predisposizione per il S.A. e per il C.d.A. delle modifiche statutarie imposte dalla legge di riforma; 2) la commissione non gode di assoluta discrezionalità nella scrittura delle modifiche statutarie giacché trova, proprio nella legge di riforma, direttive e criteri molto stringenti (dal numero minimo di docenti per la costituzione di un dipartimento, alla composizione e alle funzioni di Consiglio di amministrazione e Senato, ecc.); 3) la disposizione legislativa in questione non parla per niente di “elezione” dei membri (che invece sono “designati” dal S.A. e dal C.d.A.) e l’eventualità (non prevista, ma neppure esclusa dalla disposizione in oggetto) di un’elezione di tali membri avrebbe introdotto un elemento disfunzionale in ragione proprio della funzione istruttoria assegnata alla commissione. Le modifiche statutarie proposte dalla commissione dovranno, infatti, essere oggetto di deliberazione del C.d.A. e del S.A.; una legittimazione di tipo elettorale di tale commissione finirebbe per contrapporre quest’ultima ai due organi competenti (S.A. e C.d.A.) in caso di emendamenti che questi volessero introdurre. L’investitura elettorale di un organo istruttorio si pone, infatti, in netto contrasto con la funzione (istruttoria appunto) al medesimo assegnata, giacché pone le premesse di una contrapposizione irriducibile di legittimazione fra lo stesso e l’organo decidente che in un secondo momento è chiamato ad adottare la relativa decisione”. OPINIONI E COMMENTI il ministro ha avuto spesso da obiettare, perché a loro volta gli organi accademici hanno obiettato alle obiezioni) tutti e 79 gli atenei hanno infine approvato i nuovi statuti ridisegnando la governance accademica. I Consigli di Amministrazione sono stati in pratica dimezzati: prima della riforma erano 1.265 i membri nei C.d.A. delle università, dopo la riforma sono 596 in meno. In media i C.d.A. sono ora composti di 9-11 membri. Si tratta di un calo del 45%. E più di un quarto (il 28%) delle persone che siedono nei C.d.A. sono “esterni” all’università. Fa eccezione l’ateneo di Trento: 7 esterni su 9 membri. Nella scelta dei docenti solo in pochi casi si è rispettata una proporzione tra le fasce (ordinari, associati e ricercatori) (Bari, Parma, Piemonte Orientale) o una ripartizione in aree disciplinari, effettuando delle aggregazioni delle 14 aree del CUN (Foggia, Palermo, Parma, Pisa, Salerno). Anche il Senato accademico si è ridimensionato e ha perso il 10% dei propri membri (in media sono una trentina). In netto calo anche il numero delle strutture interne: ai vecchi Dipartimenti e Facoltà si sono sostituiti i nuovi Dipartimenti, che diventano in tutto 724 rispetto ai 2072 (più 513 Facoltà) ante riforma. Ad agosto, 73 Statuti erano già pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale (6 con modificazioni successive), 5 inviati al MIUR e 1 sul quale il MIUR ha fatto ricorso che però è stato respinto dal TAR a settembre 2012. Per gli Statuti è stato evidenziato, in sintesi, un principio e un dilemma (G. Capano e M. Regini, 240inpratica. net 29-03-2011). Il principio fondamentale che ha ispirato la riforma e dovrebbe ispirare gli Statuti è quello dell’autonomia responsabile: l’autonomia intesa come capacità di progettare e realizzare gli obiettivi prescelti, senza condizionamenti estranei all’interesse generale dell’ateneo; la responsabilità richiede che gli organi e le strutture, che progettano e realizzano quegli obiettivi, a) rispondano del loro operato a organismi di controllo indipendenti da questi, b) che non siano in sostanziale conflitto d’interessi e c) che possano sanzionarli. Il principale dilemma organizzativo è quanto preferire l’assenza di conflitti d’interesse e quanto invece la conoscenza dall’interno delle situazioni su cui s’interviene. L’assenza di conflitti d’interesse implica che gli organi che decidono o propongono la ripartizione delle risorse non possano essere composti da coloro che le risorse le impiegano, altrimenti prevarranno soluzioni spartitorie o scelte basate sui rapporti di forza. D’altro canto, solo le comunità scientifiche sono in grado di valutare problemi e prospettive nella loro area. Solo chi ha una conoscenza approfondita, e dall’interno, delle potenzialità e delle criticità di una struttura o di un’area scientifica può indicare quali insegnamenti attivare, quali ricerche sostenere e quali profili privilegiare nel reclutamento. Su come gli atenei hanno confezionato i loro statuti su punti decisivi dell’assetto di governance tre note, scelte fra i riferimenti principali (F. Coniglione, roars.it 20-032012; M. Regini, Il Mulino 01/2012; G. Pistelli, ItaliaOggi 04-04-2012), concordano di massima e consentono una sintesi. E’ condivisibile che, proprio a causa del “dirigismo sui dettagli e del lassismo sui nodi cruciali” che improntano la legge di riforma sul tema della governance degli atenei, sia invalsa la tendenza a non risolvere se non 7 UNIVERSITÀ NOTIZIE La riforma afferma la centralità dell’autonomia universitaria purché esercitata in modo responsabile. Il quadro dell’esistente da cambiare è stato delineato con acutezza in questi termini: “Ciò che era chiamato ‘gestione democratica e collegiale’ degli atenei era in realtà una gestione basata su un macroscopico conflitto d’interessi: gli organi decisionali che dovevano decidere sull’allocazione delle risorse (fondi, reclutamento ecc.) erano composti dai rappresentanti eletti di quelle strutture (facoltà, dipartimenti ecc.) che le risorse le richiedevano e le utilizzavano. Inoltre, la collegialità degli organi decisionali in cui tutti erano rappresentati impediva di fatto ogni selezione in base al merito, o a qualunque altro criterio comportasse decisioni selettive, per favorire invece meccanismi spartitori tesi a non scontentare nessuno, e quindi a conservare e riprodurre l’esistente” (M. Regini, Il Mulino 01/2012). Nella maggior parte degli altri Paesi occidentali, specialmente in quelli anglofoni, le soluzioni adottate comportano: un ruolo forte d’indirizzo strategico del C.d.A., a maggioranza di membri esterni nominati, come vertice unico dell’ateneo; una grande rilevanza e forti poteri assegnati al rettore o presidente dell’ateneo, anch’esso per lo più designato; un ruolo del Senato accademico (o organo equivalente) diverso rispetto al passato, non più vertice reale dell’ateneo ma organo che ha il compito di fornire pareri su tutte le materie scientifiche e didattiche, senza però essere il decisore finale. Confrontando le modalità con cui 15 Paesi europei hanno affrontato le questioni riguardanti gli assetti degli organi di governo, si rileva che la maggior parte ha scelto nel tempo di virare verso il modello anglosassone della managerial shared governance. Ovvero, un forte ruolo del C.d.A., vero organo di vertice, grande rilevanza del Rettore-Premier, Senato accademico con funzioni di consulenza e indirizzo rispetto ai temi riguardanti didattica e ricerca. Nello spirito della riforma (L. 240/10) vi è l’assegnazione al C.d.A. del ruolo di organo di governo e al Senato accademico (S.A.) quello di camera di rappresentanza. Il S.A. ha le funzioni di: formulare proposte e pareri obbligatori in materia di didattica, ricerca e servizi agli studenti, di attivazione, modifica o soppressione di corsi, sedi, dipartimenti, strutture di raccordo, di bilancio di previsione e consuntivo; approvare il regolamento di ateneo e, previo parere del C.d.A., i regolamenti in materia di didattica e ricerca e il Codice etico; coordinamento e raccordo con i dipartimenti e le strutture di II livello; sfiduciare, se il caso, il Rettore. Questa divisione dei poteri è prassi standard nel sistema statunitense, dove né Direttori di Dipartimento (Department Chairs) né Presidi di Facoltà (College Deans) siedono in Senato Accademico, e tanto meno di diritto. Nel sistema americano il Senato Accademico non governa. La sua funzione è solo quella di rappresentare di fronte al governo dell’Ateneo la base dei docenti (“rank and file faculty” dove “faculty” in inglese americano significa corpo docente) (M. P. Bonacina, http://240inpratica.net/ governance/ 20-09-2011). Pur con ritardi dovuti alle proroghe e perché ogni statuto deve essere approvato dal ministro, (perché inoltre OPINIONI E COMMENTI 8 UNIVERSITÀ NOTIZIE in parte quei problemi che una riforma della governance in senso europeo doveva affrontare con decisione. Infatti, la riforma, “così prescrittiva su tanti aspetti di dettaglio”, ha invece lasciato agli atenei il compito di scegliere nei loro statuti le soluzioni per lo più preferite ossia le soluzioni meno rinnovatrici possibili, che in alcuni casi hanno addirittura “sfidato lo spirito, se non la lettera, della legge di riforma”. Fare della revisione degli statuti “un’opportunità di rinnovamento, di qualificazione e di riforma democratica del sistema” addirittura anche “a dispetto dello spirito della Legge”, si leggeva in un comunicato della Flc Cgil del 26-01-2012. Per l’elezione del rettore nessuna università ha scelto un sistema di elezione di secondo grado (cioè di designazione da parte di organi collegiali), per sottrarlo almeno in parte a meccanismi di voto di scambio e di ricerca di un consenso elettorale basato solo sulle capacità di mediazione. Per il C.d.A. la legge lascia agli statuti di stabilire se i suoi membri devono entrare in carica tramite “designazione o scelta” tra candidature individuate “anche mediante avvisi pubblici”. Questo equivoco terminologico, consentito dalla “timidezza” della legge sul punto, ha ingenerato diverse linee interpretative. La riforma voleva verosimilmente sottrarre i C.d.A. alla consueta fiera elettorale, suddivisa per categorie (ordinari, associati, ricercatori, tecnici), di do ut des, di compensazioni accademiche. Ma su quel comma s’è scatenata “la furia leguleia di molte università che hanno sollecitato i principi dei fori (amministrativi), magari in cattedra in questo o quel dipartimento, ad analizzare la debolezza di quel testo di legge e, forti di cotanti pareri, hanno fatto gli statuti come più gli aggradava, vale a dire ripristinando le elezioni e le componenti”. Pertanto gli statuti di alcuni atenei (Politecnico di Torino, Genova, Pisa, Trieste, Firenze e Parma) hanno inteso la “designazione o scelta” come procedura elettiva più o meno indebolita o mascherata, secondo varie modalità, oppure hanno concepito il processo di scelta dei membri interni ed esterni in modo da sottrarli quanto più possibile alla discrezionalità del rettore, per evitare che questo si trasformasse in un dominus. Il ministro Profumo ha impugnato gli Statuti dei sopra citati atenei presso i TAR competenti sul punto specifico, giudicandoli contra legem. Ma la sentenza del TAR Piemonte (n. 983 del 14/6/2012) dopo quella del TAR Liguria (n. 718 del 22/5/2012) ha affermato che l’opzione di scegliere i membri interni del C.d.A. attraverso l’elezione diretta da parte della Comunità accademica è legittima, cioè non è contra legem come invece sostenuto dal MIUR e ha rigettato il ricorso intentato dal MIUR che contestava l’eleggibilità. Nella sentenza del TAR Piemonte si legge che “il termine ‘designazione’ indica, in sé, solo l’atto con cui una determinata persona viene additata a un ufficio, mentre nulla dice in ordine al soggetto che effettua tale indicazione né sui criteri e modalità seguiti a tale fine: esso quindi non esclude che il designante possa essere un organo collegiale né che l’individuazione possa essere effettuata all’esito di una procedura elettiva. In tal senso le procedure elettive costituiscono solo una delle modalità di designazione di un soggetto a un ufficio” (G. Porzi, oggi.it 04-09-2012). In molti Statuti si è invece interpretata la norma come un’esplicita esclusione di un processo elettivo comunque concepito, per cui si è intesa la scelta come una prerogativa del rettore, o di organismi da questo controllati, in base alla necessità di assicurare una governance efficace grazie a una “squadra di governo” coerente con la sua linea politica, che evitasse i mali dell’assemblearismo e la sua conseguente deresponsabilizzazione. Come ci hanno insegnato l’esperienza e la storia, è percezione illusoria di democrazia, nell’attribuzione di responsabilità riguardo ai processi decisionali, quella che la identifica in ogni caso nella via esasperatamente ‘rappresentativa’. Ci possono essere pessime decisioni, o prolungate deleterie non-decisioni, da parte di organismi rappresentativi – vediamo tanti esempi al riguardo – mentre molti sistemi funzionano ottimamente prescindendo da essi, e senza scadere nell’autoritarismo o nella dittatura. È percepita invece come democrazia realmente partecipativa quella che consente di monitorare e verificare costantemente le decisioni e gli effetti che ne derivano. Il dibattito andrebbe indirizzato sui meccanismi di controllo degli organismi decisionali oltre (più?) che su quelli della loro scelta / designazione / elezione. La parola chiave di un vero rinnovamento degli atenei è la responsabilità degli organismi, elettivi o nominati che siano (S. Di Nuovo, roars 29-02-2012). Il reclutamento dei professori e dei ricercatori nella riforma e nei successivi decreti Preliminare o propedeutica a una ricognizione sulle norme per il reclutamento recate dalla riforma è la verifica dello status attuale degli organici del personale docente e ricercatore negli atenei pubblici, senza trascurare, per il necessario collegamento, il nuovo quadro di regole che ha imposto agli atenei la razionalizzazione dell’offerta formativa e il taglio al fondo del finanziamento ordinario (FFO). Il presidente della CRUI ha rilevato che con un corpo accademico che negli ultimi tre anni è sceso di oltre il 10% (da oltre 60 mila a meno di 54 mila) tra ricercatori e professori, ci collochiamo agli ultimi posti in Europa per rapporto docente-studente. Ma è vero anche che nel frattempo è diminuita in percentuale maggiore l’offerta formativa. Secondo dati elaborati su fonte MIUR, la retromarcia iniziata nel 2007 (picco massimo dell’offerta formativa) oggi ha portato i corsi di laurea, fra triennali e specialistici, a scendere sotto la soglia di 5 mila, passando dai 5.823 del 2007 agli attuali 4.830 con un calo del 17% (con un taglio del 5,4% nell’ultimo biennio: dai 5.108 del 2010/2011 ai 4.830 del 2011/12). La riduzione ha toccato 278 corsi di laurea, 169 lauree triennali di primo livello e 109 lauree magistrali o specialistiche. Sono diminuiti, nell’ultimo biennio, specialmente i corsi dell’area scientifica (- 91 corsi di laurea), e a seguire quelli dell’area sociale (-74) e umanistica (-62 corsi). Gli ultimi concorsi per l’accesso al ruolo di professore ordinario e associato risalgono al 2008 e attualmente le università nel complesso sono sotto organico rispetto a quell’anno, tenuto conto dei pensionamenti e del blocco del turn over. L’andamento del numero totale dei docenti, dopo aver raggiunto nel 2009 il massimo storico (con un aumento OPINIONI E COMMENTI L’art. 24 bis introduce poi la nuova figura dei Tecnologi a tempo determinato, che potranno essere assunti con contratto di 18 mesi (prorogabile per una sola volta e per un massimo di ulteriori 3 anni, per una durata complessiva non superiore a 5 anni nella medesima università) per lavorare ai progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea e da altri enti pubblici e privati. Con il “Piano straordinario” triennale per la chiamata di professori associati (art. 29 co. 9 della riforma, decreto interministeriale 15-12-2011 per la ripartizione, C.d.M. del 24-08-2012 che prevede un decreto per l’assegnazione della seconda trance di 15 mln per il 2012), il MIUR ipotizza l’assunzione nella primavera 2013 di un numero di tali professori compreso tra 2.500 e 3.000. Più verosimilmente, in base alle risorse disponibili (80 mln annui per tre anni corrispondenti a circa 600 Punti Organico annui) ci si devono aspettare circa 2.000 reclutamenti annui (di cui almeno 400 esterni all’ateneo reclutante). Lo scenario della docenza universitaria cambierà, rispetto ai dati fin qui riportati, al termine del prossimo triennio (2012-15), secondo previsioni pubblicate in marzo (P. Rossi, roars.it 23-03-2012): professori ordinari circa 13.500; professori associati circa 19.500; ricercatori T.I. circa 17.500; ricercatori T.D.b circa 1.500. Si prevede inoltre che nel 2018, con i passaggi ad associato, saranno probabilmente ancora in servizio non più di 12.000 ricercatori T.I. Le previsioni sul reclutamento sono state in corso d’anno di nuovo ridimensionate per effetto del Decreto legislativo n. 49 su bilancio e reclutamento nelle università (GU n. 102 del 3 maggio 2012) e del Decreto-Legge n. 95 di revisione della spesa pubblica (GU n. 156 del 0607-2012, Suppl. Ord. n. 141). Questi decreti hanno modificato in modo sostanziale alcuni meccanismi fondamentali del reclutamento. Infatti, il DLgs n. 49 ha, di fatto, bloccato il turn over per il 2012, ma con il successivo D.L. n. 95 il blocco del turn over, sia del personale a tempo indeterminato sia dei ricercatori a tempo determinato, è stato portato al 20% fino al 2014 compreso (e potrà poi risalire al 50% nel 2015 e tornare al 100% nel 2016). Senza contare il turnover ulteriormente ridotto alle università meno “virtuose” secondo le previsioni del DLgs n. 49: il costo del personale non può superare l’80 per cento delle risorse, l’indebitamento non può superare il 10 per cento delle risorse assegnate e le nuove assunzioni sono possibili solo se c’è copertura finanziaria. L’introduzione dell’abilitazione scientifica nazionale. Una vicenda non ancora conclusa e gravida di conseguenze sul reclutamento L’intento della riforma è di superare sia la procedura dei concorsi nazionali sia quella, spesso criticata, dei concorsi locali, con l’introduzione di un modello di abilitazione scientifica nazionale (aperta, in altre parole senza limiti numerici legati alle disponibilità di posti) cui seguono “selezioni” locali (per la scelta, da parte degli atenei, tra i docenti abilitati). E’ un meccanismo apparentemente semplice ma in realtà complesso nel portarlo a regime. La legge ne ha direttamente disciplinato alcuni aspetti, la cui definizione è tuttavia in gran parte rimessa a diversi successivi provvedimenti. Nel loro iter, processi di 9 UNIVERSITÀ NOTIZIE del 28% rispetto al valore 1998), ha iniziato a scendere rapidamente e oggi eccede soltanto del 14% il valore al 1998. Con l’analisi per fasce si rilevano effetti ancor più rilevanti: i professori ordinari, saliti nel 2007 di oltre il 48% rispetto ai 13.400 del 1998, già oggi superano tale valore solo del 13%. La crescita del numero dei professori associati è stata relativamente più modesta (con un massimo del 22% nel 2007) e già oggi il numero supera di appena il 5% il valore del 1998. Anche il numero dei ricercatori a tempo indeterminato, dopo essere giunto a crescere del 27% (nel 2009) rispetto ai circa 20.000 ricercatori del 1998, sta ormai scendendo. Ciò nonostante, gradualmente il sistema tendeva a riacquistare una struttura piramidale nel rapporto professori-ricercatori. Infatti, nel corso degli anni, le quote percentuali sono cambiate per una riduzione del numero di professori ordinari e associati (che nel 2010 costituivano insieme il 56,9%: rispettivamente il 27,5% e il 29,4% del totale) a favore dei ricercatori che rappresentano il 43,2% del personale docente di ruolo. Com’è appunto dimostrato dal documento curato dal MIUR (L’Università in cifre. Rapporto 2009-10), dove si registra che la riduzione osservata rispetto al 2008 riguarda in primo luogo i professori ordinari (-16,2%), poi gli associati (-7,1%) e infine anche, ma molto di meno, i ricercatori (-2,5%). La riduzione dei finanziamenti ministeriali agli atenei dal 2008 in poi si è tradotta in un crollo del numero dei precari della ricerca. Secondo i dati presenti nel nuovo sito dell’ufficio di statistica del MIUR (http://cercauniversita.cineca.it), dai 34.590 (al 2010) si è passati a 14.334 (al 10-05-2012), sommando assegni di ricerca (13297) e ricercatori a tempo determinato (1037; il nuovo sistema ancora non riconosce la differenza fra ricercatori a tempo determinato di tipo a e b, R.T.D.a e R.T.D.b). In particolare si è avuto un calo del 25% degli assegni di ricerca, un calo del 16% dei ricercatori T.D. e una soppressione delle altre tipologie contrattuali (borse di studio, borse postdoc, contratti co.co.co superiori a 6 mesi) (F. Vitucci e S. Bolognani, roars 12-05-2012). Con il D.L. n. 5, 09-02-2012 (“Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e sviluppo”), pubblicato nella G.U. n. 33 del 09-02-2012, sono state introdotte diverse modifiche alla Legge 240/2010, relative tra l’altro: -- al mantenimento delle funzioni didattiche per i ricercatori