Rivista "Università Notizie" n. 4 2012

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Rivista "Università Notizie" n. 4 2012
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A CURA DELL’UNIONE SINDACALE PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI - ANNO XXXII - N. 4
OTTOBRE - DICEMBRE
SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE - ART. 2 - COMMA 20/C LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE CMP
2 0 1 2
♦♦ I precari dell’università
♦♦ Divenire e avvenire della riforma
universitaria
♦♦ Il diritto allo studio
♦♦ Università e industria: l’ossimoro
delle convergenze parallele
♦♦ Il dipartimento riformato
♦♦ Un programma di riforma
dell’università
Procedura da seguire da parte dei Colleghi per mantenere la posizione di socio, o
per iscriversi all’U.S.P.U.R., in occasione del pensionamento.
A. Se sei già socio U.S.P.U.R. e, in occasione del tuo pensionamento, vuoi mantenere la tua
posizione, puoi seguire uno dei due percorsi di seguito indicati.
1. Compilare la “Delega per la riscossione della quota sindacale”, riportata sia in terza
di copertina sia sul nostro sito internet (www.uspur.it). La delega deve essere inviata
sia alla sede I.N.P.D.A.P. della tua città, o direttamente, o per il tramite dell’ufficio “professori” della tua università, sia alla Segreteria nazionale U.S.P.U.R., via del
Parione 7, 50123 Firenze, che la utilizzerà anche per la spedizione della rivista
“Università Notizie”.
2. Se trovi difficoltà nell’accettazione della medesima da parte dell’I.N.P.D.A.P., puoi
inviarla direttamente alla Segreteria nazionale U.S.P.U.R., via del Parione 7, 50123
Firenze, assieme alla quota associativa, pari a € 8,00/mese. Riteniamo che sia più facile per te fare un unico versamento e, in tal caso, dovrai versare l’ammontare relativo alla quota annuale pari a € 96,00 entro il 1° trimestre dell’anno di riferimento.
Il versamento va fatto sul c.c. bancario 290, acceso presso la “Banca Intermobiliare di
Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze,
IBAN IT 15 V 03043 02800 00957 0000 290.
B. Se non sei già socio, e vuoi iscriverti all’U.S.P.U.R., devi compilare la delega di cui sopra
ed inviarla alla Segreteria nazionale U.S.P.U.R., via del Parione 7, 50123 Firenze.
Per il versamento della quota puoi seguire le indicazioni sopra riportate.
L’U.S.P.U.R. segue i soci in pensione e sta dietro all’aggiornamento della loro pensione e
alle nuove disposizioni di legge che li riguardano.
Se hai bisogno di contattarci, o di avere notizie dalla Segreteria nazionale, puoi inviarci
una lettera via e mail ([email protected]) o a mezzo Fax (055 574388).
Se credi, potrai inviarci articoli che volentieri pubblicheremo sulla rivista “Università
Notizie” e che certamente ci aiuteranno nella formulazione delle proposte che l’U.S.P.U.R.
è chiamata ad esprimere durante la discussione, a livello di Parlamento, di nuove leggi per
l’Università e per noi docenti, sia in attività di servizio che in pensione.
Il Segretario Nazionale U.S.P.U.R.
Antonino Liberatore
A CURA DELL’“UNIONE SINDACALE PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI”
Via Del Parione, 7 – 50123 Firenze – Tel. 055-5276891 – Fax 055-574388
SITO USPUR: www.uspur.it – E-mail: [email protected]
Associata alla “INTERNATIONAL ASSOCIATION OF UNIVERSITY PROFESSORS AND LECTURERS”
Direttore responsabile ANTONINO LIBERATORE
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ANNO XXXII NUMERO
OTTOBRE - DICEMBRE 2012
SOMMARIO
I Precari dell’università
di Antonino Liberatore
3
- Divenire e avvenire della riforma universitaria
di Paolo Stefano Marcato
5
- Il diritto allo studio
di Rosario Nicoletti
13
- Università e industria: l’ossimoro delle convergenze parallele
di Maurizio Masi
14
- Il dipartimento riformato: eccellente, cattivo o di compromesso?
di Italo Michele Battafarano
17
- Un programma di riforma dell’università
di Rosario Nicoletti
19
- L’intelligenza emotiva dei computer
di Aldo Bardusco
21
- Le pensioni INPS nel 2011
di Aldo Bardusco
21
- Corrispondenza
a cura di Antonino Liberatore
23
Rassegna stampa
a cura di Paolo Stefano Marcato 26
Opinioni e commenti
L’Uspur per i colleghi
Direttore responsabile
Antonino Liberatore
Segreteria e redazione
Giovanni D’Oro
Via Del Parione, 7 - 50123 Firenze
Tel. (055) 5276891 – Fax (055) 574388
Autorizzazione Tribunale di Firenze n. 3183
del 12 dicembre 1983
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OTTOBRE - DICEMBRE
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SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE - ART. 2 - COMMA 20/C LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE CMP
Comitato di redazione
Aldo Bardusco
Pier Paolo Civalleri
Vincenzo Lo Cascio
Paolo Stefano Marcato
Rosario Nicoletti
A CURA DELL’UNIONE SINDACALE PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI - ANNO XXXII - N. 4
♦
I precari dell’università
♦
Divenire e avvenire della riforma
universitaria
♦
Il diritto allo studio
♦
Università e industria: l’ossimoro
delle convergenze parallele
♦
Il dipartimento riformato
♦
Un programma di riforma
dell’università
Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero
di chi lo firma e pertanto ne impegna la responsabilità.
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Per associarsi
all’U.S.P.U.R.
I docenti in attività di servizio, per associarsi all’U.S.P.U.R., oltre a chiedere l’iscrizione, devono autorizzare l’ufficio stipendi
dell’Università di appartenenza a trattenere mensilmente sullo stipendio la quota associativa, pari a Euro 10,00/mese.
Per effettuare entrambe le operazioni è sufficiente compilare il “Modulo di iscrizione” di seguito riprodotto (il modulo può
essere anche prelevato dal sito USPUR cliccando le parole “Modulo di iscrizione”), in tutte e due le parti e inviarne:
a) la prima alla Segreteria Nazionale
U.S.P.U.R. Segreteria Nazionale - Via Del Parione, 7 - 50123 Firenze
Tel. 055.5276891, Fax 055.574388, e-mail: [email protected]
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b) la seconda all’Amministrazione dell’Università, del proprio Ateneo, Ufficio stipendi.
Modulo di iscrizione
All’U.S.P.U.R.
Unione Sindacale Professori e Ricercatori Universitari
Da inviare alla Segreteria Nazionale, via Del Parione 7, 50123 Firenze, a cura del nuovo socio
Il sottoscritto, professore/ricercatore (*)
in servizio presso l’Università di
Qualifica (**)
Dipartimento/Facoltà
chiede di iscriversi all’U.S.P.U.R., sezione di
Cognome
Nome
Indirizzo
CAPCittà
e-mail
Data
Firma
Da inviare all’Amministrazione dell’Università di (Ufficio Stipendi) a cura del nuovo socio.
Oggetto: Delega per la ritenuta ed il versamento della quota sindacale
Il sottoscritto
professore/ricercatore (*)
(**) essendo iscritto all’U.S.P.U.R.
presso l’Università di
(Unione Sindacale Professori e Ricercatori Universitari), Sezione di
delega codesta Amministrazione a trattenere dalle proprie spettanze la somma di € 10,00 quale quota mensile di iscrizione,
ed a versarla contestualmente alla Segreteria Nazionale della stessa, sul c.c. bancario 290, acceso presso la “Banca
Intermobiliare di Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze, coordinate bancarie:
IBAN IT 15 V 03043 02800 00957 0000 290.
Data
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(*) di ruolo / fuori ruolo; (**) ordinario / associato
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I dati richiesti sono necessari per la formazione e la gestione della lista di distribuzione delle informazioni U.S.P.U.R. ed a tal fine saranno raccolti, registrati e
trattati anche in maniera automatizzata con le modalità strettamente necessarie a questo scopo. I dati non saranno diffusi né comunicati a terzi. Per verificarne
l’utilizzo, per correggerli, aggiornarli, cancellarli od opporsi al loro trattamento ai sensi dell’art. 13 della citata legge ci si può rivolgere alla Segreteria Nazionale
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Esprimo il mio consenso al trattamento dei suddetti dati per le finalità istituzionali dell’U.S.P.U.R.
Data Firma
EDITORIALE
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Per iniziare ricordiamo che “precario” è un termine giuridico per indicare un tipo
di comodato peggiorativo, nel senso che la scadenza del contratto con cui viene stabilito
l’uso gratuito di un bene, anziché essere prestabilita, rimane non prefissata e il comodatario è tenuto a restituire la cosa concessagli non appena il comodante la richieda.
Precisiamo poi che, soprattutto nel settore dell’istruzione pubblica, si parla di precariato e di precari della scuola e si fa riferimento all’insieme dei lavoratori che non
hanno garanzia di stabilità nel lavoro che fanno.
Una volta richiamato il significato di precario diamo ora risposta alla domanda:
perché si dà origine ai precari e chi si trova coinvolto nella dinamica del precariato.
La risposta a questa domanda ha un’ampiezza, con un margine di incertezza, non
facilmente definibile, a meno che non si limiti il discorso ad una specifica categoria di
lavoratori. Ed è ciò che vogliamo fare, tenuto conto dell’ambiente in cui svolgiamo ed
abbiamo svolto la nostra attività lavorativa di ricercatore e di docente universitario.
E’ a tutti noto che ogni fenomeno naturale ha una sua fase transitoria, che va dall’istante della sua nascita a quello in cui raggiunge l’andamento cosiddetto di regime. Così
pure è risaputo che ogni attività umana lavorativa ha una sua fase transitoria, che un
tempo veniva, nella generalità dei casi, compresa in prestazione di regime: il lavoratore
viveva questa fase alla conquista del posto certo, che poi avrebbe ricoperto. In questa
maniera non si dava luogo alla nascita di precariati.
Ed è ciò che è accaduto nell’università dalla seconda metà degli anni sessanta ai
primi anni novanta del secolo scorso, durante i quali abbiamo assistito al passaggio
dall’università di elite all’università di massa: facilità nel trovare un lavoro con contratto
a scadenza breve, certamente rinnovabile, e poi passaggio in ruolo su base legge o in
seguito a concorso con larga disponibilità di posti.
Succcessivamente la legge (ed altre leggi negli anni a venire, e così fino all’anno
2010) ha introdotto le figure di laureati a contratto a tempo determinato, con l’assegnazione di: borse di studio, borse PostDoc, assegni di ricerca, co.co.co. (superiori a
sei mesi), ricercatore a tempo determinato, con un numero complessivo di circa 34.000
precari alla fine del 2010.
Per completezza di trattazione riteniamo necessario ricordare che, sempre alla fine
del 2010, c’erano nell’università circa 41.400 docenti a contratto. Trattandosi di una categoria composita, fatta anche da personale con altro lavoro di ruolo, da professionisti, da
docenti in pensione, ecc., riteniamo di non includerla nelle fila dei precari dell’università.
In considerazione di quanto esposto siamo ora in grado di dare risposta alla domanda: Chi ha dato origine, nel tempo, ai precari? E’ stato il legislatore (Governo e
Parlamento) quando ha approvato le leggi di assegnazione della borsa di studio citate e
non ha poi provveduto a trasformarne una buona percentuale in posti a tempo indeterminato. Siamo tutti preoccupati se pochi giovani non superano l’esame di maturità e lo
ripetono l’anno successivo, ma poi non poniamo, e gli stessi giovani assegnisti di borse
di studio non pongono, alcuna attenzione ai tanti anni in cui essi rimangano borsisti per
poi sparire in poco tempo dal contesto del personale di ricerca dell’università.
Con l’inizio del 2011 è entrata in vigore la riforma Gelmini e dobbiamo prendere
atto che, per quanto attiene agli incarichi di ricerca, sono state abolite le borse di studio,
le borse PostDoc, ed i co.co.co., ed è stato lasciato posto solo ai contratti per ricercatore a tempo determinato e agli assegni di ricerca. A metà Giugno del corrente anno si
UNIVERSITÀ NOTIZIE
I Precari dell’Università.
EDITORIALE
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
contavano 1.037 ricercatori a tempo determinato e 13.300 assegnisti di ricerca, con un
numero complessivo di poco superiore a 14.330 unità.
Alla stessa data il conteggio degli incarichi di ricerca non più previsti ammontava
a 13.250 unità.
Va pure evidenziato che la legge Gelmini ha precisato la durata degli incarichi di
ricerca non soppressi, prevedendo:
a)per il ricercatore a tempo determinato, contratti triennali non rinnovabili, riservati a candidati che hanno già usufruito, per almeno tre anni, di assegni di
ricerca, e contratti triennali rinnovabili, una sola volta, per soli due anni;
b)per i titolari di assegni di ricerca, la durata complessiva dei rapporti instaurati,
compresi gli eventuali rinnovi, non può comunque essere superiore a quattro
anni, con esclusione del periodo in cui l’assegno è stato fruito in coincidenza con
il dottorato di ricerca.
Tralasciamo di precisare la durata dei rapporti avuti da uno stesso titolare di assegni di ricerca e di contratto come ricercatore a tempo determinato, anche con atenei
diversi, per non appesantire la trattazione.
Ben definiti sono anche i nuovi contratti per attività di insegnamento: durata annuale, rinnovo annuale, durata massima del rapporto 6 anni. Sono assegnati solo a
esperti dipendenti da altre amministrazioni, enti o imprese, ovvero titolari di pensione.
Questi contrattisti certamente sono fuori le fila dei precari universitari. Con la legge
Gelmini, come già detto, la tipologia dei precari è passata da cinque a due categorie.
Anche il tempo massimo di permanenza con il lavoro a tempo determinato si è ridotto
ed è, comunque, ben definito.
Ben definita risulta anche la competenza di chi deve stipulare il contratto di lavoro
subordinato: essa, nell’ambito delle risorse disponibili, è dell’università, mentre, per gli
assegni di ricerca, la competenza, può essere esercitata, sempre nell’ambito delle relative
disponibilità di bilancio, da: università, istituzioni e enti pubblici di ricerca e sperimentazione, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie (ENEA), Agenzia spaziale italiana (ASI).
In considerazione di quanto detto è fuor di dubbio che la nuova normativa della
legge Gelmini pone delle limitazioni al possibile numero dei precari della ricerca, che
dovrebbe comunque avere un collegamento piuttosto stretto con il numero, prevedibile,
dei posti di ruolo che si libereranno in seguito a pensionamento. Verrebbe così stabilita
la dinamica annuale del rinnovamento delle posizioni di ruolo del personale docente di
ciascuna sede universitaria e, contestualmente, si conoscerebbe con buona approssimazione, il numero dei titolari di assegni di ricerca e dei ricercatori a tempo determinato
di tipo a), ovvero contratto 3+2, costretto a interrompere il collegamento che aveva
stabilito con l’ateneo.
E per terminare diamo risposta alla domanda: Chi si trova coinvolto nella dinamica
del precariato? Sono i giovani laureati dotati di un elevato senso critico: durante gli studi
compiuti hanno cercato, ma non hanno trovato in pienezza ciò che ricercavano. Sono
desiderosi di continuare nella rincorsa della verità delle loro ricerche ma, purtroppo, per
molti di loro, questo cammino avrà una durata piuttosto breve.
Segretario Nazionale USPUR
Prof. Antonino Liberatore
OPINIONI
E
COMMENTI
DIVENIRE E AVVENIRE DELLA
RIFORMA universitaria
Alcuni giudizi sulla riforma
Al termine della lunga gestazione parlamentare la riforma
era gratificata da giudizi lusinghieri come quello di Mario
Monti: “Il disegno di legge Gelmini è un passo importante
verso un sistema universitario più moderno e più funzionale. Trovo positiva la riforma degli organi di governo, la
maggiore autonomia nella gestione del corpo docente, l’abolizione dell’attuale sistema dei concorsi. Nell’insieme,
si riduce la presa del sistema corporativo sull’università.
Come in altri campi, dai settori produttivi poco concorrenziali, alle professioni, alle amministrazioni pubbliche,
c’è bisogno di togliere un po’ di potere a chi produce i servizi e darne di più a chi li deve ricevere, gli utenti e i consumatori. In questo senso mi pare che la riforma Gelmini
vada incontro agli interessi degli studenti” (Il Messaggero
20-12-2010). Giudizio sostanzialmente positivo riproposto dallo stesso Monti in veste di presidente del Consiglio il 13-09-2011: “In campo universitario è giudizio del
ministro Profumo e mio che il precedente ministro abbia
lasciato una riforma certamente non perfetta e compiuta
ma con dei solidi cardini”(Adnkronos).
Anche sulla stampa più autorevole si leggevano
commenti incoraggianti. “La riforma universitaria Gelmini, pur con i compromessi che sono stati necessari per
vararla, è decisamente migliore delle pessime riforme
fatte in passato” (A. Panebianco, Corsera 28-05-2011).
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
La legge di riforma dell’Università (L. 240/10, “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e di reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema
universitario”, c.d. Riforma Gelmini), entrata in vigore il
29-01-2011, consta di ben 37 pagine, quasi 20.000 parole.
Nondimeno, affinché l’articolato possa diventare integralmente operativo, occorre un iter regolamentare che
prevede 47 provvedimenti normativi oltre alla riscrittura
degli statuti nei singoli atenei. La complessità del testo
valorizza la disponibilità di un’altra versione “liberamente interpolata, un ‘taglia e cuci’ in cui sono stati ‘sciolti’
o eliminati i riferimenti-matrioska, dove si è cercato di
andare al sodo delle disposizioni normative tralasciando
le declaratorie di principio, trascurando alcuni dettagli secondari”. E, comunque, alla fine di questo utile processo,
è rimasto ancora un condensato normativo di 13 pagine
per le quali si rimanda al link: http://www.eief.it/terlizzese/files/2011/01/commenti-alla-riforma-gelmini.pdf.
Quando il corso della fase regolamentare era ancora
incompleto, e a distanza di un anno dall’entrata in vigore,
la riforma è stata sottoposta a un “tagliando” o, come
si usa per strumenti digitali, a un “firmware” di alcuni
articoli, con il D.L. 03-01-2012 (“Disposizioni urgenti in
materia di semplificazione e di sviluppo”) che reca all’articolo 49 (Misure di semplificazione e funzionamento in
materia di università) modifiche agli articoli 2, 6, 7, 10,
12, 15, 16. 18. 21, 23, 24 e 29, e un’aggiunta all’articolo 6
recata dall’articolo 55 (si veda al link http://www.leggioggi.it/allegati/decreto-semplificazione-il-testo-definitivo/.)
“La riforma costituisce un passo importante sulla via di
un’innovazione compatibile con le caratteristiche del nostro Paese, cambiando in modo profondo la governance
e il reclutamento dei docenti. Finalmente sono distinti in
modo trasparente i compiti scientifici del Senato Accademico e quelli gestionali del Consiglio di Amministrazione. S’introduce un’abilitazione nazionale particolarmente rigorosa. Altre caratteristiche di questa riforma
sono la riduzione delle costose e inutili sedi decentrate, la
razionalizzazione di un’offerta didattica eccessivamente
frazionata, nuovi meccanismi di valutazione dei docenti,
strumenti per un più corretto controllo dei bilanci, riorganizzazione dei dipartimenti” (C. Gentili, Il Messaggero
03-12-2011).
Meno positivi altri commenti, fra i quali ho preferito
segnalare i seguenti.
“Le idee guida della legge sono condivisibili, più problematico è il giudizio sulla loro concreta realizzazione.
Spesso mancano dettagli importanti per valutare l’efficacia concreta di una determinata disposizione; l’entità delle risorse per realizzare alcune delle sue disposizioni spesso non è indicata o sembra eccessivamente limitata; molti
dei meccanismi introdotti dalla legge per la valutazione
o l’incentivazione della qualità sembrano eccessivamente
dirigistici. Si tratta di limiti che in larga parte dipendono
dalla scelta fondamentale fatta dalla legge: regolamentare
invece di responsabilizzare (e liberalizzare)(D. Terlizzese,
lavoce.info 14-01-2011).
“Sembra di confrontarsi con un ordinamento ‘in deroga’, che non segue più la strada della riduzione delle
regole e degli oneri amministrativi connessi, della semplificazione organizzativa e procedimentale o, comunque,
dell’amministrazione leggera e che talvolta non segue più
neppure i principi che presiedono al sistema delle fonti del
diritto. Ma un’innovazione che si affida a cascate di regole
affidate a nuovi soggetti, spesso da loro stessi prodotte, a
nuove pratiche e a nuovi procedimenti creati ad horas, che
si sovrappongono l’uno sull’altro, rischia di trasformarsi
in un’innovazione che rimette in scena un’amministrazione del passato, quella che parla tramite regole caotiche,
incomprensibili anche a chi le ha scritte e che talvolta si
dimentica finanche di averle scritte per quante ne ha scritte. Un’amministrazione intrusiva che, per innovare, introduce lacci e laccioli, gravami e aggravamenti procedurali
asfissianti la cui novità si risolve, spesso, nel solo utilizzo,
in alcuni casi costosissimo dal punto di vista degli adempimenti, della forma e della modalità telematica” (C. Barbati, intervistata da Redazione roars 25-07-2012).
“Nelle sue parti migliori e più coraggiose, questa
riforma mostra chiaramente il proposito di inserirsi nel
solco dei mutamenti avvenuti nel resto d’Europa e di colmare i ritardi nella modernizzazione dell’università italiana… Ma dirigismo sui dettagli e lassismo sui nodi cruciali
rischiano di non risolvere quei problemi che una riforma
della governance degli atenei in senso europeo era chiamata ad affrontare” (M. Regini, Il Mulino 01/2012).
“Se la ‘gestazione’, l’approvazione e la fase della
prima applicazione della legge sono state complesse e
molto criticate – in particolare per la concreta difficoltà a comporre a unità il variegato e spesso aspro dibattito tra i molti soggetti sociali e istituzionali attori della
OPINIONI
E
COMMENTI
6
UNIVERSITÀ NOTIZIE
vicenda – la fase attuale di attuazione della legge sembra
caratterizzata, non solo (e forse non tanto) dal perdurare
dei ritardi e delle inadempienze, ma dalla preoccupante
mancanza di certezze rispetto ai contenuti e ai tempi dei
provvedimenti, e al persistere di molti dubbi di legittimità, anche costituzionale, evidenziati anche dagli organi di
controllo o in fase di consultazione istituzionale” (P. Marsocci, Rivista AIC 2/2012, 19-06-2012).
All’interno della riforma “la contraddizione maggiore sembra quella legata alla dimensione dell’autonomia
dell’università. Da una parte, la legge tende a rinforzare il
potere dei vertici dell’ateneo (rettore, consiglio di amministrazione, professori ordinari quali unici membri delle
commissioni di concorso) secondo una logica che prevede
la necessità/capacità di gestire una politica di ateneo, ma,
dall’altra, introduce una serie di vincoli all’organizzazione della vita e delle attività degli atenei secondo uno schema tipico del modello centralistico-burocratico di origine
napoleonica, fondato su un controllo formale ex ante che
nessun altro sistema nell’Europa continentale mette oggi
in atto in modo così minuzioso” (R. Moscati, il Mulino
2/2012).
La riforma Gelmini “soffre dell’ansia iper-regolatrice, della difficoltà a scegliere visioni nette e chiare e di
un’evidente difficoltà a indirizzare l’implementazione
nei tempi e nei modi necessari” (G. Capano, il Mulino
2/2012).
La lentezza della fase attuativa della riforma
L’ultimo giudizio (v. sopra) mette opportunamente in
vista la mancanza di certezze rispetto ai contenuti e ai
tempi dei provvedimenti attuativi della riforma. Infatti, in
merito, tutte le previsioni, anche le più rosee e quelle formulate in alte sfere, hanno dovuto subire smentite. «Entro
sei mesi faremo tutti i provvedimenti attuativi», garantiva
il ministro Gelmini al traguardo dell’approvazione definitiva della legge (Il Sole24Ore 24-12-2010). Il MIUR
poi allungava un poco i tempi: “Entro il mese di luglio 17
decreti saranno completati e pubblicati in Gazzetta Ufficiale e i rimanenti decreti diventeranno legge, e saranno
quindi operativi, entro il mese di settembre” (www.tecnicadellascuola.it 30-06-2011). Anche il governo, seppur
meno ottimista sui tempi, assicurava a Bruxelles: “Tutti i
provvedimenti attuativi della riforma universitaria saranno approvati entro il 31 dicembre 2011” (da Documento
del governo presentato a Bruxelles il 26-10-11). E un mese
dopo il neo ministro Profumo costatava:
«È necessario dare corso a tutta la fase regolamentare della riforma universitaria, manca la parte attuativa”
(Adnkronos 17-11-2011). E a chi gli chiedeva se volesse
porre mano a una revisione della riforma, ribatteva che
«quando s’inizia un lavoro è indispensabile far funzionare
quel che c’è. La riforma ha aspetti positivi e altri meno,
ma questo Paese non può campare in eterno con rivoluzioni e fasi transitorie» (ragionpolitica.it 27-02-2012), anche perché “il transitorio sul transitorio non funziona”
ribadiva, e la soluzione è piuttosto “oliare il sistema, magari facendo leva sull’autonomia delle istituzioni” (università.it 30-08-2012).
