Novum Comum

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( The Beat )
E così sei già qui. T’ho vista, salir per le vie. Brumose, e acide e umide. Strisciavi. Il tuo viso, caduco, era senza denti e filo spinato. Sei qui. Ti spoglierò, ora. Per essere, io oltre. In quel quartiere di Como appena fuori le mura della città storica, oltre la ferrovia, dove la terra inizia a inerpicarsi su per le rive del monte di Brunate si trova il "The Beat", piccolo bar ubicato esattamente all'incrocio tra le vie Monti e Brambilla. Pietro scendeva in macchina per via Belvedere, dalle casse della sua autoradio perennemente accesa uscivano le note graffianti della chitarra di Lenny Kravitz in "Were are we running". Parcheggiò sul marciapiede davanti la parrocchia di San Giuliano e scese. L'aria umida timidamente portava fin lì i profumi e le puzze del lago. Faceva maledettamente freddo in quella sera del 29 Dicembre. Pietro sentiva salirgli dal corpo una flebile e gradita eccitazione da alcol, frutto generoso dei due Negroni e delle birre da poco finite di consumare in centro, dove aveva battezzato un paio di bar in compagnia di amici; si apprestava ora a trovare altri amici, e altro alcol, in quel nuovo ritrovo di giovani sguaiati e alla deriva. Era impegnato in ciò che si definisce l'aperitivo lungo, ossia quella particolare forma di aperitivo che inizia come tutti gli altri verso le sei e mezzo, e poi si protrae a oltranza, ben oltre il momento in cui i baristi hanno smesso di offrire cibo insieme con le consumazioni. A volte, gli aperitivi lunghi si concludono soltanto alle due o tre di notte, quando i locali chiudono lasciando in strada gli avventori, salvo proseguire in privati ritrovi, o nei posteggi di un autogrill. La grande vetrata del bar era decorata con l'immagine di una imponente high way americana. Una lingua di asfalto nero retta come una freccia spaccava in due un deserto di sassi e sabbia arancione. In primo piano un cartello stradale recitava: “Route 66”. 1
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Passandoci davanti Pietro intravide le figure degli amici, entrò e se li trovo tutti lì, in fila, davanti al bancone, ognuno con già il suo bel bicchiere in mano. ‐ Ue alla buon ora!!! è da un pezzo che dici che arrivi...‐ Dissero i suoi soci praticamente in coro ‐ Lo so, lo so. Ma state tranquilli...è che quei due pazzi del Luca Toz e dello Sverzo non mi mollavano più. Pensate che quasi mi trascinavano con loro a fare una birretta "dall'altra parte" – Disse Pietro con fare baldanzoso ‐ Ma io preferisco essere qui con voi. Ragazzi!‐ Era quello per lui ormai un rituale che riempiva i suoi fine settimana ma non solo. Girare da un locale all'altro; incrociare amici, gli amici di amici, tutte le loro storie da condividere e bicchieri da svuotare. Ormai si era fatto conoscere in giro. La città è piccola, i buchi dove ritrovarsi li conti sulle dita, e le facce degli avventori, sempre le stesse. In quel momento si trovano lì tre dei suoi, Ernesto, Mauro e Jack. Ora il The Beat di suo non offre nulla di particolare. Entri, scendi due gradini messi quasi apposta per farti inciampare quando sei già un po' messo male e trovi tutto. Sulla sinistra il bancone e uno scaffale pieno di ogni ben di dio con gradazione alcolica; quello che rimane sono quattro sgabelli alti e un tavolino sistemato nell'angolo più lontano, tutto qui. L'unica vera attrazione del posto è Mary, la barista. Mary è una di quelle ragazze alle quali è difficile staccare gli occhi di dosso. Il suo viso ha tratti spigolosi come cubetti di ghiaccio, occhi infossati nelle orbite, una perenne espressione da stronza, labbra carnose, e soprattutto il mezzo busto che rimane sempre in vista anche quando sta dietro al bancone regala forme impossibili da ignorare. Quella sera indossa una magliettina attillata che fatica a contenere il giovane seno e mostra il grande tatuaggio che porta con mascolino orgoglio sul deltoide destro. Due elfi, in preda evidente della giovialità del vino, danzano sotto un coloratissimo albero fantasmagorico che si inoltra sulla spalla coperta dalla maglietta. Tutti i presenti venderebbero un bel pezzo d'anima per sapere dove vanno a finire quei rami. Tutto ciò che la riguarda aleggia sospeso fra la leggenda e il pettegolezzo; l'età indefinita; la scuola che ha frequentato, si dice il Giovio ma nessuno può giurare di averla mai vista entrarci; una presunta sua storiella con il portiere del Como; e mille altre notizie incerte. In fondo basterebbe chiedergli ‐ Ehi Mary! ma quanti anni hai?