universitari, compatibilmente con la programmazione definita dai competenti organi accademici, mentre non avranno più compiti di tutorato e di didattica integrativa; -- all’utilizzo di fondi del piano straordinario associati (vedi oltre) anche per procedere a chiamate dall’estero; -- all’estensione della possibilità di svolgere ricerca negli Atenei anche a figure non di ruolo. Secondo il D.L., inoltre: -- le università telematiche non potranno più attingere ai contributi riservati alle università non statali legalmente riconosciute, salvo che non rientrino già in tale tipologia; -- è abolito lo scambio contestuale di docenti di pari qualifica tra due sedi universitarie consenzienti; OPINIONI E COMMENTI 10 UNIVERSITÀ NOTIZIE legislazione a cascata e procedure farraginose hanno fatto sì che per concorrere all’abilitazione scientifica nazionale a professore associato e ordinario dovessero trascorrere quasi due anni dall’emanazione della riforma (legge 240/2010) che l’ha istituita: le domande dei candidati sono da presentare entro il 20 novembre 2012. La riforma prevede dunque un’innovazione che era già stata introdotta dall’art.1 della legge n. 230 del 2005: un’abilitazione nazionale ma questa volta senza limite numerico, per attestare la qualificazione scientifica necessaria per l’accesso ai ruoli, che tuttavia non costituisce titolo d’idoneità né da alcun diritto all’assunzione. Per sintetizzare le conseguenze dell’introduzione dell’abilitazione (P. Marsocci, Rivista AIC n. 2/2012, 1906-2012), la riforma prescrive: 1) la possibilità di reclutamento ordinario con il percorso dell’abilitazione scientifica nazionale (di durata quadriennale) cui si aggiungono le valutazioni comparative locali (procedure per la chiamata) bandite dai singoli atenei, svolte da commissioni composte da docenti indicati dal dipartimento che ha richiesto il bando, di cui alcuni provenienti da altri Atenei; 2) la possibilità riservata ai ricercatori a tempo determinato di tipo B, ex art. 24 (ossia a contratto, con incarico della durata di tre anni) di essere incardinati con “chiamata diretta” quali professori associati, in caso di conseguimento dell’abilitazione nazionale; 3) inoltre, per accedere al ruolo di ricercatore di tipo B – attraverso prove di valutazione comparativa, svolte sempre in sede locale – sono previsti bandi riservati a soggetti che siano già stati ricercatori di tipo A (soggetti affini agli assegnisti di ricerca, ma dotati di funzione docente) o a varie tipologie di ex assegnisti di ricerca. Con disposizione transitoria, fino al 31-12-2016, questa stessa procedura può essere usata per la chiamata nel ruolo di professori di I e II fascia dei docenti già in servizio, in possesso dell’abilitazione. A disciplinare la forma di questi reclutamenti (bandi, formazione delle commissioni ecc.) saranno i regolamenti di Ateneo. Esiste poi un ulteriore canale di reclutamento non ordinario (art. 18, co. 1) che consente la partecipazione alle procedure concorsuali locali per la chiamata anche degli “studiosi stabilmente impegnati all’estero in attività di ricerca o d’insegnamento a livello universitario in posizioni di livello pari a quelle oggetto del bando, sulla base di tabelle di corrispondenza, aggiornate ogni tre anni, definite dal Ministro, sentito il CUN”. Inoltre, l’art. 29. co. 7 prevede una procedura per il reclutamento, equiparata a quella utilizzata per le chiamate per “chiara fama”, riservata non solo a chi svolga stabilmente attività accademica o di ricerca all’estero, ma anche a chi – pur operando in istituzioni accademiche e di ricerca italiane – sia vincitore di “programmi di ricerca di alta qualificazione”, a livello nazionale ed europeo. Le nomine per chiara fama di professori italiani e stranieri sono finanziate da una voce integrativa del FFO. I vincitori di progetti Erc, Firb e Prin possono essere chiamati a professore associato, su proposta del responsabile del progetto, con un finanziamento speciale introdotto dal già ricordato D.L. “semplificazioni” (Decreto Legge 09-02-2012, n. 5, GU n. 33 del 09-02-2012). Questo D.L, fra l’altro, ha esteso l’ambito di utilizzo dei settori scientifico-disciplinari alle procedure per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale, prevedendo esclusivamente l’utilizzo di modalità informatiche per l’espletamento delle procedure di abilitazione. E’ specificato poi l’ambito degli effetti del conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale: a) ai fini dell’inquadramento come professore associato, nei confronti dei ricercatori titolari di contratto ai sensi dell’art. 24 co. 3 (legge 240/10) e b) ai fini della chiamata nel ruolo di professore di prima e seconda fascia rispettivamente di professori di seconda fascia e ricercatori a tempo indeterminato in servizio nell’università. Circa la chiamata dei professori di prima e seconda fascia, sono modificati alcuni criteri cui le università devono attenersi nell’adottare i propri regolamenti in proposito (riguardo alla pubblicità del procedimento, all’ammissione al procedimento, alle caratteristiche delle convenzioni per la copertura degli oneri). Per i candidati al conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale la riforma non prevede alcun criterio particolarmente restrittivo. Se tutti i candidati di una disciplina superassero un determinato standard qualitativo, potrebbero essere tutti abilitati. Dunque, senza vincoli precisi, è certo che il numero degli abilitati potrebbe diventare veramente elevato. Lo scenario conseguente potrebbe avere queste prospettive (A. Figà Talamanca, Il Messaggero 20-06-2012): i ricercatori T.I., appartenenti a un ruolo ormai soppresso, si affolleranno a partecipare alle abilitazioni e almeno 15.000 dei 25.000 ricercatori in servizio risulteranno più attivi nella ricerca della maggioranza degli attuali professori associati e forse anche degli attuali professori ordinari. Verosimilmente a loro non potrà essere negata l’abilitazione a svolgere un ruolo di docente che già svolgono. Né sarà facile per le università negare la promozione a professore associato a chi, come ricercatore, è già nei ruoli di docente ed è stato “abilitato” da una commissione nazionale. Tutti i fondi disponibili, per diversi anni, potrebbero essere pertanto spesi per promuovere i ricercatori a professore associato, bloccando le nuove assunzioni e convogliando le risorse nelle sedi e nelle aree dove più numerosi sono i ricercatori. Anche a prescindere da questa previsione, la futura platea di abilitati andrà ad affiancarsi agli idonei dei precedenti concorsi ancora in attesa di assunzione. Sono attualmente un gruppo eterogeneo di 475 docenti, appartenenti a 16 università “non virtuose” in base alla valutazione della sostenibilità economica espressa nel rapporto tra assegni fissi e FFO (tutte del centro-sud, solo Modena-Reggio Emilia, Udine e Trieste al nord) e ad altre 14 sedi sparse nella Penisola (S. Bergantino e A. Zannini, roars.it 04-06-2012). Gli abilitati dovranno anche muoversi in un contesto normativo e finanziario che quest’anno ha accentuato drasticamente i vincoli degli atenei per assumere e ha introdotto il principio dell’allocazione delle risorse in base a criteri di valutazione delle strutture, la cui determinazione spetta al MIUR, con un ruolo decisivo dell’ANVUR in tutte le connesse procedure. Alla ricerca di una soluzione al prevedibile eccesso di abilitati, il MIUR aveva predisposto alla fine di maggio un testo «apocrifo» che sospendeva fino al 2015 l’abilitazione nazionale, ripristinando i concorsi, ma poi è stato ritirato di fronte a un’estesa levata di scudi. OPINIONI E COMMENTI stabilisce la terza mediana per i settori non bibliometrici. L’AIC contesta il fatto di aver fissato ex post una graduatoria fra le riviste che non esisteva quando i lavori sono stati pubblicati. Il TAR ha ritenuto le esigenze della ricorrente AIC “apprezzabili favorevolmente”, e ha fissato l’udienza per la decisione di merito al 23 gennaio 2013. Il CUN il 12-09-2012 ha chiesto al ministro Profumo di intervenire affinché sia chiaramente stabilito, con atto normativo o interpretativo, se il superamento dei valori mediani degli indicatori quantitativi abbia o non natura vincolante ai fini del conseguimento dell’abilitazione. La risposta è arrivata dall’ANVUR: il meccanismo valutativo “non potrà in alcun modo semplicemente disattendere le mediane, ma dovrà indicare altri criteri di carattere generale”. Una lettera del 21-09-2012, inviata dal ministro Profumo al CUN, avrebbe voluto verosimilmente salvare la procedura di abilitazione, evitandone i contenziosi, laddove affermava che “le Commissioni hanno un margine di discrezionalità, atteso che possono discostarsi dai criteri e parametri disciplinati dal decreto, incluso quello della valutazione dell’impatto della produzione scientifica mediante l’utilizzo degli indicatori di attività scientifica, dandone specifica motivazione sia al momento della fissazione dei criteri di valutazione dei candidati sia nel giudizio finale espresso sui medesimi”. La risoluzione bipartisan del 25-09-2012, presentata alla Camera dai deputati Mazzarella, Gelmini e Binetti, ha contestato “la decisione di ricorrere … alle mediane ricavate dalla produzione scientifica dei professori di ruolo nei precedenti dieci anni, anziché a rigorose soglie assolute” perché “introduce nel sistema una forte aleatorietà di metodo e di merito, impedendo tra l’altro ai futuri candidati di conoscere con sufficiente anticipo i requisiti da superare per conseguire l’abilitazione, essendo tali requisiti imprevedibilmente mutevoli, anche in misura assai sostanziale”. Rispetto alle mediane per come calcolate dall’ANVUR, la mozione ha sollevato “seri dubbi sulla tenuta algoritmica e giuridica del loro calcolo”; inoltre, ha sottolineato la “perdurante incertezza sull’affidabilità della base di dati utilizzata e sui meccanismi di calcolo adottati”. In definitiva questa risoluzione Pd-PdL-Udc sollecita il MIUR a decretare che il superamento delle mediane “non è necessario né sufficiente” per l’abilitazione, e invoca “un provvedimento normativo o interpretativo erga omnes” per “chiarire definitivamente” la questione della derogabilità delle mediane. La CRUI, il 27-09-2012, ha confermato i timori già espressi al momento della pubblicazione del D.M. 76/2012 e ha denunciato il contesto di incertezza sulle procedure di abilitazione, che rischia di rendere l’intero processo di valutazione equivoco e foriero quindi di successivi contenziosi causa di inaccettabili ritardi con penalizzazione sia dei candidati sia della qualità del sistema universitario. Ha chiesto pertanto di risolvere rapidamente e inequivocabilmente gli aspetti tuttora controversi delle procedure di abilitazione, ristabilendo “tempi certi, responsabilità e rigore”. Il CUN è nuovamente intervenuto il 28-09-12 rilevando che la risposta ricevuta dal Ministro non può essere sostitutiva di un provvedimento ministeriale atto a 11 UNIVERSITÀ NOTIZIE Per cercare di porre un vincolo selettivo alle abilitazioni è intervenuta l’ANVUR, che già all’inizio della sua attività aveva proposto al MIUR una formulazione del decreto attuativo dell’ANPRePS (Anagrafe nominativa dei professori ordinari, associati e dei ricercatori e delle pubblicazioni scientifiche prodotte) previsto dalla legge, sottolineando la fondamentale importanza dell’anagrafe per svolgere il suo compito di valutazione. Per sopperire alla mancata messa in opera dell’anagrafe nazionale della ricerca, l’ANVUR ha allora utilizzato le informazioni volontariamente inserite dai docenti nel sito del CINECA e ha introdotto il concetto di mediana da applicare sia agli aspiranti commissari sia ai candidati all’abilitazione: attraverso una serie d’indicatori bibliometrici e di attività scientifica, gli aspiranti commissari saranno divisi in due parti e solo la metà potrà aspirare a fare il commissario; simmetricamente, solo i candidati che avranno un indicatore di attività scientifica superiore al valore mediano della fascia professorale per la quale vogliono concorrere, potranno conseguire l’abilitazione. Al decreto non regolamentare (D.M. n. 336/11) previsto dall’art. 15 della riforma, con il quale sono stati riordinati i settori scientifico-disciplinari, ha fatto seguito il D.M. 07-06-12, n. 76 (Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, nonché le modalità di accertamento della qualificazione dei Commissari, ai sensi dell’articolo 16, comma 3, lettere a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e degli articoli 4 e 6, commi 4 e 5, del D.P.R. 14 settembre 2011, n. 222.). Il regolamento all’art. 2 stabilisce: a) i criteri, i parametri e gli indicatori di attività scientifica utilizzabili ai fini della valutazione dei candidati all’abilitazione; b) il numero massimo di pubblicazioni, distinto per fascia e per area, che ciascun candidato può presentare ai fini della valutazione nella procedura di abilitazione; c) le modalità di accertamento della coerenza dei criteri e parametri e indicatori di qualificazione scientifica degli aspiranti commissari con quelli richiesti per la valutazione dei candidati all’abilitazione per la prima fascia dei professori universitari. Lo stesso regolamento rimanda inoltre alla pubblicazione, entro 60 giorni, dei valori delle mediane di produttività scientifica per i diversi settori e della classificazione delle riviste per i settori cui gli strumenti bibliometrici di calcolo dell’H-Index non siano applicabili. Sono 184 le commissioni composte da 5 professori ordinari tra cui uno straniero, estratti a sorte da un panel di docenti che, oltre ad aver presentato domanda, hanno i titoli per farne parte. La legge, in sostanza, dice che i professori della commissione devono essere qualificati almeno quanto i candidati. La soglia di “bravura” che va superata è stabilita dalla “mediana”. Ripetuti interventi in rete (www.roars.it), sulla stampa, varie mozioni di consulte di Area e di società disciplinari, hanno giudicato poco affidabili i dati su cui si basa il calcolo delle mediane, poco chiara la procedura, e soprattutto passibile in sede giurisdizionale di fondati ricorsi. E il TAR Lazio, infatti, è stato chiamato a pronunciarsi sul ricorso dell’Associazione Costituzionalisti Italiani (AIC) per l’annullamento del D.M. 76/2012 nella parte in cui OPINIONI E COMMENTI 12 UNIVERSITÀ NOTIZIE superare le incertezze perduranti nella comunità accademica sulla corretta interpretazione del D.M. 76/2012, quanto al margine di discrezionalità usufruibile dalle Commissioni per le abilitazioni scientifiche. Ritiene pertanto opportuno sollecitare ancora un adeguato provvedimento ministeriale di chiarimento, la cui adozione e diffusione assicuri la certezza del quadro normativo di riferimento. Non vi è dubbio che i termini della procedura di abilitazione in corso (imminenti sorteggi dei commissari, data del 20 novembre per la presentazione delle domande dei candidati, termini di legge per la chiusura dei lavori delle commissioni) sono incompatibili con i tempi che un provvedimento legislativo richiederebbe nel suo necessario ma lento iter attraverso il parere del Consiglio di Stato, dell’ANVUR, del CUN e del CEPR, la registrazione alla Corte dei Conti e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Se il 23 gennaio 2013, dopo l’udienza del TAR, si dovesse costatare che la sentenza di merito ha disposto di annullare il D.M. nella parte in cui stabilisce la terza mediana per i settori non bibliometrici, l’intera classificazione delle riviste di fascia A cadrebbe per illegittima retroattività. A quel punto sembra evidente (JUS, roars 06-09-2012) che la legittimità dell’intera procedura di abilitazione, già celebrata, vacillerebbe paurosamente, perché “viziata nel suo svolgimento dall’utilizzo determinante di una mediana illegittima”. Ovviamente, se le mediane sono illegittime, rischiano di essere accolti tutti i ricorsi che le contestino. E l’intera procedura delle abilitazioni rischia di essere vanificata. Diversamente la pensa V. Onida (IlSole24Ore 24-08-2012), che nel ricorso dell’AIC al TAR ha denunciato come illegittima e irragionevole la sostanziale “retroattività” del ranking delle riviste: “E’ ovvio che l’annullamento (o comunque la non applicazione) della clausola concernente l’indicatore di produzione scientifica in questione lascerebbe per il resto integra la procedura e non avrebbe alcun effetto di ‘blocco’ delle abilitazioni. Ed è questa la ragione sostanziale per la quale l’AIC ha avuto cura di circoscrivere attentamente la portata del proprio ricorso”. Secondo la previsione di roars (http://www.roars. it/online/?p=13244) non si scongiurerà l’allarme-ricorsi né con l’interpretazione del D.M. 76 proposta dal Ministro nella sua lettera al CUN né con l’interpretazione del D.M. proposta dalla mozione bipartisan in Parlamento. L’auspicato “rattoppo delle mediane, derogabili caso per caso” dalle Commissioni, potrà invece aggravare i contenziosi in quanto se le mediane saranno dichiarate illegittime, la eventuale decisione dei commissari di non derogare alle mediane esporrà tutti i conseguenti giudizi all’illegittimità per derivazione, e tutto rischierebbe di essere travolto, a quel punto, da nuovi ricorsi che facciano valere l’illegittimità derivata. A che punto è la riforma Per rendersi conto dei progressi seppur lenti dell’attuazione della riforma occorre consultare il sito della CRUI (http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2017) dove si trova l’elenco degli Statuti delle università pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale (aggiornato al 30 luglio 2012) e dei 28 Decreti applicativi della Legge 240/2010 finora comparsi sulla Gazzetta Ufficiale (28 su 47, ne mancherebbero altri 19). A prescindere dalle dichiarazioni ministeriali e dalle previsioni degli editorialisti specializzati, il ritardato procedere dell’attuazione della riforma risalta in modo lampante da un documento pubblicato dal governo il 24 agosto scorso, laddove enuncia, nel quadro dell’“Obiettivo Crescita – L’Agenda del Governo”, proprio i punti rilevanti ancora da mettere a regime (http://www. lavoce.info/binary/la_voce/documenti/agenda_governo_20120824.1346070883.pdf): • Riformare i dottorati di ricerca e creare un’interazione stabile tra attività di formazione e attività di ricerca e sviluppo tecnologico e industriale. (Soltanto “per l’anno accademico 2013-14 ci sarà un nuovo dottorato», ha annunciato il ministro Profumo il 30-09-12). • Coordinare le procedure per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale al ruolo di professore di prima e seconda fascia e definire una precisa programmazione temporale per le procedure da avviare nel biennio 2013 – 2014. • Promuovere metodi trasparenti e oggettivi di valutazione e accreditamento degli Atenei e dei corsi. • Revisionare i meccanismi di finanziamento al sistema universitario. Che tutto questo sia ancora da realizzare a quasi due anni dal varo della riforma può stupire soltanto chi non ricorda i tempi d’applicazione (e anche la mancata applicazione totale o parziale) delle precedenti riforme. D’altronde lo stesso ministro Profumo sembra rassegnato quando dichiara che di riforme “in questi anni ce ne sono state troppe e non sono state portate a regime” e il problema principale è la mancanza di tempo dato che è sua opinione, ha proseguito, che per “una revisione complessiva del sistema occorre un’intera legislatura” (università.it 30-08-2012). Ma che tale rassegnata previsione sia imputabile alla nostra inguaribile ‘malattia burocratica’, più che un sospetto resta una sconcertante certezza. Non si può non collegare questa patologia del sistema alle altre che figurano nelle recenti affermazioni del manager della nostra industria più importante: “Siamo il Paese in cui sulle imprese gravano le tasse più alte d’Europa, la giustizia più lenta, l’elettricità e il gas più cari, la burocrazia più contorta” oltre a “infrastrutture che sono tra le peggiori d’Europa, pratiche per l’export tra le più difficili, un costo del credito tra i più elevati, la piaga della corruzione. E siamo ovviamente gli ultimi per produttività”. Non è altrettanto ovvio per la produttività scientifica, che pur con scarsi fondi si mantiene mediamente a un ottimo livello nel confronto con gli altri Paesi europei, ma è certamente vero per la produttività della legislazione e della burocrazia che intralciano la ricerca e l’università. Come dimostrano le vicende dell’ultima riforma universitaria. Prof. Paolo Stefano Marcato Alma Mater Studiorum – Università di Bologna OPINIONI E COMMENTI IL DIRITTO ALLO STUDIO 13 UNIVERSITÀ NOTIZIE “Fermare il declino” è un movimento, pubblicizzato da alcuni giornali, che nasce nel deserto di idee che sta attraversando il nostro Paese: si vorrebbero far rivivere i valori della concorrenza e della meritocrazia, reindirizzando l’Italia verso lo sviluppo economico. Tra i promotori di “fermare il declino” vi sono alcuni professori che pur occupando posizioni presso università USA, hanno fondato qualche anno fa, un periodico pubblicato esclusivamente sul WEB, diretto agli italiani., dal nome suggestivo “noisefromamerika”. Questo giornale può essere quindi considerato un po’ l’incubatrice nella quale si è sviluppata l’idea di un movimento liberale. Il movimento indica dieci obbiettivi prioritari, e tra questi vi è quello di “Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni”. L’analisi mi sembra corretta, anche se restituire alle scuole di ogni grado il ruolo che dovrebbe avere in un Paese che vuol progredire, appare essere una impresa piuttosto ardua. E proprio per sottolineare come la scuola abbia fino ad oggi fallito nella sua missione di ascensore sociale, è apparso recentemente un articolo su “noisefromamerica” dal titolo: “i redditi delle famiglie degli universitari”. Come d’abitudine l’articolo è corredato da numerosi dati (economici) che dimostrano inequivocabilmente che “l’università di massa” attuale è ancora frequentata – come avveniva cinquanta anni fa - dai figli delle famiglie relativamente più ricche. In questo senso, è fallita l’università “per tutti”: infatti l’idea di rendere accessibile ai più gli studi superiori abbassando le tasse di iscrizione e di frequenza si è rivelato il classico “boomerang”. L’elevato costo dell’università, e quindi del singolo studente, viene sopportato dalla fiscalità generale; le risorse vengono prelevate anche dai meno abbienti mentre il servizio – la frequenza all’università – è nei fatti accessibile solo a chi può permettersi di rinunziare a lavorare per diversi anni, vivendo in famiglia, o addirittura fuori casa se ha la necessità di trasferirsi. E dato che le tasse universitarie non rappresentano che una frazione trascurabile delle spese complessive che è necessario sostenere, è irrilevante il fatto che esse siano contenute, mentre diventa perfettamente comprensibile che le università siano frequentate dai figli delle famiglie relativamente più ricche. Se nessuno ha più dubbi che le basse tasse di frequenza non realizzano la “università per tutti”, ma sono anzi strumento per perpetuare tra le generazioni le ingiustizie sociali, le “ricette”, per dare accesso agli studi superiori ai meno fortunati dal punto di vista economico, variano di molto. Le proposte più diffuse si basano su incrementi di tasse di iscrizione e di frequenza per i più abbienti, dando nello stesso tempo, sovvenzioni ai meno abbienti. Io penso che questa logica sia sbagliata, anche se fosse depurata dal fatto – che pesa come un macigno – che chi decide l’appartenenza ad una certa fascia di reddito debba (necessariamente) essere la denunzia dei redditi. Infatti, anche immaginando denunzie di reddito veritiere, non mi è mai stato chiaro il motivo per il quale lo stesso servizio debba essere pagato di meno o di più a seconda del reddito di chi ne usufruisce. So di avanzare dubbi su una idea cardine della vita italiana: da noi, il pensiero corrente ha per credo che i “ricchi” siano più o meno dei mascalzoni, da punire in ogni circostanza. Quindi, devono pagare più degli altri ogni cosa; poco ci manca che anche il biglietto degli spettacoli abbia tariffe differenziate a seconda del reddito familiare. Lungo questo filone di pensiero è stato inventato l’ISEE, (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), che (si legge su Wikipedia) “è uno strumento che permette di misurare la condizione economica delle famiglie nella Repubblica Italiana. È un indicatore che tiene conto di reddito, patrimonio (mobiliare e immobiliare) e delle caratteristiche di un nucleo familiare (per numerosità e tipologia)”. L’ISEE è lo strumento universale con il quale bisogna fare i conti per pagare (nella giusta misura?) la retta di un asilo, il contributo mensa di una scuola, e così per ogni altro servizio. Vorrei provare a ragionare al di fuori della logica perversa che ci opprime ogni giorno. Le tasse sul reddito sono già “progressive”. Questo significa che chi guadagna di più paga maggiormente non secondo una proporzione semplice, come accadrebbe pagando una percentuale fissa, ma paga molto di più, se guadagna tanto. E se si ritiene l’incremento della tassazione insufficiente, si può sempre modificare la progressione, fino a renderla soddisfacente. Stabilita una certa progressione delle tasse, io penso che i cittadini, ricchi o meno ricchi, abbiano fatto il loro dovere nei confronti della società. Da quel momento in poi, tutti dovrebbero essere uguali, ed usufruire di qualsiasi servizio pagando nella stessa misura. Anche perché, non vedo che cosa vi sia di giusto nel “tassare” in modo differenziato ogni atto della nostra vita: “l’equità” – parola abusata – va a farsi benedire. Ad esempio, chi ha cinque figli viene tassato cinque volte quando questi frequentano la scuola, pagando le rette, mentre chi ha un solo figlio paga una volta. Che ciò sia “equo”, credo vada dimostrato. Ma in Italia le cose non si svolgono mai in modo semplice; specialmente quando si tratta di soldi (in ogni senso) i distinguo diventano infiniti nel numero. Basta pensare che le istruzioni per compilare il modello IRPEF constano di centinaia di pagine; agevolazioni ed aggravi si intrecciano in modo inestricabile, ed ogni anno vi sono sensibili cambiamenti. Ed è facile trovare molti altri esempi: basta cercare di capire le nuove tasse introdotte sui conti correnti e sui depositi bancari, od i documenti (istruzioni, in omaggio alla “trasparenza”, di molte pagine) che le stesse banche inviano ogni anno ai correntisti per informarli sulle spese alle quali potrebbero andare incontro, a seguito di determinate operazioni. In sostanza, domina l’idea che prelevando dalle tasche altrui del denaro in modo poco chiaro, l’operazione risulti meno dolorosa per la vittima del prelievo. Tornando al nostro argomento principale, cosa fare per rendere effettivo il “diritto allo studio”? Queste parole, coniate negli anni ’60, hanno in realtà portato a ben poco. Dopo mezzo secolo si può tentare un bilancio: qualche pasto alle mense a prezzo ridotto; pochissimi alloggi a prezzi agevolati; borse di studio dall’importo modesto, il cui numero è in costante diminuzione. In sostanza, i OPINIONI E COMMENTI 14 UNIVERSITÀ NOTIZIE risultati sono miseri: ce lo dimostra il contenuto dell’articolo al quale abbiamo fatto cenno. Proviamo ad immaginare che cosa andrebbe fatto per garantire ai cittadini il “diritto allo studio”. Andrebbe sgombrato il campo da eventuali equivoci: il “diritto” del quale si parla non ha attinenze con l’inesistente “diritto” a conseguire un titolo di studio. Per avere quest’ultimo è necessario studiare, anche duramente, se la materia da apprendere è difficile. Quindi: va agevolato solamente chi ha le doti e la volontà per studiare. Le tasse elevate potrebbero essere lo strumento per incentivare e selezionare i “capaci e meritevoli” (come recita la Costituzione). Mantenersi un anno agli studi, supponendo che si debba vivere fuori casa, comporta un costo di una decina di migliaia di euro. Così, collocare il costo delle tasse di frequenza tra cinquemila e diecimila euro rappresenterebbe circa metà della spesa complessiva e questo sembrerebbe a chi scrive ragionevole. Si tratta di un costo che solo famiglie abbienti potrebbero permettersi: d’altra parte, il denaro raccolto con le rette potrebbe essere riversato a vantaggio di coloro che percepiscono borse di studio. Si potrebbe provvedere a venire incontro a costi poco sostenibili dai più, con borse di studio per coprire le spese di mantenimento, e con la esenzione dalle tasse. L’importo delle borse potrebbe essere modulato (o azzerato) in ragione dell’essere fuori sede, o non in perfetta regola con gli esami previsti dal corso di studi. Lo stesso dovrebbe valere per la esenzione dalle tasse; e, per il fine indicato, potrebbero essere preziosi i CFU. Le borse di studio, erogate ai meritevoli, senza l’inquinamento del vero o presunto dello scarso reddito familiare, potrebbero anche essere un potente mezzo per responsabilizzare tutti gli studenti. Nella stessa direzione opererebbe un consistente aumento delle tasse di frequenza. Si potrebbe poi agevolare lo studio di certe discipline, aumentando numero e consistenza delle borse, naturalmente a scapito di altri settori. Purtroppo, parliamo forse di sogni: la cultura dominante coltiva idee molto lontane da quelle qui delineate. Prof. Rosario Nicoletti Università Roma La Sapienza UNIVERSITÀ E INDUSTRIA: L’OSSIMORO DELLE CONVERGENZE PARALLELE Chi ha la fortuna di avere un po’ di vita alle spalle si ricorda di una fase della storia politica del nostro Paese identificata con l’ossimoro delle “convergenze parallele”. Forse esso può essere applicato anche ai rapporti tra Università e Industria: mantenere le proprie identità e nel contempo avere un obiettivo comune. La crisi che attraversa i paesi occidentali più sviluppati tecnologicamente non consente più dispersioni di risorse o ancor più frizioni tra i due sistemi: il primo che accusa il secondo di essere tecnologicamente arretrato e di accontentarsi di figure professionali di basso livello o viceversa l’industria che accusa l’università di formare figure più di natura culturale che professionale o comunque di poca attinenza col mercato del lavoro. Qual è la situazione odierna? Cosa si può fare per favorire un’interazione proficua? Nel cercare di rispondere a queste domande debbo sin da subito confessare il mio peccato originale: sono un ingegnere industriale e pertanto la mia visione sarà sicuramente tipica di questa latitudine culturale e quasi sicuramente non estrapolabile alla totalità dei casi. Spero però di fornire uno spunto di riflessione anche a colleghi di altri settori nonché di attivare un utile contraddittorio con coloro culturalmente più affini allo scrivente. Nelle discipline tecnologiche, quali quelle dell’ingegneria industriale, oggi esiste una soddisfacente interazione tra l’industria e l’università, nell’ambito delle cosiddette attività “tradizionali” e “consolidate” quali la ricerca commissionata, le attività di servizio e l’impiego dei laureati. Per esempio, le procedure di legge impongono alle associazioni industriali di settore di verificare e approvare i percorsi formativi predisposti dall’università. In molti atenei sono già oggi attivati dei comitati di riferimento (steering o stakeholders committee) costituiti da dirigenti d’industria che indicano le prospettive d’impiego dei vari indirizzi di studio o le principali lacune formative riscontrate nei laureati. L’attivazione di questi comitati è un fenomeno abbastanza recente, innescato nelle facoltà di ingegneria dal processo di accreditamento dei corsi di studio promosso dall’agenzia europea EURACE-QUACING1. Come rilevato da Alma Laurea, l’ingegnere è oggi forse la figura di laureato il cui ingresso nel mondo del lavoro avviene nel minor intervallo di tempo dal conseguimento del titolo2. I laureati e i laureati magistrali di ambito industriale trovano il loro sbocco professionale di elezione nell’industria o nelle società d’ingegneria, mentre la libera professione è sostanzialmente svolta in modo marginale. Quest’ultima è invece uno sbocco professionale rilevante per i laureati nell’ambito dell’ingegneria civile. Indiscutibilmente il laureato magistrale costituisce ancor oggi il “prodotto di punta” della formazione in ingegneria industriale. Ciò nonostante, la formazione 3+2 consente percorsi di non continuità (laurea in un settore e laurea magistrale in un altro) e mobilità degli studenti tra atenei, con conseguente formazione più aderente ai profili professionali richiesti. Ciò è stato ben evidenziato nel convegno organizzato dalla Conferenza dei Presidi d’Ingegneria tenutosi a Napoli lo scorso ottobre3. Anche la gran parte dei dottori di ricerca in ingegneria trova oggi collocazione in industria, grazie al contributo dei comitati di riferimento che, essendo formati dai rappresentanti delle industrie che sponsorizzano le borse di studio, orientano le ricerche svolte su argomenti di maggior rilevanza industriale. Ciò ha cambiato 1 Vedi sito web ENAEE (European Network for Accreditation of Engineering Education), http://www.enaee.eu/ 2 Alma Laurea: Condizione occupazionale dei laureati, XIV indagine (2012), http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione10/ 3 Conferenza dei Presidi di Ingegneria: Studi di ingegneria a dieci anni dalla riforma, Napoli 28 ottobre 2011 OPINIONI E COMMENTI similari, che ben conoscendo i propri comparti industriali di provenienza, possano esaminare i portafogli brevetti degli atenei e suggerire le aziende potenzialmente interessate. Inoltre, conoscendo le esigenze dei differenti comparti industriali della regione, una tale struttura mista potrebbe anche indicare su quali linee preferenzialmente sarebbe utile svolgere delle ricerche. L’idea non è originale, essa è adottata, per esempio, dalla Washington State University, dove già il germe dell’idea inventiva è valutato da un comitato formato da ex manager e “venture capitalist” che interagiscono così da subito con l’inventore aiutandolo ad indirizzare la sua idea verso le applicazioni potenzialmente più proficue. Un’altra azione potrebbe essere di “push” verso le università premiando un progetto di trasferimento tecnologico di successo. Ossia dove, da una ricerca libera nata in università, si sia proceduto prima alla sua protezione brevettuale, trasformandola così in invenzione, e poi alla sua licenza, meglio se poi tradotta nello sviluppo di un prodotto o di un processo industriale. Questo potrebbe essere un premio per il trasferimento tecnologico. Il premio dovrebbe essere tangibile, o mero denaro che copra le spese sostenute per il progetto o qualche cosa di politicamente più efficace. Per esempio al gruppo di ricerca che risulti vincitore assegnare una dote per un posto o da ricercatore o di promozione a professore associato. Lo slogan potrebbe essere “la ricerca paga, fa crescere il territorio e assume personale qualificato nelle università”. Il ricercatore che poi usufruisce di questo “gettone” dovrebbe fregiarsi di un titolo che richiami a tutto ciò. Qui credo che gli esperti di comunicazione potrebbero lavorare bene per migliorare questa mia prima idea. Non circolerebbero soldi ai ricercatori, ma il gruppo riceverebbe qualche cosa di più prezioso: l’assunzione in università di un “cervello” già educato al trasferimento tecnologico e conscio dell’importanza della ricerca applicata. Il tipico ente in grado di promuovere tali premi è sicuramente di natura regionale. Esso potrebbe mettere anche delle clausole di “profitto” continuo nel tempo per evitare che il beneficiario di tale “chair” si sieda sugli allori. Il vantaggio di questo modus operandi è quello di premiare a cose fatte, quindi gli inventori, i licenziatari, le imprese, lavorano tutti su di un progetto a cui credono e non per ottenere un finanziamento “politico”, per poi lasciar cadere il tutto appena ottenuti i soldi. Debbo constatare amaramente che molti degli incentivi pubblici alla ricerca e alla collaborazione università-industria fanno poi questa fine. Purtroppo si evidenzia chiaramente la rigida separazione esistente tra le due carriere, accademica o industriale, che possono essere intraprese da un laureato. Anche in ingegneria sono rari i passaggi dall’industria all’accademia, eccetto nei rari casi in cui siano finanziate dall’industria delle cattedre convenzionate su specifici argomenti d’interesse dell’industria stessa. Qui si registra un passaggio, generalmente definitivo, di un ricercatore o un dirigente industriale ad una posizione accademica, di solito da professore di prima o seconda fascia. Sull’efficacia odierna di questa pratica ho un giudizio abbastanza neutro. In alcuni casi l’università si è arricchita di valenti figure professionali, in altri il risultato è stato quello triste di cimitero degli elefanti. Nella quotidianità, solo alcuni dirigenti aziendali svolgono 15 UNIVERSITÀ NOTIZIE notevolmente la natura del dottorato di ricerca, un tempo dedicato unicamente alla formazione della docenza accademica. Occorre però precisare che nella maggioranza dei casi le borse di studio sono finanziate dai gruppi industriali di maggior dimensione. La piccola e media impresa raramente ha orizzonti di ricerca che coincidono con la durata triennale di un ciclo di dottorato. Almeno nelle regioni che presentano un tessuto industriale ben consolidato e florido, esiste una soddisfacente mole di ricerca commissionata dall’industria all’università, che nell’ambito sempre delle ingegnerie industriali, eccede per importo quella finanziata da fondi pubblici. L’industria è il naturale acquirente della proprietà intellettuale generata dalla ricerca universitaria libera. Molti atenei si sono già dotati o si stanno dotando di uffici per il trasferimento tecnologico (Technology Transfer Offices) per facilitare la copertura brevettuale delle ricerche svolte e la loro successiva commercializzazione. Queste attività richiedono del personale specializzato ad esse dedicato, le cui capacità non necessariamente coincidono con quelle del docente universitario. Oggi, dal mio punto di vista, il trasferimento tecnologico dall’università all’industria funziona bene nell’ambito di quella che è la cosiddetta “ricerca commissionata”, ossia quella che un’impresa commissiona all’università nell’ambito di uno specifico progetto. Nella sostanza, al momento, le università sanno fare principalmente innovazione di processo, mentre le imprese hanno bisogno di innovazione di prodotto. L’imprenditore, conosce il mercato, vede le esigenze, immagina che la soluzione ad un certo problema possa avere un’opportunità commerciale. Delega all’università come raggiungere quegli obiettivi, individuando le soluzioni di dettaglio. Nei contratti che vengono all’uopo stipulati sono in questo caso già stabiliti tutti gli accordi per la difesa del know-how sviluppato, della sua proprietà e di come esso sarà trasferito. Non tutti i ricercatori accettano volentieri queste norme, ma si tratta per lo più di un atteggiamento ideologico, fortunatamente sempre più numericamente limitato. Nella fattispecie, queste norme sono forse un po’ troppo a favore dell’impresa, con premi al contributo dell’inventore piuttosto modesti, in particolare quando la ricerca è commissionata da grandi gruppi industriali. Il punto debole di questo modello è quello del contatto tra ricercatore e industria, nella gran parte dei casi basato sui rapporti personali. Più difficile è l’operazione di trasferimento quando l’innovazione è frutto di “ricerca libera”, ossia autonomamente svolta dal ricercatore seguendo una sua idea. In questo caso i “Technology Transfer Office” delle università spesso mostrano tutti i propri limiti. Le probabilità di licenziare il brevetto sono il più delle volte strettamente legate alle “conoscenze” dell’inventore che, immaginando le applicazioni, pensa anche alle industrie alle quali possa servire. L’attività di “push” dei TTO è oggi sostanzialmente di tipo burocratico, vedi mandare delle lettere circolari, piuttosto che di reale strategia di licenza. Ciò è dovuto al ridotto organico di tali uffici e al fatto che le competenze degli addetti sono più di tipo legale-gestionale che di conoscenza dei diversi comparti industriali. Per il potenziamento del trasferimento tecnologico, le associazioni industriali potrebbero integrare i TTO con dei professionisti, ex dirigenti e OPINIONI E COMMENTI 16 UNIVERSITÀ NOTIZIE dei cicli di lezioni, peraltro seguitissime dagli studenti, su argomenti nei quali spesso in accademia mancano le competenze. Questa pratica dovrebbe essere incentivata, anche ricorrendo allo strumento introdotto dalla legge 240/2010 degli incarichi per chiara fama. Spesso però è difficile che un dirigente industriale possa conciliare un incarico accademico con i suoi impegni primari. Per contro, raramente il personale docente sceglie di trascorrere un periodo più o meno lungo, configurabile quale anno sabbatico, in un’azienda, preferendo una collocazione in altro ateneo, vista quest’ultima come più proficua per la propria carriera. Il personale docente spesso non vede di buon occhio il cimentarsi con le quotidianità della vita aziendale, ancorché in funzioni di ricerca. In altri paesi ciò non avviene, basti pensare ad atenei tipo TU Delft, dove è abbastanza facile arrivare alle posizioni di professore associato tramite solamente la carriera accademica. Le posizioni di professore ordinario sono riservate però solo a coloro che nel contempo abbiano operato anche in posizioni di dirigente industriale. Quindi i vertici delle posizioni accademiche sono riservati a coloro che abbiano ben operato nei due sistemi. Purtroppo, in Italia, limitazioni di natura sindacale ostacolano tali mobilità. Cosa possiamo fare per incrementare la compenetrazione dei due sistemi? Sicuramente, un ateneo che vuol dirsi moderno, oggi deve conoscere molto bene il territorio che lo circonda e deve avere relazioni stabili con le associazioni industriali e le camere di commercio. Quello che è particolarmente rilevante è conoscere quali siano le possibilità occupazionali dei propri laureati nel proprio bacino d’utenza. L’approccio deve essere umile, non si può predicare una industrializzazione forzata in una zona a prominente vocazione agricola o turistica solo perché si vuole aprire un corso di studi in ingegneria. Ogni regione ha le sue specificità che molto spesso sono un distillato di storia patria, è un’operazione velleitaria cercare di introdurre elementi di discontinuità senza disporre di un ampio consenso e di una notevole dose di capitali. Per conoscerci meglio, le associazioni industriali o le camere di commercio potrebbero, per esempio, organizzare delle presentazioni di distretto, indicando settore per settore quali problematiche dovrebbero essere affrontate dalla ricerca universitaria. Gli incontri dovrebbero essere aperti a tutti gli interessati, ma svolgersi già sotto delle ben definite regole di riservatezza. Ciò è particolarmente importante per portare a questi tavoli la piccola e media impresa che spesso è diffidente nei contatti con l’università, non a torto, considerata un po’ troppo ciarliera. Nel contempo, queste regole difendono anche il ricercatore da qualche industriale un po’ troppo “rampante” che una volta sentita un’idea se ne appropri senza riconoscere nulla ai proponenti originari. Nel mondo, questo modus operandi, è da tempo attivo in Giappone, dove esistono delle ricerche proposte dal comparto industriale che sono accolte, in sfida tra di loro, dai ricercatori. Ciò è addirittura gestito da un portale web4. 