Una questione di metodo. Lavoro di comunità e di

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Una questione di metodo. Lavoro di comunità e di
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ARTICOLI E COMMENTI DAL MONDO DEL SOCIALE
#1 Gennaio 2014
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Una questione di metodo.
Lavoro di comunità e di rete.
di Massimo Caroli – Direttore di Fare Comunità
Dopo quattro anni dalla nascita del Consorzio Fare Comunità ci sembra utile “fare il punto per
contribuire a definire alcune traiettorie di futuro. Per questo motivo vogliamo analizzare le iniziative
che Fare Comunità e i suoi soci hanno realizzato o stanno realizzando. Inoltre, vogliamo riflettere sulle
metodologie operative e i principi di riferimento del nostro modello di “agente territoriale di promotore
di socialità” per arricchirlo di punti di vista diversi e di possibili prospettive future. Perché - come si
vedrà - esiste un modello che percorre le nostre azioni che da un lato ha la caratteristica di aggiornarsi e
adeguarsi ai cambiamenti e agli stimoli dei contesti e delle persone, dall’altro cerca faticosamente di
strutturarsi per dirsi, per raccontarsi al fine di proporsi con le caratteristiche di una specifica
professionalità.
Come Consorzio stiamo esplorando i “campi aperti del nuovo welfare che verrà”, grazie a una
compagine sociale ricca e articolata che unisce le competenze della cooperazione sociale A e B della
provincia con quella di alcuni enti di formazione (Cefal Emilia-Romagna, Scuola Arti e Mestieri
Pescarini, Engim Ravenna). Entrambi i soggetti (cooperazione sociale ed enti di formazione) sono
storicamente impegnati a dare risposte educative, sociali e lavorative alle fasce più deboli della
popolazione, costituendo un aggregato di conoscenze e competenze straordinario che, nello sforzo di
una comunicazione e integrazione reciproca, segnalano la pista di lavoro più innovativa in campo
sociale per il futuro: l’integrazione appunto.
L’area di azione di Fare Comunità si sta sviluppando nei seguenti campi d’intervento:
 il turismo sociale con il progetto europeo Leonardo “Social Tourism - SO.TO.” , in
collaborazione con Cefal Emilia-Romagna”.
 lo sviluppo delle imprese sociali di inserimento lavorativo all’interno di SEA (Social Economy
Agency), un progetto finanziato dal programma Italia-Slovenia per lo sviluppo di nuovi bacini
imprenditoriali dentro le cooperative di tipo B. Questo progetto ha portato a un protocollo
sulle clausole sociali sottoscritto con la provincia e che sta cominciando a dare i suoi primi frutti
intesi come progetti imprenditoriali innovativi.
 le sperimentazioni realizzate a Brisighella e Faenza per lo sviluppo di percorsi di partecipazione
dei cittadini mirati ad animare e promuovere le comunità territoriali anche di aree a rischio di
declino, per prendere in mano il proprio destino (la cooperativa di comunità Oltrevalle, nata a
Brisighella all’ inizio del 2013, vuole fare questo) oppure per gestire processi di riqualificazione
urbana e sociale (come nel caso degli interventi di via Fornarina a Faenza).
 il progetto Laboriosamente, gestito in collaborazione con il comune di Ravenna, che cerca di
allargare il bacino delle persone disposte a svolgere volontariato per la “manutenzione dei beni
comuni”.
 la complessa filiera dei servizi di formazione, sostegno a accompagnamento al lavoro a favore
delle fasce deboli.
Tutte queste azioni hanno alla base un modello d’intervento centrato su due fondamenti concettuali e
da due “abiti mentali” intesi come le caratteristiche strutturali che sono alla base dell’azione degli
operatori e di conseguenza delle imprese.
Il primo concetto è: “nulla su di noi senza di noi “ (slogan FISH Federazione Italiano per il
Superamento dell’andicap).
Abbiamo chiaro (e se a volte lo dimentichiamo, ricordiamolo-ricordatecelo) che il nostro obiettivo
primario è quello di valorizzare il potenziale dell’ “utente” all’interno dei servizi alla persona.
Nostro compito è porre l’accento pedagogico/metodologico/organizzativo sulle “parti sane” della
persona rispetto ai deficit prodotti dalla patologia o dalla situazione di disagio ed emarginazione,
valorizzando le competenze presenti o potenziali. Questo approccio dà rilevanza alla storia personale e
autobiografica individuale ed è un grande acceleratore della “motivazione”. Permette di organizzare
modalità di sostegno e supporto che agiscano sulle possibilità reali di sviluppo della capacitazione
personale1 all’interno di contesti di vita reale, e di valorizzare gli aspetti di partecipazione e
responsabilità della persona in tutte le scelte operative che lo riguardano.
Inoltre, questo approccio è prima di tutto sostenuto da una visione antropocentrica, secondo cui la
personalità e l’identità della persona si formano all’interno della rete dei rapporti storico-sociali che ogni
individuo riesce ad attivare col proprio ambiente. Più ricca, articolata, complessa e consapevole risulta
essere questa rete di rapporti (e la conseguente attribuzione/riconoscimento dei ruoli sociali), più la
personalità e gli aspetti psicologici individuali sono caratterizzati da maturità, responsabilità e apertura.
E’ una visione che si inserisce nella prospettiva della triade inclusione/diritto di
cittadinanza/responsabilità e si riconosce in un’idea di “cura sociale” tutta dentro il tessuto della
comunità.
A questo orizzonte culturale di riferimento si contrappone una visione centrata sulla triade
cura/assistenza/dipendenza che purtroppo è ancora “egemonica” nelle politiche sociali dei principali
Paesi europei, dove i percorsi socio-riabilitativi sono prioritariamente organizzati all’interno di
“strutture dedicate”, anche quando non strettamente necessarie.
L’insieme delle risorse relazionali di cui una persona dispone, congiunto con le sue capacità di fruirne e quindi
di impiegarlo operativamente; nella letteratura viene spesso anche indicato con il concetto di capitale sociale,
come sintesi degli aspetti materiali e immateriali della relazione tra persona e contesto (Sen). «La ‘capacitazione’
di una persona non è che l’insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti che essa è in grado di
realizzare. È dunque una sorta di libertà: la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative di
funzionamenti (o, detto in modo meno formale, di mettere in atto più stili di vita alternativi)» (Nussbaum).
1
Il secondo concetto è: “nessuno ce la fa da solo”
Temi come l’inclusione e l’integrazione delle persone disabili e delle fasce deboli in generale sono
troppo complessi e articolati per rivendicare diritti o primogeniture sul primato delle conoscenze, delle
teorie e dei saperi necessari per raggiungere questo obiettivo. Tanto meno l’elemento di efficacia è una
presunta “patente pubblica”.
Il “nessuno ce la fa da solo” rimanda a un approccio culturale e metodologico che prevede la
strutturazione di servizi centrati sulla creazione e il mantenimento di una rete territoriale di
supporto che condivida e sostenga i percorsi d’integrazione. Istituzioni pubbliche, enti locali, servizi
per l’impiego, associazioni imprenditoriali e dei lavoratori, associazioni di volontariato, imprese sociali e
tutta la comunità sono potenzialmente “parte in causa nel processo di cura”. A ognuno di questi
soggetti vanno riconosciuti ruolo, competenza e responsabilità in funzione dell’obiettivo comune.
Questo scelta metodologica ormai è impressa nel nostro DNA.
Infatti, gran parte del nostro lavoro quotidiano è dedicato all’attività di manutenzione e ampliamento
della rete, in una “terra di confini” (imprese, servizi socio-sanitari, servizi per il lavoro, formazione
professionale, cooperazione sociale, volontariato) dove relazioni, negoziazioni, conflitti e mediazioni tra
diversi attori sono la prassi. Questo lavoro di contatto e contaminazione tra “diversità” ci ha convinto
che quella di stare sui confini è la strada per ri-articolare, in modo originale, il campo dell’azione
pubblica, tradizionalmente organizzato per settori.
Diciamo, invece, che sarà sempre più necessario porre al centro l’integrazione di temi e interessi
come strategia progettuale tra più attori, per favorire la possibilità di sviluppare nuovi modi di
inquadrare e definire la specificità e la criticità di situazioni dotate di alti livelli di complessità, al fine di
trovare “soluzioni” nuove e originali.
La costruzione e il mantenimento delle reti, pertanto, non sono una moda del momento, bensì una
priorità strategica e una necessità organizzativa per la creazione di nuove tipologie di azioni sociali
centrate su:




valorizzazione delle competenze e dei saperi provenienti dal “basso”.
organizzazione della risposta a bisogni complessi.
attrazione e combinazione di risorse di diversa natura.
attivazione di un approccio operativo di tipo incrementale capace di adeguare in corso
d'opera obiettivi e contenuti delle azioni intraprese, adattandole alla mutevolezza e alla
dinamicità del contesto.
Rispetto a quest’ultima riflessione vi invito a leggere attentamente, per chi non l’avesse già fatto, il
lavoro di ricerca realizzato dalla Regione Emilia Romagna in collaborazione con AICCON “Un altro
welfare. Esperienze generative”2.
2
Dalle considerazioni conclusive emerge che l’analisi dei casi analizzati fornisce la possibilità di rappresentare le
politiche pubbliche come il risultato della combinazione degli apporti, in questo caso, di soggetti pubblici e del
privato sociale nell’erogazione di servizi d’interesse generale, in cui la partecipazione congiunta di tali
soggetti rappresenta un presupposto qualitativo imprescindibile e non surrogabile.
Una seconda importante considerazione è la capacità delle politiche in partnership pubblico/privato non
solo di rendere maggiormente efficienti ed efficaci servizi di pubblica utilità storicamente presidiati dal
modello di Welfare State, ma anche di individuare ed erogare servizi in campi nuovi ed aggiuntivi. Questo
Dai due riferimenti concettuali sopra esposti discendono i due principali “abiti mentali” che
caratterizzano gli operatori impegnati nelle attività promosse da Fare Comunità.
Il primo è l’Ascolto Attivo, che nella definizione di Marinella Sclavi è diametralmente opposto a ciò
che caratterizza quello che tradizionalmente viene considerato un buon osservatore: impassibile,
«neutrale», sicuro di sé, teso a nascondere e ignorare le proprie reazioni emozionali. Al contrario, se
vogliamo entrare nella giusta ottica, dobbiamo imparare qualcosa di nuovo e sorprendente, che ci
«spiazza» dalle nostre certezze e dunque ci consente di dialogare. Questo significa che dobbiamo essere
disponibili a sentirci «insicuri», a riconoscere che facciamo fatica a comprendere ciò che l’altro ci sta
dicendo: in questo modo stabiliamo rapporti di riconoscimento, rispetto e apprendimento reciproco
che sono la condizione per affrontare congiuntamente e creativamente il problema.
L’Ascolto Attivo non è un comportamento o una serie di comportamenti, ma è un processo relazionale
complesso che richiede, per poter dirsi compiuto, il ricorso a una consapevolezza di sé non
autoreferenziale (oserei dire multipla) e alla gestione creativa dei conflitti.
Assomiglia molto alla “capacità negativa” così come descritta da Francesco Lanzara in un libro del
1993, “Capacità negativa” appunto, ma ancora di un’assoluta e grandiosa attualità.
Per Lanzara la capacità negativa è la capacità di esistere «nell’incertezza, di farsi avvolgere dal mistero, di
rendersi vulnerabili al dubbio, restando impassibili di fronte all’assenza o alla perdita di senso, senza
volere a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o a motivi certi» (Lanzara, 1993, 13). Si tratta
dunque di una disposizione cognitiva, immaginativa e affettiva che permette di abitare l’esitazione e di
«lasciare che gli eventi seguano il loro corso, restando in vigile attesa, e a lasciarsi andare con essi senza
pretendere di determinare a priori e a tutti i costi la direzione, il ritmo, o il punto di arrivo» (ibidem, 14).
Questa disposizione è fondamentale ed è molto difficile da “indossare” anche per gli operatori più
preparati, che sono a volte soverchiati dalla logica del “controllo”, soprattutto se le rigidità
amministrative e burocratiche spingono a una standardizzazione dei percorsi secondo logiche
rigidamente procedurali, asettiche, standardizzate, neutrali. Tuttavia, che piaccia o no, ascolto attivo o
capacità negativa che dir si voglia sono la condizione per creare l’empatia3 con l’altro per valorizzarne
capacità e competenze, per trovare soluzioni cooperative alle questioni e ai problemi che abbiamo di
fronte. Senza la “resa della funzione di controllo” non c’è soluzione a problemi complessi, e i problemi
d’inclusione sociale sono problemi complessi. Inoltre la capacità dell’ascolto attivo, oltre che a costruire
perché, in questa prospettiva, viene attribuita ai “portatori di bisogno” e più in generale alla società la “capacità”
di apportare risorse, in particolare competenze e conoscenze.
3
L'empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui. Empatia significa sentire dentro ed è una
capacità che fa parte dell’esperienza umana. Si tratta di un forte legame interpersonale e di un potente mezzo di
cambiamento. Il concetto può prestarsi al facile riduttivismo mettersi nei panni dell’altro, mentre invece
significa andare non solo verso l’altro, ma anche portare questi nel proprio mondo. Essa rappresenta inoltre la capacità di un
individuo di comprendere i pensieri e gli stati d'animo di un'altra persona. L'empatia è dunque un processo: essere
con l'altro. L’empatia costituisce un modo di comunicare nel quale il ricevente mette in secondo piano il suo modo
di percepire la realtà per cercare di far risaltare in sé stesso le esperienze e le percezioni dell'interlocutore. È una
forma molto profonda di comprensione dell'altro perché si tratta d'immedesimazione negli altrui sentimenti. Ci si
sposta da un atteggiamento di mera osservazione esterna (di come l'altro appare all'immaginazione) al come
invece si sente interiormente (in quei panni, con quell'esperienza di vita, con quelle origini, cercando di guardare
attraverso i suoi occhi) . (Fonte: Wikipedia).
le premesse per un approccio empatico con l’altro, è condizione necessaria per sviluppare capacità
abduttive4 e cioè la costruzione di ipotesi esplicative a partire da un insieme di dati anche appartenenti
a campi diversi ,da cui si estrae ciò che hanno in comune.
Infatti il secondo abito mentale è propriamente una metacompetenza di tipo cognitivo mirata a
riorganizzare le informazioni/conoscenze in funzione dell’azione. Bateson critica l’oggettività illusoria
su cui si fonda il nostro sapere. La realtà fenomenica non è costituita dagli oggetti, dalla cosa in sé, ma è
costituita da “notizie di differenze”. Un’idea è una differenza che genera differenze. Definizione
che connette la nozione di idea a quella di informazione. Ricevere informazioni vuol dire ricevere
notizie di differenze che vanno organizzate dalla conoscenza, che in questa logica svolge un’opera di
distinzione, classificazione e attribuzione di priorità, ponendosi come un atto proattivo e creativo che
presuppone responsabilità, messa in discussione di proprie precedenti convinzioni, scelta e decisione in
rapporto a un contesto e a una relazione. Questo “abito mentale” è ben rappresentato da questo
dialogo tra Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, protagonisti del celebre romanzo di Umberto
Eco il Nome della Rosa:
“Ma allora”, ardii commentare , “siete ancora lontano dalla soluzione…”
“Ci sono vicinissimo, ma non so quale” disse Guglielmo.
“Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?”
“Adso, se l’avessi insegnerei teologia a Parigi”
“A Parigi hanno sempre la risposta vera?”
“Mai”, disse Guglielmo, “ma sono molto sicuri dei loro errori”
“E voi non commettete mai errori ?”
“Spesso. Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di
nessuno”5
Questa metacompetenza fornisce struttura organizzativa all’azione di chi agisce all’interno di un
network operativo, che è la condizione di chi come noi lavora sul campo, in prima linea.
“Your network is your networth” si vede inciso ormai in molti bit: la tua rete è il tuo valore nella rete. La
ripropongo estrapolandola dalla pur utilissima logica e dal linguaggio del web in: “Your net-people is your
worth”. La tua rete amicale, professionale, disciplinare, la tua rete di conoscenze, che comunque incrocia
le tue idee e il tuo lavoro, è il primo valore da mettere a frutto.
In questa logica, la tua rete è il tuo valore e il tuo futuro, se gestita con competenza artigianale di
collaborazione, realtà e reciprocità. E’ una rete resa incomparabilmente e potenzialmente più potente
dalle tecnologie, ma che affonda nel passato. Il lavoro di comunità6 a cui il nostro nome si richiama non
è nato oggi ma negli anni Settanta del XX° secolo.
«Ogni abduzione può essere vista come una descrizione doppia o multipla di qualche oggetto o evento o
sequenza. Se esamino l’organizzazione sociale di una tribù australiana e lo schema delle relazioni naturali su cui è
basato il totemismo, vedo che questi due blocchi di conoscenza stanno tra loro in relazione abduttiva, cioè
obbediscono entrambi alle stesse regole. In ciascun caso si suppone che certe caratteristiche formali di una
componente siano riflesse nell’altra» (Bateson, 1984,, 192-93).
4
U. Eco “Il nome della Rosa” 1984
Il lavoro di comunità deve sostenere le risorse delle persone e dei gruppi aiutandole a mettersi in rete in un
clima di fiducia e riconoscimento reciproco, in vista di questo obiettivo: promuovere un ambiente sociale in cui
la qualità della vita sia data da processi relazionali che mettono in moto corresponsabilità fra cittadini, in cui il
prendersi cura dell'altro risponde a una scelta di valore in favore dell'uomo e non è solo movimento emozionale
5
6
Stare dentro la rete è la base del lavoro di comunità, che sostiene la nostra idea di progettazione “sul
campo” centrata, oltre che sulla costruzione di programmi per l’azione coerenti con gli obiettivi, su
capacità esplorative ed osservative da utilizzare per analizzare i “contesti singolari” del sistema che si
sta esplorando (la rete familiare, la rete dei servizi , la rete delle opportunità lavorative e d’integrazione
sociale) e che costituiscono il terreno dell’azione.
Gli operatori che agiscono “in questo ambiente e con queste modalità operative” - accanto a
conoscenze specifiche relative al loro settore d’intervento (educatore, assistente sociale, operatore
dell’inserimento lavorativo) e alle tipologie d’utenza di cui si occupano (minori, disabili, anziani,
famiglie) - sviluppano capacità progettuali volte a realizzare percorsi e soluzioni individualizzate che per
natura sono diversi e singolari.
Per rendere efficace la sua azione, l’operatore deve situarsi il più vicino possibile all’ambiente e alla
“materia” della sua azione, in quanto è dalla dinamica dell’azione, dal sistema delle relazioni e dalla
lettura dei contesti che recupera elementi utili alla soluzione dei problemi e può, nel frattempo, aprire
nuove piste e nuove possibilità progettuali. Mi pare che da questo esempio si possa comprendere una
delle caratteristiche della sussidiarietà verticale, laddove si afferma la necessità di valorizzare le
competenza di chi è più vicino al problema.
Questa modalità operativa (o meta competenza) è assolutamente applicabile a qualunque ambito
operativo dell’intervento sociale.
Citando Morin, le competenze richieste per promuovere progetti di comunità necessitano di "una testa
ben fatta piuttosto che una testa ben piena". Morin distingue tra "una testa nel quale il sapere è
accumulato e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso" e una
"testa ben fatta", che comporta "un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi in relazione a
principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso e di conseguenza
azione".
Rispetto a ciò che afferma Morin, sottolineiamo la necessità dei diversi saperi di sapersi ascoltare e di
non prevaricarsi in funzioni di rapporti di potere storicamente consolidati. E’ fondamentale che
nascano nuovi saperi (andare all’interno dell’impresa per collocare una persona disabile è un nuovo
sapere che 20 anni fa non esisteva poiché si confrontano e si mettono in reciproco ascolto il mondo
economico e il mondo sociale) e che questi nuovi saperi vadano ad abitare nuovi spazi di competenze
in settori ibridi di confine, inventando nuove competenze e nuove professionalità. In questa nuova
frontiera del “saper abitare più territori di confine” c’è la nostra idea di innovazione sociale.
Le innovazioni sociali, infatti, sono nuove idee che incontrano bisogni sociali e allo stesso tempo
creano nuove relazioni e nuove collaborazioni.
Per Alberto D’Ottavi, co-fondatore della piattaforma di commercio online Blooming, strutturata con
modalità social :
verso ciò che è già prossimo e vicino, per relazioni o interessi. E' la prospettiva della comunità democratica
richiamata da Rei1 che suggerisce giustamente di "favorire l'apprendistato educativo alla cittadinanza" attraverso
percorsi che consentano "ai soggetti sociali di formarsi in quanto cittadini", cioè come soggetti che hanno "una
disposizione della mente socialmente generosa" (Dewey) e sanno tradurla in cittadinanza sociale attiva.
– Lavoro di comunità come costruzione di relazioni e di impegno sociale. Silveria Russo e Elvio Raffaello
Martini.
“L’innovazione sociale non ha confini fissi: essa può agire in ogni settore, il pubblico, il non-profit e il
privato. Inoltre le soluzioni più interessanti sono quelle che si muovono al confine tra un settore
e un altro, e in settori completamente diversi tra loro, come: il commercio equo, l’apprendimento a
distanza, gli ospizi, l’agricoltura urbana, lo smaltimento dei rifiuti e la giustizia retributiva. Mi piace
pensare che è questa etica che esce dalla rete e inizia a colonizzare nuove forme di organizzazione del
lavoro. E' interessante perché risponde a regole non aritmetiche. Non siamo più nella dimensione dove
1+1 fa 2, ma 1+1 può fare 3: prendendo “pezzi” magari disagiati di società e mettendoli insieme si
possono creare delle opportunità di business ma non solo, anche e soprattutto creare un nuovo
welfare".
Infine questa riflessione metodologica sugli aspetti operativi di “nuove e innovative tipologie di servizi”
apre prospettive e visioni che riguardano le politiche, anche qui al plurale.
Il perdurare della crisi e i suoi effetti sul tessuto sociale ed economico dei nostri territori ci impongono
di interrogarci sull’approccio e sulle modalità di risposta ai bisogni diversi e articolati espressi, oltre che
dalle fasce più deboli della popolazione che stanno aumentando in maniera preoccupante, anche dagli
attori economici e sociali e dalle pubbliche amministrazioni.
In un contesto sociale dinamico e mutevole, come quello attuale, la produzione di nuovi servizi
pubblici che potremmo definire “non convenzionali” risulta cruciale per mantenere la sfera pubblica
ancorata alle trasformazioni sociali. Pertanto riteniamo che siano da studiare e valorizzare tutte quelle
iniziative che promuovono la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini nella progettazioneorganizzazione dei servizi di welfare.
Tra l’altro con la legge regionale n. 3/2010 la Regione Emilia-Romagna ha valutato che la
partecipazione dei cittadini - seppur prevista in alcuni momenti - va ulteriormente rafforzata, e a partire
dal 2012 ha avviato con il progetto “Community Lab” un percorso teso a rafforzare modalità più
dirette di coinvolgimento del territorio di riferimento, in particolare nella fase di programmazione
nell’ottica di sviluppo della “capacitazione della comunità”.
Il progetto Community Lab vuole diffondere un approccio di tipo comunitario e coinvolgere figure
chiave del sistema, in particolare a livello distrettuale. Questa metodologia operativa appare per la
Regione “particolarmente adatta per pianificare interventi di sostegno sociale (ad es. offerta di reti di
re-inclusione, housing sociale, ecc.), di generazione delle risorse sociali e la loro valorizzazione, per
sostenere percorsi di cura e la gestione di patologie croniche.”
In questo senso, riteniamo che i processi e le metodologie operative che si richiamano al lavoro di
comunità così come precedentemente presentate, possono avviare un processo di creatività socioistituzionale intesa come l’incontro tra istituzioni e società a ridosso dell’esplorazione di nuovi possibili
campi d’azione pubblica.
Per poter integrare creativamente la sfera pubblica con progetti e azioni che sappiano rappresentare
delle concrete forme di innovazione e di risposta a esigenze e bisogni provenienti dal “basso”, sembra
necessario innanzitutto un cambiamento culturale, che solleciti tanto la sfera amministrativa quanto
quella sociale a non limitare lo spazio dell’interazione e del confronto reciproco all'area dei bisogni
definiti secondo criteri convenzionali. Per questo, non a caso, i nuovi e soli settori di espansione
economica sono: housing sociale, turismo esperienziale e di comunità, forme di commercio alternative
e inclusive, simbiosi industriale, artigianato digitale o connesso a forme di riuso, riciclaggio e riutilizzo
dei materiali. Tenendo insieme i richiami dell’Europa sulle tre parole d’ordine, ovvero intelligenza,
sostenibilità e inclusione, si rompono gli schemi della settorializzazione, aprendosi al contempo al
valore aggiunto della “socialità”.
E’ all’interno di quest’orizzonte che pensiamo debba riscriversi il nuovo welfare di comunità. Un primo
passo decisivo riguarda il cambiamento nel modo di concepire la sfera pubblica stessa: da ambito di
esercizio di competenze prestabilite a spazio di ricerca di nuove possibili sinergie tra diversi attori per la
soddisfazione dei bisogni dei cittadini nell’interesse collettivo. A questa ri-contrattazione della sfera
pubblica corrisponde la necessità di modificare l’approccio che sostiene l’intervento pubblico,
soprattutto nell'attuale fase di cambiamento strutturale del modello di welfare italiano.
La crisi che stiamo attraversando, infatti, sta determinando la fine del modello del rapporto pubblicoprivato fondato sull'esternalizzazione della gestione dei servizi socio-sanitari. La mancanza di risorse
economiche per il welfare e la riduzione drastica della spesa sociale impone un diverso approccio al
tema della domanda sociale e anche di nuovi strumenti contrattuali che favoriscano la realizzazione di
partenariati territoriali pubblico-privato e privato sociale-cittadini.
Al termine di questa digressione, proponiamo tre sollecitazioni politico-strategiche che stanno alla base
delle prassi e delle metodologie precedentemente esposte e che costituiscono il fondamento degli
orientamenti della programmazione europea dei prossimi sei anni.
1. Cambiare il punto di vista: per tradizione culturale siamo portati a indagare l'area dei bisogni sociali
che richiede l’intervento pubblico attraverso accurate analisi che scontano, però, il vincolo di un'offerta
predefinita e, dunque, a ricostruire i problemi della situazione in base a categorie analitiche predefinite.
Ma i problemi e i bisogni sociali possono anche essere considerati come opportunità insoddisfatte, la
criticità di una situazione può dipendere anche dall’esistenza di occasioni e risorse non pienamente
valorizzate. I diritti di cittadinanza e i bisogni socio-sanitari possono, in definitiva, anche essere guardati
come possibili spazi di azione rimasti inesplorati. Passare dalla logica dei bisogni a quella delle
opportunità significa ampliare lo spazio di azione della sfera dei diritti e dell'interesse pubblico,
arricchirlo ed estenderlo per includere ambiti e attività che, anche se non hanno un’immediata e diretta
attinenza con i bisogni riconosciuti, potrebbero generare impatti rilevanti sul piano del benessere e delle
condizioni di vita delle persone e perseguire, così, “l'interesse generale della comunità alla promozione
umana e all'integrazione sociale die cittadini”.
2. Ri-articolare in modo originale il campo dell’azione amministrativa, tradizionalmente
organizzato sulla programmazione di un'offerta regolativa della domanda e su base settoriale.
Attenuare la settorialità dell’azione pubblica è particolarmente importante, soprattutto laddove si rende
evidente che sono maggiori gli svantaggi ad essa associati in termini di ostacolo alla sperimentazione.
Porre, invece, l’integrazione d’interessi e bisogni come strategia progettuale ed esplorare ambiti non
riconducibili ai tradizionali settori come punto di partenza per lo sviluppo della riflessione sui contenuti
dell’azione a finalità pubblica, permette un approccio integrato nella fase di definizione delle strategie,
favorisce nuovi modi di inquadrare e interpretare la specificità e la criticità di situazioni dotate di alti
livelli di complessità.
3. Valorizzare le risorse della società. Il coinvolgimento e la partecipazione delle persone sono
strategie utili all’anticipazione e mediazione dei conflitti, ma parallelamente la significativa efficacia di
alcune micro-iniziative autonomamente messe in campo dalle organizzazioni sociali (cooperazione,
associazionismo, ecc.) testimoniano che risorse quali saperi, conoscenze, esperienze, capacità e abilità
necessarie per affrontare i problemi pubblici non sono più esclusivamente concentrate all’interno delle
istituzioni formalmente deputate a svolgere tale compito. Si riassume in questa affermazione il
passaggio dal government alla governance, ossia, in applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale, da
un modello di governo incentrato sul ruolo esclusivo dell’attore pubblico a un modello fondato sulla
collaborazione tra diversi attori che agiscono sul territorio.