‐ oppure ‐ Ma che scuole hai fatto?‐ solo per far sparire un po' di voci. Ma ai ragazzi piace immaginare e ipotizzare, tanto per avere sempre qualcosa su cui parlare e poi, sapere troppo su di lei, la farebbe scendere da quella portantina di mistica sensualità sulla quale a tutti piace portarla. Ovviamente Mary anche quella sera è al suo posto, e per i ragazzi è un piacere osservarla mentre spacca il ghiaccio e mischia gin con Martini e Campari. ‐ Ciao bella! com'è? ‐ domandò Pietro ‐ Sempre qui e sempre in forma ‐ rispose lei ‐ Bene…bene. Si sa che sei una tosta te!‐disse Pietro guardandola poco in viso ‐ Dai, facci un due in quattro che li pago io...chissà che questi disgraziati la smettano così di straziarmi l’anima per il ritardo… Altro giro, altro bar, altri amici; il solito bicchiere. Pietro da tempo ormai aveva fatto del bere molto di più di un semplice intrattenimento; uno svago posto agli incroci sulle vie delle relazioni sociali. Bere per lui, era qualcosa di cui sentiva un certo bisogno. Ci sono un sacco di ragioni che spingono un uomo a farsi riempire da baristi più o meno sconosciuti bicchieri che da solo provvederà a svuotare. Si beve soprattutto per colpa delle illusioni, crisalidi che prima o poi sgusceranno fuori dal bozzo per divenire farfalle impossibili da inseguire. Oppure si beve per gli amori inutili, bestie costrittrici affamate d'ogni tuo alito. Ma in questo elenco potremmo metterci anche le donne che erano tue; i figli che ami, anche se un giorno sono usciti dalla porta per non fare mai più ritorno; e tutti quegli eventi che portano il destino proprio dove non lo avresti voluto. Si beve per vendetta, verso gli altri o verso se stessi; e si beve anche nell’attesa d’un qualcosa che non si può certo aspettare con un bicchiere in mano. Infine, si beve per divertimento. Cercando eccitazione in una realtà che sfuma lasciandone indefiniti i contorni. 2
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Ma Pietro era diverso. Pietro, beveva perché amava il mondo e amava la vita. Il suo era un amore semplice, nudo, ideale e improvvido, gaio e splendente, così bello, e d’arcobaleno vestito; troppo fremente per non essere presto tradito. Si concedeva alla vita nella misura in cui il suo piccolo mondo lo trasportava. Ma non gli era abbastanza. Voleva di più. Voleva verdi pendii da scendere correndo e fendendo il vento; voleva viaggiare, e come tutti i grandi viaggiatori lo avrebbe fatto in nave e per mare; e sotto la luce d'un faro in una gelida notte d'inverno tuffarsi in occhi d'ebano e baciare labbra rubiconde dal vino assaporate; per sentirsi così parte, e non partecipe, della brezza che la vita sospinge. Sentiva la vita pulsargli nel petto in ragione d'un cuore che solo non gli poteva bastare; sulle sue gambe lunghe e instancabili avrebbe percorso deserti, e spiagge, valicato montagne, e guadato torrenti; figlio d'un vento che avrebbe soffiato soltanto per lui. Pietro beveva per tenere lontano da se tutto questo sentimento. Per non sentirsi ogni giorno tradito da quella sua piccola esistenza chiusa in una scatola di latta. Prigioniero d'una immacolata stanza, senza porte e senza finestre, dalla quale non si può evadere, perché quelle mura, sono se stessi. Pietro, si sentiva infelice e insicuro, pertanto, per definizione, libero. La libertà non si costruisce sulla solida presenza di ciò che è proprio, ma sul desolato e aberrante vuoto dato da ciò che non si possiede. Abbandonato delle allucinate certezze delle quotidianità, disarmato dall’empietà del vivere comune, mai preso da quella febbre del fare per conseguire; Pietro sentiva di non avere nulla che fosse suo. Infelice di questa povertà vagava e scavava, perdendosi e stancandosi, e insicuro di se stesso vagliava ogni cammino, tornando spesso sui propri passi. Infelice cercava in ogni antro il modo per uscire da questa condizione, così come un istinto ancestrale gli imponeva; insicuro non smetteva mai di chiedersi se ciò che aveva trovato era la vera risposta. Per lui non c’era dettame ne dogma che lo potesse piegare, tutto ciò che gli era dato non gli apparteneva e di ciò, mai si sarebbe accontentato. Nulla avrebbe comprato la sua ricerca, per nulla avrebbe mai smesso di andare; il cammino era lungo e pieno di deviazioni, saltimbanco e stregoni lo tentavano a ogni angolo, ma lui non si sarebbe fermato, il suo, lo sapeva, era il cammino della libertà. Infelice e insicuro. Libero. Ma i bicchieri sono tra i migliori amici degli infelici; e anche degli insicuri. Pietro beveva. ‐ Oh bagaj che fate a capodanno? – Chiese Pietro ‐ Bah…noi dovremmo essere a cena a casa della Laura – rispose Ernesto – I suoi sono via e ha la casa libera. Andiamo su, mangiamo qualcosa e poi vediamo – ‐ Ma fate lì tutta la nottata? ‐ ‐ No, non credo. Dopo la mezzanotte magari scendiamo andiamo in piazza Cavour‐ ‐ In piazza? Ahhh no io zero. Non ho una cazzo di voglia di prendere freddo come uno scemo! – ‐ Quindi? Che fai? – ‐ Boh…sento gli altri. Magari si va a mangiare da qualche parte, e poi si gira. ‐ Vedrai che alla fine sarai anche te ubriaco da fare schifo in piazza con tutti noi‐ disse Mauro ‐ Facile! Non ci sarebbe mica nulla di nuovo – rispose Pietro Dopo quel primo giro di Campari con il bianco ne seguirono altri, era la regola, se uno del gruppo pagava un giro agli altri toccava fare altrettanto. Ma quando fu il suo turno Mauro ruppe la catena – Mary! – Gridò alla barista indaffarata a pulire il bancone ‐ Quattro Negroni che chiudiamo il cerchio! – Pietro sentiva di aver già bevuto abbastanza, alla eccitazione del alcol iniziava a sommarsi la stanchezza della giornata, senza che però la avesse ancora vinta su di lui. Le parole iniziavano a 3
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uscirgli dalle labbra con più fatica, ma non ci faceva troppo caso. Il richiamo di quel ulteriore bicchiere superalcolico al quale non si poteva sottrarre accese in lui un piacere che non avrebbe certo definito perverso. Stavano giusto finendo l’ennesimo bicchiere quando dalla porta videro comparire Francesco in compagnia di Lucille, la sua ragazza. Francesco era un ragazzone buono, tranquillo e disponibile, con un velo di malinconia che appannava il suo sguardo gentile. Apparteneva a quella compagnia di giovani persi, ma ai suoi guai generalmente rispondeva con evasioni senza eccessi. Lavorava duro come imbianchino, e portava i soldi a casa per aiutare la madre a crescere il fratellastro. Gran bravo ragazzo il Fra. Da qualche tempo si vedeva con Lucille, che invece fin dal primo istante si presentava per quello che era, una pazza furiosa. Fisico asciutto, fianchi strettissimi e quasi priva di seno; era talmente magra che nessuno avrebbe detto potesse bere forte, ma quello era solo il primo degli inganni che la ragazza si portava appresso. Aveva il lobo destro crivellato di piercing mentre dal sinistro pendeva solo un sottile filo d’argento, e portava i capelli castani tagliati corti, a spazzola, come un moccioso dell’oratorio. Nel complesso una gran figa. Si faceva di paroxetina, ma questo Francesco lo avrebbe scoperto solo dopo molto tempo. Una discoteca di Lugano e una notte d’autunno avevano fatto da sfondo al loro primo casuale incontro nel quale lei, in un attimo, lo aveva fatto suo. Lucille è carica come una molla, ha voglia di festeggiare, di bere, e di far bere. –Mary, amore!‐ disse rivolgendosi alla barista –Facci sei chupiti che offro io! ‐ Diavolo di una ragazza! Sotto il suo invito tutti iniziarono a bere come se non avessero toccato alcol tutta sera. Così a quel primo giro ne seguirono altri, e altri ancora; dopo un po’ non potevano più ricordare quanti ne avessero bevuti. Tutti iniziarono ad accusare gli eccessi d’alcol, ma Lucille con il suo arrivo carico di pura furia aveva acceso l’atmosfera e quindi a nessuno veniva ancora in mente di smettere di bere per prendere la strada di casa. Mauro sembra quello messo peggio. Il suo viso si fissa su espressioni inebetite e inizia a straparlare. Racconta di un postaccio lì vicino dove, assicura, prostitute quarantenni si offrono per cifre astronomiche a facoltosi signori in giacca e cravatta, ma abbassano di molto le loro pretese economiche se hai vent'anni e sei carino. ‐ Ci si potrebbe andare a fare un giro. Adesso – diceva frammentando il suo racconto delle esperienze, garantite per vere dei suoi amici. Pietro ricordò di esserci stato una volta in quel locale tempo addietro. Ricordava l’arredamento curato in stile vagamente Irish, il pianoforte da camera lucido come una scarpa da sposo e le foto in bianco e nero della Como di inizio secolo appese alle pareti. In effetti la clientela era costituita per la maggiore da signori impettiti e signore un po’ volgarmente imbellettate; ma nessuna donna di mezza età gli si era avvicinata per offrirgli un bel niente ‐Sarà che non sono poi tanto carino‐ pensò. Ulteriori giri di chupiti, è sempre Lucille a ordinare per tutti; qui si sta esagerando per davvero. Pietro si isola dalle discussioni degli altri. Sente salirgli un gran caldo dal petto. Le tempie pulsano forte, la felpa pizzica sul collo e la gola arde; tutto quel rum metterebbe a sedere anche un cavallo. Ordina una birra in bottiglia, gelata, e si siede su uno degli sgabelli con la schiena appoggiata al muro. Adesso è cotto del tutto, non ha più voglia di parlare. Guarda i suoi amici attraverso occhi stravolti. Mauro abbraccia Ernesto, però si capisce che non lo fa con affetto ma per essere sorretto. Lucille si eleva sul poggiapiedi che corre lungo il bancone per baciare Mary sulle labbra. Tutte immagini che si fanno sempre più confuse e indistinte. Pietro lottò alcuni istanti per mantenere gli occhi aperti, poi li serrò e si addormentò. Sognò di essere disteso per terra sul bordo di una strada sabbiosa. Intorno a se qualcosa meno di un deserto. Un enorme sole bianco splendeva a picco nel cielo totalmente terso, e la luce avrebbe martoriato i suoi occhi se non fosse stato per gli occhiali scuri che portava ­ indossava sempre occhiali da sole con lenti molto scure ­ Un ragazzino nero, magro e scalzo, era a una ventina di metri da lui. Vestiva solo un paio di calzoncini sportivi. Si avvicinava con passo cauto; le esili braccia lunghissime distese rette verso terra. Due occhi grossi come rossi d’uovo riempivano il viso dai lineamenti schiacciati. Occhi neri, salati e senza vita, che non gli si staccavano di dosso, e s’avvicinavano. 4
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Non una volta gli si serrarono le palpebre...non una volta, ed erano sempre più vicini. Non una volta... ..si trovava nel mezzo di un’ampia vallata. Verdi prati tutto intorno a lui. Campi coltivati, qua e là. Davanti a se una bambina biondissima. Non avrà avuto più di quattro anni. Era vestita come la ricca figlia di una nobile famiglia del ottocento, sembrava una di quelle bambole di ceramica di tanti anni fa. Pietro indugiò a lungo sulle scarpette di tela che raccoglievano i piedini della piccola. Dalle maniche del vestitino color rosa antico impreziosite con dei merletti spuntavano mani candide e innocenti. Mani che cascavano quiete, distendendo le braccia lungo i fianchi. Un’espressione di rabbia le regnava sul viso, sembrava avesse appena ricevuto dai genitori il castigo più tremendo. Pietro si curvò ponendosi le mani sulle ginocchia e la osservò con cura; l’immacolata immagine della bimba lo inquietava. Quando lei aprì le palpebre, due finestre si spalancarono sull’azzurro. In quegli occhi Pietro, ritrovò lo stesso oblio del nero ragazzino africano. ...a svegliarlo furono gli strattoni di uno sconosciuto. Pietro aprendo gli occhi ricordò esattamente dove si trovava e cosa stesse facendo lì, ma guardandosi intorno non riconobbe nessuno degli avventori del bar. Ernesto, Mauro, Fra, Jack; tutti spariti. Al loro posto due coppie di giovani sui trenta. Uno di questi non la voleva smettere di strattonarlo per la felpa e dirgli frasi che Pietro non poteva ascoltare. Con quello che a lui sembrò un atteggiamento indifferente si divincolò dallo sconosciuto scocciatore e con un equilibrio poco stabile si diresse al bagno dove entrò senza cortesie. Le pareti imbrattate non ne volevano sapere di star ferme mentre che lui faticosamente provava a centrare la latrina. Barcollando un po’ meno di come vi era entrato Pietro uscì dal bagno e si diresse verso il bancone. Non poteva saperlo, ma Mary lo stava aspettando. ‐ Quant’è?‐ biascicò ‐ Paghi trenta. Come gli altri‐ Mary era un po’ scocciata ‐ Gli altri? Dove cazzo sono gli altri?‐ avrebbe voluto chiedere, ma si tenne per se queste parole. Non gli importava in fondo dove fossero finiti i suoi. Immaginava fossero andati con due macchine a portare a casa Mauro, che era messo male, e poi sarebbero tornati a prendere lui, che non era messo meglio. Ma non lo avrebbero trovato. Allungò due pezzi da venti, attese che la Mary finisse di frugare nel cassettino del registratore di cassa e poi uscì con il suo resto senza neppure fare un cenno di saluto verso la procace barista. Pietro non diventava mai scortese quando beveva, ma l’inaspettata dormita e il brusco risveglio lo avevano innervosito. Come uscì sentì congelarsi le goccioline di sudore che costellavano la sua fronte. La via vuota era riempita da un’aria pesante e umida. Orribili luminarie natalizie pendevano come budella dai davanzali sporcando delle loro luci cangianti la tranquillità della notte. Una malsana nebbiolina sfumava i profili dei palazzi più lontani. Pietro sentì il freddo fin dentro l’intestino e un acido rigurgito salirgli dallo stomaco. Entrò nell’auto che iniziava a coprirsi di brina, si accese una sigaretta, e come la chiave girò nel quadro dalla autoradio schizzarono fuori le note di “Hurricane” di Bob Dylan. ‐ Che gran pezzo!‐ pensò Pietro. Accese il motore, innestò la marcia e si mise in strada. La musica riempiva l’abitacolo e galvanizzava la guida. Non poteva capitargli canzone migliore per partire. Salendo per via Belvedere schiacciò a fondo sull’acceleratore per maltrattare il motore ancora freddo. Giunto allo stop si fermò. Non c’era in giro nessuno, la strada era totalmente libera. Tenendo il gas aperto giocava con il pedale della frizione; alzandolo e abbassandolo ora teneva fermo il veicolo, ora lo faceva dondolare un poco avanti un poco indietro sulla strada in pendenza. Alzò ancora di più il volume dell’autoradio. Sotto le sue dita passarono “Sei un Mito” degli 883 e “Animal Instinct” dei Cranberries, poi pubblicità e un radio giornale nazionale. Per andare verso casa doveva andare dritto, giù per via Zezio e poi prendere per fuori città. Ma quando la sua radio intercettò 5
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le onde che trasmettevano “I don’t wanna grow up” nella versione dei Ramones, Pietro staccò bruscamente il pedale dalla frizione, premette duro sull’acceleratore, e manovrando il volante con una mano sola fece svoltare l’auto a sinistra, su, verso Brunate. Senza ragione. . “I don’t wanna grow up” quella si che era una canzone. Le ruote slittarono sul asfalto gelato e il motore emise un grido roco. Su per le impervie pendenze di quella salita Pietro guidava senza cautele. La mano destra che stringeva la sigaretta era piantata sul frontale della autoradio, la sinistra sul volante. Zap zap sotto il comando del suo dito indice la radio sondava le onde medie modulate in frequenza alla ricerca di una musica che si potesse definire tale per un ubriaco che guida di notte su per una strada di montagna. Zap zap passa “Pumping up your Stereo” dei Supergrass e ancora “Canzone” di Lucio Dalla, zap zap pochi secondi per un pezzo e poi via a cercarne uno nuovo. La sua utilitaria è spesso in difficoltà su quella impervia salita, ma Pietro se ne frega e spinge sul pedale dell’acceleratore, fino in fondo. Schiaccia Pietro, schiaccia. OMD – Enola Gay zap zap The Smashing Pumpkins – Ava Adore zap zap Sale veloce, troppo veloce. A ogni tornante le gomme sbraitano ma lui non può sentire nulla. Zap zap Patti Smtih – Becouse the Night zap zap Cesare Cremonini – Padre Madre I muri illuminati dai fari sono ricoperti di graffiti. Facce grosse, e grasse, con bocche enormi sfigurate da sorrisi diabolici e perversi. Zap zap Billie Holiday ­ Lover Man zap zap Ogni tanto butta uno sguardo in basso verso la città; Como appare già così ridicolmente lontana, come se la avesse lasciata da una vita ‐Addio Como, addio­ Zap zap Jovanotti – Tanto tanto tanto zap zap Rem – Imitation of Life zap zap Abbassa un poco il finestrino. Fuori ci sono quattro o cinque gradi sotto lo zero. Una lama d’aria fredda entra determinata a decapitarlo, ma a caldo ugualmente. Pietro sa che questo vuol dire che probabilmente, presto avrebbe vomitato. Gianna Nannini – Il Profumo zap zap In pochi minuti è già in paese, ma Pietro non stacca il pedale dall’acceleratore. Incoscientemente sfida le vie strette. Senza cautele, senza paure. Su ancora, a caccia di nuovi tornanti da sfidare. Samuele Bersani – Giudizio Universale zap zap Bloodhound Gang – The Bad Touch zap zap Ai bordi la strada mostra gli sporchi resti di ciò che rimane di una nevicata. Zap zap Subsonica – Discolabirinto… Entrò nella piazzetta di San Maurizio; qui la strada finisce. Pietro fermò l’auto a casaccio, a cavallo della riga fra due posteggi e scese. La musica si spense con il motore. Lì fuori un silenzio glaciale lo sorprese. Gli sembrò di essere stato paracadutao in un cimitero. Silenzio. Adesso sì che Pietro aveva voglia di vomitare. Barcollando si avviò verso il sentiero acciottolato che sale fino al faro. Ha il fiato corto, fatica a mettere 6
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un piede davanti l’altro; il cuore gli pulsa nelle tempie e i muscoli delle gambe si tendono come se fosse impegnato in chissà quale sforzo. Brutta roba bere e fumare. Quando il sentiero diventa di larghi gradoni di porfido Pietro inutilmente prova a trovarne il passo giusto; più di una volta scivola rischiando di finire a rompersi il naso sulle pietre viscide, ma alla fine indenne raggiunse la terrazza dalla quale domina il faro voltiano. Gli sembrò di aver scalato chissà quale montagna, e lo spettacolo che gli si aprì di fronte rinfrancò questa sua sensazione. Le luci elettriche fanno apparire la città sotto come una enorme lingua di fuoco. Falò, centinaia o migliaia di falò che brillano lasciando danzare le loro fiamme; e le strade sono fiumi di lava incandescente eruttata da chissà quale ignoto vulcano. Ma di tutto questo calore se ne percepisce solo la visione, l’immagine di un immenso rogo che non scalda ne crepita, come se tutto avvenisse schiacciato sotto una enorme lastra di ghiaccio che dei fuochi lasciasse evadere soltanto i riverberi. Il lago era una oscura pennellata di olio vecchio del motore, che di tanto in tanto rifletteva cupo i fari delle auto che scivolavano sulla via per Cernobbio. Auto farcite con esistenze che andavano verso casa, verso calore, rifugi, e quieti. Dal basso, le campane di una chiesa toccarono due suoni più gravi e uno più acuto. Una foglia secca, sospinta da una lieve brezza, grattava le pietre del selciato. Al di sopra di essa, silenzio. Pietro ha voglia di correre, di lasciarsi andare, tuffarsi in quel rogo che lì sotto lo attende. Saltare quella gelida balaustra che lo divide dal vuoto infinito, dall’assoluto, da quel impero di fuoco e luce fatto di una esistenza che si consuma in fretta ma non invano, una fiamma che divora ogni cosa inutile e superflua fino alle ossa, fino alle origini, fino alla terra e più giù delle radici. Lei è lì! è lì sotto cazzo! e lo aspetta; calda e piena come il piacere lo attende con quella virginale bellezza che solo lei può avere, perché solo lei non si può riprendere, solo lei non si può riavere, solo lei si può sprecare ma mai riguadagnare, solo lei e solo lei. La vita. La vita meretrice. –Potrò mai averti, o…sfiorarti? Sfiorarti sì e...le labbra, le mie…le mie labbra, umide bagnare le tue…?e il piacere, giungerti forte e…assoluto, dentro te…assoluto in te. Sentirmi in… ­ Versi confusi che Pietro cerca inutilmente di ordinare nella sua mente, sentendoli semplici ma intensi vorrebbe fissarli al di fuori di se, trascriverli; ma il freddo si è mangiato ogni volontà, lasciando al suo posto parole acide e grumose che sboccarono da lui come quel vomito che ora non può più trattenere. ‐ Macchine dell’autoscontro, siamo macchine dell’autoscontro. Passiamo tutta la nostra vita lì, intrappolati in quel rettangolo chiuso, e liscio, e illuminato a giorno. Frastornati da una musica che non decideremo mai se cambiare, e intontiti dal volume troppo alto per lasciare spazio a un qualsiasi pensiero che richieda un poco, soltanto un poco, di silenzio. Intenti a girare e girare senza sosta e senza nessuna –nessuna‐ meta da raggiungere. Ingabbiati in una cella senza sbarre, con il cielo stellato tutt’intorno, giriamo e giriamo e ci rendiamo conto che ci sono altre macchine come noi solo quando bang! gli andiamo a sbattere contro e bang! forse abbiamo urtato ancora contro qualcuno –sì ma chi?‐. Con le nostre finte carrozzerie grigie e rosse e verdi metallizzate, e quei numeri incollati addosso per renderci tutti, sempre, così facilmente riconoscibili, e con una qualche bandiera da sventolare e portare in giro con noi, tanto per avere qualcosa di cui fregiarsi, qualcosa a cui appartenere ‐appartenere?‐ e quella plasticaccia nera e dura che ci avvolge e ci protegge perché incontrarsi –scontrarsi‐ non può e non deve fare mai, troppo, tanto male; non sarebbe probo, non sarebbe per bene, non sarebbe conveniente, sarebbe forse, eccessivamente, vero ‐vero?‐. E quei visi che ci guidano e dominano, ci salgono sopra, ci cavalcano con le loro scarpe nuove e i jeans alla moda, e si riempiono di stupore a ogni scontro con sopracciglia che si alzano per lasciare spazio a occhi increduli e bocche che si aprono mostrando denti rifatti d’oro e il nero buio delle gole. Stupore, immenso per l’incontro; come se fosse raro, e impensabile scontrarsi, per cento macchine chiuse in un misero rettangolo e che furono concepite per questo. Macchine dell’autoscontro.‐ Pietro raccolse il suo corpo sfatto e intirizzito; barcollante riprese il cammino che conduce all’auto. Accese il motore. L’aria calda che uscì dall’impianto di riscaldamento rinfrancò le sue mani rese rigide e secche dal freddo. 7
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Una radio locale trasmetteva sottile “Heaven out of Hell” di Elisa. “ Non stai andando più in alto di dove sei / correndo dietro a te stesso / e non riesci a lasciarti andare / nascondendoti in quel posto / in cui non vuoi essere / respingi la felicità / ma lei ritorna a te…crea il Paradiso / il Paradiso al posto dell’Inferno ” Pietro abbassa un poco il volume, si sente stremato; il freddo in pochi minuti si era divorato tutto l’ardore che l’alcol aveva accesso in lui, lasciandolo vuoto come il solo manichino che riempie la giacca .Semisdraiato sul sedile prova a chiudere gli occhi per capire quanto gli giri la testa. Vorrebbe già poter godere del caldo del suo letto; e non è più tanto ubriaco. L’indomani si sveglierà sentendosi come se il cervello premesse per far esplodere il cranio, lo stomaco sotto sopra, e una ardente sete in gola. L’unico modo per sopravvivere e per farsi passare presto il malessere sarà quello di attendere pazientemente qualche ora, mangiare qualcosa, e poi tornare fuori a bere po’. Soltanto un po’. Non mi aspetterai non l’hai fatto mai ma sarò presto io lì con te Accarezzerò roseo il seno scivoleranno labbra sul corpo ...vita 8
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