4 http://www.jst.go.jp/tt/EN/univ-ip/matching.html Un altro intervento potrebbe essere il farsi promotore di punti comuni d’incontro tra industria e università in centri per la grande strumentazione. Se le strumentazioni oggi in essere nelle università sono impiegate per più del 30% del tempo è un miracolo. Vista la loro rapida obsolescenza, ciò costituisce un enorme spreco di denaro oggi non più tollerabile. Molte apparecchiature sono presenti inutilmente su più sedi, spesso con tecnici loro dedicati solo parzialmente. Ho nella testa il Nanotechnology Center sviluppato congiuntamente da Harward e dal Massachusetts Institute of Technology. Nessuno può negare che questi due atenei siano sempre e da sempre in forte concorrenza. Però, una volta saputo che Harward stava promuovendo questo centro il MIT ne è diventato socio, unendo le forze per fare un centro veramente all’avanguardia e dove soprattutto le apparecchiature in dotazione fossero usate intensivamente. Il centro è retto da un manager non universitario che affitta gli spazi e le apparecchiature non solo alle due università, ma anche a ricercatori di altri atenei e soprattutto di industrie. Il centro diventa così un punto d’aggregazione scientifica di persone che lavorano a contatto di gomito su problemi diversi. Il contatto informale tra ricercatori di diversa estrazione è uno dei migliori catalizzatori del trasferimento tecnologico. Il limite, forse, nella situazione italiana, è legato al fatto che le nostre industrie fanno poca ricerca e che forse non hanno una struttura tale da poter dislocare un loro dipendente presso una struttura siffatta. Infine, è veramente importante che il manager gestore non provenga dagli atenei e che tutto il personale assunto sia soggetto a contratti di lavoro di tipo privato, altrimenti sarà impossibile gestirlo su orari “round the clock”. Le università fornirebbero solo il comitato di selezione dei progetti che distribuisce l’allocazione dei tempi d’uso della strumentazione. Ragionevolmente, il nostro Paese potrebbe essere dotato di non più di tre centri di questo tipo. Per accorciare le distanze tra università e industria potrebbero essere istituzionalizzati dei “Technology Tour”, dove un gruppo di imprenditori, tipicamente di aziende medio piccole e omogeneamente interessate a determinati settori tecnologici (vedi l’automazione di processo, le energie rinnovabili, la chimica verde e sostenibile, le lavorazioni metallurgiche, e così via) è accompagnato da dei docenti universitari alla visita di laboratori universitari o di industrie localizzate in distretti tecnologici di punta. Durante queste visite i docenti aiutano a far capire le tecnologie e a far porre le giuste domande chiarificatrici. Alla fine ci si conosce molto meglio e le distanze si riducono notevolmente, anche tenendo conto del clima giovale che di solito s’instaura tra i partecipanti. Anche questo l’ho sperimentato personalmente in alcuni tour organizzati dalla Camera di Commercio di Milano sotto l’egida della Regione Lombardia. Nella sostanza il nostro impegno forse dovrebbe essere focalizzato sul più umile “aiutare a mantenere il lavoro che c’è” che sul più ambizioso “inventare un lavoro che non c’è”. Può sembrare una scelta di basso profilo, ma come la termodinamica insegna i processi a basso gradiente sono sempre più controllabili e soprattutto più prevedibili. Lo sviluppo di reti di aziende medio piccole OPINIONI E COMMENTI Prof. Maurizio Masi Politecnico di Milano Il Dipartimento Riformato: eccellente, cattivo o di compromesso? Dopo l’ultima riforma universitaria della storia italiana (legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010, entrata in vigore il 29 gennaio 2011), le università hanno preso atto di dover abolire le Facoltà e organizzarsi in Dipartimenti. Ripensare una struttura universitaria unica, alla quale affidare ricerca e didattica, è indubbiamente un’occasione progettuale di notevole portata, perché rende possibile la costruzione di unità più piccole delle vecchie Facoltà, ma più compatte e più coerenti, al fine di raggiungere gli obiettivi di eccellenza scientifica, di qualità didattica e di efficienza amministrativa, con relativa riduzione dei costi e degli sprechi. Come si costruiranno i dipartimenti, dipenderà, ovviamente, dal modo in cui essi saranno definiti nei diversi statuti delle singole università, ferma restando la definizione dei compiti previsti dalla legge generale, prima ricordata. Se saranno ammessi dei Dipartimenti grandissimi, che sottintendono la prosecuzione mascherata delle vecchie facoltà, allora si avranno le solite trasformazioni all’italiana, che tutto modificano, ma nulla cambiano veramente. Se invece si opererà con saggezza, spirito innovatore e la necessaria dose di autocritica, allora l’università non potrà che avvantaggiarsene, professori e studenti in primo luogo, e il paese di riflesso. Per evitare di rimanere nel grigio di ogni teoria e nel bianco di ogni attesa messianica, si farà qui l’analisi delle possibilità che offre la concomitanza della legge universitaria e del nuovo statuto dell’Università di Trento. Ciò, non tanto perché è l’istituzione alla quale appartengo, ma perché è quella che, nel recente passaggio dallo Stato alla Provincia Autonoma di Trento, ha elaborato lo statuto che assegna ogni potere di decisione finale all’ente politico esterno, non senza aver creato forti tensioni con la maggioranza dei docenti, con gli studenti e con il personale amministrativo.1 In questo caso il Dipartimento dovrebbe funzionare al meglio, se si accetta la tesi, invero nient’affatto ovvia, secondo la quale ci sarebbe un conflitto d’interesse nefasto, se i professori decidono anche sullo sviluppo delle proprie carriere. Che poi questo lo possano decider meglio i politici locali, non staremo qui nemmeno a discuterlo, perché assolutamente risibile come ragionamento. L’articolo 24 dello Statuto dell’Università di Trento, non più statale, ma provincializzata, recita al primo comma: Il Dipartimento opera per la realizzazione di obiettivi scientifici e didattici di ampio respiro disciplinare ed è caratterizzato da un adeguato livello di omogeneità di tematiche e metodi adottati. Un ampio respiro disciplinare è chiaramente una metafora ripresa dal politichese imperante, che ha bisogno di essere tradotta in termini concreti. Essa non significa niente in senso stretto, avendo ogni disciplina universitaria una propria identità, dettata dalla sua tradizione scientifica, la quale è, più o meno, antica, e non cambia perciò il suo respiro, ampio o corto che sia, soltanto perché glielo impone un nuovo statuto. Identità e storia di una disciplina universitaria dipendono, inoltre, dall’oggetto della sua ricerca, il quale si modifica nel corso del tempo, in rapporto allo sviluppo delle conoscenze specifiche e di quelle generali. Se vogliamo tradurre al meglio la definizione sopra citata, diremo che il Dipartimento persegue obiettivi di eccellenza, ricorrendo qui a un termine di moda, oppure, 1 Cfr. I. M. Battafarano: Provincializzare l’università? Riflessioni critiche sul modello trentino. In: Università – Notizie. Rivista dell’USPUR 32 (2012) n. 1, p. 20-22. Il testo finale dello Statuto dell’Università di Trento provincializzata, da me lì esaminato nella sua prima bozza, è stato approvato infine con piccoli cambiamenti di pochissimo rilievo. 17 UNIVERSITÀ NOTIZIE forse rappresenta un modello di sviluppo più radicato sul territorio e che necessita di un maggior numero di impiegati qualificati che non una grossa multinazionale che rapidamente s’insedia e altrettanto rapidamente abbandona il sito produttivo originariamente scelto. In definitiva il mio consiglio ai colleghi è di tralasciare un po’ le nostre beghe universitarie e entrare in contatto il più possibile con il territorio che ci circonda. Solo così si capisce quali possano essere le figure professionali che sono necessarie e soprattutto la loro evoluzione dinamica. E’ inutile continuare a produrre figure di laureato che non abbiano poi reali prospettive d’impiego. Spesso anche le industrie non sanno di che cosa hanno bisogno. Iniziare a parlarsi è fondamentale per capire le esigenze reciproche. Basti pensare che sovente al cittadino comune non è affatto chiara quale sia l’organizzazione di un ateneo: professore, ricercatore o dottorando forse si differenziano, ahimè per l’età, preside o direttore di dipartimento sono figure oscure. A fronte di tutto ciò che ruolo può avere un sindacato di docenti universitari quale l’USPUR che apparentemente si occupa solo delle cose dell’università? Sicuramente quello di favorire lo scambio di esperienze tra colleghi che condividano l’essenza meritocratica del ruolo docente così da poter favorire un contraddittorio non influenzato da barriere ideologiche. Il lavoro già fatto da qualcuno può essere efficacemente discusso, criticato, migliorato e, nel contempo condiviso ad altre situazioni territoriali. Per persone che sono consce del valore della formazione e della fatica che si fa per acquisire le conoscenze il ripartire ogni volta da capo sarebbe l’atteggiamento più stupido possibile. Per concludere, credo che siano finiti i tempi nei quali ci siamo pianti addosso, non è più possibile chiedere al governo del paese di darci finanziamenti e sussidi, è il tempo di iniziare ad essere propulsivi. Siamo all’inizio di un nuovo secolo, da sempre l’arco di tempo in cui germinano le idee (purtroppo sia buone che cattive) che ne indirizzeranno il proseguire. OPINIONI E COMMENTI 18 UNIVERSITÀ NOTIZIE se si vuole rimanere nella tradizione, che gli obiettivi sono l’ampliamento della conoscenza scientifica. Molto più interessante di questa prima parte dell’articolo sui compiti del Dipartimento, è la seconda, nella quale si parla di adeguato livello di omogeneità di tematiche e metodi adottati. In questa formulazione l’omogeneità è senza dubbio il concetto fondamentale, perché presuppone che i dipartimenti non siano un aggregato di cattedre varie, con professori che si occupano di cose diverse, per temi e metodi. Un archeologo ha poco a che vedere con un professore di lingue straniere: il primo cerca e studia reperti, l’altro insegna la verbalità della comunicazione, orale o scritta, di un idioma diverso da quello nazionale. Finora convivevano ambedue nella Facoltà di Lettere e Filosofia di antica memoria. Si suppone che una separazione in due diversi dipartimenti, uno, poniamo, di Lingue e Linguaggi, e l’altro di Beni Culturali, ponga le premesse per una migliore organizzazione della didattica e della ricerca. Ciò posto, si presenta il problema dell’omogeneità nella qualità della ricerca, non essendo i docenti di discipline affini, né tutti scientificamente produttivi alla stessa maniera e allo stesso livello, né tutti didatticamente in grado di trasmettere al meglio i risultati raggiunti dalla ricerca internazionale in una specifica disciplina. Potrebbe persino esserci un ottimo ricercatore ma mediocre divulgatore didattico, anche se questo ci appare, dopo un’esperienza ormai quarantennale, piuttosto un’eccezione che non una tendenza diffusa. Rimarrà pertanto da parte, nel corso di questa riflessione. Il problema prima sollevato, che chiameremo per comodità disomogeneità della qualità (scientifica e/o didattica) a fronte di una omogeneità disciplinare e metodologica, come richiesto dal primo articolo, sopra citato, si presenta come questione implicita, ma irrisolta, nella formulazione degli articoli successivi, nei quali si legge: L’istituzione di un Dipartimento è deliberata dal Senato accademico e approvata dal Consiglio di amministrazione, sulla base di un progetto didattico e scientifico proposto da almeno 35 professori nonché ricercatori di ruolo e ricercatori a tempo determinato di cui all’art. 24, comma 3, lettera b) della L. 240/2010, i quali si impegnano a confluire nel costituendo Dipartimento. Poiché l’approvazione finale è riservata al Consiglio di amministrazione, che è di nomina politica, si suppone che esso valuterà soltanto le compatibilità economiche (o anche le strategie di politica locale?) di quanto deliberato dal Senato accademico, che, a Trento, non è più costituito dai Presidi di Facoltà, ma da membri nominati in altra forma, nel quale il Rettore ha un enorme potere discrezionale, avendovi nominato la metà dei membri di suo gradimento. Pur volendo ammettere che tutto si svolga al meglio in questo processo decisionale, non si può far a meno di avanzare qualche riflessione critica non tanto sul numero di 35 membri, necessari a costituire un dipartimento, quanto piuttosto sulla flessibilità di tale numero, nel corso del tempo, a causa di pensionamenti e trasferimenti. Questa flessibilità è regolata dall’articolo successivo, il quale recita: In caso di riduzioni dell’organico di un Dipartimento sotto la soglia delle 35 unità, il Senato accademico valuta le iniziative da adottare per assicurare al Dipartimento stesso la possibilità di svolgere adeguatamente i suoi compiti istituzionali didattici e scientifici. Qualora dopo due anni, nonostante l’adozione di tali iniziative, il Senato accademico accerti il perdurare della situazione di inadeguatezza della struttura, ne propone la disattivazione al Consiglio di amministrazione. Chiunque capisce che ogni dipartimento vivrà sotto il ricatto del tempo che scorre, del trasferimento dei colleghi ad altra università e degli affetti umani, troppo umani, come li chiamava Friedrich Nietzsche, ovvero di rivalità, invidie, concorrenza, antipatie personali e tutto quanto si può constatare in qualsiasi luogo di lavoro, di preghiera o di divertimento. Se un gruppo, piccolo o grande, può chiedere il passaggio ad altro dipartimento oppure chieder di formarne uno ex novo, mettendo in crisi il dipartimento di uscita, perché fa cadere il numero minimo di 35, si deve supporre che il Senato accademico rifiuterà ogni soluzione di questo tipo, imponendo la convivenza forzata. Fino a che punto di conflittualità? Fino a rischiare che la litigiosità interna impedisca di raggiungere gli obiettivi di eccellenza scientifica e didattica, previsti dallo statuto? La questione è meno teorica di quanto non appaia sulla carta, perché si parte dalla premessa che i 35 fondatori, aggregatisi volontariamente la prima volta, lo abbiano fatto scegliendosi sulla base di un’omogeneità disciplinare, che fosse anche sia scientificamente alta sia didatticamente rilevante. E se ciò non avvenisse più, per indebolimento del gruppo a causa di alcuni dei suoi membri? Che succede allora? Il gruppo di eccellenti dovrebbe poter espellere i “giocatori” divenuti pigri o stanchi, cercandosene altri più attivi e originali. Correrebbe però il rischio di non mantenere più il numero minimo di 35, per mancanza di fondi destinati al reclutamento esterno. Altri due punti sono un impedimento alla costituzione e mantenimento di un dipartimento di eccellenza: la dimensione didattica e i membri forzosi ovvero quelli imposti dall’esterno. Tra i compiti del dipartimento c’è anche quello di organizzare la didattica, come recita l’articolo che definisce i requisiti minimi di ogni dipartimento oltre al numero di 35 membri: In ogni Dipartimento sono attivati almeno un corso di laurea di primo e uno di secondo livello, oppure un corso di laurea a ciclo unico; il Dipartimento cura altresì la gestione o la partecipazione ad almeno un corso di dottorato di ricerca. Ammettendo che gli studenti si riducano di numero per le ragioni più diverse, non necessariamente legate alla qualità della didattica, ma semplicemente per questioni pratiche legate al calo delle nascite, ai cicli economici o all’ampliamento dell’offerta didattica in sedi universitarie limitrofe. Questo risultato negativo potrebbe essere determinante nella valutazione complessiva del dipartimento, da parte del Senato accademico e del Consiglio di amministrazione. Inoltre, essendo il dipartimento obbligato a fornire una determinata attività didattica, sarà necessario che i 35 fondatori di dipartimento abbiano tra le proprie fila almeno i docenti necessari a coprire le materie principali dei rispettivi corsi di laurea, altrimenti non verrebbero riconosciuti come dipartimento dal Senato. Al raggiungimento di tale scopo i 35 fondatori dovranno perciò, già in sede progettuale, sacrificare tutti i loro severi principi di eccellenza, accontentandosi di arruolare OPINIONI E COMMENTI niente fosse, è molto peggio, perché ciò non garantisce alcun progresso reale, anche se lo statuto fosse il più nuovo, la riforma la migliore possibile e il potere politico locale, tanto illuminato, come mai lo fu prima, nella gestione dell’accademia. Prof. Italo Michele Battafarano [email protected] Università di Trento UN PROGRAMMA DI RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ Ho già avuto occasione di menzionare “Fermare il Declino”, movimento che è nato nella redazione e tra i collaboratori di un giornale pubblicato sul WEB, Noisefromamerika. In data 12 Ottobre u.s., sullo stesso giornale è apparso un corposo scritto dall’ambizioso titolo: “Programma riforma università”, a cura della redazione. Segue la dicitura: “Questo il programma per l’università da noi elaborato che stiamo per proporre a Fermare il Declino, aperto ai vostri commenti”. Il “programma” occupa diverse pagine, ed è molto dettagliato: dopo una introduzione di carattere generale, nella quale si fa una analisi dei problemi universitari, e si tracciano le linee generali sulle quali muoversi, in tre diversi successivi capitoli vengono indicati i provvedimenti auspicabili, divisi per scadenze temporali. Mi sono addentrato nello studio di questo programma e qui di seguito riporto le mie prime considerazioni. La prima, di carattere generale, è la seguente: gli estensori del programma non sembra abbiano vissuto per esperienza diretta la realtà dell’università italiana, ed hanno una conoscenza lacunosa dei problemi. Ad esempio, tra gli “interventi di breve periodo”, è citata la necessità “di ridurre drasticamente gli stipendi dei docenti che svolgono una libera professione (medici, avvocati etc.). Il taglio dovrebbe essere in teoria proporzionale al tempo che la libera professione sottrae all’attività universitaria”. Io credo che questo argomento sia tra quelli che ha suscitato i più accesi dibattiti negli ultimi decenni. Esordire con questa frase - che non è chiaro se è formata nell’ignoranza della attuale situazione - mi sembra indicativo sulla poco vissuta conoscenza dei problemi. Ma desidero addentrarmi nelle varie proposte, ritenendo molte di esse interessanti, e comincerò col considerare la parte dedicata a tracciare linee generali di tendenza. Qui, al punto b) è detto: “riteniamo inevitabile una diversificazione del sistema universitario, con un decentramento delle lauree di primo livello in college locali ed una concentrazione dell’insegnamento a livello di dottorato di ricerca e della ricerca in un numero relativamente ridotto di sedi”. Questa è molto di più che una semplice frase, ma costituisce - ad avviso di chi scrive - l’obbiettivo ultimo di qualsiasi riforma seria dell’università; vorrei soffermarmi su questo punto. 