Nonostante i buoni propositi del ministro, “il processo di attuazione della legge 240/2010 è davvero ancora
nella fase di assemblaggio di tutti gli elementi necessari
alla sua operatività. E quindi non è possibile, per ora,
alcuna valutazione sulla sua efficacia nel raggiungere gli
obiettivi previsti” essendo verosimile che comincerà a lavorare a pieno regime solo dal 2014 (G. Capano, lavoce.
info 16-03-2012) ossia che la piena attuazione verrà rinviata alla prossima legislatura (G. Forges Davanzati, sbilanciamoci.info 21-08-2011).
La governance degli atenei nella riforma
La riforma ha fissato un tempo massimo entro il quale gli
atenei avrebbero dovuto riformulare i propri statuti per
adeguarli alla nuova disciplina: 29 luglio 2011. Termine
puntualmente rispettato soltanto da 4 università su 67
(Tuscia, Piemonte orientale, Ca’ Foscari, Magna Graecia). Mentre tutte le altre si sono avvalse di una proroga
che ha spostato in avanti il termine a fine ottobre 2011.
Ma a fine marzo 2012 solo 33 atenei avevano tagliato il
traguardo; gli altri vi sono giunti solo a maggio.
Le modifiche statutarie dovevano essere predisposte
“da apposito organo istituito con decreto rettorale, composto di quindici componenti, tra i quali il rettore con
funzioni di presidente, due rappresentanti degli studenti,
sei designati dal Senato accademico e sei dal Consiglio di
amministrazione”. A fronte della pur chiara norma della
L. 240/10, si sono messe in discussione in alcuni atenei le
modalità di scelta dei membri di tale commissione. A chi,
in ragione della “funzione costituente” cui sarebbe chiamata la commissione, sosteneva l’opportunità (se non la
necessità) d’indizione di elezioni, si è replicato inequivocabilmente (in una nota ufficiale dei docenti membri
del Senato accademico dell’università dell’Aquila, 27-012011) che: “1) è erronea la premessa iniziale secondo cui
tale commissione svolgerebbe una “funzione costituente”
perché la commissione svolge solo funzione istruttoria di
predisposizione per il S.A. e per il C.d.A. delle modifiche
statutarie imposte dalla legge di riforma; 2) la commissione non gode di assoluta discrezionalità nella scrittura delle modifiche statutarie giacché trova, proprio nella legge
di riforma, direttive e criteri molto stringenti (dal numero
minimo di docenti per la costituzione di un dipartimento,
alla composizione e alle funzioni di Consiglio di amministrazione e Senato, ecc.); 3) la disposizione legislativa in
questione non parla per niente di “elezione” dei membri
(che invece sono “designati” dal S.A. e dal C.d.A.) e l’eventualità (non prevista, ma neppure esclusa dalla disposizione in oggetto) di un’elezione di tali membri avrebbe
introdotto un elemento disfunzionale in ragione proprio
della funzione istruttoria assegnata alla commissione. Le
modifiche statutarie proposte dalla commissione dovranno, infatti, essere oggetto di deliberazione del C.d.A. e del
S.A.; una legittimazione di tipo elettorale di tale commissione finirebbe per contrapporre quest’ultima ai due organi competenti (S.A. e C.d.A.) in caso di emendamenti
che questi volessero introdurre. L’investitura elettorale di
un organo istruttorio si pone, infatti, in netto contrasto
con la funzione (istruttoria appunto) al medesimo assegnata, giacché pone le premesse di una contrapposizione
irriducibile di legittimazione fra lo stesso e l’organo decidente che in un secondo momento è chiamato ad adottare
la relativa decisione”.
OPINIONI
E
COMMENTI
il ministro ha avuto spesso da obiettare, perché a loro volta gli organi accademici hanno obiettato alle obiezioni)
tutti e 79 gli atenei hanno infine approvato i nuovi statuti
ridisegnando la governance accademica.
I Consigli di Amministrazione sono stati in pratica dimezzati: prima della riforma erano 1.265 i membri
nei C.d.A. delle università, dopo la riforma sono 596 in
meno. In media i C.d.A. sono ora composti di 9-11 membri. Si tratta di un calo del 45%. E più di un quarto (il
28%) delle persone che siedono nei C.d.A. sono “esterni”
all’università. Fa eccezione l’ateneo di Trento: 7 esterni
su 9 membri. Nella scelta dei docenti solo in pochi casi
si è rispettata una proporzione tra le fasce (ordinari, associati e ricercatori) (Bari, Parma, Piemonte Orientale)
o una ripartizione in aree disciplinari, effettuando delle
aggregazioni delle 14 aree del CUN (Foggia, Palermo,
Parma, Pisa, Salerno). Anche il Senato accademico si è
ridimensionato e ha perso il 10% dei propri membri (in
media sono una trentina). In netto calo anche il numero
delle strutture interne: ai vecchi Dipartimenti e Facoltà
si sono sostituiti i nuovi Dipartimenti, che diventano in
tutto 724 rispetto ai 2072 (più 513 Facoltà) ante riforma.
Ad agosto, 73 Statuti erano già pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale (6 con modificazioni successive), 5 inviati al
MIUR e 1 sul quale il MIUR ha fatto ricorso che però è
stato respinto dal TAR a settembre 2012.
Per gli Statuti è stato evidenziato, in sintesi, un principio e un dilemma (G. Capano e M. Regini, 240inpratica.
net 29-03-2011). Il principio fondamentale che ha ispirato
la riforma e dovrebbe ispirare gli Statuti è quello dell’autonomia responsabile: l’autonomia intesa come capacità
di progettare e realizzare gli obiettivi prescelti, senza condizionamenti estranei all’interesse generale dell’ateneo; la
responsabilità richiede che gli organi e le strutture, che
progettano e realizzano quegli obiettivi, a) rispondano
del loro operato a organismi di controllo indipendenti
da questi, b) che non siano in sostanziale conflitto d’interessi e c) che possano sanzionarli. Il principale dilemma
organizzativo è quanto preferire l’assenza di conflitti d’interesse e quanto invece la conoscenza dall’interno delle
situazioni su cui s’interviene. L’assenza di conflitti d’interesse implica che gli organi che decidono o propongono
la ripartizione delle risorse non possano essere composti
da coloro che le risorse le impiegano, altrimenti prevarranno soluzioni spartitorie o scelte basate sui rapporti di
forza. D’altro canto, solo le comunità scientifiche sono in
grado di valutare problemi e prospettive nella loro area.
Solo chi ha una conoscenza approfondita, e dall’interno,
delle potenzialità e delle criticità di una struttura o di
un’area scientifica può indicare quali insegnamenti attivare, quali ricerche sostenere e quali profili privilegiare
nel reclutamento.
Su come gli atenei hanno confezionato i loro statuti
su punti decisivi dell’assetto di governance tre note, scelte
fra i riferimenti principali (F. Coniglione, roars.it 20-032012; M. Regini, Il Mulino 01/2012; G. Pistelli, ItaliaOggi
04-04-2012), concordano di massima e consentono una
sintesi. E’ condivisibile che, proprio a causa del “dirigismo sui dettagli e del lassismo sui nodi cruciali” che improntano la legge di riforma sul tema della governance
degli atenei, sia invalsa la tendenza a non risolvere se non
7
UNIVERSITÀ NOTIZIE
La riforma afferma la centralità dell’autonomia
universitaria purché esercitata in modo responsabile. Il
quadro dell’esistente da cambiare è stato delineato con
acutezza in questi termini: “Ciò che era chiamato ‘gestione democratica e collegiale’ degli atenei era in realtà una
gestione basata su un macroscopico conflitto d’interessi:
gli organi decisionali che dovevano decidere sull’allocazione delle risorse (fondi, reclutamento ecc.) erano composti dai rappresentanti eletti di quelle strutture (facoltà,
dipartimenti ecc.) che le risorse le richiedevano e le utilizzavano. Inoltre, la collegialità degli organi decisionali in cui tutti erano rappresentati impediva di fatto ogni
selezione in base al merito, o a qualunque altro criterio
comportasse decisioni selettive, per favorire invece meccanismi spartitori tesi a non scontentare nessuno, e quindi a
conservare e riprodurre l’esistente” (M. Regini, Il Mulino
01/2012).
Nella maggior parte degli altri Paesi occidentali, specialmente in quelli anglofoni, le soluzioni adottate comportano: un ruolo forte d’indirizzo strategico del C.d.A.,
a maggioranza di membri esterni nominati, come vertice
unico dell’ateneo; una grande rilevanza e forti poteri assegnati al rettore o presidente dell’ateneo, anch’esso per lo
più designato; un ruolo del Senato accademico (o organo
equivalente) diverso rispetto al passato, non più vertice
reale dell’ateneo ma organo che ha il compito di fornire
pareri su tutte le materie scientifiche e didattiche, senza
però essere il decisore finale.
Confrontando le modalità con cui 15 Paesi europei
hanno affrontato le questioni riguardanti gli assetti degli organi di governo, si rileva che la maggior parte ha
scelto nel tempo di virare verso il modello anglosassone
della managerial shared governance. Ovvero, un forte ruolo del C.d.A., vero organo di vertice, grande rilevanza del
Rettore-Premier, Senato accademico con funzioni di consulenza e indirizzo rispetto ai temi riguardanti didattica
e ricerca.
Nello spirito della riforma (L. 240/10) vi è l’assegnazione al C.d.A. del ruolo di organo di governo e al
Senato accademico (S.A.) quello di camera di rappresentanza. Il S.A. ha le funzioni di: formulare proposte e pareri obbligatori in materia di didattica, ricerca e servizi
agli studenti, di attivazione, modifica o soppressione di
corsi, sedi, dipartimenti, strutture di raccordo, di bilancio
di previsione e consuntivo; approvare il regolamento di
ateneo e, previo parere del C.d.A., i regolamenti in materia di didattica e ricerca e il Codice etico; coordinamento
e raccordo con i dipartimenti e le strutture di II livello;
sfiduciare, se il caso, il Rettore.
Questa divisione dei poteri è prassi standard nel sistema statunitense, dove né Direttori di Dipartimento (Department Chairs) né Presidi di Facoltà (College Deans)
siedono in Senato Accademico, e tanto meno di diritto.
Nel sistema americano il Senato Accademico non governa. La sua funzione è solo quella di rappresentare di fronte al governo dell’Ateneo la base dei docenti (“rank and
file faculty” dove “faculty” in inglese americano significa
corpo docente) (M. P. Bonacina, http://240inpratica.net/
governance/ 20-09-2011).
Pur con ritardi dovuti alle proroghe e perché ogni
statuto deve essere approvato dal ministro, (perché inoltre
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
in parte quei problemi che una riforma della governance
in senso europeo doveva affrontare con decisione. Infatti,
la riforma, “così prescrittiva su tanti aspetti di dettaglio”,
ha invece lasciato agli atenei il compito di scegliere nei
loro statuti le soluzioni per lo più preferite ossia le soluzioni meno rinnovatrici possibili, che in alcuni casi hanno
addirittura “sfidato lo spirito, se non la lettera, della legge
di riforma”. Fare della revisione degli statuti “un’opportunità di rinnovamento, di qualificazione e di riforma democratica del sistema” addirittura anche “a dispetto dello
spirito della Legge”, si leggeva in un comunicato della Flc
Cgil del 26-01-2012.
Per l’elezione del rettore nessuna università ha scelto
un sistema di elezione di secondo grado (cioè di designazione da parte di organi collegiali), per sottrarlo almeno in parte a meccanismi di voto di scambio e di ricerca
di un consenso elettorale basato solo sulle capacità di
mediazione.
Per il C.d.A. la legge lascia agli statuti di stabilire
se i suoi membri devono entrare in carica tramite “designazione o scelta” tra candidature individuate “anche
mediante avvisi pubblici”. Questo equivoco terminologico, consentito dalla “timidezza” della legge sul punto, ha
ingenerato diverse linee interpretative. La riforma voleva
verosimilmente sottrarre i C.d.A. alla consueta fiera elettorale, suddivisa per categorie (ordinari, associati, ricercatori, tecnici), di do ut des, di compensazioni accademiche. Ma su quel comma s’è scatenata “la furia leguleia
di molte università che hanno sollecitato i principi dei
fori (amministrativi), magari in cattedra in questo o quel
dipartimento, ad analizzare la debolezza di quel testo di
legge e, forti di cotanti pareri, hanno fatto gli statuti come
più gli aggradava, vale a dire ripristinando le elezioni e le
componenti”. Pertanto gli statuti di alcuni atenei (Politecnico di Torino, Genova, Pisa, Trieste, Firenze e Parma)
hanno inteso la “designazione o scelta” come procedura
elettiva più o meno indebolita o mascherata, secondo varie modalità, oppure hanno concepito il processo di scelta
dei membri interni ed esterni in modo da sottrarli quanto
più possibile alla discrezionalità del rettore, per evitare
che questo si trasformasse in un dominus.
Il ministro Profumo ha impugnato gli Statuti dei sopra citati atenei presso i TAR competenti sul punto specifico, giudicandoli contra legem. Ma la sentenza del TAR
Piemonte (n. 983 del 14/6/2012) dopo quella del TAR Liguria (n. 718 del 22/5/2012) ha affermato che l’opzione di
scegliere i membri interni del C.d.A. attraverso l’elezione
diretta da parte della Comunità accademica è legittima,
cioè non è contra legem come invece sostenuto dal MIUR
e ha rigettato il ricorso intentato dal MIUR che contestava l’eleggibilità. Nella sentenza del TAR Piemonte si
legge che “il termine ‘designazione’ indica, in sé, solo l’atto con cui una determinata persona viene additata a un
ufficio, mentre nulla dice in ordine al soggetto che effettua
tale indicazione né sui criteri e modalità seguiti a tale fine:
esso quindi non esclude che il designante possa essere un
organo collegiale né che l’individuazione possa essere effettuata all’esito di una procedura elettiva. In tal senso
le procedure elettive costituiscono solo una delle modalità di designazione di un soggetto a un ufficio” (G. Porzi,
oggi.it 04-09-2012).
In molti Statuti si è invece interpretata la norma
come un’esplicita esclusione di un processo elettivo comunque concepito, per cui si è intesa la scelta come una
prerogativa del rettore, o di organismi da questo controllati, in base alla necessità di assicurare una governance
efficace grazie a una “squadra di governo” coerente con la
sua linea politica, che evitasse i mali dell’assemblearismo
e la sua conseguente deresponsabilizzazione.
Come ci hanno insegnato l’esperienza e la storia, è
percezione illusoria di democrazia, nell’attribuzione di
responsabilità riguardo ai processi decisionali, quella
che la identifica in ogni caso nella via esasperatamente
‘rappresentativa’. Ci possono essere pessime decisioni, o
prolungate deleterie non-decisioni, da parte di organismi
rappresentativi – vediamo tanti esempi al riguardo – mentre molti sistemi funzionano ottimamente prescindendo
da essi, e senza scadere nell’autoritarismo o nella dittatura. È percepita invece come democrazia realmente partecipativa quella che consente di monitorare e verificare
costantemente le decisioni e gli effetti che ne derivano.
Il dibattito andrebbe indirizzato sui meccanismi di controllo degli organismi decisionali oltre (più?) che su quelli
della loro scelta / designazione / elezione. La parola chiave
di un vero rinnovamento degli atenei è la responsabilità
degli organismi, elettivi o nominati che siano (S. Di Nuovo, roars 29-02-2012).
Il reclutamento dei professori e dei ricercatori nella riforma
e nei successivi decreti
Preliminare o propedeutica a una ricognizione sulle norme
per il reclutamento recate dalla riforma è la verifica dello
status attuale degli organici del personale docente e ricercatore negli atenei pubblici, senza trascurare, per il necessario
collegamento, il nuovo quadro di regole che ha imposto
agli atenei la razionalizzazione dell’offerta formativa e il
taglio al fondo del finanziamento ordinario (FFO).
Il presidente della CRUI ha rilevato che con un corpo accademico che negli ultimi tre anni è sceso di oltre il
10% (da oltre 60 mila a meno di 54 mila) tra ricercatori
e professori, ci collochiamo agli ultimi posti in Europa
per rapporto docente-studente. Ma è vero anche che nel
frattempo è diminuita in percentuale maggiore l’offerta
formativa. Secondo dati elaborati su fonte MIUR, la retromarcia iniziata nel 2007 (picco massimo dell’offerta
formativa) oggi ha portato i corsi di laurea, fra triennali e
specialistici, a scendere sotto la soglia di 5 mila, passando
dai 5.823 del 2007 agli attuali 4.830 con un calo del 17%
(con un taglio del 5,4% nell’ultimo biennio: dai 5.108 del
2010/2011 ai 4.830 del 2011/12). La riduzione ha toccato
278 corsi di laurea, 169 lauree triennali di primo livello
e 109 lauree magistrali o specialistiche. Sono diminuiti,
nell’ultimo biennio, specialmente i corsi dell’area scientifica (- 91 corsi di laurea), e a seguire quelli dell’area sociale (-74) e umanistica (-62 corsi).
Gli ultimi concorsi per l’accesso al ruolo di professore ordinario e associato risalgono al 2008 e attualmente
le università nel complesso sono sotto organico rispetto a
quell’anno, tenuto conto dei pensionamenti e del blocco
del turn over.
L’andamento del numero totale dei docenti, dopo aver
raggiunto nel 2009 il massimo storico (con un aumento
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L’art. 24 bis introduce poi la nuova figura dei Tecnologi a tempo determinato, che potranno essere assunti
con contratto di 18 mesi (prorogabile per una sola volta e
per un massimo di ulteriori 3 anni, per una durata complessiva non superiore a 5 anni nella medesima università) per lavorare ai progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea e da altri enti pubblici e privati.
Con il “Piano straordinario” triennale per la chiamata di professori associati (art. 29 co. 9 della riforma,
decreto interministeriale 15-12-2011 per la ripartizione,
C.d.M. del 24-08-2012 che prevede un decreto per l’assegnazione della seconda trance di 15 mln per il 2012), il
MIUR ipotizza l’assunzione nella primavera 2013 di un
numero di tali professori compreso tra 2.500 e 3.000. Più
verosimilmente, in base alle risorse disponibili (80 mln
annui per tre anni corrispondenti a circa 600 Punti Organico annui) ci si devono aspettare circa 2.000 reclutamenti
annui (di cui almeno 400 esterni all’ateneo reclutante).
Lo scenario della docenza universitaria cambierà,
rispetto ai dati fin qui riportati, al termine del prossimo triennio (2012-15), secondo previsioni pubblicate in
marzo (P. Rossi, roars.it 23-03-2012): professori ordinari
circa 13.500; professori associati circa 19.500; ricercatori
T.I. circa 17.500; ricercatori T.D.b circa 1.500. Si prevede
inoltre che nel 2018, con i passaggi ad associato, saranno
probabilmente ancora in servizio non più di 12.000 ricercatori T.I.
Le previsioni sul reclutamento sono state in corso
d’anno di nuovo ridimensionate per effetto del Decreto
legislativo n. 49 su bilancio e reclutamento nelle università (GU n. 102 del 3 maggio 2012) e del Decreto-Legge
n. 95 di revisione della spesa pubblica (GU n. 156 del 0607-2012, Suppl. Ord. n. 141). Questi decreti hanno modificato in modo sostanziale alcuni meccanismi fondamentali del reclutamento. Infatti, il DLgs n. 49 ha, di fatto,
bloccato il turn over per il 2012, ma con il successivo D.L.
n. 95 il blocco del turn over, sia del personale a tempo
indeterminato sia dei ricercatori a tempo determinato, è
stato portato al 20% fino al 2014 compreso (e potrà poi
risalire al 50% nel 2015 e tornare al 100% nel 2016). Senza
contare il turnover ulteriormente ridotto alle università
meno “virtuose” secondo le previsioni del DLgs n. 49: il
costo del personale non può superare l’80 per cento delle
risorse, l’indebitamento non può superare il 10 per cento
delle risorse assegnate e le nuove assunzioni sono possibili
solo se c’è copertura finanziaria.
L’introduzione dell’abilitazione scientifica nazionale. Una
vicenda non ancora conclusa e gravida di conseguenze sul
reclutamento
L’intento della riforma è di superare sia la procedura dei
concorsi nazionali sia quella, spesso criticata, dei concorsi locali, con l’introduzione di un modello di abilitazione
scientifica nazionale (aperta, in altre parole senza limiti
numerici legati alle disponibilità di posti) cui seguono
“selezioni” locali (per la scelta, da parte degli atenei, tra
i docenti abilitati). E’ un meccanismo apparentemente
semplice ma in realtà complesso nel portarlo a regime.
La legge ne ha direttamente disciplinato alcuni aspetti,
la cui definizione è tuttavia in gran parte rimessa a diversi successivi provvedimenti. Nel loro iter, processi di
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
del 28% rispetto al valore 1998), ha iniziato a scendere
rapidamente e oggi eccede soltanto del 14% il valore al
1998. Con l’analisi per fasce si rilevano effetti ancor più
rilevanti: i professori ordinari, saliti nel 2007 di oltre il
48% rispetto ai 13.400 del 1998, già oggi superano tale
valore solo del 13%. La crescita del numero dei professori associati è stata relativamente più modesta (con un
massimo del 22% nel 2007) e già oggi il numero supera
di appena il 5% il valore del 1998. Anche il numero dei
ricercatori a tempo indeterminato, dopo essere giunto a
crescere del 27% (nel 2009) rispetto ai circa 20.000 ricercatori del 1998, sta ormai scendendo. Ciò nonostante, gradualmente il sistema tendeva a riacquistare una struttura
piramidale nel rapporto professori-ricercatori. Infatti, nel
corso degli anni, le quote percentuali sono cambiate per
una riduzione del numero di professori ordinari e associati (che nel 2010 costituivano insieme il 56,9%: rispettivamente il 27,5% e il 29,4% del totale) a favore dei ricercatori che rappresentano il 43,2% del personale docente di
ruolo. Com’è appunto dimostrato dal documento curato
dal MIUR (L’Università in cifre. Rapporto 2009-10), dove
si registra che la riduzione osservata rispetto al 2008 riguarda in primo luogo i professori ordinari (-16,2%), poi
gli associati (-7,1%) e infine anche, ma molto di meno, i
ricercatori (-2,5%).
La riduzione dei finanziamenti ministeriali agli atenei dal 2008 in poi si è tradotta in un crollo del numero
dei precari della ricerca. Secondo i dati presenti nel nuovo
sito dell’ufficio di statistica del MIUR (http://cercauniversita.cineca.it), dai 34.590 (al 2010) si è passati a 14.334
(al 10-05-2012), sommando assegni di ricerca (13297) e
ricercatori a tempo determinato (1037; il nuovo sistema
ancora non riconosce la differenza fra ricercatori a tempo
determinato di tipo a e b, R.T.D.a e R.T.D.b). In particolare si è avuto un calo del 25% degli assegni di ricerca,
un calo del 16% dei ricercatori T.D. e una soppressione
delle altre tipologie contrattuali (borse di studio, borse
postdoc, contratti co.co.co superiori a 6 mesi) (F. Vitucci
e S. Bolognani, roars 12-05-2012).
Con il D.L. n. 5, 09-02-2012 (“Disposizioni urgenti
in materia di semplificazione e sviluppo”), pubblicato nella G.U. n. 33 del 09-02-2012, sono state introdotte diverse
modifiche alla Legge 240/2010, relative tra l’altro:
-- al mantenimento delle funzioni didattiche per i
ricercatori universitari, compatibilmente con la
programmazione definita dai competenti organi
accademici, mentre non avranno più compiti di
tutorato e di didattica integrativa;
-- all’utilizzo di fondi del piano straordinario associati (vedi oltre) anche per procedere a chiamate
dall’estero;
-- all’estensione della possibilità di svolgere ricerca
negli Atenei anche a figure non di ruolo.
Secondo il D.L., inoltre:
-- le università telematiche non potranno più attingere ai contributi riservati alle università non statali legalmente riconosciute, salvo che non rientrino già in tale tipologia;
-- è abolito lo scambio contestuale di docenti di pari
qualifica tra due sedi universitarie consenzienti;
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E
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
legislazione a cascata e procedure farraginose hanno fatto
sì che per concorrere all’abilitazione scientifica nazionale a professore associato e ordinario dovessero trascorrere quasi due anni dall’emanazione della riforma (legge 240/2010) che l’ha istituita: le domande dei candidati
sono da presentare entro il 20 novembre 2012.
La riforma prevede dunque un’innovazione che era
già stata introdotta dall’art.1 della legge n. 230 del 2005:
un’abilitazione nazionale ma questa volta senza limite
numerico, per attestare la qualificazione scientifica necessaria per l’accesso ai ruoli, che tuttavia non costituisce
titolo d’idoneità né da alcun diritto all’assunzione.
Per sintetizzare le conseguenze dell’introduzione
dell’abilitazione (P. Marsocci, Rivista AIC n. 2/2012, 1906-2012), la riforma prescrive: 1) la possibilità di reclutamento ordinario con il percorso dell’abilitazione scientifica nazionale (di durata quadriennale) cui si aggiungono le
valutazioni comparative locali (procedure per la chiamata) bandite dai singoli atenei, svolte da commissioni composte da docenti indicati dal dipartimento che ha richiesto il bando, di cui alcuni provenienti da altri Atenei; 2)
la possibilità riservata ai ricercatori a tempo determinato
di tipo B, ex art. 24 (ossia a contratto, con incarico della
durata di tre anni) di essere incardinati con “chiamata diretta” quali professori associati, in caso di conseguimento
dell’abilitazione nazionale; 3) inoltre, per accedere al ruolo di ricercatore di tipo B – attraverso prove di valutazione
comparativa, svolte sempre in sede locale – sono previsti
bandi riservati a soggetti che siano già stati ricercatori di
tipo A (soggetti affini agli assegnisti di ricerca, ma dotati
di funzione docente) o a varie tipologie di ex assegnisti di
ricerca. Con disposizione transitoria, fino al 31-12-2016,
questa stessa procedura può essere usata per la chiamata
nel ruolo di professori di I e II fascia dei docenti già in servizio, in possesso dell’abilitazione. A disciplinare la forma
di questi reclutamenti (bandi, formazione delle commissioni ecc.) saranno i regolamenti di Ateneo.
Esiste poi un ulteriore canale di reclutamento non
ordinario (art. 18, co. 1) che consente la partecipazione
alle procedure concorsuali locali per la chiamata anche
degli “studiosi stabilmente impegnati all’estero in attività
di ricerca o d’insegnamento a livello universitario in posizioni di livello pari a quelle oggetto del bando, sulla base
di tabelle di corrispondenza, aggiornate ogni tre anni, definite dal Ministro, sentito il CUN”. Inoltre, l’art. 29. co.
7 prevede una procedura per il reclutamento, equiparata a
quella utilizzata per le chiamate per “chiara fama”, riservata non solo a chi svolga stabilmente attività accademica
o di ricerca all’estero, ma anche a chi – pur operando in
istituzioni accademiche e di ricerca italiane – sia vincitore
di “programmi di ricerca di alta qualificazione”, a livello nazionale ed europeo. Le nomine per chiara fama di
professori italiani e stranieri sono finanziate da una voce
integrativa del FFO.
I vincitori di progetti Erc, Firb e Prin possono essere
chiamati a professore associato, su proposta del responsabile del progetto, con un finanziamento speciale introdotto dal già ricordato D.L. “semplificazioni” (Decreto
Legge 09-02-2012, n. 5, GU n. 33 del 09-02-2012). Questo
D.L, fra l’altro, ha esteso l’ambito di utilizzo dei settori
scientifico-disciplinari alle procedure per il conseguimento
dell’abilitazione scientifica nazionale, prevedendo esclusivamente l’utilizzo di modalità informatiche per l’espletamento delle procedure di abilitazione. E’ specificato poi
l’ambito degli effetti del conseguimento dell’abilitazione
scientifica nazionale: a) ai fini dell’inquadramento come
professore associato, nei confronti dei ricercatori titolari di contratto ai sensi dell’art. 24 co. 3 (legge 240/10) e
b) ai fini della chiamata nel ruolo di professore di prima
e seconda fascia rispettivamente di professori di seconda fascia e ricercatori a tempo indeterminato in servizio
nell’università. Circa la chiamata dei professori di prima
e seconda fascia, sono modificati alcuni criteri cui le università devono attenersi nell’adottare i propri regolamenti
in proposito (riguardo alla pubblicità del procedimento,
all’ammissione al procedimento, alle caratteristiche delle
convenzioni per la copertura degli oneri).
Per i candidati al conferimento dell’abilitazione
scientifica nazionale la riforma non prevede alcun criterio particolarmente restrittivo. Se tutti i candidati di una
disciplina superassero un determinato standard qualitativo, potrebbero essere tutti abilitati. Dunque, senza vincoli precisi, è certo che il numero degli abilitati potrebbe
diventare veramente elevato. Lo scenario conseguente
potrebbe avere queste prospettive (A. Figà Talamanca, Il
Messaggero 20-06-2012): i ricercatori T.I., appartenenti a
un ruolo ormai soppresso, si affolleranno a partecipare
alle abilitazioni e almeno 15.000 dei 25.000 ricercatori in
servizio risulteranno più attivi nella ricerca della maggioranza degli attuali professori associati e forse anche degli attuali professori ordinari. Verosimilmente a loro non
potrà essere negata l’abilitazione a svolgere un ruolo di
docente che già svolgono. Né sarà facile per le università
negare la promozione a professore associato a chi, come
ricercatore, è già nei ruoli di docente ed è stato “abilitato”
da una commissione nazionale. Tutti i fondi disponibili,
per diversi anni, potrebbero essere pertanto spesi per promuovere i ricercatori a professore associato, bloccando
le nuove assunzioni e convogliando le risorse nelle sedi e
nelle aree dove più numerosi sono i ricercatori.
Anche a prescindere da questa previsione, la futura platea di abilitati andrà ad affiancarsi agli idonei dei
precedenti concorsi ancora in attesa di assunzione. Sono
attualmente un gruppo eterogeneo di 475 docenti, appartenenti a 16 università “non virtuose” in base alla valutazione della sostenibilità economica espressa nel rapporto
tra assegni fissi e FFO (tutte del centro-sud, solo Modena-Reggio Emilia, Udine e Trieste al nord) e ad altre 14
sedi sparse nella Penisola (S. Bergantino e A. Zannini,
roars.it 04-06-2012).
Gli abilitati dovranno anche muoversi in un contesto normativo e finanziario che quest’anno ha accentuato
drasticamente i vincoli degli atenei per assumere e ha introdotto il principio dell’allocazione delle risorse in base
a criteri di valutazione delle strutture, la cui determinazione spetta al MIUR, con un ruolo decisivo dell’ANVUR in tutte le connesse procedure.
Alla ricerca di una soluzione al prevedibile eccesso di
abilitati, il MIUR aveva predisposto alla fine di maggio
un testo «apocrifo» che sospendeva fino al 2015 l’abilitazione nazionale, ripristinando i concorsi, ma poi è stato
ritirato di fronte a un’estesa levata di scudi.
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stabilisce la terza mediana per i settori non bibliometrici.
L’AIC contesta il fatto di aver fissato ex post una graduatoria fra le riviste che non esisteva quando i lavori sono
stati pubblicati. Il TAR ha ritenuto le esigenze della ricorrente AIC “apprezzabili favorevolmente”, e ha fissato
l’udienza per la decisione di merito al 23 gennaio 2013.
Il CUN il 12-09-2012 ha chiesto al ministro Profumo
di intervenire affinché sia chiaramente stabilito, con atto
normativo o interpretativo, se il superamento dei valori
mediani degli indicatori quantitativi abbia o non natura
vincolante ai fini del conseguimento dell’abilitazione. La
risposta è arrivata dall’ANVUR: il meccanismo valutativo “non potrà in alcun modo semplicemente disattendere le mediane, ma dovrà indicare altri criteri di carattere
generale”.
Una lettera del 21-09-2012, inviata dal ministro Profumo al CUN, avrebbe voluto verosimilmente salvare la
procedura di abilitazione, evitandone i contenziosi, laddove affermava che “le Commissioni hanno un margine di discrezionalità, atteso che possono discostarsi dai
criteri e parametri disciplinati dal decreto, incluso quello
della valutazione dell’impatto della produzione scientifica mediante l’utilizzo degli indicatori di attività scientifica, dandone specifica motivazione sia al momento della
fissazione dei criteri di valutazione dei candidati sia nel
giudizio finale espresso sui medesimi”.
La risoluzione bipartisan del 25-09-2012, presentata
alla Camera dai deputati Mazzarella, Gelmini e Binetti,
ha contestato “la decisione di ricorrere … alle mediane ricavate dalla produzione scientifica dei professori di ruolo
nei precedenti dieci anni, anziché a rigorose soglie assolute” perché “introduce nel sistema una forte aleatorietà di metodo e di merito, impedendo tra l’altro ai futuri
candidati di conoscere con sufficiente anticipo i requisiti
da superare per conseguire l’abilitazione, essendo tali requisiti imprevedibilmente mutevoli, anche in misura assai
sostanziale”. Rispetto alle mediane per come calcolate
dall’ANVUR, la mozione ha sollevato “seri dubbi sulla
tenuta algoritmica e giuridica del loro calcolo”; inoltre,
ha sottolineato la “perdurante incertezza sull’affidabilità
della base di dati utilizzata e sui meccanismi di calcolo
adottati”. In definitiva questa risoluzione Pd-PdL-Udc
sollecita il MIUR a decretare che il superamento delle
mediane “non è necessario né sufficiente” per l’abilitazione, e invoca “un provvedimento normativo o interpretativo erga omnes” per “chiarire definitivamente” la questione della derogabilità delle mediane.
La CRUI, il 27-09-2012, ha confermato i timori già
espressi al momento della pubblicazione del D.M. 76/2012
e ha denunciato il contesto di incertezza sulle procedure
di abilitazione, che rischia di rendere l’intero processo di
valutazione equivoco e foriero quindi di successivi contenziosi causa di inaccettabili ritardi con penalizzazione
sia dei candidati sia della qualità del sistema universitario.
Ha chiesto pertanto di risolvere rapidamente e inequivocabilmente gli aspetti tuttora controversi delle procedure
di abilitazione, ristabilendo “tempi certi, responsabilità e
rigore”.
Il CUN è nuovamente intervenuto il 28-09-12 rilevando che la risposta ricevuta dal Ministro non può essere sostitutiva di un provvedimento ministeriale atto a
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
Per cercare di porre un vincolo selettivo alle abilitazioni è intervenuta l’ANVUR, che già all’inizio della sua
attività aveva proposto al MIUR una formulazione del
decreto attuativo dell’ANPRePS (Anagrafe nominativa
dei professori ordinari, associati e dei ricercatori e delle
pubblicazioni scientifiche prodotte) previsto dalla legge,
sottolineando la fondamentale importanza dell’anagrafe
per svolgere il suo compito di valutazione. Per sopperire
alla mancata messa in opera dell’anagrafe nazionale della
ricerca, l’ANVUR ha allora utilizzato le informazioni volontariamente inserite dai docenti nel sito del CINECA e
ha introdotto il concetto di mediana da applicare sia agli
aspiranti commissari sia ai candidati all’abilitazione: attraverso una serie d’indicatori bibliometrici e di attività
scientifica, gli aspiranti commissari saranno divisi in due
parti e solo la metà potrà aspirare a fare il commissario;
simmetricamente, solo i candidati che avranno un indicatore di attività scientifica superiore al valore mediano
della fascia professorale per la quale vogliono concorrere,
potranno conseguire l’abilitazione.
Al decreto non regolamentare (D.M. n. 336/11) previsto dall’art. 15 della riforma, con il quale sono stati riordinati i settori scientifico-disciplinari, ha fatto seguito il
D.M. 07-06-12, n. 76 (Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso
alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari,
nonché le modalità di accertamento della qualificazione
dei Commissari, ai sensi dell’articolo 16, comma 3, lettere
a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e degli
articoli 4 e 6, commi 4 e 5, del D.P.R. 14 settembre 2011,
n. 222.). Il regolamento all’art. 2 stabilisce: a) i criteri, i
parametri e gli indicatori di attività scientifica utilizzabili
ai fini della valutazione dei candidati all’abilitazione; b)
il numero massimo di pubblicazioni, distinto per fascia
e per area, che ciascun candidato può presentare ai fini
della valutazione nella procedura di abilitazione; c) le modalità di accertamento della coerenza dei criteri e parametri e indicatori di qualificazione scientifica degli aspiranti
commissari con quelli richiesti per la valutazione dei candidati all’abilitazione per la prima fascia dei professori
universitari. Lo stesso regolamento rimanda inoltre alla
pubblicazione, entro 60 giorni, dei valori delle mediane di
produttività scientifica per i diversi settori e della classificazione delle riviste per i settori cui gli strumenti bibliometrici di calcolo dell’H-Index non siano applicabili.
Sono 184 le commissioni composte da 5 professori
ordinari tra cui uno straniero, estratti a sorte da un panel
di docenti che, oltre ad aver presentato domanda, hanno i titoli per farne parte. La legge, in sostanza, dice che
i professori della commissione devono essere qualificati
almeno quanto i candidati. La soglia di “bravura” che va
superata è stabilita dalla “mediana”.
Ripetuti interventi in rete (www.roars.it), sulla stampa, varie mozioni di consulte di Area e di società disciplinari, hanno giudicato poco affidabili i dati su cui si basa il
calcolo delle mediane, poco chiara la procedura, e soprattutto passibile in sede giurisdizionale di fondati ricorsi. E
il TAR Lazio, infatti, è stato chiamato a pronunciarsi sul
ricorso dell’Associazione Costituzionalisti Italiani (AIC)
per l’annullamento del D.M. 76/2012 nella parte in cui
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
superare le incertezze perduranti nella comunità accademica sulla corretta interpretazione del D.M. 76/2012,
quanto al margine di discrezionalità usufruibile dalle
Commissioni per le abilitazioni scientifiche. Ritiene pertanto opportuno sollecitare ancora un adeguato provvedimento ministeriale di chiarimento, la cui adozione
e diffusione assicuri la certezza del quadro normativo di
riferimento.
Non vi è dubbio che i termini della procedura di
abilitazione in corso (imminenti sorteggi dei commissari,
data del 20 novembre per la presentazione delle domande
dei candidati, termini di legge per la chiusura dei lavori
delle commissioni) sono incompatibili con i tempi che un
provvedimento legislativo richiederebbe nel suo necessario ma lento iter attraverso il parere del Consiglio di
Stato, dell’ANVUR, del CUN e del CEPR, la registrazione alla Corte dei Conti e la pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale.
Se il 23 gennaio 2013, dopo l’udienza del TAR, si
dovesse costatare che la sentenza di merito ha disposto
di annullare il D.M. nella parte in cui stabilisce la terza
mediana per i settori non bibliometrici, l’intera classificazione delle riviste di fascia A cadrebbe per illegittima
retroattività. A quel punto sembra evidente (JUS, roars 06-09-2012) che la legittimità dell’intera procedura
di abilitazione, già celebrata, vacillerebbe paurosamente,
perché “viziata nel suo svolgimento dall’utilizzo determinante di una mediana illegittima”. Ovviamente, se le
mediane sono illegittime, rischiano di essere accolti tutti i
ricorsi che le contestino. E l’intera procedura delle abilitazioni rischia di essere vanificata. Diversamente la pensa V.
Onida (IlSole24Ore 24-08-2012), che nel ricorso dell’AIC
al TAR ha denunciato come illegittima e irragionevole la
sostanziale “retroattività” del ranking delle riviste: “E’
ovvio che l’annullamento (o comunque la non applicazione) della clausola concernente l’indicatore di produzione
scientifica in questione lascerebbe per il resto integra la
procedura e non avrebbe alcun effetto di ‘blocco’ delle abilitazioni. Ed è questa la ragione sostanziale per la
quale l’AIC ha avuto cura di circoscrivere attentamente
la portata del proprio ricorso”.
Secondo la previsione di roars (http://www.roars.
it/online/?p=13244) non si scongiurerà l’allarme-ricorsi
né con l’interpretazione del D.M. 76 proposta dal Ministro nella sua lettera al CUN né con l’interpretazione
del D.M. proposta dalla mozione bipartisan in Parlamento. L’auspicato “rattoppo delle mediane, derogabili caso
per caso” dalle Commissioni, potrà invece aggravare i
contenziosi in quanto se le mediane saranno dichiarate
illegittime, la eventuale decisione dei commissari di non
derogare alle mediane esporrà tutti i conseguenti giudizi
all’illegittimità per derivazione, e tutto rischierebbe di essere travolto, a quel punto, da nuovi ricorsi che facciano
valere l’illegittimità derivata.
A che punto è la riforma
Per rendersi conto dei progressi seppur lenti dell’attuazione della riforma occorre consultare il sito della CRUI
(http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2017) dove si
trova l’elenco degli Statuti delle università pubblicati sulla
Gazzetta Ufficiale (aggiornato al 30 luglio 2012) e dei 28
Decreti applicativi della Legge 240/2010 finora comparsi
sulla Gazzetta Ufficiale (28 su 47, ne mancherebbero altri
19).
A prescindere dalle dichiarazioni ministeriali e dalle previsioni degli editorialisti specializzati, il ritardato
procedere dell’attuazione della riforma risalta in modo
lampante da un documento pubblicato dal governo
il 24 agosto scorso, laddove enuncia, nel quadro dell’“Obiettivo Crescita – L’Agenda del Governo”, proprio
i punti rilevanti ancora da mettere a regime (http://www.
lavoce.info/binary/la_voce/documenti/agenda_governo_20120824.1346070883.pdf):
• Riformare i dottorati di ricerca e creare un’interazione stabile tra attività di formazione e attività di
ricerca e sviluppo tecnologico e industriale. (Soltanto “per l’anno accademico 2013-14 ci sarà un
nuovo dottorato», ha annunciato il ministro Profumo il 30-09-12).
• Coordinare le procedure per il conseguimento
dell’abilitazione scientifica nazionale al ruolo di
professore di prima e seconda fascia e definire una
precisa programmazione temporale per le procedure
da avviare nel biennio 2013 – 2014.
• Promuovere metodi trasparenti e oggettivi di valutazione e accreditamento degli Atenei e dei corsi.
• Revisionare i meccanismi di finanziamento al sistema universitario.
Che tutto questo sia ancora da realizzare a quasi
due anni dal varo della riforma può stupire soltanto chi
non ricorda i tempi d’applicazione (e anche la mancata
applicazione totale o parziale) delle precedenti riforme.
D’altronde lo stesso ministro Profumo sembra rassegnato quando dichiara che di riforme “in questi anni ce ne
sono state troppe e non sono state portate a regime” e il
problema principale è la mancanza di tempo dato che è
sua opinione, ha proseguito, che per “una revisione complessiva del sistema occorre un’intera legislatura” (università.it 30-08-2012). Ma che tale rassegnata previsione sia
imputabile alla nostra inguaribile ‘malattia burocratica’,
più che un sospetto resta una sconcertante certezza. Non
si può non collegare questa patologia del sistema alle altre che figurano nelle recenti affermazioni del manager
della nostra industria più importante: “Siamo il Paese in
cui sulle imprese gravano le tasse più alte d’Europa, la
giustizia più lenta, l’elettricità e il gas più cari, la burocrazia più contorta” oltre a “infrastrutture che sono tra le
peggiori d’Europa, pratiche per l’export tra le più difficili,
un costo del credito tra i più elevati, la piaga della corruzione. E siamo ovviamente gli ultimi per produttività”.
Non è altrettanto ovvio per la produttività scientifica, che
pur con scarsi fondi si mantiene mediamente a un ottimo
livello nel confronto con gli altri Paesi europei, ma è certamente vero per la produttività della legislazione e della
burocrazia che intralciano la ricerca e l’università. Come
dimostrano le vicende dell’ultima riforma universitaria.
Prof. Paolo Stefano Marcato
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
OPINIONI
E
COMMENTI
IL DIRITTO ALLO STUDIO
13
UNIVERSITÀ NOTIZIE
“Fermare il declino” è un movimento, pubblicizzato
da alcuni giornali, che nasce nel deserto di idee che sta
attraversando il nostro Paese: si vorrebbero far rivivere
i valori della concorrenza e della meritocrazia, reindirizzando l’Italia verso lo sviluppo economico.
Tra i promotori di “fermare il declino” vi sono alcuni
professori che pur occupando posizioni presso università
USA, hanno fondato qualche anno fa, un periodico pubblicato esclusivamente sul WEB, diretto agli italiani., dal
nome suggestivo “noisefromamerika”. Questo giornale
può essere quindi considerato un po’ l’incubatrice nella
quale si è sviluppata l’idea di un movimento liberale.
Il movimento indica dieci obbiettivi prioritari, e tra
questi vi è quello di “Ridare alla scuola e all’università
il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione
socio-economica delle nuove generazioni”. L’analisi mi
sembra corretta, anche se restituire alle scuole di ogni
grado il ruolo che dovrebbe avere in un Paese che vuol
progredire, appare essere una impresa piuttosto ardua.
E proprio per sottolineare come la scuola abbia fino
ad oggi fallito nella sua missione di ascensore sociale, è
apparso recentemente un articolo su “noisefromamerica” dal titolo: “i redditi delle famiglie degli universitari”.
Come d’abitudine l’articolo è corredato da numerosi dati
(economici) che dimostrano inequivocabilmente che “l’università di massa” attuale è ancora frequentata – come
avveniva cinquanta anni fa - dai figli delle famiglie relativamente più ricche. In questo senso, è fallita l’università “per tutti”: infatti l’idea di rendere accessibile ai più
gli studi superiori abbassando le tasse di iscrizione e di
frequenza si è rivelato il classico “boomerang”. L’elevato
costo dell’università, e quindi del singolo studente, viene sopportato dalla fiscalità generale; le risorse vengono
prelevate anche dai meno abbienti mentre il servizio – la
frequenza all’università – è nei fatti accessibile solo a chi
può permettersi di rinunziare a lavorare per diversi anni,
vivendo in famiglia, o addirittura fuori casa se ha la necessità di trasferirsi. E dato che le tasse universitarie non
rappresentano che una frazione trascurabile delle spese
complessive che è necessario sostenere, è irrilevante il fatto che esse siano contenute, mentre diventa perfettamente
comprensibile che le università siano frequentate dai figli
delle famiglie relativamente più ricche.
Se nessuno ha più dubbi che le basse tasse di frequenza non realizzano la “università per tutti”, ma sono anzi
strumento per perpetuare tra le generazioni le ingiustizie
sociali, le “ricette”, per dare accesso agli studi superiori
ai meno fortunati dal punto di vista economico, variano
di molto.
Le proposte più diffuse si basano su incrementi di
tasse di iscrizione e di frequenza per i più abbienti, dando
nello stesso tempo, sovvenzioni ai meno abbienti.
Io penso che questa logica sia sbagliata, anche se fosse depurata dal fatto – che pesa come un macigno – che
chi decide l’appartenenza ad una certa fascia di reddito
debba (necessariamente) essere la denunzia dei redditi.
Infatti, anche immaginando denunzie di reddito veritiere,
non mi è mai stato chiaro il motivo per il quale lo stesso
servizio debba essere pagato di meno o di più a seconda
del reddito di chi ne usufruisce.
So di avanzare dubbi su una idea cardine della vita
italiana: da noi, il pensiero corrente ha per credo che i
“ricchi” siano più o meno dei mascalzoni, da punire in
ogni circostanza. Quindi, devono pagare più degli altri
ogni cosa; poco ci manca che anche il biglietto degli spettacoli abbia tariffe differenziate a seconda del reddito familiare. Lungo questo filone di pensiero è stato inventato
l’ISEE, (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), che (si legge su Wikipedia) “è uno strumento che
permette di misurare la condizione economica delle famiglie nella Repubblica Italiana. È un indicatore che tiene
conto di reddito, patrimonio (mobiliare e immobiliare) e
delle caratteristiche di un nucleo familiare (per numerosità
e tipologia)”.
L’ISEE è lo strumento universale con il quale bisogna fare i conti per pagare (nella giusta misura?) la retta
di un asilo, il contributo mensa di una scuola, e così per
ogni altro servizio.
Vorrei provare a ragionare al di fuori della logica
perversa che ci opprime ogni giorno. Le tasse sul reddito
sono già “progressive”. Questo significa che chi guadagna
di più paga maggiormente non secondo una proporzione
semplice, come accadrebbe pagando una percentuale fissa, ma paga molto di più, se guadagna tanto. E se si ritiene
l’incremento della tassazione insufficiente, si può sempre
modificare la progressione, fino a renderla soddisfacente.
Stabilita una certa progressione delle tasse, io penso
che i cittadini, ricchi o meno ricchi, abbiano fatto il loro
dovere nei confronti della società. Da quel momento in
poi, tutti dovrebbero essere uguali, ed usufruire di qualsiasi servizio pagando nella stessa misura. Anche perché, non
vedo che cosa vi sia di giusto nel “tassare” in modo differenziato ogni atto della nostra vita: “l’equità” – parola
abusata – va a farsi benedire. Ad esempio, chi ha cinque figli viene tassato cinque volte quando questi frequentano la
scuola, pagando le rette, mentre chi ha un solo figlio paga
una volta. Che ciò sia “equo”, credo vada dimostrato.
Ma in Italia le cose non si svolgono mai in modo
semplice; specialmente quando si tratta di soldi (in ogni
senso) i distinguo diventano infiniti nel numero. Basta
pensare che le istruzioni per compilare il modello IRPEF
constano di centinaia di pagine; agevolazioni ed aggravi si intrecciano in modo inestricabile, ed ogni anno vi
sono sensibili cambiamenti. Ed è facile trovare molti altri
esempi: basta cercare di capire le nuove tasse introdotte
sui conti correnti e sui depositi bancari, od i documenti
(istruzioni, in omaggio alla “trasparenza”, di molte pagine) che le stesse banche inviano ogni anno ai correntisti
per informarli sulle spese alle quali potrebbero andare incontro, a seguito di determinate operazioni.
In sostanza, domina l’idea che prelevando dalle tasche altrui del denaro in modo poco chiaro, l’operazione
risulti meno dolorosa per la vittima del prelievo.
Tornando al nostro argomento principale, cosa fare
per rendere effettivo il “diritto allo studio”? Queste parole, coniate negli anni ’60, hanno in realtà portato a ben
poco. Dopo mezzo secolo si può tentare un bilancio: qualche pasto alle mense a prezzo ridotto; pochissimi alloggi
a prezzi agevolati; borse di studio dall’importo modesto,
il cui numero è in costante diminuzione. In sostanza, i
OPINIONI
E
COMMENTI
14
UNIVERSITÀ NOTIZIE
risultati sono miseri: ce lo dimostra il contenuto dell’articolo al quale abbiamo fatto cenno.
Proviamo ad immaginare che cosa andrebbe fatto
per garantire ai cittadini il “diritto allo studio”. Andrebbe
sgombrato il campo da eventuali equivoci: il “diritto” del
quale si parla non ha attinenze con l’inesistente “diritto”
a conseguire un titolo di studio. Per avere quest’ultimo
è necessario studiare, anche duramente, se la materia da
apprendere è difficile. Quindi: va agevolato solamente chi
ha le doti e la volontà per studiare.
Le tasse elevate potrebbero essere lo strumento per
incentivare e selezionare i “capaci e meritevoli” (come
recita la Costituzione). Mantenersi un anno agli studi,
supponendo che si debba vivere fuori casa, comporta un
costo di una decina di migliaia di euro. Così, collocare il
costo delle tasse di frequenza tra cinquemila e diecimila
euro rappresenterebbe circa metà della spesa complessiva
e questo sembrerebbe a chi scrive ragionevole. Si tratta di
un costo che solo famiglie abbienti potrebbero permettersi: d’altra parte, il denaro raccolto con le rette potrebbe
essere riversato a vantaggio di coloro che percepiscono
borse di studio.
Si potrebbe provvedere a venire incontro a costi poco
sostenibili dai più, con borse di studio per coprire le spese
di mantenimento, e con la esenzione dalle tasse. L’importo delle borse potrebbe essere modulato (o azzerato) in
ragione dell’essere fuori sede, o non in perfetta regola con
gli esami previsti dal corso di studi. Lo stesso dovrebbe
valere per la esenzione dalle tasse; e, per il fine indicato,
potrebbero essere preziosi i CFU.
Le borse di studio, erogate ai meritevoli, senza l’inquinamento del vero o presunto dello scarso reddito familiare, potrebbero anche essere un potente mezzo per
responsabilizzare tutti gli studenti. Nella stessa direzione
opererebbe un consistente aumento delle tasse di frequenza. Si potrebbe poi agevolare lo studio di certe discipline,
aumentando numero e consistenza delle borse, naturalmente a scapito di altri settori.
Purtroppo, parliamo forse di sogni: la cultura dominante coltiva idee molto lontane da quelle qui delineate.
Prof. Rosario Nicoletti
Università Roma La Sapienza
UNIVERSITÀ E INDUSTRIA: L’OSSIMORO
DELLE CONVERGENZE PARALLELE
Chi ha la fortuna di avere un po’ di vita alle spalle si
ricorda di una fase della storia politica del nostro Paese
identificata con l’ossimoro delle “convergenze parallele”. Forse esso può essere applicato anche ai rapporti tra
Università e Industria: mantenere le proprie identità e nel
contempo avere un obiettivo comune.
La crisi che attraversa i paesi occidentali più sviluppati tecnologicamente non consente più dispersioni di risorse o ancor più frizioni tra i due sistemi: il primo che
accusa il secondo di essere tecnologicamente arretrato e
di accontentarsi di figure professionali di basso livello o
viceversa l’industria che accusa l’università di formare
figure più di natura culturale che professionale o comunque di poca attinenza col mercato del lavoro.
Qual è la situazione odierna? Cosa si può fare per
favorire un’interazione proficua? Nel cercare di rispondere a queste domande debbo sin da subito confessare
il mio peccato originale: sono un ingegnere industriale e
pertanto la mia visione sarà sicuramente tipica di questa
latitudine culturale e quasi sicuramente non estrapolabile
alla totalità dei casi. Spero però di fornire uno spunto di
riflessione anche a colleghi di altri settori nonché di attivare un utile contraddittorio con coloro culturalmente
più affini allo scrivente.
Nelle discipline tecnologiche, quali quelle dell’ingegneria industriale, oggi esiste una soddisfacente interazione tra l’industria e l’università, nell’ambito delle cosiddette attività “tradizionali” e “consolidate” quali la
ricerca commissionata, le attività di servizio e l’impiego
dei laureati.
Per esempio, le procedure di legge impongono alle
associazioni industriali di settore di verificare e approvare
i percorsi formativi predisposti dall’università. In molti
atenei sono già oggi attivati dei comitati di riferimento
(steering o stakeholders committee) costituiti da dirigenti
d’industria che indicano le prospettive d’impiego dei vari
indirizzi di studio o le principali lacune formative riscontrate nei laureati. L’attivazione di questi comitati è un fenomeno abbastanza recente, innescato nelle facoltà di ingegneria dal processo di accreditamento dei corsi di studio
promosso dall’agenzia europea EURACE-QUACING1.
Come rilevato da Alma Laurea, l’ingegnere è oggi
forse la figura di laureato il cui ingresso nel mondo del
lavoro avviene nel minor intervallo di tempo dal conseguimento del titolo2. I laureati e i laureati magistrali di
ambito industriale trovano il loro sbocco professionale di
elezione nell’industria o nelle società d’ingegneria, mentre la libera professione è sostanzialmente svolta in modo
marginale. Quest’ultima è invece uno sbocco professionale rilevante per i laureati nell’ambito dell’ingegneria civile.
Indiscutibilmente il laureato magistrale costituisce ancor
oggi il “prodotto di punta” della formazione in ingegneria
industriale. Ciò nonostante, la formazione 3+2 consente
percorsi di non continuità (laurea in un settore e laurea
magistrale in un altro) e mobilità degli studenti tra atenei,
con conseguente formazione più aderente ai profili professionali richiesti. Ciò è stato ben evidenziato nel convegno organizzato dalla Conferenza dei Presidi d’Ingegneria tenutosi a Napoli lo scorso ottobre3.
Anche la gran parte dei dottori di ricerca in ingegneria trova oggi collocazione in industria, grazie al
contributo dei comitati di riferimento che, essendo formati dai rappresentanti delle industrie che sponsorizzano
le borse di studio, orientano le ricerche svolte su argomenti di maggior rilevanza industriale. Ciò ha cambiato
1 Vedi sito web ENAEE (European Network for Accreditation of
Engineering Education), http://www.enaee.eu/
2 Alma Laurea: Condizione occupazionale dei laureati, XIV indagine (2012), http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione10/
3 Conferenza dei Presidi di Ingegneria: Studi di ingegneria a dieci
anni dalla riforma, Napoli 28 ottobre 2011
OPINIONI
E
COMMENTI
similari, che ben conoscendo i propri comparti industriali
di provenienza, possano esaminare i portafogli brevetti
degli atenei e suggerire le aziende potenzialmente interessate. Inoltre, conoscendo le esigenze dei differenti comparti industriali della regione, una tale struttura mista
potrebbe anche indicare su quali linee preferenzialmente
sarebbe utile svolgere delle ricerche. L’idea non è originale, essa è adottata, per esempio, dalla Washington State
University, dove già il germe dell’idea inventiva è valutato
da un comitato formato da ex manager e “venture capitalist” che interagiscono così da subito con l’inventore
aiutandolo ad indirizzare la sua idea verso le applicazioni
potenzialmente più proficue. Un’altra azione potrebbe essere di “push” verso le università premiando un progetto
di trasferimento tecnologico di successo. Ossia dove, da
una ricerca libera nata in università, si sia proceduto prima alla sua protezione brevettuale, trasformandola così
in invenzione, e poi alla sua licenza, meglio se poi tradotta nello sviluppo di un prodotto o di un processo industriale. Questo potrebbe essere un premio per il trasferimento tecnologico. Il premio dovrebbe essere tangibile, o
mero denaro che copra le spese sostenute per il progetto o
qualche cosa di politicamente più efficace. Per esempio al
gruppo di ricerca che risulti vincitore assegnare una dote
per un posto o da ricercatore o di promozione a professore associato. Lo slogan potrebbe essere “la ricerca paga,
fa crescere il territorio e assume personale qualificato nelle università”. Il ricercatore che poi usufruisce di questo
“gettone” dovrebbe fregiarsi di un titolo che richiami a
tutto ciò. Qui credo che gli esperti di comunicazione potrebbero lavorare bene per migliorare questa mia prima
idea. Non circolerebbero soldi ai ricercatori, ma il gruppo
riceverebbe qualche cosa di più prezioso: l’assunzione in
università di un “cervello” già educato al trasferimento
tecnologico e conscio dell’importanza della ricerca applicata. Il tipico ente in grado di promuovere tali premi è
sicuramente di natura regionale. Esso potrebbe mettere
anche delle clausole di “profitto” continuo nel tempo per
evitare che il beneficiario di tale “chair” si sieda sugli allori. Il vantaggio di questo modus operandi è quello di
premiare a cose fatte, quindi gli inventori, i licenziatari,
le imprese, lavorano tutti su di un progetto a cui credono
e non per ottenere un finanziamento “politico”, per poi
lasciar cadere il tutto appena ottenuti i soldi. Debbo constatare amaramente che molti degli incentivi pubblici alla
ricerca e alla collaborazione università-industria fanno
poi questa fine.
Purtroppo si evidenzia chiaramente la rigida separazione esistente tra le due carriere, accademica o industriale, che possono essere intraprese da un laureato.
Anche in ingegneria sono rari i passaggi dall’industria
all’accademia, eccetto nei rari casi in cui siano finanziate dall’industria delle cattedre convenzionate su specifici argomenti d’interesse dell’industria stessa. Qui si
registra un passaggio, generalmente definitivo, di un
ricercatore o un dirigente industriale ad una posizione
accademica, di solito da professore di prima o seconda
fascia. Sull’efficacia odierna di questa pratica ho un giudizio abbastanza neutro. In alcuni casi l’università si è
arricchita di valenti figure professionali, in altri il risultato è stato quello triste di cimitero degli elefanti. Nella
quotidianità, solo alcuni dirigenti aziendali svolgono
15
UNIVERSITÀ NOTIZIE
notevolmente la natura del dottorato di ricerca, un tempo
dedicato unicamente alla formazione della docenza accademica. Occorre però precisare che nella maggioranza dei
casi le borse di studio sono finanziate dai gruppi industriali di maggior dimensione. La piccola e media impresa
raramente ha orizzonti di ricerca che coincidono con la
durata triennale di un ciclo di dottorato.
Almeno nelle regioni che presentano un tessuto
industriale ben consolidato e florido, esiste una soddisfacente mole di ricerca commissionata dall’industria
all’università, che nell’ambito sempre delle ingegnerie
industriali, eccede per importo quella finanziata da fondi pubblici.
L’industria è il naturale acquirente della proprietà
intellettuale generata dalla ricerca universitaria libera.
Molti atenei si sono già dotati o si stanno dotando di
uffici per il trasferimento tecnologico (Technology Transfer Offices) per facilitare la copertura brevettuale delle
ricerche svolte e la loro successiva commercializzazione.
Queste attività richiedono del personale specializzato ad
esse dedicato, le cui capacità non necessariamente coincidono con quelle del docente universitario. Oggi, dal
mio punto di vista, il trasferimento tecnologico dall’università all’industria funziona bene nell’ambito di quella
che è la cosiddetta “ricerca commissionata”, ossia quella
che un’impresa commissiona all’università nell’ambito di
uno specifico progetto. Nella sostanza, al momento, le
università sanno fare principalmente innovazione di processo, mentre le imprese hanno bisogno di innovazione
di prodotto. L’imprenditore, conosce il mercato, vede le
esigenze, immagina che la soluzione ad un certo problema
possa avere un’opportunità commerciale. Delega all’università come raggiungere quegli obiettivi, individuando le
soluzioni di dettaglio. Nei contratti che vengono all’uopo
stipulati sono in questo caso già stabiliti tutti gli accordi
per la difesa del know-how sviluppato, della sua proprietà
e di come esso sarà trasferito. Non tutti i ricercatori accettano volentieri queste norme, ma si tratta per lo più di
un atteggiamento ideologico, fortunatamente sempre più
numericamente limitato. Nella fattispecie, queste norme
sono forse un po’ troppo a favore dell’impresa, con premi
al contributo dell’inventore piuttosto modesti, in particolare quando la ricerca è commissionata da grandi gruppi
industriali. Il punto debole di questo modello è quello del
contatto tra ricercatore e industria, nella gran parte dei
casi basato sui rapporti personali. Più difficile è l’operazione di trasferimento quando l’innovazione è frutto di
“ricerca libera”, ossia autonomamente svolta dal ricercatore seguendo una sua idea. In questo caso i “Technology
Transfer Office” delle università spesso mostrano tutti i
propri limiti. Le probabilità di licenziare il brevetto sono
il più delle volte strettamente legate alle “conoscenze”
dell’inventore che, immaginando le applicazioni, pensa
anche alle industrie alle quali possa servire. L’attività di
“push” dei TTO è oggi sostanzialmente di tipo burocratico, vedi mandare delle lettere circolari, piuttosto che di
reale strategia di licenza. Ciò è dovuto al ridotto organico di tali uffici e al fatto che le competenze degli addetti
sono più di tipo legale-gestionale che di conoscenza dei
diversi comparti industriali. Per il potenziamento del trasferimento tecnologico, le associazioni industriali potrebbero integrare i TTO con dei professionisti, ex dirigenti e
OPINIONI
E
COMMENTI
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
dei cicli di lezioni, peraltro seguitissime dagli studenti,
su argomenti nei quali spesso in accademia mancano le
competenze. Questa pratica dovrebbe essere incentivata,
anche ricorrendo allo strumento introdotto dalla legge
240/2010 degli incarichi per chiara fama. Spesso però è
difficile che un dirigente industriale possa conciliare un
incarico accademico con i suoi impegni primari. Per contro, raramente il personale docente sceglie di trascorrere
un periodo più o meno lungo, configurabile quale anno
sabbatico, in un’azienda, preferendo una collocazione in
altro ateneo, vista quest’ultima come più proficua per la
propria carriera. Il personale docente spesso non vede di
buon occhio il cimentarsi con le quotidianità della vita
aziendale, ancorché in funzioni di ricerca. In altri paesi
ciò non avviene, basti pensare ad atenei tipo TU Delft,
dove è abbastanza facile arrivare alle posizioni di professore associato tramite solamente la carriera accademica.
Le posizioni di professore ordinario sono riservate però
solo a coloro che nel contempo abbiano operato anche
in posizioni di dirigente industriale. Quindi i vertici delle posizioni accademiche sono riservati a coloro che abbiano ben operato nei due sistemi. Purtroppo, in Italia,
limitazioni di natura sindacale ostacolano tali mobilità.
Cosa possiamo fare per incrementare la compenetrazione dei due sistemi?
Sicuramente, un ateneo che vuol dirsi moderno, oggi
deve conoscere molto bene il territorio che lo circonda e
deve avere relazioni stabili con le associazioni industriali
e le camere di commercio. Quello che è particolarmente
rilevante è conoscere quali siano le possibilità occupazionali dei propri laureati nel proprio bacino d’utenza.
L’approccio deve essere umile, non si può predicare una
industrializzazione forzata in una zona a prominente vocazione agricola o turistica solo perché si vuole aprire un
corso di studi in ingegneria. Ogni regione ha le sue specificità che molto spesso sono un distillato di storia patria,
è un’operazione velleitaria cercare di introdurre elementi
di discontinuità senza disporre di un ampio consenso e di
una notevole dose di capitali.
Per conoscerci meglio, le associazioni industriali o le
camere di commercio potrebbero, per esempio, organizzare delle presentazioni di distretto, indicando settore per
settore quali problematiche dovrebbero essere affrontate
dalla ricerca universitaria. Gli incontri dovrebbero essere
aperti a tutti gli interessati, ma svolgersi già sotto delle
ben definite regole di riservatezza. Ciò è particolarmente
importante per portare a questi tavoli la piccola e media
impresa che spesso è diffidente nei contatti con l’università, non a torto, considerata un po’ troppo ciarliera. Nel
contempo, queste regole difendono anche il ricercatore
da qualche industriale un po’ troppo “rampante” che
una volta sentita un’idea se ne appropri senza riconoscere
nulla ai proponenti originari. Nel mondo, questo modus
operandi, è da tempo attivo in Giappone, dove esistono
delle ricerche proposte dal comparto industriale che sono
accolte, in sfida tra di loro, dai ricercatori. Ciò è addirittura gestito da un portale web4.
4
http://www.jst.go.jp/tt/EN/univ-ip/matching.html
Un altro intervento potrebbe essere il farsi promotore di punti comuni d’incontro tra industria e università in centri per la grande strumentazione. Se le strumentazioni oggi in essere nelle università sono impiegate
per più del 30% del tempo è un miracolo. Vista la loro
rapida obsolescenza, ciò costituisce un enorme spreco
di denaro oggi non più tollerabile. Molte apparecchiature sono presenti inutilmente su più sedi, spesso con
tecnici loro dedicati solo parzialmente. Ho nella testa il
Nanotechnology Center sviluppato congiuntamente da
Harward e dal Massachusetts Institute of Technology.
Nessuno può negare che questi due atenei siano sempre
e da sempre in forte concorrenza. Però, una volta saputo
che Harward stava promuovendo questo centro il MIT
ne è diventato socio, unendo le forze per fare un centro
veramente all’avanguardia e dove soprattutto le apparecchiature in dotazione fossero usate intensivamente. Il
centro è retto da un manager non universitario che affitta gli spazi e le apparecchiature non solo alle due università, ma anche a ricercatori di altri atenei e soprattutto di
industrie. Il centro diventa così un punto d’aggregazione
scientifica di persone che lavorano a contatto di gomito
su problemi diversi. Il contatto informale tra ricercatori
di diversa estrazione è uno dei migliori catalizzatori del
trasferimento tecnologico. Il limite, forse, nella situazione italiana, è legato al fatto che le nostre industrie fanno
poca ricerca e che forse non hanno una struttura tale da
poter dislocare un loro dipendente presso una struttura
siffatta. Infine, è veramente importante che il manager
gestore non provenga dagli atenei e che tutto il personale
assunto sia soggetto a contratti di lavoro di tipo privato, altrimenti sarà impossibile gestirlo su orari “round
the clock”. Le università fornirebbero solo il comitato
di selezione dei progetti che distribuisce l’allocazione
dei tempi d’uso della strumentazione. Ragionevolmente,
il nostro Paese potrebbe essere dotato di non più di tre
centri di questo tipo.
Per accorciare le distanze tra università e industria
potrebbero essere istituzionalizzati dei “Technology
Tour”, dove un gruppo di imprenditori, tipicamente di
aziende medio piccole e omogeneamente interessate a determinati settori tecnologici (vedi l’automazione di processo, le energie rinnovabili, la chimica verde e sostenibile,
le lavorazioni metallurgiche, e così via) è accompagnato
da dei docenti universitari alla visita di laboratori universitari o di industrie localizzate in distretti tecnologici di
punta. Durante queste visite i docenti aiutano a far capire
le tecnologie e a far porre le giuste domande chiarificatrici. Alla fine ci si conosce molto meglio e le distanze si
riducono notevolmente, anche tenendo conto del clima
giovale che di solito s’instaura tra i partecipanti. Anche
questo l’ho sperimentato personalmente in alcuni tour
organizzati dalla Camera di Commercio di Milano sotto
l’egida della Regione Lombardia.
Nella sostanza il nostro impegno forse dovrebbe essere focalizzato sul più umile “aiutare a mantenere il lavoro che c’è” che sul più ambizioso “inventare un lavoro
che non c’è”. Può sembrare una scelta di basso profilo,
ma come la termodinamica insegna i processi a basso
gradiente sono sempre più controllabili e soprattutto più
prevedibili. Lo sviluppo di reti di aziende medio piccole
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Prof. Maurizio Masi
Politecnico di Milano
Il Dipartimento Riformato:
eccellente, cattivo o di
compromesso?
Dopo l’ultima riforma universitaria della storia italiana (legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010, entrata in vigore il 29 gennaio 2011), le università hanno preso atto di
dover abolire le Facoltà e organizzarsi in Dipartimenti.
Ripensare una struttura universitaria unica, alla quale affidare ricerca e didattica, è indubbiamente un’occasione
progettuale di notevole portata, perché rende possibile
la costruzione di unità più piccole delle vecchie Facoltà,
ma più compatte e più coerenti, al fine di raggiungere gli
obiettivi di eccellenza scientifica, di qualità didattica e di
efficienza amministrativa, con relativa riduzione dei costi
e degli sprechi.
Come si costruiranno i dipartimenti, dipenderà, ovviamente, dal modo in cui essi saranno definiti nei diversi
statuti delle singole università, ferma restando la definizione dei compiti previsti dalla legge generale, prima ricordata. Se saranno ammessi dei Dipartimenti grandissimi, che sottintendono la prosecuzione mascherata delle
vecchie facoltà, allora si avranno le solite trasformazioni
all’italiana, che tutto modificano, ma nulla cambiano veramente. Se invece si opererà con saggezza, spirito innovatore e la necessaria dose di autocritica, allora l’università non potrà che avvantaggiarsene, professori e studenti
in primo luogo, e il paese di riflesso.
Per evitare di rimanere nel grigio di ogni teoria e nel
bianco di ogni attesa messianica, si farà qui l’analisi delle
possibilità che offre la concomitanza della legge universitaria e del nuovo statuto dell’Università di Trento. Ciò,
non tanto perché è l’istituzione alla quale appartengo,
ma perché è quella che, nel recente passaggio dallo Stato
alla Provincia Autonoma di Trento, ha elaborato lo statuto che assegna ogni potere di decisione finale all’ente
politico esterno, non senza aver creato forti tensioni con
la maggioranza dei docenti, con gli studenti e con il personale amministrativo.1 In questo caso il Dipartimento
dovrebbe funzionare al meglio, se si accetta la tesi, invero nient’affatto ovvia, secondo la quale ci sarebbe un
conflitto d’interesse nefasto, se i professori decidono anche sullo sviluppo delle proprie carriere. Che poi questo
lo possano decider meglio i politici locali, non staremo
qui nemmeno a discuterlo, perché assolutamente risibile
come ragionamento.
L’articolo 24 dello Statuto dell’Università di Trento,
non più statale, ma provincializzata, recita al primo comma: Il Dipartimento opera per la realizzazione di obiettivi
scientifici e didattici di ampio respiro disciplinare ed è caratterizzato da un adeguato livello di omogeneità di tematiche e metodi adottati.
Un ampio respiro disciplinare è chiaramente una metafora ripresa dal politichese imperante, che ha bisogno
di essere tradotta in termini concreti. Essa non significa
niente in senso stretto, avendo ogni disciplina universitaria una propria identità, dettata dalla sua tradizione scientifica, la quale è, più o meno, antica, e non cambia perciò
il suo respiro, ampio o corto che sia, soltanto perché glielo
impone un nuovo statuto. Identità e storia di una disciplina universitaria dipendono, inoltre, dall’oggetto della sua
ricerca, il quale si modifica nel corso del tempo, in rapporto allo sviluppo delle conoscenze specifiche e di quelle generali. Se vogliamo tradurre al meglio la definizione sopra
citata, diremo che il Dipartimento persegue obiettivi di
eccellenza, ricorrendo qui a un termine di moda, oppure,
1 Cfr. I. M. Battafarano: Provincializzare l’università? Riflessioni critiche sul modello trentino. In: Università – Notizie. Rivista
dell’USPUR 32 (2012) n. 1, p. 20-22. Il testo finale dello Statuto
dell’Università di Trento provincializzata, da me lì esaminato
nella sua prima bozza, è stato approvato infine con piccoli cambiamenti di pochissimo rilievo.
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
forse rappresenta un modello di sviluppo più radicato sul
territorio e che necessita di un maggior numero di impiegati qualificati che non una grossa multinazionale che rapidamente s’insedia e altrettanto rapidamente abbandona
il sito produttivo originariamente scelto.
In definitiva il mio consiglio ai colleghi è di tralasciare un po’ le nostre beghe universitarie e entrare in contatto il più possibile con il territorio che ci circonda. Solo
così si capisce quali possano essere le figure professionali
che sono necessarie e soprattutto la loro evoluzione dinamica. E’ inutile continuare a produrre figure di laureato
che non abbiano poi reali prospettive d’impiego. Spesso
anche le industrie non sanno di che cosa hanno bisogno.
Iniziare a parlarsi è fondamentale per capire le esigenze
reciproche. Basti pensare che sovente al cittadino comune
non è affatto chiara quale sia l’organizzazione di un ateneo: professore, ricercatore o dottorando forse si differenziano, ahimè per l’età, preside o direttore di dipartimento
sono figure oscure.
A fronte di tutto ciò che ruolo può avere un sindacato di docenti universitari quale l’USPUR che apparentemente si occupa solo delle cose dell’università?
Sicuramente quello di favorire lo scambio di esperienze
tra colleghi che condividano l’essenza meritocratica del
ruolo docente così da poter favorire un contraddittorio
non influenzato da barriere ideologiche. Il lavoro già fatto
da qualcuno può essere efficacemente discusso, criticato,
migliorato e, nel contempo condiviso ad altre situazioni
territoriali. Per persone che sono consce del valore della
formazione e della fatica che si fa per acquisire le conoscenze il ripartire ogni volta da capo sarebbe l’atteggiamento più stupido possibile.
Per concludere, credo che siano finiti i tempi nei quali ci siamo pianti addosso, non è più possibile chiedere
al governo del paese di darci finanziamenti e sussidi, è
il tempo di iniziare ad essere propulsivi. Siamo all’inizio
di un nuovo secolo, da sempre l’arco di tempo in cui germinano le idee (purtroppo sia buone che cattive) che ne
indirizzeranno il proseguire.
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
se si vuole rimanere nella tradizione, che gli obiettivi sono
l’ampliamento della conoscenza scientifica.
Molto più interessante di questa prima parte dell’articolo sui compiti del Dipartimento, è la seconda, nella
quale si parla di adeguato livello di omogeneità di tematiche e metodi adottati. In questa formulazione l’omogeneità è senza dubbio il concetto fondamentale, perché
presuppone che i dipartimenti non siano un aggregato
di cattedre varie, con professori che si occupano di cose
diverse, per temi e metodi. Un archeologo ha poco a che
vedere con un professore di lingue straniere: il primo cerca e studia reperti, l’altro insegna la verbalità della comunicazione, orale o scritta, di un idioma diverso da quello
nazionale. Finora convivevano ambedue nella Facoltà di
Lettere e Filosofia di antica memoria. Si suppone che una
separazione in due diversi dipartimenti, uno, poniamo, di
Lingue e Linguaggi, e l’altro di Beni Culturali, ponga le
premesse per una migliore organizzazione della didattica
e della ricerca.
Ciò posto, si presenta il problema dell’omogeneità
nella qualità della ricerca, non essendo i docenti di discipline affini, né tutti scientificamente produttivi alla stessa
maniera e allo stesso livello, né tutti didatticamente in grado di trasmettere al meglio i risultati raggiunti dalla ricerca internazionale in una specifica disciplina. Potrebbe
persino esserci un ottimo ricercatore ma mediocre divulgatore didattico, anche se questo ci appare, dopo un’esperienza ormai quarantennale, piuttosto un’eccezione che
non una tendenza diffusa. Rimarrà pertanto da parte, nel
corso di questa riflessione.
Il problema prima sollevato, che chiameremo per
comodità disomogeneità della qualità (scientifica e/o didattica) a fronte di una omogeneità disciplinare e metodologica, come richiesto dal primo articolo, sopra citato,
si presenta come questione implicita, ma irrisolta, nella
formulazione degli articoli successivi, nei quali si legge:
L’istituzione di un Dipartimento è deliberata dal Senato accademico e approvata dal Consiglio di amministrazione, sulla base di un progetto didattico e scientifico proposto
da almeno 35 professori nonché ricercatori di ruolo e ricercatori a tempo determinato di cui all’art. 24, comma 3, lettera b) della L. 240/2010, i quali si impegnano a confluire
nel costituendo Dipartimento.
Poiché l’approvazione finale è riservata al Consiglio
di amministrazione, che è di nomina politica, si suppone
che esso valuterà soltanto le compatibilità economiche (o
anche le strategie di politica locale?) di quanto deliberato
dal Senato accademico, che, a Trento, non è più costituito
dai Presidi di Facoltà, ma da membri nominati in altra
forma, nel quale il Rettore ha un enorme potere discrezionale, avendovi nominato la metà dei membri di suo
gradimento. Pur volendo ammettere che tutto si svolga
al meglio in questo processo decisionale, non si può far
a meno di avanzare qualche riflessione critica non tanto
sul numero di 35 membri, necessari a costituire un dipartimento, quanto piuttosto sulla flessibilità di tale numero,
nel corso del tempo, a causa di pensionamenti e trasferimenti. Questa flessibilità è regolata dall’articolo successivo, il quale recita:
In caso di riduzioni dell’organico di un Dipartimento
sotto la soglia delle 35 unità, il Senato accademico valuta
le iniziative da adottare per assicurare al Dipartimento
stesso la possibilità di svolgere adeguatamente i suoi compiti istituzionali didattici e scientifici. Qualora dopo due
anni, nonostante l’adozione di tali iniziative, il Senato
accademico accerti il perdurare della situazione di inadeguatezza della struttura, ne propone la disattivazione al
Consiglio di amministrazione.
Chiunque capisce che ogni dipartimento vivrà sotto
il ricatto del tempo che scorre, del trasferimento dei colleghi ad altra università e degli affetti umani, troppo umani,
come li chiamava Friedrich Nietzsche, ovvero di rivalità,
invidie, concorrenza, antipatie personali e tutto quanto si
può constatare in qualsiasi luogo di lavoro, di preghiera
o di divertimento. Se un gruppo, piccolo o grande, può
chiedere il passaggio ad altro dipartimento oppure chieder di formarne uno ex novo, mettendo in crisi il dipartimento di uscita, perché fa cadere il numero minimo di 35,
si deve supporre che il Senato accademico rifiuterà ogni
soluzione di questo tipo, imponendo la convivenza forzata. Fino a che punto di conflittualità? Fino a rischiare che
la litigiosità interna impedisca di raggiungere gli obiettivi
di eccellenza scientifica e didattica, previsti dallo statuto?
La questione è meno teorica di quanto non appaia
sulla carta, perché si parte dalla premessa che i 35 fondatori, aggregatisi volontariamente la prima volta, lo
abbiano fatto scegliendosi sulla base di un’omogeneità
disciplinare, che fosse anche sia scientificamente alta sia
didatticamente rilevante. E se ciò non avvenisse più, per
indebolimento del gruppo a causa di alcuni dei suoi membri? Che succede allora? Il gruppo di eccellenti dovrebbe
poter espellere i “giocatori” divenuti pigri o stanchi, cercandosene altri più attivi e originali. Correrebbe però il
rischio di non mantenere più il numero minimo di 35, per
mancanza di fondi destinati al reclutamento esterno.
Altri due punti sono un impedimento alla costituzione e mantenimento di un dipartimento di eccellenza:
la dimensione didattica e i membri forzosi ovvero quelli
imposti dall’esterno. Tra i compiti del dipartimento c’è
anche quello di organizzare la didattica, come recita l’articolo che definisce i requisiti minimi di ogni dipartimento
oltre al numero di 35 membri:
In ogni Dipartimento sono attivati almeno un corso
di laurea di primo e uno di secondo livello, oppure un
corso di laurea a ciclo unico; il Dipartimento cura altresì la gestione o la partecipazione ad almeno un corso di
dottorato di ricerca.
Ammettendo che gli studenti si riducano di numero
per le ragioni più diverse, non necessariamente legate alla
qualità della didattica, ma semplicemente per questioni
pratiche legate al calo delle nascite, ai cicli economici o
all’ampliamento dell’offerta didattica in sedi universitarie
limitrofe. Questo risultato negativo potrebbe essere determinante nella valutazione complessiva del dipartimento,
da parte del Senato accademico e del Consiglio di amministrazione. Inoltre, essendo il dipartimento obbligato
a fornire una determinata attività didattica, sarà necessario che i 35 fondatori di dipartimento abbiano tra le
proprie fila almeno i docenti necessari a coprire le materie principali dei rispettivi corsi di laurea, altrimenti non
verrebbero riconosciuti come dipartimento dal Senato.
Al raggiungimento di tale scopo i 35 fondatori dovranno
perciò, già in sede progettuale, sacrificare tutti i loro severi principi di eccellenza, accontentandosi di arruolare
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niente fosse, è molto peggio, perché ciò non garantisce alcun progresso reale, anche se lo statuto fosse il più nuovo,
la riforma la migliore possibile e il potere politico locale, tanto illuminato, come mai lo fu prima, nella gestione
dell’accademia.
Prof. Italo Michele Battafarano
[email protected]
Università di Trento
UN PROGRAMMA DI RIFORMA
DELL’UNIVERSITÀ
Ho già avuto occasione di menzionare “Fermare il
Declino”, movimento che è nato nella redazione e tra i
collaboratori di un giornale pubblicato sul WEB, Noisefromamerika. In data 12 Ottobre u.s., sullo stesso giornale è apparso un corposo scritto dall’ambizioso titolo:
“Programma riforma università”, a cura della redazione.
Segue la dicitura: “Questo il programma per l’università
da noi elaborato che stiamo per proporre a Fermare il
Declino, aperto ai vostri commenti”.
Il “programma” occupa diverse pagine, ed è molto
dettagliato: dopo una introduzione di carattere generale,
nella quale si fa una analisi dei problemi universitari, e si
tracciano le linee generali sulle quali muoversi, in tre diversi successivi capitoli vengono indicati i provvedimenti
auspicabili, divisi per scadenze temporali.
Mi sono addentrato nello studio di questo programma e qui di seguito riporto le mie prime considerazioni.
La prima, di carattere generale, è la seguente: gli
estensori del programma non sembra abbiano vissuto
per esperienza diretta la realtà dell’università italiana, ed
hanno una conoscenza lacunosa dei problemi. Ad esempio, tra gli “interventi di breve periodo”, è citata la necessità “di ridurre drasticamente gli stipendi dei docenti che
svolgono una libera professione (medici, avvocati etc.). Il
taglio dovrebbe essere in teoria proporzionale al tempo
che la libera professione sottrae all’attività universitaria”.
Io credo che questo argomento sia tra quelli che ha suscitato i più accesi dibattiti negli ultimi decenni. Esordire
con questa frase - che non è chiaro se è formata nell’ignoranza della attuale situazione - mi sembra indicativo sulla
poco vissuta conoscenza dei problemi.
Ma desidero addentrarmi nelle varie proposte, ritenendo molte di esse interessanti, e comincerò col considerare la parte dedicata a tracciare linee generali di
tendenza.
Qui, al punto b) è detto: “riteniamo inevitabile una
diversificazione del sistema universitario, con un decentramento delle lauree di primo livello in college locali ed
una concentrazione dell’insegnamento a livello di dottorato di ricerca e della ricerca in un numero relativamente
ridotto di sedi”. Questa è molto di più che una semplice
frase, ma costituisce - ad avviso di chi scrive - l’obbiettivo ultimo di qualsiasi riforma seria dell’università; vorrei
soffermarmi su questo punto.
19
UNIVERSITÀ NOTIZIE
chiunque possa far numero o coprire un insegnamento
fondamentale, anche se la qualità della sua produzione
scientifica è divenuta col tempo mediocre, discontinua e
ripetitiva. L’eccellenza del progetto iniziale incomincia
così, fin dall’inizio, a diradarsi, inficiando la possibilità di
raggiungere la qualità più alta.
I membri forzosi, imposti dal Senato, costituiscono
la vera mina vagante del migliore dei progetti dipartimentali per due motivi:
a)perché ogni professore o ricercatore non può restare fuori da un dipartimento, né per sua volontà
né perché ignorato dai fondatori di dipartimenti
affini alla sua disciplina, essendoci un successivo
articolo (n. 46) che prevede l’assegnazione d’autorità di ogni docente a un dipartimento.
b)
perché, in caso di scioglimento di un dipartimento per riduzione di numero o per mancato
raggiungimento degli obiettivi d’eccellenza, i
membri di quel dipartimento saranno assegnati
ad altre strutture accademiche di Ateneo. Se andranno in altri dipartimenti, ne modificheranno
l’omogeneità, mettendolo in crisi nel raggiungimento degli obiettivi di eccellenza.
A conclusione dell’analisi emerge che per il Dipartimento Riformato Doppiamente – dalla riforma Gelmini
e dalla Provincializzazione Trentina – ci sono le premesse
per almeno tre soluzioni:
a)costruire dipartimenti di alta qualità scientifica e
didattica;
b)essere costretti a dover valutare l’ipotesi di costituire un bad department, nel quale aggregare i
docenti che fossero diventati improduttivi scientificamente e svogliati nella didattica, se ci si propone di perseguire un severo programma di efficienza ed eccellenza; in questo caso però, a parte
tutte le altre obiezioni, sarà da mettere in conto
anche il pericolo di demotivare definitivamente
chi si sente ufficialmente esiliato e marginalizzato
nell’istituzione, anche agli occhi degli studenti e
del personale amministrativo;
c)perseguire una soluzione di compromesso, continuando a tenere insieme, ciò che è disomogeneo
per qualità e impegno.
Se si volesse davvero tentare una strada nuova, si dovrebbe rischiare la più ampia discrezionalità dei numeri di
un dipartimento, anche fino al minimo di 20, a condizione che i risultati scientifici, attestati in pubblicazioni e/o
brevetti siano elevati, continui e internazionalmente riconosciuti, e che i risultati didattici siano altrettanto elevati, indipendentemente dal numero degli iscritti, visto che
un alto numero degli stessi lo si raggiunge oggi piuttosto
facilmente con programmi d’insegnamento altisonanti,
poca verifica in sede d’esame e voti altissimi al momento
della laurea.
Se poi l’università italiana volesse cambiare rotta per
davvero, facendo la dovuta autocritica, potrebbe forse
trovare una soluzione saggia e praticabile che, evitando
gli eccessi opposti di severità e di lassismo, permetta, di
correggere i tanti errori del passato, difficili da negare o
minimizzare. Prendere atto che ci furono e ci sono ancora,
oltre alle colpe esterne, anche colpe interne all’istituzione,
è processo difficile e doloroso. Continuare però come se
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
Nel percorso intrapreso negli anni ‘60 - il passaggio
da una università di élite ad una di massa - si è scelta,
ambiziosamente e senza valutarne le implicazioni, la strada di offrire a tutti la stessa formazione superiore. Di qui
la proliferazione delle università e poi addirittura delle
sedi “distaccate”, tra loro “uguali” (o presunte tali) essendo soggette alle stesse leggi, e popolate da studenti non
selezionati e da docenti reclutati nello stesso modo. La
perversa idea di dare la stessa istruzione (ciò forse in relazione ad un male inteso concetto di democrazia) a tutti
si è riverberata nelle scuole medie superiori. Gli Istituti
Tecnici, una volta fiore all’occhiello della istruzione professionale, hanno diminuito le ore spese nei laboratori e
sono diventati parodie dei Licei classici e scientifici: questo è quanto si deduce dalla lettura di un rapporto della
Commissione Bertagna, voluta, all’epoca, dal Ministro
Moratti. E non vi è ragione per dubitarne, viste le conseguenze che, a distanza di molti anni, stiamo verificando: infatti, gli errori nel campo dell’istruzione (così come
stiamo verificando in altri settori chiave di un Paese) si
scontano dopo molti anni.
Abbiamo oggi una massa di giovani sbandati, che
hanno fatto degli studi molto superficiali, e che però disprezzano il lavoro “manuale” o “artigianale”, contrapposto al lavoro “intellettuale”. Genitori che auspicano
per i figli il “pezzo di carta”, viatico per un “posto” dietro
una scrivania, più o meno retribuito.
Così è difficile trovare meccanici, tornitori, falegnami, ed i pochi, preziosi artigiani sono in gran parte vecchi “ad esaurimento”, non avendo personale giovane in
grado di succedere loro nel lavoro. Di contro, una massa
di giovani disoccupati, molti dei quali non cercano più
nemmeno un lavoro.
Parallelamente, le università sono appesantite da una
massa di studenti in maggioranza scarsamente formati,
ed inadatti al tipo di studio che viene proposto. E’ quindi patetica l’affermazione semplicisticamente riportata al
punto c) (seguente al b), sopra menzionato) con la quale
si richiama la necessità di aumentare il numero degli studenti e di abbreviare i tempi per conseguire il titolo accademico. Anche se è un obbiettivo altamente desiderabile,
esso è particolarmente lontano, e difficilmente può essere
preso in considerazione nella realtà attuale.
Il lamento sulla durata degli studi e la scarsità dei
laureati è una litania che sentiamo ripetere da più di un
decennio, ed ogni tentativo di migliorare la situazione è
stato frustrato dai risultati. Oggi osserviamo addirittura
una inversione di tendenza, la diminuzione delle matricole universitarie.
Le cause di quel che accade sono molte e provenienti
da lontano. A puro fine di esemplificazione, proverò ad
enumerarne alcune:
- le scuole medie superiori sono carenti, e non operano orientamento e selezione.
- molti studenti non hanno la vocazione per il tipo
di insegnamento impartito nelle università, che è (o
dovrebbe essere) teorico-formativo.
- la didattica universitaria è particolarmente inefficace; si intrecciano consuetudini, mancanza di incentivi per i docenti, strutture ed (dis)organizzazione.
- molti studenti hanno scarsi incentivi al conseguimento del titolo di studio.
Ho solo menzionato quello che viene immediatamente alla mente: l’elenco è sicuramente molto più lungo,
ed illudersi che la situazione possa cambiare senza rimuovere le molteplici cause - rivoluzionando (quanto meno) il
sistema dell’istruzione, dalla scuola media alle università
- è pura utopia.
Vorrei concludere osservando che i due punti menzionati nel documento - ai quali viene data poca enfasi sono tra loro strettamente collegati. Un maggior numero
di studenti che chiamiamo per comodità “universitari”, è
compatibile esclusivamente con l’esistenza di scuole superiori che non siano “orientate alla ricerca”. Lo stesso vale
per un abbreviazione dei tempi nei quali si può conseguire
la “laurea”: oltre ad un miglioramento nella qualità didattica è essenziale che gli allievi siano ragionevolmente
motivati ed abbiano una preparazione adatta al tipo di
studio che viene proposto.
Le università italiane sono cresciute nella dimensione e nel numero mantenendo (per quanto possibile, o almeno nelle intenzioni) la vocazione originaria, tipica delle università di élites. Docenti formati e selezionati nella
ricerca, insegnamento lontano dalle esigenze del singolo
studente, poco tempo dedicato alle esercitazioni ed agli
aspetti pratici, e ad i colloqui con gli studenti.
In altre parole non si è voluto (o forse neanche percepito) quello che è il principale nodo da sciogliere per dare
un indirizzo all’insegnamento superiore: se l’insegnamento deve essere orientato essenzialmente a preparare quadri per il lavoro, o produrre e diffondere la cultura necessaria a formare una classe dirigente.
Nei paesi avanzati il dilemma è risolto con l’istituzione di scuole superiori tecniche e professionali, che
operano in parallelo alle università. Negli USA, paese al
quale è d’uso riferirsi, le migliaia di università sono per
la maggior parte modeste scuole professionali, altre sono
volte ad approfondire la cultura generale, senza avere la
pretesa di preparare alla ricerca. Le pochissime, prestigiose università, che si trovano sempre nei primi posti delle
classifiche mondiali sono quelle orientate alla ricerca, ed
in esse si forma la classe dirigente del Paese. Esse inoltre
accettano solo studenti altamente motivati e con una eccellente preparazione.
Paragonare queste università con quelle del nostro
Paese, università che si pretende siano “tuttofare”, capaci
cioè di insegnare un mestiere nei corsi triennali e nello
stesso tempo formare alla ricerca attraverso i corsi di dottorato, è semplicemente una sciocchezza, che indica una
tragica scarsezza di idee e di conoscenza dei problemi: la
crisi nella quale versa l’università italiana è il risultato
della povertà di idee della classe politica del Paese.
E per tornare all’argomento principale, cosa fare per
una riforma dell’università, anticiperò che molte proposte tra quelle elencate sono ragionevoli. Ma, guardando
queste nel loro insieme, non si può non osservare uno stridente contrasto tra proposte che rafforzano l’autonomia
e l’assoluta mancanza di un quadro che renda responsabile l’autonomia stessa. Questi aspetti verranno considerati
in un successivo articolo.
Prof. Rosario Nicoletti
Università Roma La Sapienza
USPUR
PER I
COLLEGHI
L’INTELLIGENZA EMOTIVA
DEI COMPUTER
Prof. Aldo Bardusco
Università di Milano Bicocca
LE PENSIONI INPS NEL 2011
Parliamo della situazione delle pensioni e dei pensionati
in Italia.
Più di un pensionato su due nel 2011 ha percepito
dall’I N P S (da uno o più trattamenti sommati) un assegno mensile lordo inferiore a mille euro. Le prestazioni
pensionistiche I N P S in essere nel 2011 (comprensive
delle pensioni I N P D A P a seguito dell’accorpamento dei due Enti previdenziali effettuato del 2010) complessivamente, sono state oltre 18,3 milioni. Esse presentano un lieve incremento (più 0,2%) rispetto all’anno
precedente.
Le nuove pensioni sorte nel corso del 2011 sono
state circa 964.000 (meno 14,5% rispetto al 2010). Il
21
UNIVERSITÀ NOTIZIE
1. Il neurologo portoghese Antonio Damasio teorizzò una ventina di anni or sono il nuovo concetto di
“fare scienza” comprendendo anche quelle emozioni che
in passato venivano ritenute soltanto “irrazionali”. Una
sua pubblicazione uscì nel 1995 con il significativo titolo
“L’errore di Cartesio”. E’ vero che il mondo dell’informatica è stato sinora un mondo cognitivo e funzionale allo
stato puro. Ma la nuova sfida è proprio quella di insegnare ai computer a riconoscere e quindi a rispondere anche
alle nostre emozioni.
L’idea è quella di arrivare a rendere il mondo che ci
circonda più “responsivo” e attento alle esigenze umane,
anche quando le persone non riescano ad esprimerle. Il
tutto attraverso oggetti non più solo intelligenti, ma anche comprensivi. Così potrà entrare nell’uso un mouse da
computer che percepisca il “grido” di stress e di stanchezza dalla nostra sudorazione; e ci fornisca il buon consiglio di prenderci una pausa dal lavoro. L’ultimo passaggio
sarà quello di creare macchine in grado di provare e di
“esternare” emozioni. Si tratta di scenari neanche troppo
fantastici, perché al M I T di Boston (prestigioso istituto
di ricerca scientifica) da diversi anni si sta studiando una
nuova branca dell’informatica: il cosiddetto “affective
computing”. Scienza che punta ad insegnare al computer
a riconoscere le espressioni e le emozioni degli esseri umani, per essere in grado di rispondere non solo ad imput
diretti - con un clic del mouse - ma anche alle esigenze che
esprimiamo in modo indiretto.
2. A capo del gruppo di ricerca del MediaLab del
Massachussett vi è la professoressa Rosalind Picard (ingegnere ed informatica) che ha fondato questa specialità
di studi nel 1997. La cattedrattica americana ha recentemente fondato anche un’azienda commerciale - chiamata
in modo significativo “affectiva”. Azienda che sta provando a collocare in commercio i primi prodotti tecnologici
derivanti da oltre un decennio di studi ed esperimenti. Ad
esempio il navigatore della nostra automobile “sentirà”
il tono teso e nervoso della voce con cui ci stiamo rivolgendo alla macchinetta davanti a noi: e immediatamente
renderà la sua voce più dolce e comprensiva, suggerendoci una strada alternativa con meno traffico. Oppure
lo specchio del nostro bagno scorgerà la nostra espressione abbattuta e potrà percepire qualche segno di una
malattia. Lo specchio sarà capace anche di misurare la
temperatura corporea tramite l’osservazione del flusso
sanguigno. Di conseguenza ci consiglierà con una scritta
(che potrà apparire sulla superficie dello specchio stesso)
di rimanercene a casa a riposo.
Le macchinette inventate dal gruppo di ricerca della
profssoressa Picard sono prima di tutto rivolte ad agevolare la comunicazione con persone affette da autismo.
Da questa piattaforma sono infatti partite le prime ricerche alla fine degli anni novanta. Come ad esempio il
“Q sensor”, una polsiera che è in grado di rilevare cambiamenti - anche minuscoli - nelle funzioni ghiandolari,
e di associarli alle emozioni che l’individuo non sia - in
ipotesi - in grado di esprimere.
3. Dato che ogni ricerca scientifica ha bisogno di
finanziamenti per andare avanti lo spin-off della prof.
ssa Picard è al lavoro anche su progetti più commerciali,
come ad es. il software “affidex”, una macchinetta capace
attraverso una semplice webcam di elaborare le espressioni facciali e la mimica del corpo di chi si ferma davanti ad
una vetrina od una bancarella, e di trasmettere al venditore (chiuso nel negozio, come un ragno che aspetta la caduta dell’insetto nella ragnatela) il probabile grado di interesse e di coinvolgimento del potenziale acquirente. Gli
studi americani - così come quelli giapponesi indirizzati
maggiormente alla robotica - fanno parte della cosiddetta
“rivoluzione affettiva” che si sta sviluppando nello studio
dell’informatica in tutto il mondo negli ultimi vent’anni.
Un ricercatore italiano lavora da sei anni a Ginevra
nello Swiss Center for affective sciences. Si tratta del trentacinquenne Marcello Mortillaro di Milano. Lo piscologo
italiano rileva che non solo l’informatica, ma ogni scienza
è destinata ad avere un’evoluzione che la porterà a comprendere l’importanza dell’aspetto emozionale del comportamento umano. L’idea è quella di arrivare a rendere
il mondo delle macchine che ci circondano più responsivo
ed attento alle esigenze - ancorché non bene espresse - delle persone. Il tutto attraverso macchinette non solo intelligenti, ma anche comprensive ed affettuose, come animali
da compagnia. Si tratta di fenomeni che anche i giuristi e
gli studiosi di scienze politiche ben conoscono da sempre.
Si può ad esempio ricordare che - in ogni epoca e Paese
- nessuna nuova legge si è mai potuta accontentare di curare il lato funzionale delle scelte legislative per realizzare
l’interesse della società e/o della compagine politica. Ogni
legge nuova deve mettere sempre in conto anche le inevitabili reazioni emotive che essa sarà destinata a suscitare
(specie all’esordio) nei cittadini e in tutti coloro che dovranno sottostarvi.
USPUR
PER I
COLLEGHI
22
UNIVERSITÀ NOTIZIE
decremento è stato del 12,8% nell’ambito previdenziale,
e del 16,5% in quello assistenziale.
Tutti questi dati dati sono contenuti nel bilancio sociale dell’Inps, presentato ufficialmente il 19 novembre
2012.
I pensionati che hanno un reddito al di sotto dei
1.000 euro sono il 52%; pari a 7,2 milioni di individui (di
cui il 17,2% non raggiunge 500 euro); il 24% si colloca
tra 1.000 e 1.500 euro mensili; il 12,7% arriva tra 1.500 e
2.000 euro; l’11,2% supera i 2.000 euro; e di questi il 2,9%
supera i 3.000 euro.
I titolari di almeno un trattamento pensionistico Inps nel 2011 sono stati 13.941.802, in maggioranza
donne (54%). Il numero complessivo delle pensioni di
vecchiaia, anzianità e prepensionamenti è di 9,6 milioni; l’importo medio mensile arriva a 1.034 euro loredi.
All’interno delle diverse categorie gli assegni variano
molto, a seconda dei soggetti. Si va da 834 euro per i coltivatori diretti, a 1.777 euro dei dipendenti per gli assegni
di anzianità.
L’importo medio degli assegni di prepensionamento
- 307.822 trattamenti - ammonta a 1.469 euro. Le pensioni ai superstiti, che sono più di 3,8 milioni, hanno un
importo medio di 560 euro mensili; mentre le prestazioni
di invalidità/inabilità, - che sono poco meno di 1,4 milioni - arrivano a un importo medio mensile di 599 euro.
Le pensioni previdenziali vigenti nel 2011 sono 14,8
milioni, in aumento dello 0,6% rispetto all’anno precedente (+92.910 trattamenti). Cresce invece molto di più
la spesa, che arriva a a 169,9 miliardi (+2,5% pari a +4,1
mld). Le pensioni assistenziali superano quota 3,5 milioni (pensioni e assegni sociali e prestazioni di invalidità
civile), in diminuzione dell’1,4% rispetto al 2010.
La spesa pensionistica lorda complessiva dell’Inps,
comprensiva delle indennità di accompagnamento agli
invalidi civili, è passata da 191,2 miliardi di euro nel 2010
a 194,4 miliardi di euro nel 2011: con un aumento del 1,7
percento (3,2 miliardi in valore assoluto) sostanzialmente
localizzato nella spesa previdenziale. «Nonostante il periodo difficile che l’economia italiana sta attraversando»,
sottolinea l’Istituto, crescono le entrate contributive: nel
2011 sono arrivate a 150,8 miliardi, registrando un incremento di 3,2 miliardi (+2,2%). L’aumento delle entrate,
si spiega nel documento, è conseguenza principalmente
della crescita delle retribuzioni lorde globali dei lavoratori dipendenti privati», (+3,8% contro una crescita media
delle entrate contributive nel complesso del 2,2%).
I trasferimenti dal bilancio dello Stato sono pari a
83.902 milioni, con una riduzione di 243 milioni rispetto
al 2010. Le entrate complessive, che comprendono diverse voci come i trasferimenti correnti e le partite di giro,
sono cresciute da 279,1 miliardi del 2010 a 284,4 miliardi
del 2011, con un incremento di oltre 5 miliardi di euro
(+1,9%). Le entrate di parte corrente sono state accertate
in complessivi 238,8 mld con un incremento di 2,7 mld
rispetto al 2010 (+1,2%).
L’analisi relativa alla ripartizione percentuale, per tipologia delle entrate complessive e delle entrate correnti,
rileva che le entrate contributive rappresentano il 63,2%
delle entrate correnti e il 53% delle entrate complessive.
Mentre i trasferimenti dal bilancio dello Stato rappresentano il 35,1% delle entrate correnti; e il 29,5% delle
entrate complessive.
La ripartizione dei lavoratori dipendenti per classi si
età evidenzia che su 12,4 milioni di soggetti oltre il 61% è
concentrato nella classe di età 30-49 anni.
Le variazioni percentuali 2011/2010 nelle classi di
età evidenziano, inoltre, una riduzione media del 3,8%
nei pensionati under 40 ed una crescita della stessa percentuale degli over 40. In particolare la fascia under 29,
relativa ai giovani, mostra una riduzione del 6,8%; con
una riduzione marcata del 37% per i lavoratori dipendenti fino a 19 anni. I lavoratori domestici iscritti all’Istituto
nel 2011 sono 651.911 (numero medio annuo), con una
riduzione. Solo il 20,5% è italiano; il restante 79,5% è formato da stranieri, a conferma che questo tipo di attività
è poco richiesta dagli italiani, sottolinea l’Istituto. Tuttavia lo scorso anno la componente italiana è cresciuta del
2,5% e quella straniera si è ridotta del 6,7%.
I lavoratori autonomi iscritti all’Inps sono 4.440.004.
I commercianti rappresentano il 47,7% del totale, gli artigiani il 41,9% ed i coltivatori diretti, coloni, mezzadri e
altri agricoli il restante 10,4%. Secondo i dati dell’Inps la
spesa per gli ammortizzatori sociali lo scorso anno si è
ridotta dell’1%, fermandosi a 10,8 miliardi. Per la cassa
integrazione sono stati spesi 2,8 miliardi (-11,6%) mentre per la mobilità si è arrivati a 1,4 mld (+10%); cresce
anche il costo della disoccupazione che arriva a 6,6 mld
(+2%). Se si considerano i contributi figurativi l’onere
complessivo per la spesa per gli ammortizzatori sociali
sale a 19,1 miliardi, evidenziando come la spesa per contributi figurativi sia equivalente a circa l’80% di quella
per le prestazioni.
Le nuove pensioni previdenziali sono state 79.308 in
meno rispetto all’anno precedente. Calano anche le nuove
prestazioni assistenziali, che registrano un -16,5% (i trattamenti sono stati 424.153): il totale delle prestazioni liquidate lo scorso anno ammonta a 964.487 unità, con una
riduzione del 14,5%. In particolare, aumenta il numero
delle pensioni di vecchiaia e di anzianità (+155.205) ed ai
superstiti (+39.792), mentre diminuiscono le prestazioni di
invalidità previdenziale (-102.087). Gli assegni di vecchiaia
e anzianità, ricorda l’Istituto, pesano per oltre il 77% sul
totale delle erogazioni e la spesa previdenziale costituisce
l’87,4 percento della spesa pensionistica complessiva.
Le pensioni di anzianità erogate sono state quasi
4 milioni, quelle di vecchiaia, invece, sono state 5,3 milioni. Gli ex lavoratori dipendenti sono 5,8 milioni, mentre
gli ex lavoratori autonomi sono 3,3 milioni. Passando
alle pensioni assistenziali, lo scorso anno sono state 4 milioni, (principalmente pensioni e assegni sociali e trasferimenti agli invalidi civili) per circa 24,6 miliardi di euro.
La spesa pensionistica lorda complessiva, comprensiva
delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili,
è passata da 191,2 miliardi di euro nel 2010, a 194,4 miliardi di euro nel 2011; con un aumento dell’1,7% (3,2
miliardi di euro in valore assoluto).
La spesa dell’Istituto per le famiglie, nel 2011, è arrivata a 6,7 miliardi, con una crescita significativa rispetto all’anno precedente (+4,5%). In aumento risultano le
USPUR
PER I
COLLEGHI
Prof. Aldo Bardusco
Università di Milano Bicocca
Firenze, 16 Novembre 2012
On.le Prof. Francesco Profumo
Ministro Istruzione, Università, Ricerca
Ministero, Piazzale J. F. Kennedy, 20
00144 Roma
Signor Ministro,
poche righe per manifestarLe la nostra preoccupazione sull’andamento dei lavori del MIUR e dell’ANVUR sull’attivazione tempestiva delle procedure per l’assegnazione delle abilitazioni scientifiche nazionali.
E’ a Lei ben noto quanto diremo di seguito in breve
sintesi:
a)Ricorsi amministrativi presso il TAR Lazio: l’esito
dei ricorsi potrebbe cambiare la dinamica dei lavori in essere.
b)Esame delle domande dei candidati commissari:
la complicatezza delle procedure in corso rende
difficile la formazione delle liste di sorteggio per
i SC. Perché non adoperare un sorteggio unico e
contemporaneo per tutti i SC?
c)Tempi di nomina e insediamenti delle commissioni.
Supponiamo, per concretizzare quanto diremo, che
tutte le commissioni vengano nominate entro il 20
Novembre prossimo. I candidati hanno trenta giorni, secondo legge, per ricusare i commissari: quindi
la prima riunione delle commissioni, per fissare i
criteri di valutazione, non potrà avvenire prima del
20 Dicembre. I candidati, secondo legge, hanno 15
giorni a disposizione per un eventuale ritiro della
domanda. La commissione non potrà comunque
fissare la seconda riunione prima di otto giorni dalla prima riunione. Si arriva così al 28 Dicembre per
fissare la seconda riunione, con lo scopo di accedere
alle domande dei candidati.
Poiché la decadenza delle commissioni è fissata al
25 Febbraio 2013 (includendo i due mesi massimi di
proroga che possono essere richiesti), si deduce che i
tempi di lavoro delle commissioni saranno meno di
due mesi). Tenendo conto delle festività, i giorni effettivi di lavoro non supereranno i 40/45 giorni. Potranno le commissioni, in tempi così ristretti, ottemperare alla normativa della legge Gelmini, che così
dispone: La commissione attribuisce l’abilitazione
con motivato giudizio […] fondato sulla valutazione
analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche
presentate da ciascun candidato, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di
ricerca e sviluppo svolte?
Bisogna poi tenere in conto le difficoltà connesse
alla presenza del commissario OCSE e le relative
necessità di coordinamento dei lavori. Poiché, fra
l’altro, il commissario OCSE potrebbe non conoscere l’italiano, egli avrebbe certamente difficoltà a
orientarsi nelle complesse disposizioni normative e
nella stesura dei verbali.
Abbiamo motivo per credere, signor Ministro, che
il pochissimo tempo a disposizione dei commissari
non potrà che vanificare ogni loro tentativo di verifica, entrando nel merito, della qualità dei candidati. E’ presumibile che questi saranno non meno
di100/200, tra aspiranti PA e PO, per ciascun SC.
23
UNIVERSITÀ NOTIZIE
prestazioni per maternità (+4,3%), pari a circa 3 miliardi,
e le prestazioni per malattia (+2,1%), che ammontano a
2 miliardi. Le domande pervenute lo scorso anno sono
state 375.893, con un incremento del 27,37% rispetto al
2010. La spesa totale relativa agli assegni al nucleo familiare è di 5,4 miliardi di euro. Nel totale sono compresi
gli assegni per i lavoratori dipendenti, per i disoccupati,
per i pensionati e anche per il congedo matrimoniale. I
contributi incassati nell’anno corrispondente ammontano a 6,2 miliardi
Anche il 2011, sottolinea l’Inps, è stato un anno di
difficoltà per le famiglie, con il potere d’acquisto che si
riduce per il terzo anno consecutivo: i redditi sono aumentati dell’1,9% in termini monetari; ma si sono ridotti
dello 0,9% in termini reali. Il potere d’acquisto dal 2008
al 2011 è calato del 3,8%, in termini reali la riduzione è
stata di 38,6 miliardi; considerando anche il 2007 la diminuzione sale al 5,2%. Nel 2011 il reddito effettivamente
a disposizione delle famiglie è stato, una volta detratte
imposte e contributi, pari a 1.053 miliardi. Il reddito
delle famiglie consumatrici - senza considerare l’effetto
dell’inflazione - è leggermente aumentato dal 2008 al
2011 di 5 miliardi di euro (aumento nominale che si è
però tradotto in una riduzione reale del 3,7%).
L’assegno medio per le pensioni di vecchiaia nel 2011
ammonta a 649 euro; mentre per le pensioni di anzianità
si sale a 1.514 euro. L’importo medio mensile arriva a
1.034, euro e ne beneficiano 9,6 milioni di pensionati. Gli
assegni di vecchiaia e anzianità, ricorda l’I N P S, pesano
per oltre il 77% sul totale delle erogazioni e la spesa previdenziale costituisce l’87,4% della spesa pensionistica
complessiva. Le pensioni di anzianità erogate sono state quasi 4 milioni, quelle di vecchiaia, invece, sono state
5,3 milioni. Gli ex lavoratori dipendenti sono 5,8 milioni,
mentre gli ex lavoratori autonomi sono 3,3 milioni.
All’interno delle diverse categoria gli assegni variano molto, a seconda dei soggetti: si va da 834 euro
per i coltivatori diretti; a 1.777 euro dei dipendenti per
gli assegni di anzianità. L’importo medio degli assegni
di prepensionamento, (307.822 trattamenti) ammonta a
1.469 euro. Le pensioni ai superstiti - che sono più di 3,8
milioni - hanno un importo medi o di 560 euro mensili;
mentre le prestazioni di invalidità /inabilità - che sono
poco meno di 1,4 milioni - arrivano a un importo medio
mensile di 599 euro.
Nel 2011 l’Inps ha erogato oltre 14,5 milioni di pensioni di natura previdenziale (vecchiaia/anzianità, invalidità /inabilità, e pensioni ai superstiti) per una spesa che
si è aggirata atorno ai 19,9 miliardi di euro, e poco più di
4 milioni di pensioni assistenziali (principalmente pensioni e assegni sociali e trasferimenti agli invalidi civili)
per circa 24,6 miliardi di euro. La spesa pensionistica lorda complessiva, comprensiva delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili, è passata da 191,2 miliardi di euro nel 2010 a 194,4 miliardi di euro nel 2011; con
un aumento dell’1,7% (3,2 miliardi in valore assoluto);
sostanzialmente localizzato nella spesa previdenziale.
USPUR
PER I
COLLEGHI
24
In considerazione di quanto esposto la preghiamo,
signor Ministro, di voler accogliere la nostra richiesta, che Le rivolgiamo da tempo, di fissare un incontro
“chiarificatore e costruttivo” per dare una risposta ai
problemi appena esposti e a quelli evidenziati con lettere
precedenti.
Probabilmente siamo l’unico sindacato della docenza universitaria che non è stato ancora ricevuto da Lei.
La ringraziamo per la considerazione che vorrà accordarci e Le inviamo distinti saluti.
UNIVERSITÀ NOTIZIE
Il Segretario Nazionale USPUR
Prof. Antonino Liberatore
Firenze, 19 Novembre 2012
On.le Prof. Francesco Profumo
Ministro Istruzione, Università, Ricerca
Ministero, Piazzale J. F. Kennedy, 20
00144 Roma
Oggetto: Cose ancora non chiare circa il turnover dei
punti organico.
Il budget sul personale degli Atenei è oggi fatto sul
“punto organico” che s’identifica col costo medio di un professore ordinario a tempo pieno. Quindi, in base alle tabelle
stipendiali e agli oneri contributivi è possibile fare un rapporto del costo equivalente delle altre posizioni di docenza.
Per esempio, un Senato Accademico ha stabilito che
il valore di un professore associato a tempo pieno sia pari
a 0.7 punti organico, quello di un ricercatore a tempo determinato di tipo B sia pari a 0.5 punti organico immediati ma con richiesta di rendere disponibili altri 0.2 punti
organico per il successivo bando per professore associato
e, infine, pure quello di un ricercatore a tempo determinato di tipo A sia pari a 0.5 punti organico.
Sin qui nessun problema, i numeri sono stati arrotondati per essere più gestibili, tenendo conto che si parla
comunque sempre di costi mediati sulla intera carriera del
docente. Anzi il docente si porta dietro la sua dotazione
stipendiale in termini di punti organico e quindi la sua promozione alla fascia successiva richiede di fatto solo il numero di punti organico incrementali. Quindi la promozione di un associato a ordinario richiede 0.3 punti organico
e quella di un ricercatore ad associato 0.2 punti organico.
I problemi nascono quando si parla di turnover,
o meglio del blocco conseguente al turnover. Secondo
quanto stabilito dalla normativa vigente, col turnover al
20%, ovvero con una diminuzione dei professori e dei ricercatori dell’80%, oggi un professore ordinario che va in
quiescenza, anziché rilasciare al proprio Ateneo 1.0 punti
organico, ne ritorna solamente 0.2. Non entro nel merito
...dura lex… ma sottolineo solo che la diminuzione del
numero dei parlamentari in discussione in Parlamento è
solo del 20% (quindi con un turnover dell’80%).
Pongo un problema al quale Lei, signor Ministro, non
ha ancora voluto rispondere alle domande dell’ateneo il
cui Senato Accademico ho prima citato. Da uomo d’istituzione accetto e rispetto le leggi. Quindi accetto la dura
tagliola del blocco del turnover al 20% che arrivo a capire
possa colpire i pensionamenti dei professori ordinari o dei
professori associati anziani, ma cosa succede con le posizioni di ricercatore a tempo determinato di tipo A, ovvero
con contratto a tempo determinato 3 anni + 2 anni?
Queste posizioni non sono “tenure track” e quindi
sono indiscutibilmente “a tempo determinato”. In molti
Atenei esse sono state interpretate come il primo passo
della carriera per poi passare ad una posizione di ricercatore a tempo determinato di tipo B (queste sono posizioni
“tenure track” ovvero, al termine del contratto, con assunzione a tempo indeterminato) e poi di professore associato. Tali bandi sono stati finanziati impiegando risorse
di punti organico. Al termine del periodo cosa succede ai
punti organico impegnati? Una interpretazione restrittiva
imporrebbe che anche su di esse si applichi il blocco del
turnover e quindi degli 0.5 punti organico inizialmente
impegnati ne ritornerebbero utilizzabili solo 0.1. In tre
anni si farebbero “evaporare” quindi ben 0.4 punti organico. Se il ricercatore poi vincesse una posizione di ricercatore a tempo determinato di tipo B, l’Ateneo dovrebbe
impegnare tutta la differenza, quindi 0.4 punti organico
subito e 0.2 dopo tre anni.
L’esempio mostra chiaramente che se le cose fossero
così non ci sarebbe nessuna convenienza a bandire posti
di tipo A. Inoltre ciò penalizzerebbe proprio quelle richieste di ricambio e di ringiovanimento dell’Università che
sono oggi auspicate.
Tutto ciò voluto è politicamente? O si tratta di una
svista? Per fare chiarezza chiediamo, signor Ministro, di
volerci dare una risposta.
La ringraziamo e Le inviamo distinti saluti.
Il Segretario Nazionale USPUR
Prof. Antonino Liberatore
Firenze, 5 Dicembre 2012
Ai Membri della Giunta USPUR
Ai Presidenti di Sezione USPUR
Loro Sedi
Cari Colleghi,
ho ritenuto utile e necessario indirizzare al Ministro
la lettera che vi allego.
Purtroppo la Corte Suprema può anche decidere
cose importanti, nel rispetto della carta costituzionale,
per i cittadini ricorrenti. Ma se poi il legislatore non provvede a correggere ciò che la Corte ha ritenuto illegittimo,
tutto rimane come prima.
E’ proprio ciò che si sta verificando sulle dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza dell’8
Ottobre u.s. della Corte Costituzionale.
Prego i presidenti di sezione USPUR di voler inviare al proprio rettore un’analoga lettera, di cui allego una
minuta, che ciascuno di voi può modificare nella maniera
ritenuta la più opportuna.
Una volta scritta la lettera, sarà bene che ne venga
data comunicazione ai soci.
Un caro saluto a tutti.
Il Segretario Nazionale USPUR
Prof. Antonino Liberatore
USPUR
PER I
COLLEGHI
Minuta di lettera da inviare al proprio Rettore
……. Dicembre 2012
Magnifico Rettore
Prof. ………………….............................………….
Università degli Studi di ……………......................
In considerazione della rilevanza delle dichiarazioni
di illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2 e comma 22, e dell’art. 12, comma 10 della cosiddetta legge
Tremonti, (Sentenza n. 223, decisa l’8 Ottobre 2012, della
Corte Costituzionale), si ritiene utile richiamare le dichiarazioni e riferire in merito alla loro pratica attuazione.
Continuare copiando dalla lettera che segue indirizzata al Ministro, fino al rigo “Aprile 2013” e poi aggiungere quanto segue:
Tutto ciò evidenziato e puntualizzato, ci rivolgiamo
a Te, caro collega Rettore, con l’invito a voler prendere in
mano la situazione e avviare a soluzione i problemi connessi con le disposizioni di illegittimità costituzionale.
Scusaci se ci intratteniamo con Te e Ti chiediamo:
Chi ha dato le disposizioni all’ufficio stipendi per operare la trattenuta del 2,5%, per bloccare gli adeguamenti
annuali delle retribuzioni e, quindi, gli scatti stipendiali,
per attuare le riduzioni degli stipendi che superavano i
limiti fissati dalla legge Tremonti?
Certamente sei stato Tu Rettore, nostro interfaccia
con le disposizioni di legge che, una volta promulgate,
devono essere applicate. Ora Ti preghiamo di voler assumere la stessa autorevolezza e di dare le opportune
indicazioni agli uffici affinché:
– vengano ricalcolati i pensionamenti effettuati con il
TFR nel periodo 01-01-2011 a tutt’oggi;
– vengano non più operati i tagli sugli stipendi eccedenti i limiti di 90.000 euro e di 150.000 euro annui lordi (analoga disposizione deve essere data
all’Inpdap per le pensioni che superano detti
limiti);
– venga recuperato dagli interessati quanto illegalmente non corrisposto in seguito ai tagli operati.
Sarà nostra cura di tenerTi informato sull’esito di
quanto disposto dal TAR di Trento e sulla sentenza del
TAR Toscana in merito al ricorso presentato dai colleghi delle università toscane.
Ti chiediamo di volerci tenere informati su quanto
farai.
Ti inviamo cordiali saluti.
Il Presidente di Sezione USPUR di.............
Prof. ………..…………….
On.le Prof. Francesco Profumo
Ministro Istruzione, Università, Ricerca
Ministero, Piazzale J. F. Kennedy, 20
00144 Roma
Oggetto: Attuazione dichiarazioni di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza numero 223/8 Ottobre della
Corte Costituzionale.
In considerazione della rilevanza delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2 e
comma 22, e dell’art. 12, comma 10 della cosiddetta legge Tremonti, (Sentenza n. 223, decisa l’8 Ottobre 2012,
della Corte Costituzionale), si ritiene utile richiamare le dichiarazioni e riferire in merito alla loro pratica
attuazione.
a)Illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma
10, nella parte in cui non esclude l’applicazione
a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,5%
della base retributiva.
Il Governo, con decreto legge del 29 Ottobre, n.
185, ha provveduto ad annullare la norma, ristabilendo, per i dipendenti, il TFS, che prevede la
trattenuta del 2,5% di cui sopra, trattenuta che
continua, così, ad essere applicata.
Si ricorda che il TFS, che prevede la buonuscita,
è, nella generalità dei casi, più vantaggioso rispetto al TFR, la cui applicazione per i pubblici
dipendenti era stata attuata dalla legge Tremonti
e che la sentenza della Consulta ha stabilito essere illegittima. Ovviamente i trattamenti pensionistici, fatti con il TFR voluto dalla legge
Tremonti, nel periodo 01-01-2011//12-10-2012
dovranno essere riconsiderati e attuati con la
normativa del TFS.
b)Illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2,
nella parte in cui dispone che il periodo 01-012011//31-12-2013, i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti superiori a 90.000
euro lordi annui siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000
euro, nonché del 10% per la parte eccedente
150.000 euro.
Il Governo, in merito, non ha emanato alcuna
disposizione, ritenendo, forse, che devono essere
le singole amministrazioni, che hanno praticato
le riduzioni, ad attivarsi per restituire il maltolto.
Ci risulta che alcune amministrazioni universitarie hanno provveduto a cancellare le riduzioni
praticate. Nessuna iniziativa è stata comunque
presa per la restituzione di quanto illegalmente
trattenuto a cominciare dall’1-01-2011.
c)
Illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma
22. La disposizione attiene a provvidenze e a indennità speciale per il personale di magistratura
e, pertanto, non interessa noi docenti universitari se non nelle ultime due righe del dispositivo,
dove è detto che il comma 22 è illegittimo anche
25
UNIVERSITÀ NOTIZIE
Oggetto: Attuazione dichiarazioni di illegittimità
costituzionale di cui alla sentenza numero 223/8 Ottobre
della Corte Costituzionale.
Firenze, 05 Dicembre 2012
USPUR
PER I
COLLEGHI
26
UNIVERSITÀ NOTIZIE
“nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma
21, che si trascrive” “I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 Marzo 2001, n. 165, così come previsti
dall’art. 24 della legge (finanziaria) 23 Dicembre
1998, n. 448, (noi professori universitari siamo
compresi in questo personale) non si applicano
per gli anni 2011, 2012, 2013”.
Nel mentre il TAR di Trento, in seguito a ricorso
presentato da docenti, ha ritenuto non infondata la questione di “legittimità costituzionale” del
blocco delle carriere previsto dal terzo periodo
del già richiamato comma 21, che così dispone
“Per il personale di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 Marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, le progressioni di carriera comunque
denominate, eventualmente disposte negli anni
2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti
anni, ai fini esclusivamente giuridici. La Corte
Costituzionale dovrebbe esprimersi in merito
entro il prossimo mese di Febbraio.
Si fa poi presente che professori delle università toscane hanno presentato ricorso al TAR
Toscana per l’annullamento del secondo periodo del già citato comma 21 che così recita “Per le
categorie di personale di cui all’art. 3 del d.l. 30
Marzo 2001, che fruiscono di un meccanismo di
progressione automatica degli stipendi, gli anni
2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio
previsti dai rispettivi ordinamenti”.
Il TAR Toscana ha già rinviato due volte la trattazione del ricorso e dovrebbe decidere in merito durante la prossima udienza, fissata per il
6 Aprile 2013.
Tutto ciò richiamato, si prega il signor Ministro di
voler dare le indicazioni ritenute opportune per portare
ad attuazione, o per completare quanto già intrapreso
da qualche ateneo, le disposizioni di cui alla sentenza
citata della Corte Costituzionale.
Si inviano distinti saluti.
Il Segretario Nazionale USPUR
Prof. Antonino Liberatore
SOLLECITATE I VOSTRI COLLEGHI
AD ISCRIVERSI ALL’USPUR.
RICEVERANNO UNIVERSITÀ NOTIZIE
E RENDERANNO PIÙ INCISIVA
L’AZIONE COMUNE
RASSEGNA
STAMPA
RASSEGNA DI ATTUALITÀ
E OPINIONI DI POLITICA UNIVERSITARIA
A cura di Paolo Stefano Marcato
LO STATO PRESENTE DELL’UNIVERSITÀ
Non si può parlare della valutazione della ricerca
astraendo dalle condizioni presenti dell’università italiana. Il modo nel quale, infatti, si è impostata e si sta svolgendo la complessiva attività di valutazione è influenzato
da tali condizioni e, a sua volta, le influenza.
Le condizioni dell’Università, il luogo nel quale principalmente si fa ricerca in Italia, sono miserevoli:
- i rettori, scelti spesso in base a criteri di selezione inversa e prigionieri di una concezione bonapartista
(quando non satrapesca o bossistica) della loro funzione, si sono erti a rappresentanti delle università e
hanno persino costituito un loro piccolo Parlamento i cui poteri sono cresciuti, e che opera come un
organo corporativo;
- le strutture fondamentali, le facoltà, sono in corso di
cambiamento in dipartimenti (la dipartimentalizzazione, già criticata a suo tempo da Massimo Severo
Giannini, sta avendo esiti diversi talora cambiando
solo il nome, talaltra producendo riaggregazioni
per disciplina, talaltra conducendo ad altri risultati,
spesso dannosi, senza che alcuno si preoccupi di valutare i risultati del processo in corso) ;
- le risorse scarseggiano, dopo anni di relativa abbondanza che hanno moltiplicato le sedi universitarie,
molte delle quali sono solo “teaching universities”,
o grandi licei (basti dare uno sguardo alle loro
biblioteche);
- sono quasi sei anni che non si reclutano nuovi docenti, con conseguenti vuoti e invecchiamento del
corpo professionale;
- fuggono altrove i giovani ricercatori senza grandi
prospettive davanti, e fuggono i giovani e vecchi
professori, alla ricerca periodica di buone e funzionanti biblioteche estere, dove trascorrere anni sabbatici o mesi di clausura;
- la ricerca si sta spostando fuori dell’università, un
fenomeno non ignoto agli storici, che si è verificato,
ad esempio, in Europa, nel Sei-Settecento;
- le strutture amministrative centrali si sono autoannullate, proprio nel momento nel quale, con l’autonomia universitaria, vi era bisogno di un centro
forte quale strumento di raccordo, di scambio, di
trasmissione delle conoscenze, di verifica;
- non è in Italia nessuna delle poco meno di cinquanta università che nel mondo corrispondano al modello humboldtiano (quello che ha fatto scrivere a
un noto studioso americano nella prefazione a un
libro appena uscito “I have often described life as
a Yale Law School faculty member as the modern
equivalent of living at the Court of Medici, but without the obligations of a courtier”: J. L. Mashaw,
Creating the Administrative Constitution. The
Lost One Hundred Years of American Administrative Law, Yale Univ. Press, 2012, p. IX: nessun professore universitario italiano potrebbe scrivere una
RASSEGNA
STAMPA
frase analoga). (Fonte: S. Cassese, stralcio della Relazione all’incontro promosso da Roars su “Il sistema dell’Università e della Ricerca. Fatti leggende
futuro”, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani,
15 novembre 2012)
GRADUATORIA DEGLI ATENEI “PER CAPITA
PERFORMANCE”
L’Academic Ranking of World Universities (ARWU)
dell’università Jiao Tong di Shanghai è basato sulla misura della “produttività” di un ateneo secondo parametri
quantitativi quali il numero delle pubblicazioni scientifiche su riviste particolarmente prestigiose, dei docenti i cui
lavori sono molto citati nella letteratura internazionale,
degli allievi che hanno ricevuto il Nobel. Una valutazione “oggettiva”, dunque: quanto più produce un ateneo secondo il combinato di questi parametri tanto più
in alto sarà nella graduatoria mondiale. Nella classifica
ARWU per il blocco 101-150 si trovano le Università di
Pisa e Roma Sapienza. Seguono le università di Milano e
RICERCA. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE ATTRAVERSO LA MOBILITÀ DEI RICERCATORI
FATTORE CRITICO DI SUCCESSO
Un’analisi di Elsevier sui cosiddetti fenomeni di
“brain circulation” in Italia, nel periodo 1996 – 2011 sulla
base dati Scopus, restituisce un’immagine più complessa
dei flussi migratori dei ricercatori da e verso l’Italia, rispetto al consueto cliché della “fuga di cervelli”. Questa
analisi, presentata in occasione del “National Research
Policy Forum” dal titolo “Directing and Driving Research
Excellence”, organizzato da Elsevier in collaborazione
con il CNR, “insegue” i ricercatori nei loro spostamenti
analizzando le affiliazioni che hanno utilizzato nel firmare i propri articoli scientifici. L’Italia riesce ad attrarre
ricercatori altamente qualificati, sia per brevi che per lunghi periodi. I dati raccolti da Elsevier non confermano la
cosiddetta “fuga dei cervelli”, sicuramente non di quelli
più brillanti o produttivi, piuttosto il contrario. L’analisi
individua diverse categorie di ricercatori. Gli “stanziali”, che hanno pubblicato esclusivamente con istituzioni
italiane. I “migratori”, che hanno lavorato e pubblicato
all’estero per almeno due anni o che si sono definitivamente stabiliti fuori dai confini nazionali. I “visitatori”,
ossia chi ha fatto ricerca per meno di due anni in nazioni
diverse da quella in cui hanno operato prevalentemente.
Per ciascuna categoria sono misurati i seguenti indicatori:
la produttività, in termini di numero di articoli per anno,
relativo all’intero gruppo di ricercatori esaminati; l’anzianità professionale media, ossia il numero di anni trascorso tra la prima e ultima pubblicazione, relativa all’intero
gruppo di ricercatori; l’impatto scientifico, in termini di
numero medio di citazioni ricevute dai propri articoli. I
risultati sono molto interessanti:
per Il 58% i ricercatori sono “stanziali”. Per il 5,1%
sono emigrati definitivamente dall’Italia. Pew il 4,3%
sono immigrati stabilmente in Italia. Per il 32,6% sono
ricercatori visitatori, comprendendo in questo gruppo
sia coloro che sono prevalentemente attivi in Italia e per
meno di due anni hanno pubblicato con istituzioni internazionali, sia coloro che sono prevalentemente attivi
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
ACCOUNTABILITY DELLE SINGOLE STRUTTURE E SVILUPPO DI PROCESSI DI ASSICURAZIONE DELLA QUALITÀ NEGLI ATENEI
Vi è ormai una diffusa consapevolezza di come l’Università non possa più essere considerata solo come il
momento finale di un percorso formativo, ma vada piuttosto intesa come un riferimento continuo del sapere, del
saper fare e del saper essere che coinvolge sempre di più
l’intera vita di una persona. È il ruolo stesso dell’università nella società che viene oggi ripensato: l’Università
deve produrre conoscenza (non diplomi!), deve formare
persone, persone capaci di dare un contributo innovativo
alle organizzazioni in cui si troveranno a operare dopo
la laurea. In particolare, le Università sono chiamate a
riprogettare la propria offerta formativa al fine di rispondere più efficacemente alle attese provenienti dalla società
civile. E le politiche pubbliche dovrebbero, per parte loro,
provvedere alla definizione di un sistema di regole certe
e stabili che consentano il miglioramento qualitativo e la
valorizzazione del merito. In questo quadro, per l’università diviene centrale il rafforzamento dell’accountability
delle singole strutture e, più in generale, lo sviluppo di
processi di assicurazione della qualità a livello istituzionale, nazionale ed europeo, elaborati su criteri e metodi
trasparenti e condivisi. Sotto questo profilo molto è stato
fatto, ma molto ancora resta da fare, anche perché sono
molti i rischi che il processo prenda una direzione non
desiderata. Di questi rischi credo che l’Agenzia sia pienamente consapevole. Nel documento “AVA: La road-map
dell’ANVUR”, ad esempio, è, infatti, scritto: “L’ANVUR è altresì consapevole che un’applicazione prevalentemente formale e “burocratica” del d.lgs. n. 19/2012
porterebbe ad un appesantimento dei compiti, generando
la tentazione di assolvervi in maniera esteriore e non incisiva, snaturando e vanificando la storica occasione di una
seria riflessione critica e della messa in atto di strumenti
essenziali per il miglioramento”. (Fonte: G. Marseguerra,
dall’intervento alla giornata di “in-formazione” promossa dall’ANVUR alla Cattolica di Milano, 16-11-2012)
Padova (blocco 151-200) e poi (201-300) il Politecnico di
Milano, la Scuola Normale Superiore di Pisa e le Università di Bologna, Firenze, e Torino.
La Jiao Tong produce sulla base degli stessi parametri una seconda graduatoria che chiama “per capita performance”, graduatoria che fornisce l’intensità di produttività dell’ateneo. Questa è ottenuta dividendo gli indici
di produttività per il numero dei docenti che questa produzione realizzano. La ratio è chiara: la quantità totale di
“prodotti” dell’ateneo va in qualche modo normalizzata
alla dimensione dello stesso. Questa nuova graduatoria
è molto diversa dalla precedente. Per esempio la Scuola
Normale Superiore, il cui numero di docenti è circa un
centesimo di quelli dei mega atenei “vincitori” secondo
l’altra classifica, naturalmente sale e diviene non solo la
prima in Italia, ma la prima in Europa. A livello mondiale risulta quinta superata da 4 atenei americani (Caltech,
Harvard, Princeton, MIT). (Fonte: F. Beltram, IlSole24Ore 20-11-2012)
RASSEGNA
STAMPA
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
all’estero ed hanno pubblicato con istituzioni italiane per
meno di due anni.
Gli “stanziali” presentano di gran lunga la più bassa produttività e impatto scientifico. Anche l’anzianità
professionale misurata è inferiore a quella di tutti gli altri
gruppi.
I “visitatori” hanno la produttività e l’impatto più
alti in assoluto, mentre sono al secondo posto come anzianità professionale media.
Gli “immigrati” presentano una produttività molto
alta (la seconda in assoluto), un impatto scientifico analogo a quello degli “emigrati” ma l’anzianità professionale
media più alta di tutti i gruppi.
In conclusione. La maggior parte dei ricercatori non
si muove dall’Italia. Il saldo dei flussi migratori è leggermente negativo, ma i nostri atenei e istituti di ricerca hanno ancora la capacità di attrarre ricercatori dall’estero.
L’internazionalizzazione della ricerca, che in gran parte si
realizza attraverso la mobilità dei ricercatori, è un fattore
critico di successo per la ricerca scientifica, sia in termini di produttività che di qualità. (Fonte: gravita-zero.org
18-11-2012)
LA RIFORMA DEL SISTEMA FORMATIVO PROFESSIONALIZZANTE PRE-POST-LAUREAM DI
MEDICINA
Una proposta di riforma è sul tavolo del MIUR,
deciso a mettere finalmente mano alla formazione in
Medicina e non perdere altro terreno rispetto ai sistemi
formativi del resto di Europa. Purtroppo, le logiche del
compromesso frenano il sistema allo status quo ante. Da
anni i Giovani Medici (SIGM) sono impegnati in una
costante opera di sensibilizzazione delle Istituzioni Politiche e Accademiche, finalizzata a porre le basi per un
adeguamento del sistema formativo professionalizzante
pre-post-lauream di medicina Italiano al contesto dell’Unione Europea. Le principali criticità possono essere così
sintetizzate: tempi morti non giustificabili, accesso alla
formazione poco meritocratico, iter formativo ipertrofico
e ipercontenutistico a discapito di un’adeguata professionalizzazione, mancata programmazione del fabbisogno di
professionalità mediche, deriva burocratico-normativa. Il
9 novembre 2011, il SGM nel corso del Workshop dal titolo “Il futuro della formazione delle giovani generazioni
di medici: confronto sulla Proposta di Riforma del percorso di formazione universitaria pre e post lauream in
Medicina” ha presentato la propria proposta di organica
riorganizzazione della formazione universitaria di medicina, raccogliendo l’impegno del Legislatore e del Governo
a intervenire in risposta alle istanze dei futuri specialisti.
Con la predetta iniziativa i Giovani Medici sono riusciti
a riunire per la prima volta sotto uno stesso tetto i vertici
del MIUR, del Ministero della Salute, della Professione
Medica e del sistema universitario. A fronte della successiva fase di stallo, creatasi nel passaggio di consegne tra il
vecchio ed il nuovo Governo, il SIGM ha reiterato le proprie richieste in occasione della II Conferenza Nazionale
dal titolo “Giovani Medici nell’Italia e nell’Europa della
crisi: credere nei network per realizzare il cambiamento
da protagonisti”. Con D.M. del 15 marzo 2012 il Ministro
dell’Istruzione Università e Ricerca nominava il Presidente Nazionale del SIGM quale componente della “Commissione di Esperti con incarico di aggiornare e monitorare le aggregazioni delle scuole di specializzazione di
area sanitaria e proseguirne la razionalizzazione”, in riconoscimento del lavoro e della rappresentatività documentati dal Segretariato Italiano Giovani Medici, e al pari a
significare l’attenzione del MIUR nei confronti della voce
del SIGM. I Giovani Medici, non trovando riscontro nei
lavori della Commissione ministeriale alle premesse di
rinnovamento, dichiarate dal Ministro Profumo in occasione della riunione di insediamento della Commissione,
in data 9 agosto 2012 ha presentato allo stesso Ministro
il proprio documento di proposte aggiornato sulla base
di un’analisi comparativa tra l’Italia e diversi Paesi UE
ed Extra Comunitari, evidenziando le criticità dell’attuale sistema formativo professionalizzante. Ad integrazione
della proposta di riforma, nel mese di settembre 2012 il
SIGM ha prodotto, altresì, all’attenzione della Direzione Generale dell’Università (per la terza volta nell’arco
temporale di due anni), questa volta sulla base della disponibilità offerta dal Ministro Francesco Profumo, alcune proposte volte a superare alcune criticità di carattere
burocratico, la cui risoluzione, facilmente implementabile
attraverso interventi regolatori (circolari e note ministeriali), apporterebbe un significativo miglioramento della
quotidianità dei medici in formazione specialistica. (Fonte: giovanemedico.it 18-11-2012)
RICERCA. LA REGIONE LAZIO NON ASSEGNA I
FONDI PER LA RICERCA. A RISCHIO 625 MILIONI DALL’UE
La nuova giunta della Regione Lazio non riuscirà verosimilmente a indire un bando per assegnare i fondi per
la ricerca e l’innovazione - già stanziati nel 2010 - spenderli ed infine rendicontarli entro il 31 dicembre 2013. Termine ultimo, fissato da Bruxelles, per usufruire dei Por-Fesr:
i finanziamenti europei per lo sviluppo regionale. E così
quei 625 milioni di euro, erogati in gran parte dall’Unione Europea, rischiano seriamente di tornare al mittente,
senza essere stati spesi. Un vero e proprio spreco, per la
Fondazione Diritti Genetici, imputabile “all’inerzia gravissima” della presidenza della Regione. E’ compito della
giunta, infatti, avviare l’iter per l’attuazione del “Programma strategico regionale per la ricerca, l’innovazione
e il trasferimento tecnologico” di durata triennale che la
Regione Lazio, come stabilisce la legge regionale 13 del
4 agosto 2008, è tenuta ad adottare. Uno specifico documento in cui sono stabiliti gli indirizzi e gli obiettivi per
le politiche di ricerca - settore in cui la stessa Regione ha
individuato uno dei fattori trainanti per favorire la crescita sociale, economica e occupazionale - e in base al
quale vengono ripartite le risorse pubbliche. Secondo la
suddetta legge, una volta approvato il piano strategico,
la giunta “adotta entro il mese di marzo di ogni anno un
piano nel quale sono individuati per l’anno di riferimento
gli interventi, i soggetti ammessi, le risorse nonché i tempi
e le modalità per la realizzazione degli interventi stessi”.
“Ma a parte il bando indetto alla fine del 2011 per la competitività delle imprese (cui pure è rivolto il programma
RASSEGNA
STAMPA
strategico, ndr), quei soldi - denuncia a ilfattoquotidiano.
it Ivan Verga, direttore generale della Fondazione Diritti Genetici - non sono stati toccati”. La giunta insomma
sembra aver ignorato quel settore che la Regione Lazio
aveva deciso di promuovere, introducendo nel 2008 una
norma ad hoc: giustappunto la ricerca. (Fonte: G. Pagano, FQ 20-11-2012)
ACCREDITAMENTI. CORSI DI LAUREA A RISCHIO
DI CHIUSURA
Secondo le nuove norme sulla valutazione degli atenei, molti corsi di laurea potrebbero chiudere. Il criterio
che fissa il numero di docenti minimo (dodici per la triennale e otto per la specialistica) è condizione quasi impossibile da reggere per la maggior parte delle Università italiane a causa del blocco delle assunzioni. Se un corso non
viene «accreditato», cioè non risponde ai requisiti stabiliti
dall’ANVUR, automaticamente non può iniziare.
«Il Senato accademico di Torino ha deciso oggi di
spingere la CRUI a chiedere la modifica delle linee guida
per l’accreditamento», ha detto a margine dell’assemblea
Alberto Fierro, rappresentante degli studenti. «Abbiamo
un atteggiamento critico nei confronti di questi criteri e ci
stiamo lavorando insieme alla Conferenza dei Rettori»,
spiega il professor Gianmaria Ajani, nella rosa dei candidati alla reggenza dell’ateneo torinese. «Con la riduzione
del 20% del turn over nei prossimi tre anni, come si può
rispettare la norma sul numero dei docenti fissato dall’accreditamento? E con risorse sempre più scarse, come possono le strutture dei nostri atenei essere all’altezza delle
linee guida decise dall’ANVUR?». «Siamo favorevoli al
processo di valutazione delle Università. Ma, se per avere
un corso di laurea valido occorrono almeno 20 docenti,
il risultato è chiudere l’80% dei corsi italiani», conclude
Fierro. (Fonte: E. Graziani, La Stampa 20-11-2012)
ABILITAZIONE SCIENTIFICA. CALCOLO DELL’IMPEGNO DEI COMMISSARI
Nel caso delle discipline umanistiche per il concorso a professore ordinario sono previste almeno tre monografie e 22 articoli. Di solito le monografie in questo
campo non sono mediamente meno di 200 pagine, per cui
tre sono 600; calcolando anche 15 pp. in media per articolo, facciamo circa 330. E così siamo a circa 930 pagine
in media per candidato. E chi conosce il settore, sa bene
che queste stime sono assai prudenziali. Ipotizziamo ora
quanti siano i candidati nell’area (che comprende tutti
ABILITAZIONE SCIENTIFICA. IL CONSEGUIMENTO DELL’IDONEITÀ ACCADEMICA (HABILITATION) IN GERMANIA
In Germania la cultura e l’istruzione, inclusi gli studi
superiori, rientrano tradizionalmente nella competenza
dei Länder che disciplinano autonomamente lo status
giuridico ed economico del personale accademico. Ciononostante, un filo conduttore comune può essere individuato nelle tappe da percorrere per essere ammessi a una
selezione per l’ottenimento di una cattedra. In Germania,
e generalmente nell’area germanofona, un requisito imprescindibile per diventare professore universitario era
rappresentato in passato dal conseguimento dell’idoneità
accademica, cosiddetta Habilitation. Questo istituto affonda le sue radici nella storia medioevale, quando abilitare rappresentava il conferimento da parte di un’autorità
ecclesiastica della licentia ubique docendi, cioè la facoltà di
insegnare in tutta la cristianità. Attualmente la Habilitation presuppone il conseguimento del dottorato di ricerca
e la dimostrazione della capacità di operare autonomamente nell’insegnamento e nella ricerca. Tale idoneità è
comprovata dall’esperienza didattica già maturata in ambito universitario e da un’ampia gamma di pubblicazioni
scientifiche e in particolare dalla “Habilitationsschrift”,
cioè da un corposo studio monografico oggetto di valutazione da parte della commissione d’esame. Questa è tuttora la prassi nelle facoltà giuridiche e umanistiche, anche
se in determinate discipline, come le scienze economiche e
sociologiche, sta prendendo sempre più piede l’utilizzo di
pubblicazioni cumulative in luogo di un lavoro monografico. Se il lavoro di abilitazione è valutato positivamente
da tutti i referee, il candidato è ammesso alla discussione,
che si concreta, secondo le facoltà, in un colloquio sul
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
ABILITAZIONE SCIENTIFICA. COSTO DEI COMMISSARI STRANIERI
I circa 109 commissari Ocse (tanti sono i settori concorsuali) costano solo in appannaggio 1.744.000 euro. Se
poi consideriamo che a costoro debbano essere garantiti
circa 15 giorni di soggiorno, con vitto e alloggio, per riunioni e incombenze varie, oltre le spese di viaggio, mediamente fanno circa 4250 ciascuno (250 euro al giorno con
un costo di viaggio di 500 euro – stime sempre prudenziali), le spese ammontano a complessive 463.250 euro;
ovvero un totale di 2.207.250 euro, per lo meno. (Fonte:
F. Coniglione, roars 22-11-2012)
gli storici della filosofia: antichisti, medievisti e generali):
dal numero dalle domande e dalla conoscenza del settore, possiamo ipotizzare che probabilmente non saranno
meno di 200; ma possono raggiungere numeri anche più
alti, in considerazione delle doppie o triple domande e di
molti esterni che tenteranno la sorte. Quante pagine può
mediamente leggere un commissario al giorno? Di solito
si sostiene che la velocità normale di lettura con piena
comprensione del testo non possa andare al di là delle
200/230 parole il minuto; questo ovviamente per un testo
normale, non di certo uno filosofico. Tuttavia vogliamo
assumere che i commissari siano dei superuomini e assumiamo il primo valore come quello da loro effettivamente
usato. Ogni pagina di un libro contiene in media circa 400
parole, in un testo non fitto di note. Perciò assumiamo
che, in effetti, sia possibile leggere una pagina il minuto.
Per leggerne 186.000 sono necessari così 3100 ore. Ora
ammettiamo che ogni commissario dedichi a questo lavoro di lettura e valutazione 12 ore il giorno, sospendendo
ogni altra attività e impegno (il che è irrealistico, in quanto i commissari non sono dispensati dai loro doveri didattici e scientifici e devono spesso seguire anche le incombenze derivanti dalle loro cariche istituzionali). Ebbene,
dividendo 3100 ore per 12, risulteranno 258 giorni, sabati,
domeniche e feste comprese, ininterrottamente. Ciò significa circa 8 mesi. (Fonte: F. Coniglione, roars 22-11-2012)
RASSEGNA
STAMPA
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
lavoro di abilitazione, oppure in una lezione universitaria dinanzi al Senato accademico in una seduta aperta al
pubblico e in un conseguente colloquio scientifico.
Superata questa prova il candidato ottiene la facultas
docendi per un certo numero di materie, comprovate da
pubblicazioni scientifiche. In un momento successivo terrà una solenne lezione pubblica (Antrittsvorlesung) in cui
gli verrà conferita la venia legendi, cioè il diritto/dovere
di insegnare. Assumerà il titolo di Privatdozent (PD) che
comporta l’obbligo di svolgere gratuitamente un determinato numero di ore di lezione all’università. Qualora tale
obbligo didattico non possa essere assolto, il titolo sarà
convertito in “Dr. Habil”.
Questo modello è stato oggetto di una controversa
riforma: nel 2002 il legislatore federale ha introdotto le cosiddette “Juniorprofessuren”, cioè cattedre da assegnare
mediante concorso a giovani ricercatori che avessero brillantemente concluso il dottorato di ricerca. Questo sistema prevedeva contratti a tempo determinato di tre anni
rinnovabili una volta. Alla fine di questo periodo il professore junior che avesse ottenuto una valutazione positiva
poteva concorrere per un posto di professore di ruolo.
Questa normativa federale che sostituiva il modello
della Habilitation è stata dichiarata illegittima nel 2004 dal
Tribunale costituzionale perché lesiva delle competenze dei
Länder. Da allora è stato ripristinato il sistema della Habilitation, con il quale convive in singoli Länder il tenure
track del professore junior. Una volta soddisfatti, con il
conseguimento dell’idoneità accademica o mediante il percorso della Juniorprofessur, i requisiti per concorrere per
una cattedra, si può partecipare a una valutazione comparativa con altri candidati presso un’università che bandisca un posto vacante. A tale scopo viene insediata una
commissione giudicatrice che, previo esame dei candidati,
redige una lista con una terna di nominativi che sottopone
alla facoltà. Questa la inoltra al Rettore che la sottopone al
Ministro competente a procedere alla nomina. Quest’ultimo di regola non si discosterà dalla graduatoria proposta,
nominando il candidato primo classificato.
Una particolarità del sistema tedesco, volta a contrastare il localismo e il nepotismo dei singoli atenei, è
rappresentata dal divieto di chiamata di un professore da
parte dell’università di provenienza (Hausberufungsverbot), derogabile solo in situazioni eccezionali. Di regola
lo status giuridico del professore universitario, analogamente a quanto previsto in Italia, è di diritto pubblico.
Vari Länder prevedono però un limite di età per la nomina coincidente con il compimento del cinquantaduesimo
anno. Oltre tale limite può comunque essere costituito un
rapporto d’impiego di diritto privato. (Fonte: C. Fraenkel Haeberle, il sussidiario.net 22-11-2012)
L’IDEA DI UNIVERSITÀ TRA PASSATO E FUTURO
A cura di Roberto Celada Ballanti e Mauro Letterio.
De Ferrari Editore, Genova 2012, 122 pp. Un’antologia
che studia l’università degli ultimi due secoli dal punto
di vista filosofico. Humboldt, riformatore dell’Università di Berlino nel 1809-1810, ministro dell’Istruzione del
governo prussiano, è stato il promotore di un’università
moderna: autonoma dallo Stato, che deve solo garantire
aiuti esterni, e socratica nei fini, sempre in costante posizione di ricerca.
Se nella scuola esistono il maestro e il discente, nell’università entrambi esistono in funzione della scienza: non
si accolgono passivamente i saperi, ma c’è una libera collaborazione tra chi insegna e chi impara. Humboldt propone una formazione completa, che unisca la scienza alla
formazione morale. L’innovazione di Humboldt è proprio nell’idea di formare l’umanità: è nell’università che si
formano non solo i ricercatori, ma anche i funzionari dello Stato e i professionisti, i magistrati, i medici, i maestri.
C’è quindi un delicato equilibrio tra la ricerca scientifica
(per pochi) e la preparazione professionalizzante (per la
maggioranza). Egli progetta un sistema educativo in cui
il conseguimento della competenza professionale mira
alla formazione completa dell’uomo. Per John Henry
Newman l’università aiuta lo studente a «imparare a imparare», ad allargare le conoscenze coltivando la mente.
Quindi l’università, oltre ai contenuti – che richiedono un
metodo –, deve trasmettere l’educazione: implica un’azione sulla nostra natura mentale, la formazione di un carattere. Il fine di un corso universitario non è il diritto o la
medicina, ma una visione di tutto il sapere, con un’ampiezza mentale, libertà e autocontrollo, cioè l’educazione
liberale. Karl Jaspers è molto legato alla visione di Humboldt, pensa a un’università romantica, guidata dalla filosofia. Vede l’educazione in modo socratico e lo studente
come risorsa indispensabile per la conoscenza. Sapere e
ricerca vivevano però cambiamenti epocali a causa dello
sviluppo di scienza e tecnica, dell’avvento dell’industria,
delle masse, della democrazia. Proprio nella massificazione e negli apparati burocratici statali Jaspers colse il pericolo più grande per lo spirito dell’università che dovrebbe
unire ricerca, insegnamento e formazione.
Il filosofo tedesco husserliano Martin Heidegger
vorrebbe recuperare una concezione unitaria della scienza. Per Edith Stein, l’università forma l’uomo nella sua
globalità, virtù comprese, conformemente al progetto
pensato per lui da Dio. Un lavoro scientifico condotto in
profondità educa a essere scrupolosi, retti, a rifuggire dalla superficialità e da tutto ciò che è retorica. Il pericolo
è un sapere di tipo specialistico, privo di anima. Anche
per lei, sulla scia di Humboldt e di Newman, insegnamento e ricerca sono strettamente collegati. Nel volume altri
approfondimenti sono dedicati a Giovanni Gentile, Max
Weber, Ernst Bloch e Jürgen Habermas. (Fonte: M. L. Viglione, rivistauniversitas novembre 2012)
ATENEI ON LINE
Il problema di tutti i nostri atenei online è la carenza di docenti di ruolo. «Dalle nostre stime, non ancora
rappresentative di tutti gli istituti – afferma Fantoni,
presidente dell’ANVUR - risultano appena 89 professori, più della metà ricercatori, che dovrebbero formare 42
mila persone. Ci sono poi 1.200 insegnanti a contratto, il
49% dei quali è impiegato anche in altre università. Ovvio
che così non va». Dello stesso parere anche il ministro
dell’Istruzione Francesco Profumo, al lavoro per mettere
a punto un decreto «nei primi mesi dell’anno prossimo»
che faccia un po’ d’ordine nel settore. «Alle università
RASSEGNA
STAMPA
online, a fronte dell’accreditamento - dichiara - sarà richiesta la stabilizzazione di una quota della docenza. Il
processo dell’accreditamento ha l’obiettivo di normalizzare queste situazioni e ci dovrà essere un numero predefinito tra docenti di ruolo e corsi di lauree attivabili.
Si faranno poi valutazioni periodiche per verificare che
l’Accreditamento sia mantenuto».Stefano (Fonte: Corriere economia 26-11-2012)
VQR E ABILITAZIONE SCIENTIFICA. NE PARLA
SERGIO BENEDETTO DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL’ANVUR
La VQR e le procedure di abilitazione costituiscono
una vera e propria rivoluzione per l’accademia italiana.
Per la prima volta i professori ordinari sono sottoposti a
una valutazione per far parte di commissioni di concorso
e abilitazione, secondo il sacrosanto principio che il valutatore deve possedere almeno i requisiti di competenza e
produttività scientifica dei valutati. Non si poteva pensare che tale meccanismo fosse indenne da critiche, che sono
di due tipi. Quelle costruttive di chi crede nel principio
della valutazione e punta a renderlo migliore e più efficace, e quelle di chi approfitta delle invitabili incertezze
e difficoltà iniziali per tentare di affossare la valutazione
e ritornare al passato. È opportuno notare che, insieme
alle voci critiche che trovano spazio anche sui quotidiani
nazionali, l’ANVUR riceve un incoraggiamento costante
dai molti colleghi e, soprattutto, giovani ricercatori che
hanno, come unica speranza di vedere riconosciuti i loro
meriti, il consolidamento di meccanismi di valutazione.
Il principale obiettivo dell’ANVUR è di ricostituire,
all’interno della comunità scientifica nazionale, la fiducia
nel riconoscimento del merito, sia scientifico sia didattico
e d’impegno nell’istituzione. Ad appena diciassette mesi
dalla sua istituzione, l’ANVUR ha avviato il più cospicuo
esercizio di valutazione della ricerca mai tentato nel nostro
paese, coinvolgendo 450 esperti e 13.000 revisori nelle 14
aree disciplinari CUN, la VQR. Il processo è in pieno svolgimento, con una collaborazione proficua tra ANVUR,
comunità scientifica, atenei, ed esperti e revisori; posto le
basi per un processo di accreditamento degli atenei e dei
corsi di studio incentrato sull’autovalutazione, in linea con
il dettato dell’ENQA e con quanto si fa da anni in altri Paesi non solo europei; operato per attuare, in tempi ristrettissimi e ancora con il coinvolgimento della comunità scientifica, le procedure per l’abilitazione nazionale, cui hanno
aderito accettando di essere valutati per l’inserimento nelle
OCSE. DATI SULL’ISTRUZIONE IN ITALIA
I dati OCSE (Education at a Glance 2012) sono:
che l’Italia ha solo il 21% di laureati nella fascia 2534 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni;
• che l’Italia è solo trentunesima su 36 nazioni per
quanto riguarda la spesa per educazione terziaria
rapportata al PIL;
• che durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la
spesa complessiva in formazione cresceva in rapporto al PIL, in Italia la spesa non solo è diminuita ma ha subito il calo più pesante di tutte le
nazioni considerate ad eccezione dell’Estonia;
• che la spesa cumulativa per studente universitario
è inferiore alla media OCSE e ci vede sedicesimi su
25 nazioni considerate;
• che le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi
Bassi e Portogallo.
Malgrado questo, la produttività scientifica italiana
dei ricercatori italiani è superiore a quella di Germania,
Francia e Giappone (International Comparative Performance of the UK Research Base, pp. 65-66, analisi basata su dati Scopus e OCSE). (Fonte: redazione roars
27-11-2012)
L’ITER PER LA CARRIERA UNIVERSITARIA
Ecco l’iter che oggi un giovane medico o biologo
deve percorrere, se intende intraprendere la carriera universitaria. Primo: vincere il concorso per diventare dottore di ricerca. Dovrà poi lavorare giorno e notte per almeno tre anni. È quasi d’obbligo passare almeno 6 mesi di
lavoro negli Stati Uniti. Secondo: se tutto va bene, dovrà
lavorare ancora per due o anche per quattro anni con un
assegno di ricerca. Terzo: aspettare che si liberi un posto
di ricercatore, per il pensionamento o il prepensionamento di qualche “strutturato”, vivendo di misere borse di
studio della Regione o di Enti privati. Quarto: una volta
vinto il concorso, lo stipendio sarà quello dei professori
di scuola media. Quinto: dopo anni dovrà superare il concorso per professore associato e poi superare il concorso
per professore ordinario. Un particolare: i 5200 euro arrivano, se arrivano, quasi sempre alle porte della pensione.
(Fonte: P. L. Ipata, FQ 02-12-2012)
GARR-X, RETE PER LA COMUNITÀ SCIENTIFICA
ITALIANA
La nuova rete per l’Istruzione e la Ricerca si chiama GARR-X. E’ stata presentata ufficialmente dal Consortium GARR, presso la sede del MIUR a Roma alla
presenza del ministro Francesco Profumo. Oltre 8.500
chilometri di fibra ottica tra dorsale di rete e infrastruttura di accesso sono già a disposizione di oltre 2,5 milioni
di utenti della comunità scientifica italiana. Ancora una
volta l’innovazione digitale parte dalla filiera scuola-università-ricerca: la prima NGN italiana non è solo connettività ad alte prestazioni, ma un’infrastruttura digitale
integrata capace di supportare la partecipazione ai progetti di ricerca internazionali, grazie ai suoi collegamenti
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
ABILITAZIONE SCIENTIFICA. PROLUNGAMENTO FINO A 6 MESI DEI LAVORI DELLE COSTITUENDE COMMISSIONI
E’ accertato allo stato attuale che sono state presentate circa 69.000 domande, per quasi 46.000 candidati
(di cui circa 20.000 esterni ai ruoli delle Università). La
CRUI ha convenuto con il Ministro sulla necessità di
prevedere nel Decreto “Milleproroghe” un prolungamento fino a 6 mesi dei lavori delle costituende commissioni
correlandolo con il numero delle domande (la cui media
per Commissioni oscilla tra più 500 e 200-250, con punte
anche superiori a 1000). (Fonte: CRUI 25-11-2012)
commissioni oltre 1.500 candidati stranieri. (Fonte: S. Benedetto, intervista a cattolicanews.it 23-11-2012)
RASSEGNA
STAMPA
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UNIVERSITÀ NOTIZIE
intercontinentali, e piattaforma abilitante per accedere in
maniera semplice e trasparente alle risorse di calcolo, storage, big data e ai servizi Cloud. Le infrastrutture digitali
rappresentano dunque un elemento chiave della strategia
italiana per ridurre la frammentarietà della partecipazione nazionale al programma europeo Horizon 2020. “La
disponibilità di una vera Next Generation Network - ha
commentato Profumo - sarà un importante alleato per
introdurre ‘più Europa’ nel sistema italiano della ricerca
e dell’innovazione - ovvero allineare la nostra programmazione, i nostri meccanismi e i nostri strumenti a quelli
europei. Una strategia che al MIUR stiamo perseguendo
con forza, e che è stata anche la ragione che ha ispirato la
recente consultazione pubblica su Horizon2020”.
Con la sua vasta utenza e un volume totale di traffico
di oltre 85 Petabyte, registrato tra gennaio e ottobre 2012,
GARR-X e’ la community network più grande e significativa del nostro paese. (Fonte: AGI – Roma 29-11-2012)
CONVENZIONE PER SCAMBIO DI PERSONALE
DI RICERCA TRA UNIVERSITÀ ED ENTI PUBBLICI DI RICERCA
Il 28 novembre, Francesco Profumo, ministro dell’istruzione, università e ricerca, ha firmato il decreto che
definisce la “Convenzione quadro tra atenei ed enti pubblici di ricerca per consentire a professori e ricercatori
universitari a tempo pieno di svolgere attività di ricerca
presso un ente pubblico e ai ricercatori di ruolo degli
enti pubblici di ricerca di svolgere attività didattica e
di ricerca presso un’università”. Il provvedimento permetterà a ricercatori e professori universitari di ruolo di
svolgere la propria attività anche presso enti di ricerca e
ai ricercatori di ruolo in servizio presso enti di ricerca di
svolgere la propria attività anche presso un ateneo. Le
convenzioni, che potranno interessare più dipendenti di
entrambi gli enti firmatari, avranno una durata minima
di un anno e massima di cinque, e stabiliranno le modalità di riparto dell’impegno e delle attività da svolgere
presso l’ente o l’ateneo di destinazione, con particolare
riferimento a un eventuale impegno didattico. Le disposizioni e i criteri previsti dal decreto interessano gli enti
di ricerca vigilati dal MIUR, le università statali, compresi gli istituti universitari a ordinamento speciale, le
università statali legalmente riconosciute, le università
straniere e i centri internazionali di ricerca. Tutti gli altri enti pubblici di ricerca non vigilati dal MIUR, tra i
quali Istat, Iss, Enea e Cra, sono stati esclusi. (Fonte:
usirdbricerca.info 04-12-2012)
LE MIGLIORI FACOLTÀ DI INGEGNERIA D’ITALIA (ATENEI STATALI 2012)
Ranking di CENSIS Servizi. Per informazioni sui criteri.
- 7th - MODENA - REGGIO EMILIA
Rating: AAA
Produttività: 108 – Didattica: 83 – Ricerca: 97 – Rapporti: 85
- 6th - BOLOGNA
Rating: AAA
Produttività: 94 – Didattica: 91 – Ricerca: 97 – Rapporti: 102
- 5th - PAVIA
Rating: AAA
Produttività: 108 – Didattica: 89 – Ricerca: 107 –
porti: 82
- 4th - TRENTO
Rating: AAA
Produttività: 90 – Didattica: 87 – Ricerca: 110 –
porti: 101
- 3rd - GENOVA
Rating: AAA
Produttività: 106 – Didattica: 95 – Ricerca: 93 –
porti: 96
- 2nd - TORINO – POLITECNICO
Rating: AAA
Produttività: 102 – Didattica: 89 – Ricerca: 97 –
porti: 106
- 1st - MILANO – POLITECNICO
Rating: AAA
Produttività: 110 – Didattica: 96 – Ricerca: 88 –
porti: 110
Rap-
Rap-
Rap-
Rap-
Rap-
(Fonte: CENSIS e sevenhits 03-12-2012)
FONDI PER L’UNIVERSITÀ. COLLOQUIO TRA IL
CONDUTTORE FAZIO, IL PROF. SETTIS E IL MINISTRO PROFUMO A CHE TEMPO CHE FA
Fazio: C’è la preoccupazione seria dei sindacati addirittura per la prosecuzione dell’anno accademico prossimo venturo se non verranno riconfermati i fondi per
l’università.
Settis: Beh, per l’università mancano, come il Ministro sa molto meglio di me, ben 400 milioni di euro anche
perché l’università ogni anno contribuisce 15 milioni di
euro per il disastro Alitalia chiamato anche salvataggio …
Fazio: L’università contribuisce per il disastro
Alitalia?
Settis: Si, dal fondo di finanziamento ordinario
dell’università, ogni anno sono prelevati 15 milioni di
euro per salvare l’Alitalia, 10 milioni - per l’esattezza 9,4
milioni di euro – per diminuire il prezzo dei carburanti, 5
milioni di euro per la cassa pensioni dei giornalisti. Ma
queste cose deve proprio pagarle l’università?
Fazio: Ecco la domanda sorge spontanea: si, perché
le paga l’università?
Profumo: Beh perché intanto oggi abbiamo il problema reale di questi 400 milioni che sono in meno rispetto all’anno scorso – ha ragione il prof. Settis. Quindi il primo tema è che, così come nella prima fase della
legge di stabilità la Camera ha deciso di dare una priorità alla famiglia, il Senato adesso potrebbe fare un
cosa analoga con la scuola e l’università. Io credo che se
dessimo questo tipo di segnale, sarebbe un segnale forte
per il paese e un segnale che cambierebbe l’indirizzo che
purtroppo in questi anni non è stato ancora cambiato. Stiamo per andare verso una campagna elettorale.
Quindi, se i partiti che si presentano dicessero chiaramente quale è il loro programma per scuola, università,
ricerca – e sanità – e lo dicessero di fronte ai cittadini,
probabilmente avremmo già fatto un primo passo concreto, e noi tutti credo che ce lo aspettiamo. (Fonte: redazione roars 04-12-2012)
01011801 Allegato 8
Delega per la riscossione
delle quote sindacali
inpdap
Io sottoscritto/a professore ordinario / associato in pensione dell’Università di ................................................,
socio della sezione Uspur di
..................................................................................
Acquisizione di fatti o stati del richiedente attraverso l’esibizione del suo documento di riconoscimento.
(Art. 45 del Testo Unico sulla documentazione amministrativa D.P.R. 445/2000)
Dati anagrafici
Cognome
Nome
Nato/a il
(gg/mm/aa)
a
Prov.
Codice fiscale
Residenza
Residente in
Prov.
Città
Via/Piazza
Numero Telefonico
C.A.P.
E-mail
AUTORIZZO
Provinciale dell’INPDAPdi
dell’INPDAP di..........................................................................................................
........................................................................................................
la Sede Provinciale
ad effettuare in forza della legge
legge 31.7.1975,
31.7.1975, n. 364 la trattenuta sulla pensione,
pensione, di cui sono titolare,
titolare, del
sindacale/associativo pari a €
t 8,00 mensili da versare a mio nome e conto al Sindacato
contributo sindacale/associativo
Pensionati USPUR - Unione
Unione Sindacale
Sindacale Professori
Professoridie Ruolo
Ricercatori
sul cc.
bancario
290,
acceso
sul cc.Universitari
bancario 290,
acceso
presso
la “Banca
presso
la
“Banca
Intermobiliare
di
Investimenti
e
Gestioni
S.p.A.”,
Via
dei
Della
Robbia
24/26,
Firenze,
Intermobiliare di Investimenti e Gestioni S.p.A.”, Via dei Della Robbia 24/26, Firenze, coordinate bancacoordinate
bancarie:
IBAN 8000
IT 15 0000
V 03043
rie: IBAN IT51
G030 4302
000002800
290. 00957 0000 290.
ACCETTO
che la presente delega si intenda tacitamente rinnovata di anno in anno, se non interviene revoca a
mezzo raccomandata indirizzata alla Sede Provinciale dell’INPDAP che eroga la pensione e per conoscenza alle organizzazioni sindacali/associazioni pensionati interessate.
Avendo ricevuto dal predetto Sindacato l’informativa sull’utilizzazione dei miei dati personali, ai sensi dell’art. 10 della legge 659/96 e decreto legislativo 196/2003, consento al trattamento degli stessi per tutte le
finalità previste dallo Statuto del Sindacato e quindi anche per quanto concerne i dati riguardanti l’iscrizione sindacale comunicati agli Enti interessati, ai quali, parimenti, consento il trattamento degli stessi per
i propri fini istituzionali e per gli adempimenti degli obblighi previsti dalla legge e dalla convenzione con il
succitato Sindacato.
Luogo e data
Firma del richiedente
TIMBRO DELL’ORGANIZZAZIONE SINDACALE
FIRMA DEL RAPPRESENTANTE L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE