La categoria del dono

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La categoria del dono
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approfondimenti
UN DISCORSO INUSUALE NELLA SOCIETÀ DEL NOSTRO TEMPO
Tra “donum” e “munus”
una radicale ambivalenza
La categoria del dono non è irrilevante, anche nella società della competizione. Il donoobbligo e il dono-gratuità. La relazione donativa. Il rapporto tra il dono e il lavoro, cioè
l’atto umano più importante nella vita economica e sociale”. Gli incentivi e le ricompense
che non riescono a riconoscere il di più del dono presente nel lavoro umano.
U no dei peccati sociali più gravi di questa nostra età è aver ridotto il
dono e la gratuità a cose irrilevanti, se non dannose. Si confondono i doni
con i regali, con le donazioni, con la filantropia, e persino con gli sconti,
i gadget, le fidelity card, o le elemosine a chi si offre di pulirci i vetri ai semafori. Il dono diventa così qualcosa di simile al limoncello o al nocino,
qualcosa di gradevole ma in fondo non essenziale per la cena.
In realtà, il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo e altro valore.
Le sue parole madri sono charis e agape, e cioè la “gratuità” (grazia) e
l’“amore” che va oltre il desiderabile e l’amico, l’agape appunto. Parole
dunque molto serie, che hanno fondato le
società e la nostra fede e che rifondano
ogni giorno la vita personale, sociale, politica. Il dono, infatti, è una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto
dove il bene principale non è l'oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso,
sempre eccedente, non legato al merito,
sorprendente. È costoso, e le sue principali
“monete” sono l'attenzione, la cura, soprattutto il tempo.
Ma sul dono c’è ancora molto altro da
dire. Diciamo subito che la vita in comune
non può funzionare se i contratti (economici, civili, familiari) non sono sostenuti
da un patto sociale più ampio, e la differenza tra questi due concetti molti simili ha molto a che fare con la categoria del dono (e del per-dono), assenti nel primo (contratto) e centrali
nel secondo (patto).
settimana 10 febbraio 2013 | n° 6
Una radicale ambivalenza
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Una delle ragioni che spiegano l’assenza del dono nei luoghi rilevanti
della nostra cultura, economia e società, è la sua radicale ambivalenza,
che è forse la dimensione più profonda dell’esperienza del dono e della comunità (cum-munus, cioè dono-obbligo reciproco). I latini infatti distinguevano tra donum e munus, perché sapevano che il confine tra il donoobbligo e il dono-gratuità è molto poroso, e un atto può nascere gratuità
e trasformarsi in obbligo (pensiamo alle ordinarie dinamiche delle nostre
comunità) e, viceversa, un rapporto che inizia solo come contratto che
col tempo può aprirsi ad importanti dimensioni intrinseche.
L’ambivalenza di donum e munus ha portato nel tempo le società a diffidare dai doni, perché poco controllabili e altamente pericolosi: i rapporti
mafiosi iniziano con l’offerta di un dono, che poi diventa, se accettato,
immediatamente obbligo e patologia dei rapporti.
Questa ambivalenza si esprime dunque a più livelli, a partire non solo
dalla sua origine latina, ma anche dalla sua radice anglosassone, gift, una
parola che in inglese significa “dono” e in tedesco “veleno”. Quando prendiamo il dono sul serio senza disinnescarne la sua carica tragica, con esso
arriva l’ambivalenza nelle motivazioni di chi dona, e nelle sue credenze
circa le motivazioni di chi riceve, ma anche ambivalenza negli effetti che
il dono produce nel donatario (indipendentemente dalle motivazioni del
donante).
C’è poi l’ambivalenza nelle aspettative che il dono produce nelle due (o
più) parti coinvolte dal fenomeno sociale del dono, o quella legata alle
asimmetrie originali e oggettive tra le parti (imprenditore/lavoratore,
ricco/povero, adulto/bambino, uomo/donna…). Esiste, inoltre, l’ambiva-
lenza del potere distruttivo e auto-distruttivo del dono, poiché, non esistendo nell’esperienza del dono, fondata su motivazioni intrinseche, calcoli di compensazioni, le esperienze di dono possono condurre in sentieri molto costosi, da vari punti di vista, poiché, quando si agisce mossi
da ragioni intrinseche all’azione stessa, si tende a non prendere abbastanza seriamente i segnali che provengono dalla realtà. E certamente
molte altre ancora, di cui ci danno conto gli studi degli antropologi e degli scienziati sociali.
Il dono si compie all’interno di una grammatica, sintassi e semantica
sociale: perché si compia il “fatto tutto sociale” del dono (nelle classiche parole di
Marcel Mauss) occorre essere almeno in
due esseri umani: è questa dimensione relazionale che distingue il dono da esperienze in parte simili e con le quali ha delle
aree di sovrapposizione, come la filantropia o l’altruismo (che possono non essere
esperienze relazionali nel senso definito
sopra).
Il “circuito del dono”
In altre parole, il dono è una dimensione o un momento di un processo più
complesso che possiamo chiamare relazione donativa o “circuito del dono”, dove
entra in gioco decisamente anche la categoria della reciprocità, e con essa la vulnerabilità, certamente di chi dona,
ma anche di chi riceve. Infatti, la dimensione della reciprocità, che è profondamente legata a quella del dono, rende l’esperienza del dono sempre
vulnerabile. Dipendiamo, in maniere e modi diversi, dalla risposta dell’altro/i, ma, nell’esperienze di dono-gratuità, non ho garanzie per immunizzarmi dalla “ferita dell’altro”.
Il dono, quindi, può essere dono-gratuità, ma anche dono-obbligo o
dono-regalo (regalo viene da regalie, doni al e dal re), quando nell’azione
donativa manca la gratuità, con la sua tipica forza dirompente di cambiamento del mondo ma anche con la sua tipica vulnerabilità-ferita.
Anche per questa ragione le culture hanno introdotto e sviluppato varie forme di reciprocità-senza-dono-gratuità (o quanto meno con dosi controllabili di dono), per cercare di ridurre la vulnerabilità del dono e disinnescarne sia la sua carica potenzialmente di morte, sia quella di vita:
la reciprocità della philia elettiva dei vari comunitarismi e, ancor più,
quella del contratto, sono le principali alternative alla reciprocità del dono.
Il mercato è il meccanismo che più è riuscito, e sta sempre più riuscendo, in questo compito di immunizzazione dal dono vulnerabile, poiché il mercato non ha bisogno (si dice) di dono, gli bastano i contratti,
che sono pensati proprio come l’assenza di donum e di munus. Non dobbiamo però commettere l’errore, che potrebbe risultare grave e nel quale
spesso si incorre, di contrapporre costitutivamente e ontologicamente il
dono al mercato, la gratuità al doveroso, poiché esistono, invece, delle
grandi aeree di complementarietà (come tante esperienze concrete dimostrano) – su questo confronta il mio Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni (Città Nuova, 2012).
Il rapporto dono-lavoro
Un ultimo cenno lo merita infatti il rapporto tra il dono e l’atto umano
più importante nella vita economica e sociale: il lavoro.
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L’eccedenza
È qui che emerge il paradosso, quando cioè ci si rende conto (e sempre
di più) che le imprese, e in generale le organizzazioni, hanno in questi
due secoli di capitalismo costruito un sistema di incentivi e di ricompense
che non riesce a riconoscere il di più del dono presente nel lavoro umano.
Se, infatti, per riconoscere il dono contenuto nel lavoro le imprese usano
gli incentivi classici (denaro, ad esempio), il “di più” del dono viene riassorbito all’interno del contratto, e quindi scompare; se,però,per evitare
questa scomparsa del dono le imprese e i loro dirigenti non fanno nulla,
con il passare del tempo l’eccedenza del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo, e peggiori risultati per l’impresa.
Anche all’interno delle organizzazioni e delle imprese si compiono
doni e scambi sociali come in tutte le altre realtà sociali nelle quali le persone vivono.
Sta forse in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del
lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di lavoro (dall’operaio al
professore universitario), dopo i primi anni arriva quasi sempre una profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato per anni il meglio di se
stessi a quella organizzazione, senza però sentirsi veramente conosciuto
e riconosciuto in quello che si è donato, che è sempre immensamente più
grande del valore dello stipendio ricevuto. Ci si sente così valutati molto
meno di quanto si vale, perché le organizzazioni non trovano il linguaggio per esprimere tutto ciò che si trova tra lo stipendio e il dono della propria vita. Sono convinto che si cambi spesso lavoro proprio perché si va
in continua ricerca di questo riconoscimento che quasi mai arriva. È anche questa una declinazione del freudiano complesso di Edipo: ci portiamo dentro tutta la vita la sensazione di non essere amati abbastanza;
anche nella vita lavorativa.
In questa fase di cambiamento epocale, anche nella cultura del lavoro
e dell’impresa, l’arte più difficile che i dirigenti di imprese e organizzazioni debbono imparare e coltivare è proprio l’arte di trovare meccanismi che sappiamo riconoscere, almeno in parte, il dono presente nel lavoro, in ogni lavoro. Al tempo stesso, noi lavoratori non dobbiamo chiedere troppo al nostro lavoro, sapendo che il lavoro è importante ma non
potrà mai esaurire il nostro bisogno di dare e di ricevere doni, la nostra
vocazione alla reciprocità. Il lavoro ha le sue stagioni: conosce una data
di inizio e una di fine, conosce i tempi della malattia e della fragilità, mentre il nostro bisogno di reciprocità ci accompagna e cresce durante l’intera
vita, precede e sopravvive al lavoro. E senza saper segnare e riconoscere
il limite al lavoro nell’economia della nostra vita (e delle nostre comunità), il lavoro sarà o servo o padrone, mai “fratello lavoro”.
Si lavora veramente quando si riconosce in se stessi e negli altri un’eccedenza del lavoro rispetto alla lettera del contratto; e si vive veramente
quando si riconosce un’eccedenza della vita rispetto al lavoro.
Tutto questo, e forse molto altro, è il dono. Niente di meno: occorre ricordarlo in questi tempi in cui lo stiamo troppo velocemente dimenticando.
Luigino Bruni
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settimana 10 febbraio 2013 | n° 6
In questa stagione di crisi economica e sociale, il lavoro è forse la questione più urgente, che ci chiama ad una riflessione più profonda, e in
gran parte nuova rispetto ai dibattiti ideologici del secolo XX, su che cosa
sia veramente lavorare e su che cosa sia il lavoro all’interno della vita.
Partiamo, anche questa volta, da due situazioni quotidiane. Sono invitato a cena, porto un vassoio di pasticcini, e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione e, dopo aver pagato il prezzo, dico “grazie” al barista. Due grazie detti in contesti che sembrerebbero molto diversi tra di loro: dono e amicizia nel primo, contratto e impersonalità nel
secondo. Eppure usiamo in entrambi i contesti relazionali la stessa parola “grazie”.
Che cosa accomuna questi due fatti apparentemente così distanti, almeno nella cultura delle nostre società di mercato, da portarci ad usare la
stessa espressione? La prima cosa che li accomuna è il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Infatti non diremmo mai “grazie” alla macchina
automatica del caffè, o sorridiamo quando ci scappa un “prego” in risposta alla voce meccanica che ci ringrazia dopo aver pagato con la carta di
credito il pedaggio dell’autostrada. Quel “grazie” che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere del supermercato,
non sia solo buona educazione o abitudine (o un errore, come dice una
certa letteratura di evoluzione culturale, che ci porta a trattare uno sconosciuto come fosse un familiare): quel grazie esprime il riconoscere che
anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare
c’è sempre qualcosa di più del dovuto, che trasforma quello scambio in un
atto veramente umano. Anzi, potremmo arrivare a dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre la lettera del contratto e mettiamo
tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone, pulire un
bagno, o fare una lezione in aula. Si lavora veramente quando al sig. Rossi
si aggiunge Mario. Quando, invece, ci si ferma prima di questa soglia, il
lavoro diventa troppo simile a quello della macchina automatica del caffè,
e quindi ci si ferma sull’uscio dell’oikos (casa) dell’umano.
È qui però che incontriamo un importante paradosso, che si pone a
cuore delle attuali imprese e organizzazioni. I lavoratori e i dirigenti di
ogni impresa sanno, se sono bravi e onesti, che il lavoro è veramente tale
e porta anche frutti di efficienza e di efficacia, quando esprime un’eccedenza rispetto al contratto e al dovuto, quando cioè è dono. Infatti, soprattutto nelle moderne organizzazioni complesse, se il lavoratore non
dona liberamente le sue passioni, la sua intelligenza, le sue motivazioni
intrinseche, nessun controllo, incentivo o sanzione può riuscire a ottenere da quel lavoratore la parte migliore di sé, che poi diventa anche fattore competitivo essenziale per il successo dell’impresa stessa. Oggi è sempre più vero che il successo delle imprese nella concorrenza internazionale
dipende soprattutto dal capitale umano, dalle persone e dalla loro intelligenza e creatività, che fanno crescere l’azienda e producono ricchezza
quando mettono in gioco tutte se stesse nello svolgimento di una data
professione o nell’eseguire un compito all’interno di un’impresa.
Chiunque lavora in una qualsiasi organizzazione sa che queste dimensioni del lavoro, motivazionali e, oserei dire, spirituali, non possono
essere comprate o programmate, ma accolte dal lavoratore come espressione della sua reciprocità, del suo dono-gratuità. Posso comprare con opportuni incentivi la prestazione, ma non posso comprare sul mercato del
lavoro quanto veramente serve alla mia impresa per poter vivere e crescere. Posso, in altre parole, incentivare e controllare quando entri ed esci
dall’ufficio, posso verificare che cosa fai nelle otto ore di lavoro, ma non
posso né controllare né comprare come lavori, con quanta “anima”, passione e creatività vivi quelle otto ore di lavoro al giorno. Le clausole e le
caratteristiche dei contratti di lavoro si fermano esattamente prima di entrare nelle cose che veramente contano in una relazione umana di lavoro,
che dura per anni e che vive di tutte quelle dimensioni che nessun contratto può né prevedere né specificare.
È come dire che con i normali contratti di lavoro e con gli incentivi si
riesce a “comprare” soltanto la parte meno importante del lavoro e del lavoratore umano, quell’attività troppo simile a quella delle macchine, ma
non si riesce ad ottenere quelle dimensioni più profonde e qualitative dell’attività lavorativa, dalle quali dipende – e qui sta il punto – la gran parte
del successo anche economico dell’impresa. E i vari sofisticati meccanismi
incentivanti che posso trovare, essendo necessariamente strumenti
esterni e estrinseci, non saranno che parziali e imperfetti; e, nel peggiore
dei casi, questi strumenti producono l’effetto opposto, poiché gli incentivi
(a differenza dei premi) entrano spesso in conflitto con le motivazioni intrinseche dei lavoratori.
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