19 UNIVERSITÀ NOTIZIE chiunque possa far numero o coprire un insegnamento fondamentale, anche se la qualità della sua produzione scientifica è divenuta col tempo mediocre, discontinua e ripetitiva. L’eccellenza del progetto iniziale incomincia così, fin dall’inizio, a diradarsi, inficiando la possibilità di raggiungere la qualità più alta. I membri forzosi, imposti dal Senato, costituiscono la vera mina vagante del migliore dei progetti dipartimentali per due motivi: a)perché ogni professore o ricercatore non può restare fuori da un dipartimento, né per sua volontà né perché ignorato dai fondatori di dipartimenti affini alla sua disciplina, essendoci un successivo articolo (n. 46) che prevede l’assegnazione d’autorità di ogni docente a un dipartimento. b) perché, in caso di scioglimento di un dipartimento per riduzione di numero o per mancato raggiungimento degli obiettivi d’eccellenza, i membri di quel dipartimento saranno assegnati ad altre strutture accademiche di Ateneo. Se andranno in altri dipartimenti, ne modificheranno l’omogeneità, mettendolo in crisi nel raggiungimento degli obiettivi di eccellenza. A conclusione dell’analisi emerge che per il Dipartimento Riformato Doppiamente – dalla riforma Gelmini e dalla Provincializzazione Trentina – ci sono le premesse per almeno tre soluzioni: a)costruire dipartimenti di alta qualità scientifica e didattica; b)essere costretti a dover valutare l’ipotesi di costituire un bad department, nel quale aggregare i docenti che fossero diventati improduttivi scientificamente e svogliati nella didattica, se ci si propone di perseguire un severo programma di efficienza ed eccellenza; in questo caso però, a parte tutte le altre obiezioni, sarà da mettere in conto anche il pericolo di demotivare definitivamente chi si sente ufficialmente esiliato e marginalizzato nell’istituzione, anche agli occhi degli studenti e del personale amministrativo; c)perseguire una soluzione di compromesso, continuando a tenere insieme, ciò che è disomogeneo per qualità e impegno. Se si volesse davvero tentare una strada nuova, si dovrebbe rischiare la più ampia discrezionalità dei numeri di un dipartimento, anche fino al minimo di 20, a condizione che i risultati scientifici, attestati in pubblicazioni e/o brevetti siano elevati, continui e internazionalmente riconosciuti, e che i risultati didattici siano altrettanto elevati, indipendentemente dal numero degli iscritti, visto che un alto numero degli stessi lo si raggiunge oggi piuttosto facilmente con programmi d’insegnamento altisonanti, poca verifica in sede d’esame e voti altissimi al momento della laurea. Se poi l’università italiana volesse cambiare rotta per davvero, facendo la dovuta autocritica, potrebbe forse trovare una soluzione saggia e praticabile che, evitando gli eccessi opposti di severità e di lassismo, permetta, di correggere i tanti errori del passato, difficili da negare o minimizzare. Prendere atto che ci furono e ci sono ancora, oltre alle colpe esterne, anche colpe interne all’istituzione, è processo difficile e doloroso. Continuare però come se OPINIONI E COMMENTI 20 UNIVERSITÀ NOTIZIE Nel percorso intrapreso negli anni ‘60 - il passaggio da una università di élite ad una di massa - si è scelta, ambiziosamente e senza valutarne le implicazioni, la strada di offrire a tutti la stessa formazione superiore. Di qui la proliferazione delle università e poi addirittura delle sedi “distaccate”, tra loro “uguali” (o presunte tali) essendo soggette alle stesse leggi, e popolate da studenti non selezionati e da docenti reclutati nello stesso modo. La perversa idea di dare la stessa istruzione (ciò forse in relazione ad un male inteso concetto di democrazia) a tutti si è riverberata nelle scuole medie superiori. Gli Istituti Tecnici, una volta fiore all’occhiello della istruzione professionale, hanno diminuito le ore spese nei laboratori e sono diventati parodie dei Licei classici e scientifici: questo è quanto si deduce dalla lettura di un rapporto della Commissione Bertagna, voluta, all’epoca, dal Ministro Moratti. E non vi è ragione per dubitarne, viste le conseguenze che, a distanza di molti anni, stiamo verificando: infatti, gli errori nel campo dell’istruzione (così come stiamo verificando in altri settori chiave di un Paese) si scontano dopo molti anni. Abbiamo oggi una massa di giovani sbandati, che hanno fatto degli studi molto superficiali, e che però disprezzano il lavoro “manuale” o “artigianale”, contrapposto al lavoro “intellettuale”. Genitori che auspicano per i figli il “pezzo di carta”, viatico per un “posto” dietro una scrivania, più o meno retribuito. Così è difficile trovare meccanici, tornitori, falegnami, ed i pochi, preziosi artigiani sono in gran parte vecchi “ad esaurimento”, non avendo personale giovane in grado di succedere loro nel lavoro. Di contro, una massa di giovani disoccupati, molti dei quali non cercano più nemmeno un lavoro. Parallelamente, le università sono appesantite da una massa di studenti in maggioranza scarsamente formati, ed inadatti al tipo di studio che viene proposto. E’ quindi patetica l’affermazione semplicisticamente riportata al punto c) (seguente al b), sopra menzionato) con la quale si richiama la necessità di aumentare il numero degli studenti e di abbreviare i tempi per conseguire il titolo accademico. Anche se è un obbiettivo altamente desiderabile, esso è particolarmente lontano, e difficilmente può essere preso in considerazione nella realtà attuale. Il lamento sulla durata degli studi e la scarsità dei laureati è una litania che sentiamo ripetere da più di un decennio, ed ogni tentativo di migliorare la situazione è stato frustrato dai risultati. Oggi osserviamo addirittura una inversione di tendenza, la diminuzione delle matricole universitarie. Le cause di quel che accade sono molte e provenienti da lontano. A puro fine di esemplificazione, proverò ad enumerarne alcune: - le scuole medie superiori sono carenti, e non operano orientamento e selezione. - molti studenti non hanno la vocazione per il tipo di insegnamento impartito nelle università, che è (o dovrebbe essere) teorico-formativo. - la didattica universitaria è particolarmente inefficace; si intrecciano consuetudini, mancanza di incentivi per i docenti, strutture ed (dis)organizzazione. - molti studenti hanno scarsi incentivi al conseguimento del titolo di studio. Ho solo menzionato quello che viene immediatamente alla mente: l’elenco è sicuramente molto più lungo, ed illudersi che la situazione possa cambiare senza rimuovere le molteplici cause - rivoluzionando (quanto meno) il sistema dell’istruzione, dalla scuola media alle università - è pura utopia. Vorrei concludere osservando che i due punti menzionati nel documento - ai quali viene data poca enfasi sono tra loro strettamente collegati. Un maggior numero di studenti che chiamiamo per comodità “universitari”, è compatibile esclusivamente con l’esistenza di scuole superiori che non siano “orientate alla ricerca”. Lo stesso vale per un abbreviazione dei tempi nei quali si può conseguire la “laurea”: oltre ad un miglioramento nella qualità didattica è essenziale che gli allievi siano ragionevolmente motivati ed abbiano una preparazione adatta al tipo di studio che viene proposto. Le università italiane sono cresciute nella dimensione e nel numero mantenendo (per quanto possibile, o almeno nelle intenzioni) la vocazione originaria, tipica delle università di élites. Docenti formati e selezionati nella ricerca, insegnamento lontano dalle esigenze del singolo studente, poco tempo dedicato alle esercitazioni ed agli aspetti pratici, e ad i colloqui con gli studenti. In altre parole non si è voluto (o forse neanche percepito) quello che è il principale nodo da sciogliere per dare un indirizzo all’insegnamento superiore: se l’insegnamento deve essere orientato essenzialmente a preparare quadri per il lavoro, o produrre e diffondere la cultura necessaria a formare una classe dirigente. Nei paesi avanzati il dilemma è risolto con l’istituzione di scuole superiori tecniche e professionali, che operano in parallelo alle università. Negli USA, paese al quale è d’uso riferirsi, le migliaia di università sono per la maggior parte modeste scuole professionali, altre sono volte ad approfondire la cultura generale, senza avere la pretesa di preparare alla ricerca. Le pochissime, prestigiose università, che si trovano sempre nei primi posti delle classifiche mondiali sono quelle orientate alla ricerca, ed in esse si forma la classe dirigente del Paese. Esse inoltre accettano solo studenti altamente motivati e con una eccellente preparazione. Paragonare queste università con quelle del nostro Paese, università che si pretende siano “tuttofare”, capaci cioè di insegnare un mestiere nei corsi triennali e nello stesso tempo formare alla ricerca attraverso i corsi di dottorato, è semplicemente una sciocchezza, che indica una tragica scarsezza di idee e di conoscenza dei problemi: la crisi nella quale versa l’università italiana è il risultato della povertà di idee della classe politica del Paese. E per tornare all’argomento principale, cosa fare per una riforma dell’università, anticiperò che molte proposte tra quelle elencate sono ragionevoli. Ma, guardando queste nel loro insieme, non si può non osservare uno stridente contrasto tra proposte che rafforzano l’autonomia e l’assoluta mancanza di un quadro che renda responsabile l’autonomia stessa. Questi aspetti verranno considerati in un successivo articolo. Prof. Rosario Nicoletti Università Roma La Sapienza USPUR PER I COLLEGHI L’INTELLIGENZA EMOTIVA DEI COMPUTER Prof. Aldo Bardusco Università di Milano Bicocca LE PENSIONI INPS NEL 2011 Parliamo della situazione delle pensioni e dei pensionati in Italia. Più di un pensionato su due nel 2011 ha percepito dall’I N P S (da uno o più trattamenti sommati) un assegno mensile lordo inferiore a mille euro. Le prestazioni pensionistiche I N P S in essere nel 2011 (comprensive delle pensioni I N P D A P a seguito dell’accorpamento dei due Enti previdenziali effettuato del 2010) complessivamente, sono state oltre 18,3 milioni. Esse presentano un lieve incremento (più 0,2%) rispetto all’anno precedente. Le nuove pensioni sorte nel corso del 2011 sono state circa 964.000 (meno 14,5% rispetto al 2010). Il 21 UNIVERSITÀ NOTIZIE 1. Il neurologo portoghese Antonio Damasio teorizzò una ventina di anni or sono il nuovo concetto di “fare scienza” comprendendo anche quelle emozioni che in passato venivano ritenute soltanto “irrazionali”. Una sua pubblicazione uscì nel 1995 con il significativo titolo “L’errore di Cartesio”. E’ vero che il mondo dell’informatica è stato sinora un mondo cognitivo e funzionale allo stato puro. Ma la nuova sfida è proprio quella di insegnare ai computer a riconoscere e quindi a rispondere anche alle nostre emozioni. L’idea è quella di arrivare a rendere il mondo che ci circonda più “responsivo” e attento alle esigenze umane, anche quando le persone non riescano ad esprimerle. Il tutto attraverso oggetti non più solo intelligenti, ma anche comprensivi. Così potrà entrare nell’uso un mouse da computer che percepisca il “grido” di stress e di stanchezza dalla nostra sudorazione; e ci fornisca il buon consiglio di prenderci una pausa dal lavoro. L’ultimo passaggio sarà quello di creare macchine in grado di provare e di “esternare” emozioni. Si tratta di scenari neanche troppo fantastici, perché al M I T di Boston (prestigioso istituto di ricerca scientifica) da diversi anni si sta studiando una nuova branca dell’informatica: il cosiddetto “affective computing”. Scienza che punta ad insegnare al computer a riconoscere le espressioni e le emozioni degli esseri umani, per essere in grado di rispondere non solo ad imput diretti - con un clic del mouse - ma anche alle esigenze che esprimiamo in modo indiretto. 2. A capo del gruppo di ricerca del MediaLab del Massachussett vi è la professoressa Rosalind Picard (ingegnere ed informatica) che ha fondato questa specialità di studi nel 1997. La cattedrattica americana ha recentemente fondato anche un’azienda commerciale - chiamata in modo significativo “affectiva”. Azienda che sta provando a collocare in commercio i primi prodotti tecnologici derivanti da oltre un decennio di studi ed esperimenti. Ad esempio il navigatore della nostra automobile “sentirà” il tono teso e nervoso della voce con cui ci stiamo rivolgendo alla macchinetta davanti a noi: e immediatamente renderà la sua voce più dolce e comprensiva, suggerendoci una strada alternativa con meno traffico. Oppure lo specchio del nostro bagno scorgerà la nostra espressione abbattuta e potrà percepire qualche segno di una malattia. Lo specchio sarà capace anche di misurare la temperatura corporea tramite l’osservazione del flusso sanguigno. Di conseguenza ci consiglierà con una scritta (che potrà apparire sulla superficie dello specchio stesso) di rimanercene a casa a riposo. Le macchinette inventate dal gruppo di ricerca della profssoressa Picard sono prima di tutto rivolte ad agevolare la comunicazione con persone affette da autismo. Da questa piattaforma sono infatti partite le prime ricerche alla fine degli anni novanta. Come ad esempio il “Q sensor”, una polsiera che è in grado di rilevare cambiamenti - anche minuscoli - nelle funzioni ghiandolari, e di associarli alle emozioni che l’individuo non sia - in ipotesi - in grado di esprimere. 3. Dato che ogni ricerca scientifica ha bisogno di finanziamenti per andare avanti lo spin-off della prof. ssa Picard è al lavoro anche su progetti più commerciali, come ad es. il software “affidex”, una macchinetta capace attraverso una semplice webcam di elaborare le espressioni facciali e la mimica del corpo di chi si ferma davanti ad una vetrina od una bancarella, e di trasmettere al venditore (chiuso nel negozio, come un ragno che aspetta la caduta dell’insetto nella ragnatela) il probabile grado di interesse e di coinvolgimento del potenziale acquirente. Gli studi americani - così come quelli giapponesi indirizzati maggiormente alla robotica - fanno parte della cosiddetta “rivoluzione affettiva” che si sta sviluppando nello studio dell’informatica in tutto il mondo negli ultimi vent’anni. Un ricercatore italiano lavora da sei anni a Ginevra nello Swiss Center for affective sciences. Si tratta del trentacinquenne Marcello Mortillaro di Milano. Lo piscologo italiano rileva che non solo l’informatica, ma ogni scienza è destinata ad avere un’evoluzione che la porterà a comprendere l’importanza dell’aspetto emozionale del comportamento umano. L’idea è quella di arrivare a rendere il mondo delle macchine che ci circondano più responsivo ed attento alle esigenze - ancorché non bene espresse - delle persone. Il tutto attraverso macchinette non solo intelligenti, ma anche comprensive ed affettuose, come animali da compagnia. Si tratta di fenomeni che anche i giuristi e gli studiosi di scienze politiche ben conoscono da sempre. Si può ad esempio ricordare che - in ogni epoca e Paese - nessuna nuova legge si è mai potuta accontentare di curare il lato funzionale delle scelte legislative per realizzare l’interesse della società e/o della compagine politica. Ogni legge nuova deve mettere sempre in conto anche le inevitabili reazioni emotive che essa sarà destinata a suscitare (specie all’esordio) nei cittadini e in tutti coloro che dovranno sottostarvi. USPUR PER I COLLEGHI 22 UNIVERSITÀ NOTIZIE decremento è stato del 12,8% nell’ambito previdenziale, e del 16,5% in quello assistenziale. Tutti questi dati dati sono contenuti nel bilancio sociale dell’Inps, presentato ufficialmente il 19 novembre 2012. I pensionati che hanno un reddito al di sotto dei 1.000 euro sono il 52%; pari a 7,2 milioni di individui (di cui il 17,2% non raggiunge 500 euro); il 24% si colloca tra 1.000 e 1.500 euro mensili; il 12,7% arriva tra 1.500 e 2.000 euro; l’11,2% supera i 2.000 euro; e di questi il 2,9% supera i 3.000 euro. I titolari di almeno un trattamento pensionistico Inps nel 2011 sono stati 13.941.802, in maggioranza donne (54%). Il numero complessivo delle pensioni di vecchiaia, anzianità e prepensionamenti è di 9,6 milioni; l’importo medio mensile arriva a 1.034 euro loredi. All’interno delle diverse categorie gli assegni variano molto, a seconda dei soggetti. Si va da 834 euro per i coltivatori diretti, a 1.777 euro dei dipendenti per gli assegni di anzianità. L’importo medio degli assegni di prepensionamento - 307.822 trattamenti - ammonta a 1.469 euro. Le pensioni ai superstiti, che sono più di 3,8 milioni, hanno un importo medio di 560 euro mensili; mentre le prestazioni di invalidità/inabilità, - che sono poco meno di 1,4 milioni - arrivano a un importo medio mensile di 599 euro. Le pensioni previdenziali vigenti nel 2011 sono 14,8 milioni, in aumento dello 0,6% rispetto all’anno precedente (+92.910 trattamenti). Cresce invece molto di più la spesa, che arriva a a 169,9 miliardi (+2,5% pari a +4,1 mld). Le pensioni assistenziali superano quota 3,5 milioni (pensioni e assegni sociali e prestazioni di invalidità civile), in diminuzione dell’1,4% rispetto al 2010. La spesa pensionistica lorda complessiva dell’Inps, comprensiva delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili, è passata da 191,2 miliardi di euro nel 2010 a 194,4 miliardi di euro nel 2011: con un aumento del 1,7 percento (3,2 miliardi in valore assoluto) sostanzialmente localizzato nella spesa previdenziale. «Nonostante il periodo difficile che l’economia italiana sta attraversando», sottolinea l’Istituto, crescono le entrate contributive: nel 2011 sono arrivate a 150,8 miliardi, registrando un incremento di 3,2 miliardi (+2,2%). L’aumento delle entrate, si spiega nel documento, è conseguenza principalmente della crescita delle retribuzioni lorde globali dei lavoratori dipendenti privati», (+3,8% contro una crescita media delle entrate contributive nel complesso del 2,2%). I trasferimenti dal bilancio dello Stato sono pari a 83.902 milioni, con una riduzione di 243 milioni rispetto al 2010. Le entrate complessive, che comprendono diverse voci come i trasferimenti correnti e le partite di giro, sono cresciute da 279,1 miliardi del 2010 a 284,4 miliardi del 2011, con un incremento di oltre 5 miliardi di euro (+1,9%). Le entrate di parte corrente sono state accertate in complessivi 238,8 mld con un incremento di 2,7 mld rispetto al 2010 (+1,2%). L’analisi relativa alla ripartizione percentuale, per tipologia delle entrate complessive e delle entrate correnti, rileva che le entrate contributive rappresentano il 63,2% delle entrate correnti e il 53% delle entrate complessive. Mentre i trasferimenti dal bilancio dello Stato rappresentano il 35,1% delle entrate correnti; e il 29,5% delle entrate complessive. La ripartizione dei lavoratori dipendenti per classi si età evidenzia che su 12,4 milioni di soggetti oltre il 61% è concentrato nella classe di età 30-49 anni. Le variazioni percentuali 2011/2010 nelle classi di età evidenziano, inoltre, una riduzione media del 3,8% nei pensionati under 40 ed una crescita della stessa percentuale degli over 40. In particolare la fascia under 29, relativa ai giovani, mostra una riduzione del 6,8%; con una riduzione marcata del 37% per i lavoratori dipendenti fino a 19 anni. I lavoratori domestici iscritti all’Istituto nel 2011 sono 651.911 (numero medio annuo), con una riduzione. Solo il 20,5% è italiano; il restante 79,5% è formato da stranieri, a conferma che questo tipo di attività è poco richiesta dagli italiani, sottolinea l’Istituto. Tuttavia lo scorso anno la componente italiana è cresciuta del 2,5% e quella straniera si è ridotta del 6,7%. I lavoratori autonomi iscritti all’Inps sono 4.440.004. I commercianti rappresentano il 47,7% del totale, gli artigiani il 41,9% ed i coltivatori diretti, coloni, mezzadri e altri agricoli il restante 10,4%. Secondo i dati dell’Inps la spesa per gli ammortizzatori sociali lo scorso anno si è ridotta dell’1%, fermandosi a 10,8 miliardi. Per la cassa integrazione sono stati spesi 2,8 miliardi (-11,6%) mentre per la mobilità si è arrivati a 1,4 mld (+10%); cresce anche il costo della disoccupazione che arriva a 6,6 mld (+2%). Se si considerano i contributi figurativi l’onere complessivo per la spesa per gli ammortizzatori sociali sale a 19,1 miliardi, evidenziando come la spesa per contributi figurativi sia equivalente a circa l’80% di quella per le prestazioni. Le nuove pensioni previdenziali sono state 79.308 in meno rispetto all’anno precedente. Calano anche le nuove prestazioni assistenziali, che registrano un -16,5% (i trattamenti sono stati 424.153): il totale delle prestazioni liquidate lo scorso anno ammonta a 964.487 unità, con una riduzione del 14,5%. In particolare, aumenta il numero delle pensioni di vecchiaia e di anzianità (+155.205) ed ai superstiti (+39.792), mentre diminuiscono le prestazioni di invalidità previdenziale (-102.087). Gli assegni di vecchiaia e anzianità, ricorda l’Istituto, pesano per oltre il 77% sul totale delle erogazioni e la spesa previdenziale costituisce l’87,4 percento della spesa pensionistica complessiva. Le pensioni di anzianità erogate sono state quasi 4 milioni, quelle di vecchiaia, invece, sono state 5,3 milioni. Gli ex lavoratori dipendenti sono 5,8 milioni, mentre gli ex lavoratori autonomi sono 3,3 milioni. Passando alle pensioni assistenziali, lo scorso anno sono state 4 milioni, (principalmente pensioni e assegni sociali e trasferimenti agli invalidi civili) per circa 24,6 miliardi di euro. La spesa pensionistica lorda complessiva, comprensiva delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili, è passata da 191,2 miliardi di euro nel 2010, a 194,4 miliardi di euro nel 2011; con un aumento dell’1,7% (3,2 miliardi di euro in valore assoluto). La spesa dell’Istituto per le famiglie, nel 2011, è arrivata a 6,7 miliardi, con una crescita significativa rispetto all’anno precedente (+4,5%). In aumento risultano le USPUR PER I COLLEGHI Prof. Aldo Bardusco Università di Milano Bicocca Firenze, 16 Novembre 2012 On.le Prof. Francesco Profumo Ministro Istruzione, Università, Ricerca Ministero, Piazzale J. F. Kennedy, 20 00144 Roma Signor Ministro, poche righe per manifestarLe la nostra preoccupazione sull’andamento dei lavori del MIUR e dell’ANVUR sull’attivazione tempestiva delle procedure per l’assegnazione delle abilitazioni scientifiche nazionali. E’ a Lei ben noto quanto diremo di seguito in breve sintesi: a)Ricorsi amministrativi presso il TAR Lazio: l’esito dei ricorsi potrebbe cambiare la dinamica dei lavori in essere. b)Esame delle domande dei candidati commissari: la complicatezza delle procedure in corso rende difficile la formazione delle liste di sorteggio per i SC. Perché non adoperare un sorteggio unico e contemporaneo per tutti i SC? c)Tempi di nomina e insediamenti delle commissioni. Supponiamo, per concretizzare quanto diremo, che tutte le commissioni vengano nominate entro il 20 Novembre prossimo. I candidati hanno trenta giorni, secondo legge, per ricusare i commissari: quindi la prima riunione delle commissioni, per fissare i criteri di valutazione, non potrà avvenire prima del 20 Dicembre. I candidati, secondo legge, hanno 15 giorni a disposizione per un eventuale ritiro della domanda. La commissione non potrà comunque fissare la seconda riunione prima di otto giorni dalla prima riunione. Si arriva così al 28 Dicembre per fissare la seconda riunione, con lo scopo di accedere alle domande dei candidati. Poiché la decadenza delle commissioni è fissata al 25 Febbraio 2013 (includendo i due mesi massimi di proroga che possono essere richiesti), si deduce che i tempi di lavoro delle commissioni saranno meno di due mesi). Tenendo conto delle festività, i giorni effettivi di lavoro non supereranno i 40/45 giorni. Potranno le commissioni, in tempi così ristretti, ottemperare alla normativa della legge Gelmini, che così dispone: La commissione attribuisce l’abilitazione con motivato giudizio […] fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche presentate da ciascun candidato, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte? Bisogna poi tenere in conto le difficoltà connesse alla presenza del commissario OCSE e le relative necessità di coordinamento dei lavori. Poiché, fra l’altro, il commissario OCSE potrebbe non conoscere l’italiano, egli avrebbe certamente difficoltà a orientarsi nelle complesse disposizioni normative e nella stesura dei verbali. Abbiamo motivo per credere, signor Ministro, che il pochissimo tempo a disposizione dei commissari non potrà che vanificare ogni loro tentativo di verifica, entrando nel merito, della qualità dei candidati. E’ presumibile che questi saranno non meno di100/200, tra aspiranti PA e PO, per ciascun SC. 23 UNIVERSITÀ NOTIZIE prestazioni per maternità (+4,3%), pari a circa 3 miliardi, e le prestazioni per malattia (+2,1%), che ammontano a 2 miliardi. Le domande pervenute lo scorso anno sono state 375.893, con un incremento del 27,37% rispetto al 2010. La spesa totale relativa agli assegni al nucleo familiare è di 5,4 miliardi di euro. Nel totale sono compresi gli assegni per i lavoratori dipendenti, per i disoccupati, per i pensionati e anche per il congedo matrimoniale. I contributi incassati nell’anno corrispondente ammontano a 6,2 miliardi Anche il 2011, sottolinea l’Inps, è stato un anno di difficoltà per le famiglie, con il potere d’acquisto che si riduce per il terzo anno consecutivo: i redditi sono aumentati dell’1,9% in termini monetari; ma si sono ridotti dello 0,9% in termini reali. Il potere d’acquisto dal 2008 al 2011 è calato del 3,8%, in termini reali la riduzione è stata di 38,6 miliardi; considerando anche il 2007 la diminuzione sale al 5,2%. Nel 2011 il reddito effettivamente a disposizione delle famiglie è stato, una volta detratte imposte e contributi, pari a 1.053 miliardi. Il reddito delle famiglie consumatrici - senza considerare l’effetto dell’inflazione - è leggermente aumentato dal 2008 al 2011 di 5 miliardi di euro (aumento nominale che si è però tradotto in una riduzione reale del 3,7%). L’assegno medio per le pensioni di vecchiaia nel 2011 ammonta a 649 euro; mentre per le pensioni di anzianità si sale a 1.514 euro. L’importo medio mensile arriva a 1.034, euro e ne beneficiano 9,6 milioni di pensionati. Gli assegni di vecchiaia e anzianità, ricorda l’I N P S, pesano per oltre il 77% sul totale delle erogazioni e la spesa previdenziale costituisce l’87,4% della spesa pensionistica complessiva. Le pensioni di anzianità erogate sono state quasi 4 milioni, quelle di vecchiaia, invece, sono state 5,3 milioni. Gli ex lavoratori dipendenti sono 5,8 milioni, mentre gli ex lavoratori autonomi sono 3,3 milioni. All’interno delle diverse categoria gli assegni variano molto, a seconda dei soggetti: si va da 834 euro per i coltivatori diretti; a 1.777 euro dei dipendenti per gli assegni di anzianità. L’importo medio degli assegni di prepensionamento, (307.822 trattamenti) ammonta a 1.469 euro. Le pensioni ai superstiti - che sono più di 3,8 milioni - hanno un importo medi o di 560 euro mensili; mentre le prestazioni di invalidità /inabilità - che sono poco meno di 1,4 milioni - arrivano a un importo medio mensile di 599 euro. Nel 2011 l’Inps ha erogato oltre 14,5 milioni di pensioni di natura previdenziale (vecchiaia/anzianità, invalidità /inabilità, e pensioni ai superstiti) per una spesa che si è aggirata atorno ai 19,9 miliardi di euro, e poco più di 4 milioni di pensioni assistenziali (principalmente pensioni e assegni sociali e trasferimenti agli invalidi civili) per circa 24,6 miliardi di euro. La spesa pensionistica lorda complessiva, comprensiva delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili, è passata da 191,2 miliardi di euro nel 2010 a 194,4 miliardi di euro nel 2011; con un aumento dell’1,7% (3,2 miliardi in valore assoluto); sostanzialmente localizzato nella spesa previdenziale. USPUR PER I COLLEGHI 24 In considerazione di quanto esposto la preghiamo, signor Ministro, di voler accogliere la nostra richiesta, che Le rivolgiamo da tempo, di fissare un incontro “chiarificatore e costruttivo” per dare una risposta ai problemi appena esposti e a quelli evidenziati con lettere precedenti. Probabilmente siamo l’unico sindacato della docenza universitaria che non è stato ancora ricevuto da Lei. La ringraziamo per la considerazione che vorrà accordarci e Le inviamo distinti saluti. UNIVERSITÀ NOTIZIE Il Segretario Nazionale USPUR Prof. Antonino Liberatore Firenze, 19 Novembre 2012 On.le Prof. Francesco Profumo Ministro Istruzione, Università, Ricerca Ministero, Piazzale J. F. Kennedy, 20 00144 Roma Oggetto: Cose ancora non chiare circa il turnover dei punti organico. Il budget sul personale degli Atenei è oggi fatto sul “punto organico” che s’identifica col costo medio di un professore ordinario a tempo pieno. Quindi, in base alle tabelle stipendiali e agli oneri contributivi è possibile fare un rapporto del costo equivalente delle altre posizioni di docenza. Per esempio, un Senato Accademico ha stabilito che il valore di un professore associato a tempo pieno sia pari a 0.7 punti organico, quello di un ricercatore a tempo determinato di tipo B sia pari a 0.5 punti organico immediati ma con richiesta di rendere disponibili altri 0.2 punti organico per il successivo bando per professore associato e, infine, pure quello di un ricercatore a tempo determinato di tipo A sia pari a 0.5 punti organico. Sin qui nessun problema, i numeri sono stati arrotondati per essere più gestibili, tenendo conto che si parla comunque sempre di costi mediati sulla intera carriera del docente. Anzi il docente si porta dietro la sua dotazione stipendiale in termini di punti organico e quindi la sua promozione alla fascia successiva richiede di fatto solo il numero di punti organico incrementali. Quindi la promozione di un associato a ordinario richiede 0.3 punti organico e quella di un ricercatore ad associato 0.2 punti organico. I problemi nascono quando si parla di turnover, o meglio del blocco conseguente al turnover. Secondo quanto stabilito dalla normativa vigente, col turnover al 20%, ovvero con una diminuzione dei professori e dei ricercatori dell’80%, oggi un professore ordinario che va in quiescenza, anziché rilasciare al proprio Ateneo 1.0 punti organico, ne ritorna solamente 0.2. Non entro nel merito ...dura lex… ma sottolineo solo che la diminuzione del numero dei parlamentari in discussione in Parlamento è solo del 20% (quindi con un turnover dell’80%). Pongo un problema al quale Lei, signor Ministro, non ha ancora voluto rispondere alle domande dell’ateneo il cui Senato Accademico ho prima citato. Da uomo d’istituzione accetto e rispetto le leggi. Quindi accetto la dura tagliola del blocco del turnover al 20% che arrivo a capire possa colpire i pensionamenti dei professori ordinari o dei professori associati anziani, ma cosa succede con le posizioni di ricercatore a tempo determinato di tipo A, ovvero con contratto a tempo determinato 3 anni + 2 anni? Queste posizioni non sono “tenure track” e quindi sono indiscutibilmente “a tempo determinato”. In molti Atenei esse sono state interpretate come il primo passo della carriera per poi passare ad una posizione di ricercatore a tempo determinato di tipo B (queste sono posizioni “tenure track” ovvero, al termine del contratto, con assunzione a tempo indeterminato) e poi di professore associato. Tali bandi sono stati finanziati impiegando risorse di punti organico. Al termine del periodo cosa succede ai punti organico impegnati? Una interpretazione restrittiva imporrebbe che anche su di esse si applichi il blocco del turnover e quindi degli 0.5 punti organico inizialmente impegnati ne ritornerebbero utilizzabili solo 0.1. In tre anni si farebbero “evaporare” quindi ben 0.4 punti organico. Se il ricercatore poi vincesse una posizione di ricercatore a tempo determinato di tipo B, l’Ateneo dovrebbe impegnare tutta la differenza, quindi 0.4 punti organico subito e 0.2 dopo tre anni. L’esempio mostra chiaramente che se le cose fossero così non ci sarebbe nessuna convenienza a bandire posti di tipo A. Inoltre ciò penalizzerebbe proprio quelle richieste di ricambio e di ringiovanimento dell’Università che sono oggi auspicate. Tutto ciò voluto è politicamente? O si tratta di una svista? Per fare chiarezza chiediamo, signor Ministro, di volerci dare una risposta. La ringraziamo e Le inviamo distinti saluti. Il Segretario Nazionale USPUR Prof. Antonino Liberatore Firenze, 5 Dicembre 2012 Ai Membri della Giunta USPUR Ai Presidenti di Sezione USPUR Loro Sedi Cari Colleghi, ho ritenuto utile e necessario indirizzare al Ministro la lettera che vi allego. Purtroppo la Corte Suprema può anche decidere cose importanti, nel rispetto della carta costituzionale, per i cittadini ricorrenti. Ma se poi il legislatore non provvede a correggere ciò che la Corte ha ritenuto illegittimo, tutto rimane come prima. E’ proprio ciò che si sta verificando sulle dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza dell’8 Ottobre u.s. della Corte Costituzionale. Prego i presidenti di sezione USPUR di voler inviare al proprio rettore un’analoga lettera, di cui allego una minuta, che ciascuno di voi può modificare nella maniera ritenuta la più opportuna. Una volta scritta la lettera, sarà bene che ne venga data comunicazione ai soci. Un caro saluto a tutti. Il Segretario Nazionale USPUR Prof. Antonino Liberatore USPUR PER I COLLEGHI Minuta di lettera da inviare al proprio Rettore ……. Dicembre 2012 Magnifico Rettore Prof. ………………….............................…………. Università degli Studi di ……………...................... In considerazione della rilevanza delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2 e comma 22, e dell’art. 12, comma 10 della cosiddetta legge Tremonti, (Sentenza n. 223, decisa l’8 Ottobre 2012, della Corte Costituzionale), si ritiene utile richiamare le dichiarazioni e riferire in merito alla loro pratica attuazione. Continuare copiando dalla lettera che segue indirizzata al Ministro, fino al rigo “Aprile 2013” e poi aggiungere quanto segue: Tutto ciò evidenziato e puntualizzato, ci rivolgiamo a Te, caro collega Rettore, con l’invito a voler prendere in mano la situazione e avviare a soluzione i problemi connessi con le disposizioni di illegittimità costituzionale. Scusaci se ci intratteniamo con Te e Ti chiediamo: Chi ha dato le disposizioni all’ufficio stipendi per operare la trattenuta del 2,5%, per bloccare gli adeguamenti annuali delle retribuzioni e, quindi, gli scatti stipendiali, per attuare le riduzioni degli stipendi che superavano i limiti fissati dalla legge Tremonti? Certamente sei stato Tu Rettore, nostro interfaccia con le disposizioni di legge che, una volta promulgate, devono essere applicate. Ora Ti preghiamo di voler assumere la stessa autorevolezza e di dare le opportune indicazioni agli uffici affinché: – vengano ricalcolati i pensionamenti effettuati con il TFR nel periodo 01-01-2011 a tutt’oggi; – vengano non più operati i tagli sugli stipendi eccedenti i limiti di 90.000 euro e di 150.000 euro annui lordi (analoga disposizione deve essere data all’Inpdap per le pensioni che superano detti limiti); – venga recuperato dagli interessati quanto illegalmente non corrisposto in seguito ai tagli operati. Sarà nostra cura di tenerTi informato sull’esito di quanto disposto dal TAR di Trento e sulla sentenza del TAR Toscana in merito al ricorso presentato dai colleghi delle università toscane. Ti chiediamo di volerci tenere informati su quanto farai. Ti inviamo cordiali saluti. Il Presidente di Sezione USPUR di............. Prof. ………..……………. On.le Prof. Francesco Profumo Ministro Istruzione, Università, Ricerca Ministero, Piazzale J. F. Kennedy, 20 00144 Roma Oggetto: Attuazione dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza numero 223/8 Ottobre della Corte Costituzionale. In considerazione della rilevanza delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2 e comma 22, e dell’art. 12, comma 10 della cosiddetta legge Tremonti, (Sentenza n. 223, decisa l’8 Ottobre 2012, della Corte Costituzionale), si ritiene utile richiamare le dichiarazioni e riferire in merito alla loro pratica attuazione. a)Illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, nella parte in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,5% della base retributiva. Il Governo, con decreto legge del 29 Ottobre, n. 185, ha provveduto ad annullare la norma, ristabilendo, per i dipendenti, il TFS, che prevede la trattenuta del 2,5% di cui sopra, trattenuta che continua, così, ad essere applicata. Si ricorda che il TFS, che prevede la buonuscita, è, nella generalità dei casi, più vantaggioso rispetto al TFR, la cui applicazione per i pubblici dipendenti era stata attuata dalla legge Tremonti e che la sentenza della Consulta ha stabilito essere illegittima. Ovviamente i trattamenti pensionistici, fatti con il TFR voluto dalla legge Tremonti, nel periodo 01-01-2011//12-10-2012 dovranno essere riconsiderati e attuati con la normativa del TFS. b)Illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, nella parte in cui dispone che il periodo 01-012011//31-12-2013, i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti superiori a 90.000 euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro. Il Governo, in merito, non ha emanato alcuna disposizione, ritenendo, forse, che devono essere le singole amministrazioni, che hanno praticato le riduzioni, ad attivarsi per restituire il maltolto. Ci risulta che alcune amministrazioni universitarie hanno provveduto a cancellare le riduzioni praticate. Nessuna iniziativa è stata comunque presa per la restituzione di quanto illegalmente trattenuto a cominciare dall’1-01-2011. c) Illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 22. La disposizione attiene a provvidenze e a indennità speciale per il personale di magistratura e, pertanto, non interessa noi docenti universitari se non nelle ultime due righe del dispositivo, dove è detto che il comma 22 è illegittimo anche 25 UNIVERSITÀ NOTIZIE Oggetto: Attuazione dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza numero 223/8 Ottobre della Corte Costituzionale. Firenze, 05 Dicembre 2012 USPUR PER I COLLEGHI 26 UNIVERSITÀ NOTIZIE “nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21, che si trascrive” “I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 Marzo 2001, n. 165, così come previsti dall’art. 24 della legge (finanziaria) 23 Dicembre 1998, n. 448, (noi professori universitari siamo compresi in questo personale) non si applicano per gli anni 2011, 2012, 2013”. Nel mentre il TAR di Trento, in seguito a ricorso presentato da docenti, ha ritenuto non infondata la questione di “legittimità costituzionale” del blocco delle carriere previsto dal terzo periodo del già richiamato comma 21, che così dispone “Per il personale di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 Marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, le progressioni di carriera comunque denominate, eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. La Corte Costituzionale dovrebbe esprimersi in merito entro il prossimo mese di Febbraio. Si fa poi presente che professori delle università toscane hanno presentato ricorso al TAR Toscana per l’annullamento del secondo periodo del già citato comma 21 che così recita “Per le categorie di personale di cui all’art. 3 del d.l. 30 Marzo 2001, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti”. Il TAR Toscana ha già rinviato due volte la trattazione del ricorso e dovrebbe decidere in merito durante la prossima udienza, fissata per il 6 Aprile 2013. Tutto ciò richiamato, si prega il signor Ministro di voler dare le indicazioni ritenute opportune per portare ad attuazione, o per completare quanto già intrapreso da qualche ateneo, le disposizioni di cui alla sentenza citata della Corte Costituzionale. Si inviano distinti saluti. Il Segretario Nazionale USPUR Prof. Antonino Liberatore SOLLECITATE I VOSTRI COLLEGHI AD ISCRIVERSI ALL’USPUR. RICEVERANNO UNIVERSITÀ NOTIZIE E RENDERANNO PIÙ INCISIVA L’AZIONE COMUNE RASSEGNA STAMPA RASSEGNA DI ATTUALITÀ E OPINIONI DI POLITICA UNIVERSITARIA A cura di Paolo Stefano Marcato LO STATO PRESENTE DELL’UNIVERSITÀ Non si può parlare della valutazione della ricerca astraendo dalle condizioni presenti dell’università italiana. Il modo nel quale, infatti, si è impostata e si sta svolgendo la complessiva attività di valutazione è influenzato da tali condizioni e, a sua volta, le influenza. Le condizioni dell’Università, il luogo nel quale principalmente si fa ricerca in Italia, sono miserevoli: - i rettori, scelti spesso in base a criteri di selezione inversa e prigionieri di una concezione bonapartista (quando non satrapesca o bossistica) della loro funzione, si sono erti a rappresentanti delle università e hanno persino costituito un loro piccolo Parlamento i cui poteri sono cresciuti, e che opera come un organo corporativo; - le strutture fondamentali, le facoltà, sono in corso di cambiamento in dipartimenti (la dipartimentalizzazione, già criticata a suo tempo da Massimo Severo Giannini, sta avendo esiti diversi talora cambiando solo il nome, talaltra producendo riaggregazioni per disciplina, talaltra conducendo ad altri risultati, spesso dannosi, senza che alcuno si preoccupi di valutare i risultati del processo in corso) ; - le risorse scarseggiano, dopo anni di relativa abbondanza che hanno moltiplicato le sedi universitarie, molte delle quali sono solo “teaching universities”, o grandi licei (basti dare uno sguardo alle loro biblioteche); - sono quasi sei anni che non si reclutano nuovi docenti, con conseguenti vuoti e invecchiamento del corpo professionale; - fuggono altrove i giovani ricercatori senza grandi prospettive davanti, e fuggono i giovani e vecchi professori, alla ricerca periodica di buone e funzionanti biblioteche estere, dove trascorrere anni sabbatici o mesi di clausura; - la ricerca si sta spostando fuori dell’università, un fenomeno non ignoto agli storici, che si è verificato, ad esempio, in Europa, nel Sei-Settecento; - le strutture amministrative centrali si sono autoannullate, proprio nel momento nel quale, con l’autonomia universitaria, vi era bisogno di un centro forte quale strumento di raccordo, di scambio, di trasmissione delle conoscenze, di verifica; - non è in Italia nessuna delle poco meno di cinquanta università che nel mondo corrispondano al modello humboldtiano (quello che ha fatto scrivere a un noto studioso americano nella prefazione a un libro appena uscito “I have often described life as a Yale Law School faculty member as the modern equivalent of living at the Court of Medici, but without the obligations of a courtier”: J. L. Mashaw, Creating the Administrative Constitution. The Lost One Hundred Years of American Administrative Law, Yale Univ. Press, 2012, p. IX: nessun professore universitario italiano potrebbe scrivere una RASSEGNA STAMPA frase analoga). (Fonte: S. Cassese, stralcio della Relazione all’incontro promosso da Roars su “Il sistema dell’Università e della Ricerca. Fatti leggende futuro”, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 15 novembre 2012) GRADUATORIA DEGLI ATENEI “PER CAPITA PERFORMANCE” L’Academic Ranking of World Universities (ARWU) dell’università Jiao Tong di Shanghai è basato sulla misura della “produttività” di un ateneo secondo parametri quantitativi quali il numero delle pubblicazioni scientifiche su riviste particolarmente prestigiose, dei docenti i cui lavori sono molto citati nella letteratura internazionale, degli allievi che hanno ricevuto il Nobel. Una valutazione “oggettiva”, dunque: quanto più produce un ateneo secondo il combinato di questi parametri tanto più in alto sarà nella graduatoria mondiale. Nella classifica ARWU per il blocco 101-150 si trovano le Università di Pisa e Roma Sapienza. Seguono le università di Milano e RICERCA. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE ATTRAVERSO LA MOBILITÀ DEI RICERCATORI FATTORE CRITICO DI SUCCESSO Un’analisi di Elsevier sui cosiddetti fenomeni di “brain circulation” in Italia, nel periodo 1996 – 2011 sulla base dati Scopus, restituisce un’immagine più complessa dei flussi migratori dei ricercatori da e verso l’Italia, rispetto al consueto cliché della “fuga di cervelli”. Questa analisi, presentata in occasione del “National Research Policy Forum” dal titolo “Directing and Driving Research Excellence”, organizzato da Elsevier in collaborazione con il CNR, “insegue” i ricercatori nei loro spostamenti analizzando le affiliazioni che hanno utilizzato nel firmare i propri articoli scientifici. L’Italia riesce ad attrarre ricercatori altamente qualificati, sia per brevi che per lunghi periodi. I dati raccolti da Elsevier non confermano la cosiddetta “fuga dei cervelli”, sicuramente non di quelli più brillanti o produttivi, piuttosto il contrario. L’analisi individua diverse categorie di ricercatori. Gli “stanziali”, che hanno pubblicato esclusivamente con istituzioni italiane. I “migratori”, che hanno lavorato e pubblicato all’estero per almeno due anni o che si sono definitivamente stabiliti fuori dai confini nazionali. I “visitatori”, ossia chi ha fatto ricerca per meno di due anni in nazioni diverse da quella in cui hanno operato prevalentemente. Per ciascuna categoria sono misurati i seguenti indicatori: la produttività, in termini di numero di articoli per anno, relativo all’intero gruppo di ricercatori esaminati; l’anzianità professionale media, ossia il numero di anni trascorso tra la prima e ultima pubblicazione, relativa all’intero gruppo di ricercatori; l’impatto scientifico, in termini di numero medio di citazioni ricevute dai propri articoli. I risultati sono molto interessanti: per Il 58% i ricercatori sono “stanziali”. Per il 5,1% sono emigrati definitivamente dall’Italia. Pew il 4,3% sono immigrati stabilmente in Italia. Per il 32,6% sono ricercatori visitatori, comprendendo in questo gruppo sia coloro che sono prevalentemente attivi in Italia e per meno di due anni hanno pubblicato con istituzioni internazionali, sia coloro che sono prevalentemente attivi 27 UNIVERSITÀ NOTIZIE ACCOUNTABILITY DELLE SINGOLE STRUTTURE E SVILUPPO DI PROCESSI DI ASSICURAZIONE DELLA QUALITÀ NEGLI ATENEI Vi è ormai una diffusa consapevolezza di come l’Università non possa più essere considerata solo come il momento finale di un percorso formativo, ma vada piuttosto intesa come un riferimento continuo del sapere, del saper fare e del saper essere che coinvolge sempre di più l’intera vita di una persona. È il ruolo stesso dell’università nella società che viene oggi ripensato: l’Università deve produrre conoscenza (non diplomi!), deve formare persone, persone capaci di dare un contributo innovativo alle organizzazioni in cui si troveranno a operare dopo la laurea. In particolare, le Università sono chiamate a riprogettare la propria offerta formativa al fine di rispondere più efficacemente alle attese provenienti dalla società civile. E le politiche pubbliche dovrebbero, per parte loro, provvedere alla definizione di un sistema di regole certe e stabili che consentano il miglioramento qualitativo e la valorizzazione del merito. In questo quadro, per l’università diviene centrale il rafforzamento dell’accountability delle singole strutture e, più in generale, lo sviluppo di processi di assicurazione della qualità a livello istituzionale, nazionale ed europeo, elaborati su criteri e metodi trasparenti e condivisi. Sotto questo profilo molto è stato fatto, ma molto ancora resta da fare, anche perché sono molti i rischi che il processo prenda una direzione non desiderata. Di questi rischi credo che l’Agenzia sia pienamente consapevole. Nel documento “AVA: La road-map dell’ANVUR”, ad esempio, è, infatti, scritto: “L’ANVUR è altresì consapevole che un’applicazione prevalentemente formale e “burocratica” del d.lgs. n. 19/2012 porterebbe ad un appesantimento dei compiti, generando la tentazione di assolvervi in maniera esteriore e non incisiva, snaturando e vanificando la storica occasione di una seria riflessione critica e della messa in atto di strumenti essenziali per il miglioramento”. (Fonte: G. Marseguerra, dall’intervento alla giornata di “in-formazione” promossa dall’ANVUR alla Cattolica di Milano, 16-11-2012) Padova (blocco 151-200) e poi (201-300) il Politecnico di Milano, la Scuola Normale Superiore di Pisa e le Università di Bologna, Firenze, e Torino. La Jiao Tong produce sulla base degli stessi parametri una seconda graduatoria che chiama “per capita performance”, graduatoria che fornisce l’intensità di produttività dell’ateneo. Questa è ottenuta dividendo gli indici di produttività per il numero dei docenti che questa produzione realizzano. La ratio è chiara: la quantità totale di “prodotti” dell’ateneo va in qualche modo normalizzata alla dimensione dello stesso. Questa nuova graduatoria è molto diversa dalla precedente. Per esempio la Scuola Normale Superiore, il cui numero di docenti è circa un centesimo di quelli dei mega atenei “vincitori” secondo l’altra classifica, naturalmente sale e diviene non solo la prima in Italia, ma la prima in Europa. A livello mondiale risulta quinta superata da 4 atenei americani (Caltech, Harvard, Princeton, MIT). (Fonte: F. Beltram, IlSole24Ore 20-11-2012) RASSEGNA STAMPA 28 UNIVERSITÀ NOTIZIE all’estero ed hanno pubblicato con istituzioni italiane per meno di due anni. Gli “stanziali” presentano di gran lunga la più bassa produttività e impatto scientifico. Anche l’anzianità professionale misurata è inferiore a quella di tutti gli altri gruppi. I “visitatori” hanno la produttività e l’impatto più alti in assoluto, mentre sono al secondo posto come anzianità professionale media. Gli “immigrati” presentano una produttività molto alta (la seconda in assoluto), un impatto scientifico analogo a quello degli “emigrati” ma l’anzianità professionale media più alta di tutti i gruppi. In conclusione. La maggior parte dei ricercatori non si muove dall’Italia. Il saldo dei flussi migratori è leggermente negativo, ma i nostri atenei e istituti di ricerca hanno ancora la capacità di attrarre ricercatori dall’estero. L’internazionalizzazione della ricerca, che in gran parte si realizza attraverso la mobilità dei ricercatori, è un fattore critico di successo per la ricerca scientifica, sia in termini di produttività che di qualità. (Fonte: gravita-zero.org 18-11-2012) LA RIFORMA DEL SISTEMA FORMATIVO PROFESSIONALIZZANTE PRE-POST-LAUREAM DI MEDICINA Una proposta di riforma è sul tavolo del MIUR, deciso a mettere finalmente mano alla formazione in Medicina e non perdere altro terreno rispetto ai sistemi formativi del resto di Europa. Purtroppo, le logiche del compromesso frenano il sistema allo status quo ante. Da anni i Giovani Medici (SIGM) sono impegnati in una costante opera di sensibilizzazione delle Istituzioni Politiche e Accademiche, finalizzata a porre le basi per un adeguamento del sistema formativo professionalizzante pre-post-lauream di medicina Italiano al contesto dell’Unione Europea. Le principali criticità possono essere così sintetizzate: tempi morti non giustificabili, accesso alla formazione poco meritocratico, iter formativo ipertrofico e ipercontenutistico a discapito di un’adeguata professionalizzazione, mancata programmazione del fabbisogno di professionalità mediche, deriva burocratico-normativa. Il 9 novembre 2011, il SGM nel corso del Workshop dal titolo “Il futuro della formazione delle giovani generazioni di medici: confronto sulla Proposta di Riforma del percorso di formazione universitaria pre e post lauream in Medicina” ha presentato la propria proposta di organica riorganizzazione della formazione universitaria di medicina, raccogliendo l’impegno del Legislatore e del Governo a intervenire in risposta alle istanze dei futuri specialisti. Con la predetta iniziativa i Giovani Medici sono riusciti a riunire per la prima volta sotto uno stesso tetto i vertici del MIUR, del Ministero della Salute, della Professione Medica e del sistema universitario. A fronte della successiva fase di stallo, creatasi nel passaggio di consegne tra il vecchio ed il nuovo Governo, il SIGM ha reiterato le proprie richieste in occasione della II Conferenza Nazionale dal titolo “Giovani Medici nell’Italia e nell’Europa della crisi: credere nei network per realizzare il cambiamento da protagonisti”. Con D.M. del 15 marzo 2012 il Ministro dell’Istruzione Università e Ricerca nominava il Presidente Nazionale del SIGM quale componente della “Commissione di Esperti con incarico di aggiornare e monitorare le aggregazioni delle scuole di specializzazione di area sanitaria e proseguirne la razionalizzazione”, in riconoscimento del lavoro e della rappresentatività documentati dal Segretariato Italiano Giovani Medici, e al pari a significare l’attenzione del MIUR nei confronti della voce del SIGM. I Giovani Medici, non trovando riscontro nei lavori della Commissione ministeriale alle premesse di rinnovamento, dichiarate dal Ministro Profumo in occasione della riunione di insediamento della Commissione, in data 9 agosto 2012 ha presentato allo stesso Ministro il proprio documento di proposte aggiornato sulla base di un’analisi comparativa tra l’Italia e diversi Paesi UE ed Extra Comunitari, evidenziando le criticità dell’attuale sistema formativo professionalizzante. Ad integrazione della proposta di riforma, nel mese di settembre 2012 il SIGM ha prodotto, altresì, all’attenzione della Direzione Generale dell’Università (per la terza volta nell’arco temporale di due anni), questa volta sulla base della disponibilità offerta dal Ministro Francesco Profumo, alcune proposte volte a superare alcune criticità di carattere burocratico, la cui risoluzione, facilmente implementabile attraverso interventi regolatori (circolari e note ministeriali), apporterebbe un significativo miglioramento della quotidianità dei medici in formazione specialistica. (Fonte: giovanemedico.it 18-11-2012) RICERCA. LA REGIONE LAZIO NON ASSEGNA I FONDI PER LA RICERCA. A RISCHIO 625 MILIONI DALL’UE La nuova giunta della Regione Lazio non riuscirà verosimilmente a indire un bando per assegnare i fondi per la ricerca e l’innovazione - già stanziati nel 2010 - spenderli ed infine rendicontarli entro il 31 dicembre 2013. Termine ultimo, fissato da Bruxelles, per usufruire dei Por-Fesr: i finanziamenti europei per lo sviluppo regionale. E così quei 625 milioni di euro, erogati in gran parte dall’Unione Europea, rischiano seriamente di tornare al mittente, senza essere stati spesi. Un vero e proprio spreco, per la Fondazione Diritti Genetici, imputabile “all’inerzia gravissima” della presidenza della Regione. E’ compito della giunta, infatti, avviare l’iter per l’attuazione del “Programma strategico regionale per la ricerca, l’innovazione e il trasferimento tecnologico” di durata triennale che la Regione Lazio, come stabilisce la legge regionale 13 del 4 agosto 2008, è tenuta ad adottare. Uno specifico documento in cui sono stabiliti gli indirizzi e gli obiettivi per le politiche di ricerca - settore in cui la stessa Regione ha individuato uno dei fattori trainanti per favorire la crescita sociale, economica e occupazionale - e in base al quale vengono ripartite le risorse pubbliche. Secondo la suddetta legge, una volta approvato il piano strategico, la giunta “adotta entro il mese di marzo di ogni anno un piano nel quale sono individuati per l’anno di riferimento gli interventi, i soggetti ammessi, le risorse nonché i tempi e le modalità per la realizzazione degli interventi stessi”. “Ma a parte il bando indetto alla fine del 2011 per la competitività delle imprese (cui pure è rivolto il programma RASSEGNA STAMPA strategico, ndr), quei soldi - denuncia a ilfattoquotidiano. it Ivan Verga, direttore generale della Fondazione Diritti Genetici - non sono stati toccati”. La giunta insomma sembra aver ignorato quel settore che la Regione Lazio aveva deciso di promuovere, introducendo nel 2008 una norma ad hoc: giustappunto la ricerca. (Fonte: G. Pagano, FQ 20-11-2012) ACCREDITAMENTI. CORSI DI LAUREA A RISCHIO DI CHIUSURA Secondo le nuove norme sulla valutazione degli atenei, molti corsi di laurea potrebbero chiudere. Il criterio che fissa il numero di docenti minimo (dodici per la triennale e otto per la specialistica) è condizione quasi impossibile da reggere per la maggior parte delle Università italiane a causa del blocco delle assunzioni. Se un corso non viene «accreditato», cioè non risponde ai requisiti stabiliti dall’ANVUR, automaticamente non può iniziare. «Il Senato accademico di Torino ha deciso oggi di spingere la CRUI a chiedere la modifica delle linee guida per l’accreditamento», ha detto a margine dell’assemblea Alberto Fierro, rappresentante degli studenti. «Abbiamo un atteggiamento critico nei confronti di questi criteri e ci stiamo lavorando insieme alla Conferenza dei Rettori», spiega il professor Gianmaria Ajani, nella rosa dei candidati alla reggenza dell’ateneo torinese. «Con la riduzione del 20% del turn over nei prossimi tre anni, come si può rispettare la norma sul numero dei docenti fissato dall’accreditamento? E con risorse sempre più scarse, come possono le strutture dei nostri atenei essere all’altezza delle linee guida decise dall’ANVUR?». «Siamo favorevoli al processo di valutazione delle Università. Ma, se per avere un corso di laurea valido occorrono almeno 20 docenti, il risultato è chiudere l’80% dei corsi italiani», conclude Fierro. (Fonte: E. Graziani, La Stampa 20-11-2012) ABILITAZIONE SCIENTIFICA. CALCOLO DELL’IMPEGNO DEI COMMISSARI Nel caso delle discipline umanistiche per il concorso a professore ordinario sono previste almeno tre monografie e 22 articoli. Di solito le monografie in questo campo non sono mediamente meno di 200 pagine, per cui tre sono 600; calcolando anche 15 pp. in media per articolo, facciamo circa 330. E così siamo a circa 930 pagine in media per candidato. E chi conosce il settore, sa bene che queste stime sono assai prudenziali. Ipotizziamo ora quanti siano i candidati nell’area (che comprende tutti ABILITAZIONE SCIENTIFICA. IL CONSEGUIMENTO DELL’IDONEITÀ ACCADEMICA (HABILITATION) IN GERMANIA In Germania la cultura e l’istruzione, inclusi gli studi superiori, rientrano tradizionalmente nella competenza dei Länder che disciplinano autonomamente lo status giuridico ed economico del personale accademico. Ciononostante, un filo conduttore comune può essere individuato nelle tappe da percorrere per essere ammessi a una selezione per l’ottenimento di una cattedra. In Germania, e generalmente nell’area germanofona, un requisito imprescindibile per diventare professore universitario era rappresentato in passato dal conseguimento dell’idoneità accademica, cosiddetta Habilitation. Questo istituto affonda le sue radici nella storia medioevale, quando abilitare rappresentava il conferimento da parte di un’autorità ecclesiastica della licentia ubique docendi, cioè la facoltà di insegnare in tutta la cristianità. Attualmente la Habilitation presuppone il conseguimento del dottorato di ricerca e la dimostrazione della capacità di operare autonomamente nell’insegnamento e nella ricerca. Tale idoneità è comprovata dall’esperienza didattica già maturata in ambito universitario e da un’ampia gamma di pubblicazioni scientifiche e in particolare dalla “Habilitationsschrift”, cioè da un corposo studio monografico oggetto di valutazione da parte della commissione d’esame. Questa è tuttora la prassi nelle facoltà giuridiche e umanistiche, anche se in determinate discipline, come le scienze economiche e sociologiche, sta prendendo sempre più piede l’utilizzo di pubblicazioni cumulative in luogo di un lavoro monografico. Se il lavoro di abilitazione è valutato positivamente da tutti i referee, il candidato è ammesso alla discussione, che si concreta, secondo le facoltà, in un colloquio sul 29 UNIVERSITÀ NOTIZIE ABILITAZIONE SCIENTIFICA. COSTO DEI COMMISSARI STRANIERI I circa 109 commissari Ocse (tanti sono i settori concorsuali) costano solo in appannaggio 1.744.000 euro. Se poi consideriamo che a costoro debbano essere garantiti circa 15 giorni di soggiorno, con vitto e alloggio, per riunioni e incombenze varie, oltre le spese di viaggio, mediamente fanno circa 4250 ciascuno (250 euro al giorno con un costo di viaggio di 500 euro – stime sempre prudenziali), le spese ammontano a complessive 463.250 euro; ovvero un totale di 2.207.250 euro, per lo meno. (Fonte: F. Coniglione, roars 22-11-2012) gli storici della filosofia: antichisti, medievisti e generali): dal numero dalle domande e dalla conoscenza del settore, possiamo ipotizzare che probabilmente non saranno meno di 200; ma possono raggiungere numeri anche più alti, in considerazione delle doppie o triple domande e di molti esterni che tenteranno la sorte. Quante pagine può mediamente leggere un commissario al giorno? Di solito si sostiene che la velocità normale di lettura con piena comprensione del testo non possa andare al di là delle 200/230 parole il minuto; questo ovviamente per un testo normale, non di certo uno filosofico. Tuttavia vogliamo assumere che i commissari siano dei superuomini e assumiamo il primo valore come quello da loro effettivamente usato. Ogni pagina di un libro contiene in media circa 400 parole, in un testo non fitto di note. Perciò assumiamo che, in effetti, sia possibile leggere una pagina il minuto. Per leggerne 186.000 sono necessari così 3100 ore. Ora ammettiamo che ogni commissario dedichi a questo lavoro di lettura e valutazione 12 ore il giorno, sospendendo ogni altra attività e impegno (il che è irrealistico, in quanto i commissari non sono dispensati dai loro doveri didattici e scientifici e devono spesso seguire anche le incombenze derivanti dalle loro cariche istituzionali). Ebbene, dividendo 3100 ore per 12, risulteranno 258 giorni, sabati, domeniche e feste comprese, ininterrottamente. Ciò significa circa 8 mesi. (Fonte: F. Coniglione, roars 22-11-2012) RASSEGNA STAMPA 30 UNIVERSITÀ NOTIZIE lavoro di abilitazione, oppure in una lezione universitaria dinanzi al Senato accademico in una seduta aperta al pubblico e in un conseguente colloquio scientifico. Superata questa prova il candidato ottiene la facultas docendi per un certo numero di materie, comprovate da pubblicazioni scientifiche. In un momento successivo terrà una solenne lezione pubblica (Antrittsvorlesung) in cui gli verrà conferita la venia legendi, cioè il diritto/dovere di insegnare. Assumerà il titolo di Privatdozent (PD) che comporta l’obbligo di svolgere gratuitamente un determinato numero di ore di lezione all’università. Qualora tale obbligo didattico non possa essere assolto, il titolo sarà convertito in “Dr. Habil”. Questo modello è stato oggetto di una controversa riforma: nel 2002 il legislatore federale ha introdotto le cosiddette “Juniorprofessuren”, cioè cattedre da assegnare mediante concorso a giovani ricercatori che avessero brillantemente concluso il dottorato di ricerca. Questo sistema prevedeva contratti a tempo determinato di tre anni rinnovabili una volta. Alla fine di questo periodo il professore junior che avesse ottenuto una valutazione positiva poteva concorrere per un posto di professore di ruolo. Questa normativa federale che sostituiva il modello della Habilitation è stata dichiarata illegittima nel 2004 dal Tribunale costituzionale perché lesiva delle competenze dei Länder. Da allora è stato ripristinato il sistema della Habilitation, con il quale convive in singoli Länder il tenure track del professore junior. Una volta soddisfatti, con il conseguimento dell’idoneità accademica o mediante il percorso della Juniorprofessur, i requisiti per concorrere per una cattedra, si può partecipare a una valutazione comparativa con altri candidati presso un’università che bandisca un posto vacante. A tale scopo viene insediata una commissione giudicatrice che, previo esame dei candidati, redige una lista con una terna di nominativi che sottopone alla facoltà. Questa la inoltra al Rettore che la sottopone al Ministro competente a procedere alla nomina. Quest’ultimo di regola non si discosterà dalla graduatoria proposta, nominando il candidato primo classificato. Una particolarità del sistema tedesco, volta a contrastare il localismo e il nepotismo dei singoli atenei, è rappresentata dal divieto di chiamata di un professore da parte dell’università di provenienza (Hausberufungsverbot), derogabile solo in situazioni eccezionali. Di regola lo status giuridico del professore universitario, analogamente a quanto previsto in Italia, è di diritto pubblico. Vari Länder prevedono però un limite di età per la nomina coincidente con il compimento del cinquantaduesimo anno. Oltre tale limite può comunque essere costituito un rapporto d’impiego di diritto privato. (Fonte: C. Fraenkel Haeberle, il sussidiario.net 22-11-2012) L’IDEA DI UNIVERSITÀ TRA PASSATO E FUTURO A cura di Roberto Celada Ballanti e Mauro Letterio. De Ferrari Editore, Genova 2012, 122 pp. Un’antologia che studia l’università degli ultimi due secoli dal punto di vista filosofico. Humboldt, riformatore dell’Università di Berlino nel 1809-1810, ministro dell’Istruzione del governo prussiano, è stato il promotore di un’università moderna: autonoma dallo Stato, che deve solo garantire aiuti esterni, e socratica nei fini, sempre in costante posizione di ricerca. Se nella scuola esistono il maestro e il discente, nell’università entrambi esistono in funzione della scienza: non si accolgono passivamente i saperi, ma c’è una libera collaborazione tra chi insegna e chi impara. Humboldt propone una formazione completa, che unisca la scienza alla formazione morale. L’innovazione di Humboldt è proprio nell’idea di formare l’umanità: è nell’università che si formano non solo i ricercatori, ma anche i funzionari dello Stato e i professionisti, i magistrati, i medici, i maestri. C’è quindi un delicato equilibrio tra la ricerca scientifica (per pochi) e la preparazione professionalizzante (per la maggioranza). Egli progetta un sistema educativo in cui il conseguimento della competenza professionale mira alla formazione completa dell’uomo. Per John Henry Newman l’università aiuta lo studente a «imparare a imparare», ad allargare le conoscenze coltivando la mente. Quindi l’università, oltre ai contenuti – che richiedono un metodo –, deve trasmettere l’educazione: implica un’azione sulla nostra natura mentale, la formazione di un carattere. Il fine di un corso universitario non è il diritto o la medicina, ma una visione di tutto il sapere, con un’ampiezza mentale, libertà e autocontrollo, cioè l’educazione liberale. Karl Jaspers è molto legato alla visione di Humboldt, pensa a un’università romantica, guidata dalla filosofia. Vede l’educazione in modo socratico e lo studente come risorsa indispensabile per la conoscenza. Sapere e ricerca vivevano però cambiamenti epocali a causa dello sviluppo di scienza e tecnica, dell’avvento dell’industria, delle masse, della democrazia. Proprio nella massificazione e negli apparati burocratici statali Jaspers colse il pericolo più grande per lo spirito dell’università che dovrebbe unire ricerca, insegnamento e formazione. Il filosofo tedesco husserliano Martin Heidegger vorrebbe recuperare una concezione unitaria della scienza. Per Edith Stein, l’università forma l’uomo nella sua globalità, virtù comprese, conformemente al progetto pensato per lui da Dio. Un lavoro scientifico condotto in profondità educa a essere scrupolosi, retti, a rifuggire dalla superficialità e da tutto ciò che è retorica. Il pericolo è un sapere di tipo specialistico, privo di anima. Anche per lei, sulla scia di Humboldt e di Newman, insegnamento e ricerca sono strettamente collegati. Nel volume altri approfondimenti sono dedicati a Giovanni Gentile, Max Weber, Ernst Bloch e Jürgen Habermas. (Fonte: M. L. Viglione, rivistauniversitas novembre 2012) ATENEI ON LINE Il problema di tutti i nostri atenei online è la carenza di docenti di ruolo. «Dalle nostre stime, non ancora rappresentative di tutti gli istituti – afferma Fantoni, presidente dell’ANVUR - risultano appena 89 professori, più della metà ricercatori, che dovrebbero formare 42 mila persone. Ci sono poi 1.200 insegnanti a contratto, il 49% dei quali è impiegato anche in altre università. Ovvio che così non va». Dello stesso parere anche il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, al lavoro per mettere a punto un decreto «nei primi mesi dell’anno prossimo» che faccia un po’ d’ordine nel settore. «Alle università RASSEGNA STAMPA online, a fronte dell’accreditamento - dichiara - sarà richiesta la stabilizzazione di una quota della docenza. Il processo dell’accreditamento ha l’obiettivo di normalizzare queste situazioni e ci dovrà essere un numero predefinito tra docenti di ruolo e corsi di lauree attivabili. Si faranno poi valutazioni periodiche per verificare che l’Accreditamento sia mantenuto».Stefano (Fonte: Corriere economia 26-11-2012) VQR E ABILITAZIONE SCIENTIFICA. NE PARLA SERGIO BENEDETTO DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL’ANVUR La VQR e le procedure di abilitazione costituiscono una vera e propria rivoluzione per l’accademia italiana. Per la prima volta i professori ordinari sono sottoposti a una valutazione per far parte di commissioni di concorso e abilitazione, secondo il sacrosanto principio che il valutatore deve possedere almeno i requisiti di competenza e produttività scientifica dei valutati. Non si poteva pensare che tale meccanismo fosse indenne da critiche, che sono di due tipi. Quelle costruttive di chi crede nel principio della valutazione e punta a renderlo migliore e più efficace, e quelle di chi approfitta delle invitabili incertezze e difficoltà iniziali per tentare di affossare la valutazione e ritornare al passato. È opportuno notare che, insieme alle voci critiche che trovano spazio anche sui quotidiani nazionali, l’ANVUR riceve un incoraggiamento costante dai molti colleghi e, soprattutto, giovani ricercatori che hanno, come unica speranza di vedere riconosciuti i loro meriti, il consolidamento di meccanismi di valutazione. Il principale obiettivo dell’ANVUR è di ricostituire, all’interno della comunità scientifica nazionale, la fiducia nel riconoscimento del merito, sia scientifico sia didattico e d’impegno nell’istituzione. Ad appena diciassette mesi dalla sua istituzione, l’ANVUR ha avviato il più cospicuo esercizio di valutazione della ricerca mai tentato nel nostro paese, coinvolgendo 450 esperti e 13.000 revisori nelle 14 aree disciplinari CUN, la VQR. Il processo è in pieno svolgimento, con una collaborazione proficua tra ANVUR, comunità scientifica, atenei, ed esperti e revisori; posto le basi per un processo di accreditamento degli atenei e dei corsi di studio incentrato sull’autovalutazione, in linea con il dettato dell’ENQA e con quanto si fa da anni in altri Paesi non solo europei; operato per attuare, in tempi ristrettissimi e ancora con il coinvolgimento della comunità scientifica, le procedure per l’abilitazione nazionale, cui hanno aderito accettando di essere valutati per l’inserimento nelle OCSE. DATI SULL’ISTRUZIONE IN ITALIA I dati OCSE (Education at a Glance 2012) sono: che l’Italia ha solo il 21% di laureati nella fascia 2534 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni; • che l’Italia è solo trentunesima su 36 nazioni per quanto riguarda la spesa per educazione terziaria rapportata al PIL; • che durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la spesa complessiva in formazione cresceva in rapporto al PIL, in Italia la spesa non solo è diminuita ma ha subito il calo più pesante di tutte le nazioni considerate ad eccezione dell’Estonia; • che la spesa cumulativa per studente universitario è inferiore alla media OCSE e ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate; • che le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi Bassi e Portogallo. Malgrado questo, la produttività scientifica italiana dei ricercatori italiani è superiore a quella di Germania, Francia e Giappone (International Comparative Performance of the UK Research Base, pp. 65-66, analisi basata su dati Scopus e OCSE). (Fonte: redazione roars 27-11-2012) L’ITER PER LA CARRIERA UNIVERSITARIA Ecco l’iter che oggi un giovane medico o biologo deve percorrere, se intende intraprendere la carriera universitaria. Primo: vincere il concorso per diventare dottore di ricerca. Dovrà poi lavorare giorno e notte per almeno tre anni. È quasi d’obbligo passare almeno 6 mesi di lavoro negli Stati Uniti. Secondo: se tutto va bene, dovrà lavorare ancora per due o anche per quattro anni con un assegno di ricerca. Terzo: aspettare che si liberi un posto di ricercatore, per il pensionamento o il prepensionamento di qualche “strutturato”, vivendo di misere borse di studio della Regione o di Enti privati. Quarto: una volta vinto il concorso, lo stipendio sarà quello dei professori di scuola media. Quinto: dopo anni dovrà superare il concorso per professore associato e poi superare il concorso per professore ordinario. Un particolare: i 5200 euro arrivano, se arrivano, quasi sempre alle porte della pensione. (Fonte: P. L. Ipata, FQ 02-12-2012) GARR-X, RETE PER LA COMUNITÀ SCIENTIFICA ITALIANA La nuova rete per l’Istruzione e la Ricerca si chiama GARR-X. E’ stata presentata ufficialmente dal Consortium GARR, presso la sede del MIUR a Roma alla presenza del ministro Francesco Profumo. Oltre 8.500 chilometri di fibra ottica tra dorsale di rete e infrastruttura di accesso sono già a disposizione di oltre 2,5 milioni di utenti della comunità scientifica italiana. Ancora una volta l’innovazione digitale parte dalla filiera scuola-università-ricerca: la prima NGN italiana non è solo connettività ad alte prestazioni, ma un’infrastruttura digitale integrata capace di supportare la partecipazione ai progetti di ricerca internazionali, grazie ai suoi collegamenti 31 UNIVERSITÀ NOTIZIE ABILITAZIONE SCIENTIFICA. PROLUNGAMENTO FINO A 6 MESI DEI LAVORI DELLE COSTITUENDE COMMISSIONI E’ accertato allo stato attuale che sono state presentate circa 69.000 domande, per quasi 46.000 candidati (di cui circa 20.000 esterni ai ruoli delle Università). La CRUI ha convenuto con il Ministro sulla necessità di prevedere nel Decreto “Milleproroghe” un prolungamento fino a 6 mesi dei lavori delle costituende commissioni correlandolo con il numero delle domande (la cui media per Commissioni oscilla tra più 500 e 200-250, con punte anche superiori a 1000). (Fonte: CRUI 25-11-2012) commissioni oltre 1.500 candidati stranieri. (Fonte: S. Benedetto, intervista a cattolicanews.it 23-11-2012) RASSEGNA STAMPA 32 UNIVERSITÀ NOTIZIE intercontinentali, e piattaforma abilitante per accedere in maniera semplice e trasparente alle risorse di calcolo, storage, big data e ai servizi Cloud. Le infrastrutture digitali rappresentano dunque un elemento chiave della strategia italiana per ridurre la frammentarietà della partecipazione nazionale al programma europeo Horizon 2020. “La disponibilità di una vera Next Generation Network - ha commentato Profumo - sarà un importante alleato per introdurre ‘più Europa’ nel sistema italiano della ricerca e dell’innovazione - ovvero allineare la nostra programmazione, i nostri meccanismi e i nostri strumenti a quelli europei. Una strategia che al MIUR stiamo perseguendo con forza, e che è stata anche la ragione che ha ispirato la recente consultazione pubblica su Horizon2020”. Con la sua vasta utenza e un volume totale di traffico di oltre 85 Petabyte, registrato tra gennaio e ottobre 2012, GARR-X e’ la community network più grande e significativa del nostro paese. (Fonte: AGI – Roma 29-11-2012) CONVENZIONE PER SCAMBIO DI PERSONALE DI RICERCA TRA UNIVERSITÀ ED ENTI PUBBLICI DI RICERCA Il 28 novembre, Francesco Profumo, ministro dell’istruzione, università e ricerca, ha firmato il decreto che definisce la “Convenzione quadro tra atenei ed enti pubblici di ricerca per consentire a professori e ricercatori universitari a tempo pieno di svolgere attività di ricerca presso un ente pubblico e ai ricercatori di ruolo degli enti pubblici di ricerca di svolgere attività didattica e di ricerca presso un’università”. Il provvedimento permetterà a ricercatori e professori universitari di ruolo di svolgere la propria attività anche presso enti di ricerca e ai ricercatori di ruolo in servizio presso enti di ricerca di svolgere la propria attività anche presso un ateneo. Le convenzioni, che potranno interessare più dipendenti di entrambi gli enti firmatari, avranno una durata minima di un anno e massima di cinque, e stabiliranno le modalità di riparto dell’impegno e delle attività da svolgere presso l’ente o l’ateneo di destinazione, con particolare riferimento a un eventuale impegno didattico. Le disposizioni e i criteri previsti dal decreto interessano gli enti di ricerca vigilati dal MIUR, le università statali, compresi gli istituti universitari a ordinamento speciale, le università statali legalmente riconosciute, le università straniere e i centri internazionali di ricerca. Tutti gli altri enti pubblici di ricerca non vigilati dal MIUR, tra i quali Istat, Iss, Enea e Cra, sono stati esclusi. (Fonte: usirdbricerca.info 04-12-2012) LE MIGLIORI FACOLTÀ DI INGEGNERIA D’ITALIA (ATENEI STATALI 2012) Ranking di CENSIS Servizi. Per informazioni sui criteri. - 7th - MODENA - REGGIO EMILIA Rating: AAA Produttività: 108 – Didattica: 83 – Ricerca: 97 – Rapporti: 85 - 6th - BOLOGNA Rating: AAA Produttività: 94 – Didattica: 91 – Ricerca: 97 – Rapporti: 102 - 5th - PAVIA Rating: AAA Produttività: 108 – Didattica: 89 – Ricerca: 107 – porti: 82 - 4th - TRENTO Rating: AAA Produttività: 90 – Didattica: 87 – Ricerca: 110 – porti: 101 - 3rd - GENOVA Rating: AAA Produttività: 106 – Didattica: 95 – Ricerca: 93 – porti: 96 - 2nd - TORINO – POLITECNICO Rating: AAA Produttività: 102 – Didattica: 89 – Ricerca: 97 – porti: 106 - 1st - MILANO – POLITECNICO Rating: AAA Produttività: 110 – Didattica: 96 – Ricerca: 88 – porti: 110 Rap- Rap- Rap- Rap- Rap- (Fonte: CENSIS e sevenhits 03-12-2012) FONDI PER L’UNIVERSITÀ. COLLOQUIO TRA IL CONDUTTORE FAZIO, IL PROF. SETTIS E IL MINISTRO PROFUMO A CHE TEMPO CHE FA Fazio: C’è la preoccupazione seria dei sindacati addirittura per la prosecuzione dell’anno accademico prossimo venturo se non verranno riconfermati i fondi per l’università. Settis: Beh, per l’università mancano, come il Ministro sa molto meglio di me, ben 400 milioni di euro anche perché l’università ogni anno contribuisce 15 milioni di euro per il disastro Alitalia chiamato anche salvataggio … Fazio: L’università contribuisce per il disastro Alitalia? Settis: Si, dal fondo di finanziamento ordinario dell’università, ogni anno sono prelevati 15 milioni di euro per salvare l’Alitalia, 10 milioni - per l’esattezza 9,4 milioni di euro – per diminuire il prezzo dei carburanti, 5 milioni di euro per la cassa pensioni dei giornalisti. Ma queste cose deve proprio pagarle l’università? Fazio: Ecco la domanda sorge spontanea: si, perché le paga l’università? Profumo: Beh perché intanto oggi abbiamo il problema reale di questi 400 milioni che sono in meno rispetto all’anno scorso – ha ragione il prof. Settis. Quindi il primo tema è che, così come nella prima fase della legge di stabilità la Camera ha deciso di dare una priorità alla famiglia, il Senato adesso potrebbe fare un cosa analoga con la scuola e l’università. Io credo che se dessimo questo tipo di segnale, sarebbe un segnale forte per il paese e un segnale che cambierebbe l’indirizzo che purtroppo in questi anni non è stato ancora cambiato. Stiamo per andare verso una campagna elettorale. Quindi, se i partiti che si presentano dicessero chiaramente quale è il loro programma per scuola, università, ricerca – e sanità – e lo dicessero di fronte ai cittadini, probabilmente avremmo già fatto un primo passo concreto, e noi tutti credo che ce lo aspettiamo. (Fonte: redazione roars 04-12-2012) 01011801 Allegato 8 Delega per la riscossione delle quote sindacali inpdap Io sottoscritto/a professore ordinario / associato in pensione dell’Università di ................................................, socio della sezione Uspur di .................................................................................. Acquisizione di fatti o stati del richiedente attraverso l’esibizione del suo documento di riconoscimento. (Art. 45 del Testo Unico sulla documentazione amministrativa D.P.R. 445/2000) Dati anagrafici Cognome Nome Nato/a il (gg/mm/aa) a Prov. Codice fiscale Residenza Residente in Prov. Città Via/Piazza Numero Telefonico C.A.P. E-mail AUTORIZZO Provinciale dell’INPDAPdi dell’INPDAP di.......................................................................................................... ........................................................................................................ la Sede Provinciale ad effettuare in forza della legge legge 31.7.1975, 31.7.1975, n. 364 la trattenuta sulla pensione, pensione, di cui sono titolare, titolare, del sindacale/associativo pari a € t 8,00 mensili da versare a mio nome e conto al Sindacato contributo sindacale/associativo Pensionati USPUR - Unione Unione Sindacale Sindacale Professori Professoridie Ruolo Ricercatori sul cc. bancario 290, acceso sul cc.Universitari bancario 290, acceso presso la “Banca presso la “Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze, Intermobiliare di Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze, coordinate bancacoordinate bancarie: IBAN 8000 IT 15 0000 V 03043 rie: IBAN IT51 G030 4302 000002800 290. 00957 0000 290. ACCETTO che la presente delega si intenda tacitamente rinnovata di anno in anno, se non interviene revoca a mezzo raccomandata indirizzata alla Sede Provinciale dell’INPDAP che eroga la pensione e per conoscenza alle organizzazioni sindacali/associazioni pensionati interessate. Avendo ricevuto dal predetto Sindacato l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’art. 10 della legge 659/96 e decreto legislativo 196/2003, consento al trattamento degli stessi per tutte le finalità previste dallo Statuto del Sindacato e quindi anche per quanto concerne i dati riguardanti l’iscrizione sindacale comunicati agli Enti interessati, ai quali, parimenti, consento il trattamento degli stessi per i propri fini istituzionali e per gli adempimenti degli obblighi previsti dalla legge e dalla convenzione con il succitato Sindacato. Luogo e data Firma del richiedente TIMBRO DELL’ORGANIZZAZIONE SINDACALE FIRMA DEL RAPPRESENTANTE L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE