8 - Potrà l`estate rimettere tutti i nostri peccati?
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8 - Potrà l`estate rimettere tutti i nostri peccati?
I GIOVEDI’ DI SCRITTURA FRESCA Scrittura a soggetto Ia Edizione Da una idea di Dolphy Grafica di Ettore Bilbo Numero Otto 02 Giugno 2005 Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? Hanno partecipato: Ettore Bilbo Quello che vede il sole Alessandro Gabriele Luna Indiana (un’estate del 90) dareios Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? rana fritta Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? Nicola Martini Potrà l’estate rimettere tutti i peccati del Martini? fucsia Playboy Dario Carta Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? Brizgraz La cicala peccatrice Doremi Il tempo discontinuo Punto Mosso Coincidenze QUELLO CHE VEDE IL SOLE scritto da: Ettore Bilbo Dopo aver definitivamente risolto il caso l’ispettore Giuliani si portò ai margini del campo di mais. C’era una grossa quercia in mezzo al sentiero che li aveva condotti fin lì, che nessuno evidentemente s’era sentito di tagliare. Un albero veramente magnifico, disse al carabiniere che lo accompagnava, poi si accese una sigaretta e guardò il fumo salire verso il cielo come una preghiera di redenzione, una preghiera già macchiata del peccato originale. Giuliani aveva seguito la pista, come ogni altra volta e come ogni altra volta aveva sperato in un epilogo diverso, ma si rendeva conto che lavorando nella omicidi di finali, come sperava di vederne, ne accadevano ben pochi. Il corpo di Maddalena era stato trovato in mezzo al campo. Il rigor mortis aveva costretto il corpo in una posa quasi fetale, con le ginocchia sotto il mento e le braccia conserte. Sembrava che il cadavere avesse un gran freddo ed invece si era in luglio. Trentasei gradi e non un filo di vento che lenisse la disperazione del caldo. Trentasei gocce di sudore che si accatastavano sulla pelle in un peso opprimente, trentasei pugnalate che sventravano la carne. Uno sconfinato spazio davanti agli occhi ed un orizzonte fluttuante, che mischiava i pochi movimenti delle foglie alla distorsione ottica dell’aria calda che saliva, ed in mezzo a quel mare, con le sue onde immaginarie, un cadavere a porre la parola fine su quella storia cominciata tre giorni prima… La famiglia Benvenuti era tornata in città da poco, per via d’una promozione sul lavoro d’Ernesto Benvenuti, il padre di Maddalena; questo era stato detto a Giuliani prima di presentarsi alla residenza in via Ortica. Del resto venne a conoscenza sul posto, interrogando i familiari. La sua presenza era richiesta per prassi anche se non si trattava ancora di un caso di omicidio. Precauzione diceva sempre il suo capo. Maddalena era scomparsa da due giorni, nessuna notizia, nessuna richiesta di riscatto. Stando alle parole del padre e della madre la ragazza si sentiva bene a casa, era a suo agio nella città che non vedeva da quindici anni ma che, comunque, conosceva per averci passato l’infanzia. Nessun nemico e nemmeno tanti amici, solo una coetanea conosciuta il mese prima in università, dove aveva appena ripreso le lezioni dopo il trasferimento. Il fratello di Maddalena, più piccolo, stava svolgendo il servizio militare e di lì a pochi giorni, se non ci fossero state notizie, gli avrebbero concesso un congedo temporaneo per raggiungere la famiglia. Giuliani si fece dire il nome e l’indirizzo dell’amica. Si recò in Via De Amicis immediatamente, al numero ventisei dove alloggiava Alessandra Bellocchio, l’amica di Maddalena. L’appartamento era il classico buco da studente. Vi albergavano in tre; tre ragazze tutte di ventisei anni. Alessandra ed Elena erano studentesse. Marta lavorava, invece, già da un anno. Tutte e tre conoscevano Maddalena sebbene l’amicizia più intima fosse con Alessandra. La ragazza visitava il loro appartamento molto spesso e la sera uscivano assieme, per lo più frequentando bar serali e discopub. Maddalena aveva introdotto nel gruppo l’abitudine di fare l’aperitivo ed erano riuscite a trovare un locale poco distante dove si poteva mangiare qualcosa di caldo mentre si beveva un cocktail od una birra gelata. A prima vista il loro sembrava essere un gruppo di quattro ragazze normali, senza nessun problema fuori dell’ordinario. Era per l’appunto in quel locale che le tre ragazze avevano visto Maddalena l’ultima volta: al Mohito bar. Il proprietario del Mohito era un uomo sulla cinquantina, vestito alla moda, con uno stile decisamente più giovanile della sua età. Giuliani ebbe l’impressione che volesse apparire simpatico a tutti i costi. Inconvenienti della divisa. Gli domandò se conosceva Maddalena Benvenuti e l’uomo rispose subito di sì, che era una delle ragazze più carine che frequentavano il posto, che veniva spesso in compagnia di tre amiche. Si ricordava bene dell’ultima volta che l’aveva vista perché era solo tre giorni addietro e le ragazze avevano bevuto un po’ troppo. S’erano messe a ballare sui tavoli, raccontò il proprietario, e non c’era verso di farle smettere di ridere. L’uomo disse anche di non aver cercato di fermarle più di tanto perché non era una serata molto movimentata e poi, quattro ragazze giovani e belle come loro, erano una delizia da vedere. Senza malizia, precisò subito, sono un uomo di cinquantatré anni, sposato e con due figli, ma le cose belle le so ancora riconoscere. Poi l’uomo si lasciò andare in un ampio sorriso cercando di conquistare Giuliani. Forse anche un po’ imbarazzato per paura d’essere frainteso. L’ispettore si concesse solo una smorfia. Il secondo giorno d’indagini iniziò com’era finito il primo, senza nessun indizio particolare, solo altre testimonianze di quanto Maddalena fosse una ragazza simpatica e benvoluta, e del fatto che non avesse né motivo di fuggire, né amicizie “pericolose”. Giuliani cominciava a preoccuparsi: questa mancanza d’indizi aveva di per sé un valore importante. Lo conduceva verso una strada che non avrebbe voluto percorrere, soprattutto per i genitori della ragazza. Si decise comunque a diramare una fotografia di Maddalena verso gli ispettorati delle città limitrofe, fece seguire la fotografia dalla didascalia: ragazza scomparsa. Fu solo nel pomeriggio di quel giorno che arrivò la notizia. Una ragazza senza vita era stata ritrovata in un burrone, poco distante dalla città, sembrava corrispondere all’identikit di Maddalena. Giuliani si precipitò sul posto. Sul fondo della scarpata si intravedeva un bozzolo giallo, un telone sotto al quale stava il cadavere. Così lo aveva coperto la scientifica, nell’attesa del medico legale, mentre compiva il proprio lavoro cercando di leggere segni improbabili sul terreno circostante. Il corpo era stato gettato dalla cima ed era poi rotolato fino a valle. Giuliani fu costretto a compiere un ampio giro per raggiungere il resto della squadra, perché lungo il declivio principale erano stati messi dei pali a proteggere le eventuali prove. Il padre di Maddalena arrivò frenando appena in tempo con la propria BMW grigia. Piangeva ed urlava chiedendo di poter vedere la figlia. Giuliani si domandò chi lo avesse avvertito prima ancora che la ragazza fosse identificata da lui. Imprecò contro quell’assurda mancanza di tatto e si lanciò sull’uomo, incontrandolo a mezza discesa per bloccarlo col proprio corpo. Gli disse di aspettare e Benvenuti accettò a capo chino, esausto dopo la forte emozione. Arrivò anche il medico legale e Giuliani lo accompagnò fino al corpo. Un ultimo rivolo di sangue si insinuava da sotto il telo e zigzagava attraverso piccoli sassi, morendo poi disseccato tra la terra arsa dal sole. Il corpo era stato gettato poco dopo la morte quindi, forse ancor prima dell’ultimo respiro. Scostò il telo. Il padre della ragazza, non ebbe la forza di aspettare un’inutile responso e si avvicinò inosservato con la morte negli occhi, ma le parole che gli uscirono di bocca sorpresero anche lui. Non era lei, disse, non era lei, anche se le somigliava. Veronica, una ragazza alta e bruna, vita snella, un tatuaggio sull’avambraccio destro simile ad un bracciale e degli occhi marroni dai contorni languidi, guardava di traverso Giuliani dalla fotografia appoggiata sul piano del tavolo. Era uno scatto dell’estate precedente; mostrava la ragazza con una mano tra i capelli ed il viso di tre quarti rivolto verso l’obiettivo. Giuliani decise che la pausa di silenzio poteva concludersi lì. Distolse lo sguardo dalla fotografia, sulla quale erano incollati anche gli sguardi dei due genitori, e domandò subito se la figlia avesse conosciuto qualcuno negli ultimi giorni, qualcuno di nuovo, o di strano. Gli risposero che no, nulla era cambiato delle solite abitudini della ragazza. L’ispettore aspettò che il pianto sugli occhi della madre si asciugasse, anche se sapeva che lacrime di quel genere avrebbero lasciato una macchia indelebile sulla pelle. Si disse d’essere abituato ormai, ma l’ombra di un sottile senso di colpa lo percosse dentro lo sterno. Il cinismo non lo aveva mai aiutato in realtà, e per quanto dovesse apparire freddo e lucido, vi era una sorta di dolore personale a guidarlo. Giuliani estrasse dalla tasca una busta di plastica sigillata. Era trasparente e ne mostrò il contenuto ai due che aveva di fronte. Si trattava di un biglietto scritto a macchina il cui testo recitava: “Nella gola tagliata degli inferi si nasconde, quando ancora il sangue bagna la barba della terra. L’occhio lucente di Dio è l’unico a poter vedere lo scempio. Nella casa del signore la santissima trinità avrà giudizio”. Il padre di Veronica lesse ad alta voce, come già aveva fatto quello di Maddalena, con il medesimo risultato: il testo non aveva alcun senso alle sue orecchie. L’uomo domandò cosa fosse e Giuliani rispose che era stato trovato addosso alla figlia. La madre riprese a piangere, mentre il padre diede voce al pensiero comune. Un pazzo dunque, disse reprimendo un singhiozzo carico di tensione. Giuliani rispose che era probabile, a questo punto. Raccontò loro la storia di Maddalena, potevano esserci delle affinità tra i due casi. Il biglietto suonava come una poesia od un enigma ed, in effetti, l’ispettore credeva che la gola tagliata fosse il burrone nel quale era stata trovata Veronica. Evitò d’aggiungere che anch’essa aveva la gola aperta da una lama. Quando uscì dalla casa la luna era già alta. Piena di luce gialla. Gravida di cattivo presagio pensò l’ispettore, riferendosi però alla sua mente. Scacciò i pensieri e cercò di ragionare. Se l’assassino di Maddalena aveva lasciato un indizio, quella specie d’indovinello, allora era davvero probabile che si trattasse di un omicida seriale. Veronica era troppo somigliante a Maddalena per essere un caso: lo stesso colore di capelli, la stessa corporatura, la stessa età. Era scomparsa pressappoco lo stesso giorno di Maddalena anche se i genitori non avevano dato peso alla sua assenza; era una ragazza vivace avevano detto, spesso si dileguava qualche giorno in compagnia di amici. Amava viaggiare e capitava che lasciasse solo un biglietto, o neppure quello, tornando dopo pochi giorni piena di regali per i genitori. Lavorava come Copyrighter in un’agenzia pubblicitaria ed economicamente non aveva problemi. Ancora una volta nessun indizio tangibile cui aggrapparsi. Veronica non conosceva Maddalena, avevano amici differenti, ed oltre alla somiglianza Giuliani non riusciva a trovare punti di contatto. Gli servivano luoghi o persone invece, dei nodi, delle congiunture che spiegassero come il possibile assassino le avesse unite nei suoi disegni. La mattina del terzo giorno, l’ispettore si svegliò di buon mattino. Solo l’occhio lucente di Dio poteva vedere. Il sole! Solo dall’alto si poteva vedere lo scempio. Solo da lassù, da quel cielo terso dell’estate torrida. Ma quale fosse la barba della terra neppure la notte aveva saputo dirglielo. Telefonò in centrale, chiedendo ad un elicottero di sorvolare la zona. Poi si recò nuovamente dai genitori di Maddalena. Il signor Benvenuti lo accolse fingendosi di buon umore. Il fatto che la ragazza nel burrone non fosse la figlia lo aveva sollevato, cercava di convincersi che era un buon segno, ma rimaneva conscio del fatto che portava le indagini in una direzione scabrosa. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie e cantare una nenia. Come da piccolo. Giuliani chiese di poter salire nella stanza della ragazza anche se già i suoi colleghi vi erano stati senza trovarvi nulla di utile. Aveva bisogno di conoscere Maddalena più a fondo, arrivare dove neppure i genitori sarebbero potuti giungere. La stanza era abbastanza grande, arredata in maniera semplice senza un eccessivo gusto. Non diceva molto della ragazza, in effetti. Niente disegni alle pareti, né poster. Solo la stampa di un quadro di Magritte. Sul letto mancavano i classici pupazzetti. Maddalena a detta dei genitori era una ragazza seriosa e non amava certe abitudini fanciullesche. Passò ai cassetti. Quelli del comodino rivelarono soltanto oggetti d’uso quotidiano, nell’armadio invece vestiario estivo: gonne, magliette, abiti da sera non particolarmente eleganti ma di buon gusto. Giuliani guardò sotto il letto. Nulla, neppure la polvere, perché la madre continuava a fare le pulizie nella stanza ogni giorno. Cercò di immaginare dove una ragazza come Maddalena potesse tenere i propri segreti, sperando che non fosse una di quelle poche persone tanto furbe da tenerli soltanto nella propria testa. Chiese dove fossero i vestiti invernali ed i genitori lo portarono in uno sgabuzzino nel sottotetto. Là, dentro due armadi incassati nel muro, stavano maglioni e giacche accatastati a sandwich assieme a tonnellate di prodotti anti tarme. L’ispettore provò a frugare con le mani oltre quel muro di lana. Tastò a lungo la parete posteriore del primo armadio e poi del secondo, fin quando sul volto non gli si dipinse un aria svagata, piena di mal simulata eccitazione. Aveva trovato qualcosa. Quando si mise in contatto con l’elicottero già sapeva dove farlo dirigere, quello che non sapeva era cosa avrebbero trovato in quel luogo i suoi uomini. Ma prima doveva andare da un'altra parte. Entrò nel Mohito bar a passo spedito. Franco era il nome del proprietario e Giuliani si sorprese ad urlarlo con forza. L’uomo sopraggiunse spaventato spuntando da dietro il bancone. Chi sono? Chiese l’ispettore senza neppure salutare. Franco lo guardò con aria interrogativa. Cosa c’entrava quella fotografia che gli veniva mostrata? Dove l’aveva trovata Giuliani? L’immagine ritraeva Maddalena e Veronica assieme, sorridenti, sedute ad un tavolo del Mohito. Con loro una terza donna: una suora. Anche Franco riconobbe Veronica. Disse che frequentava il locale solo poche volte e che si ricordava bene la sera in cui quella foto venne scattata, l’aveva fatto lui stesso. Maddalena era venuta da sola e così anche Veronica immaginava. No, le due ragazze non si conoscevano. Aveva fatto da catalizzatore suor Maria che s’era messa a suonare la chitarra. Fuori pioveva ed entrambe le ragazze non sembravano di buon umore, così la musica di Suor Maria le aveva attirate allo stesso tavolo. Giuliani chiese dove fosse Suor Maria, se sapeva come rintracciarla. Il proprietario del bar sembrò allarmato ma disse lo stesso che, ovviamente, sapeva dove trovarla; non sono molte le suore che frequentano certi locali, tranne quando sono le sorelle del proprietario. La madre superiora non sembrava incline ad aiutarlo. Era restia a rispondere alle sue domande. Solo quando Giuliani divenne rude e la spaventò questa acconsentì a dirgli dove potesse trovarsi suor Maria. Quella era l’ora della preghiera: nella cappella per cui. Giuliani corse verso il corridoio centrale del convento, la superiora aveva detto di andare sempre dritto fino in fondo e poi entrare nella porta a destra. Correva senza saperne il perché, sentiva dentro di sé che non aveva più tempo, che qualcosa stava per chiudersi alle sue spalle inesorabilmente. Un cerchio aperto chissà quando di cui nemmeno conosceva il contenuto, lui aveva solo viaggiato attorno al perimetro sfiorando verità che si celavano troppo profonde per venire scorte. Solo più tempo, solo ancora un po’ di tempo per capire, per non lasciarsi sfuggire anche questa volta la verità sotto al naso. Solo per avere qualcosa da raccontare ai genitori di quelle due ragazze e non lasciarli semplicemente nella disperazione. Un motivo, questo stava cercando, un motivo qualunque per comprendere tanta violenza. Suor Maria non era nella cappella. Tutte le sorelle si erano alzate assieme, di scatto, all’entrare dell’ispettore e parlottavano tra loro incuriosite come tante stupide galline, pensò Giuliani, Parlate voleva urlare, dov’è Maria, dov’è? Eppure sembrò che non una si fosse accorta della mancanza della donna, sembrarono stupite della loro stessa poca accortezza. La cappella ad una sola navata era lunga una decina di metri, con una fila centrale di panche e l’abside sul fondo. Il santissimo non era esposto naturalmente, stava ben chiuso dentro al tabernacolo che lo proteggeva dal sole di quell’estate sempre più rovente. I raggi si riflettevano sulle rifiniture in oro dell’altare e accecavano Giuliani che guardava in quella direzione, quasi chiedendo conforto. Il sole, certo. Lo scempio si vede solo dall’alto. Solo dal cielo si può vedere tutta la verità, quando sulla terra noi navighiamo come poveri ciechi. Giuliani chiese alla suora più vicina quale fosse il luogo più alto del convento. Il campanile, gli venne risposto dalla suora, che indicò una porticina sul lato della cappella. L’ispettore corse ancora, e dietro a lui tre carabinieri giunti con una volante dalla centrale. Gli scalini salivano ripidi entro i confini angusti della tromba delle scale. Poi lo spazio si rimpicciolì ulteriormente e rimase solo una scala a chiocciola di pietra che si avvolgeva attorno ad un pilastro portante. Infine giunse sulla sommità e varcò una porta se possibile ancor più piccola di quella dalla quale era entrato. Ebbe appena il tempo di vedere una saetta nera dietro alla campana sfiorare il cielo. Poi un urlo. Poi un tonfo. Poi silenzio, solo l’affanno dei carabinieri rimasti indietro, sulle scale. Giuliani stava guardando il corpo di Suor Maria accasciato al suolo. Dal campanile, quando aveva guardato di sotto, gli era sembrato soltanto un punticino nero affogato nel verde. Si rese conto che non aveva trovato quello che andava cercando. Se suor Maria si era uccisa questo significava, con tutta probabilità, che il cerchio si era effettivamente chiuso senza che lui potesse afferrarne il senso. Ma ora aveva tempo… anche se tutto il tempo del mondo non sarebbe bastato ai signori Benvenuti né ai Rossetti, i genitori di Veronica. Guardò, mentre lo stringeva fra le mani, il raccoglitore che aveva trovato nell’armadio. Era pieno di fotografie che ritraevano Maddalena fin dall’infanzia. Dal bordo spuntava ancora la foglia che segnava la pagina in cui aveva trovato la fotografia che la ritraeva con veronica e suor Maria. Era tutta rinsecchita ma si distinguevano ancora i filamenti che compongono la barba della pannocchia del mais. Quando arrivò la telefonata dall’elicottero, Giuliani rispose parlando a monosillabi, sì, sì, mm, va bene. Molto di più dicevano i suoi occhi che s’andavano arrendendo a quanto già sapeva. Chiuse la chiamata dicendo che stava arrivando. C’era ancora una storia che univa quelle tre donne, tutta da scoprire, eppure il caso era risolto, nella camera della suora il carabiniere aveva trovato vestiti sporchi di sangue ed una piena confessione. Ho ucciso Maddalena e Veronica, firmato, punto. Quanto bastava. Ma a chi? Non alla sua colpevole innocenza di uomo. Non fece in tempo a sentire il carabiniere rimasto sul campanile, Giuliani era già risalito in macchina. Era un giovane appuntato dai capelli rasati, con un velo di peletti sopra le labbra a fingere dei baffi che ancora non c’erano. Disse: “Signor ispettore, ho trovato, è tutto quassù, tutto. La spiegazione!”. Ma la sua voce si perse nell’immensità del cielo e nel calore dell’aria. LUNA INDIANA (un'estate del 90) scritto da: Alessandro Gabriele Guardo il Baba naufrago alla fine della sua passeggiata mattutina, un vecchio bellissimo che cammina tutto storto come sulle fiamme di una probabile artrosi. Ha l’aspetto sorridente di uno scampato a una teoria infinita di disastri materiali, vestiti stracciati tenuti su da una corda grezza di fibra di cocco, due dita mancanti alla mano sinistra e una specie di buco profondo rimarginato a lato dell’ombelico. Qualcuno gli ha strappato le viscere chissà quando. Eppure ha due occhi come soli tropicali che scaldano ancora molto dopo che il tuo sguardo si è perso dietro l’India sfuggente a lato. Se ne sta in piedi tra le palme e la spiaggia, con le mani sui fianchi e il barbone bianco che svolazza leggermente. Lo vedo girare lentamente su se stesso, spingere lo sguardo verso l’orizzonte, considerare prospettive, respirare venti, formulare pensieri ignoti, forse definitivi, chissà se giusti e maturi, privi di rimpianti, così pare, che senta questo sollievo, lui spiaggiato ora tranquillo ai piedi della sua esistenza, io sfuggito alla mia estate che odio, se la penso così squarciata brevemente nel corpo di una madre lavoro necessaria come una spada nel braccio che non sente più. Aggiungo, Baba, amore per il ciclo di questa vita che ci manda in giro come palline da ammaestrare nel gran gioco dell'infinito. Mi osservo scrivere fintopoeticamente di una realtà che mi scavalca come una rampa per traffico superveloce, buona solo per sentirne il rumore fastidioso di gas espulso, l’attrito di ciò che sogni e non si trova, si trova, il peccato semplice di rintracciarla in te, la Visione, l’imprecisione delle forme degli uomini. Di questo scrivi come un invasato, senza meta e senza costrutto, in braccio a Goa facile e avvolgente, in mezzo all’India putrida alla tua vita di transito senza un centro, spessa come un fantasma, semplice come un amore platonico e irrisolto, puttana dello Spirito con slanci eroici e verità definitive. Controllo il popolo degli amici abbandonati tra i tavolini sotto la tettoia di foglie secche, di ritorno dal bagno per bere nel Sun’n’Moon cullati dal drum’n’bass che agita in alto le grandi palme piegate al suolo. Qualcuno si dà il cambio sulle amache distese quasi a riva. Cerco Herbert dagli occhi azzurri vivacissimi e folli, medico etilico impressionante e lucidissimo, la sua bella moglie tibetana, una villetta e discografia Pure Seventies, Reiki e Chakras, due figli pienotti, i più grassi dell’India, tranquilli e fortunati. Chi ha trovato casa e chi come me si accontenta di accamparsi lungo il percorso compiuto, o su quello che verrà, se verrà, tra amori sempre più rari e difficili da decifrare. Arriva il vento improvviso fortissimo che fa volare i bicchieri, un’altra scarica di pioggia. Il monsone si prende tutto, attenzione, cartacce, libri, i resti della mia passione breve e secca per Marina, la pelle che fa male, vestiti da lavare, mutande da asciugare, mezzanotti da rispettare, cani randagi di Palolem da accudire. L’ho presa in agosto pieno da un palazzo di Testaccio, stava spaurita e dignitosa a passarsi una mezza estate deludente, qualcuno l’aveva lasciata sul più bello. Le ho organizzato venti giorni che non s’aspettava, l’addio che non sapeva, sotto un monsone che siamo tutti ubriachi alle sette di sera. Kathrina mi legge le carte, mezzoinglese mezzotedesco, Katrina la scansano dal Sun’n’moon, è pazza dicono, ha occhi di una Durga sassone abituata all’omicidio rituale, qualcuno traduce il gesto che fa avvicinandosi alla mia testa: dice che ho come un’antenna di luce che mi esce dal cervello, che è pericoloso, che capto senza filtro il dolore dell’universo, mica cazzi. Con Marina. Farò spegnere il piccolo fuoco di cenere. Non ce la faremo a diventare nemmeno amici, per questo viaggio, sento la lunga marea del suo dolore che mi sfiora inutilmente le dita dei piedi. E l’India in mezzo che ci separa, il patimento vuoto per i derelitti, l’orrore per la merda e piedi nudi che si fermano inutilmente sulla sporcizia del tempio di Laxmi a Hampi. Penso a mio fratello che ce l’ha fatta a passarmi il testimone prima di scendere da questo viaggio, a cartoline estatiche di passaggio da Calangute vent’anni fa, al sorriso leggero di Marco in qualche vecchia posa di album. Marco non ce l’ha fatta, l’India che gli ha dato una mano a riempirsi le vene di sogni corrosivi e il cuore di oblio. Scatto tutte le fotografie che posso per allungare il giorno. Il giorno più lungo di un viaggio che non mi basta più. La solitudine, infine, come potrò dirlo a Marina, tutte le moltitudini di solitudini che allagano il Subcontinente indiano tra Cape Comorin in Keraka a sud, fino alle creste dell’Himalaya che chiudono il nord. La solitudine di Terzani in cerca di una morte di pace giusta, quella di Cesare, Baba torinese trapiantato tra le rovine di Hampi nello stato del Maharastra, la lunga teoria dei suoi capelli che trascinano la terra al suolo, senza misteri, con un accento di circonvallazione che strappa il sorriso, solo sperduto nelle pianure centrali, senza seguaci. La mia che ho pazientemente atteso, che mi ha generosamente avvolto cinque anni fa e tre anni fa e oggi ancora, scavata tra il deserto del Thar e le spaventose maree di Kovalam fin dentro i deliri prospettici del Kailasa Temple tra le colline di Ellora. Tutto il dolore che oggi fa sorridere: in definitiva, l’unico tesoro di saggezza strappato a questa vita. Me ne vado a fine estate, vergognandomi un po’, con un amore struggente che mi riempie, un amore donatomi gli ultimi giorni, quando già t’assale il blues del rientro, qualcosa ti dice che tra una settimana precisa sarai di nuovo carne del tuo macello, dei loro mercati, impossibile da spiegare, che ti sembra il peccato ultimo, quello più denso che li racchiude tutti, i tuoi. Marina fa sorridere al confronto. Mi ubriaco per questo e passo l’ultima notte a voltarmi nella sete di un letto che è una fossa tra noi. Mi sono innamorato di Ratna, una piccola bambina di otto anni, una piccola regina vagabonda, questo dice il mio poeta segaiolo. Metà del viaggio l’ho fatto attraverso i suoi occhi, con la sua voce, dentro il piccolo grugnito di gioia che avevamo incontrandoci per strada, piccolo verso rimasto alle sue infanzie già trascorse che tuttavia rifiutavano evidentemente di perdersi. La mattina che siamo partiti pensavo che non sarei riuscito a dirle addio e lei deve averlo sentito, non son riuscito più a trovarla, dicevano che fosse andata a giocare lontano, i suoi saltelli di piccola pazzia e l’ignoranza del futuro, desolato come l’arida piana del Karnataka da cui venivano i suoi poverissimi. Ora sei sola nel vicolo notturno di Hampi a sgranare il rosario dei giorni che mancano. E botte certo non ne prenderai più, piccola mia, perché io tornerò a prenderti, io, bambino di mezz’età che confonde il giorno con la notte, il seme del dolore con l’albero del frutto maturo. Io bambino, quel giorno mi esiste già da sempre nel novero delle favole bruciate, quelle che non aiutano ad addormentarsi, che invece di scacciare i demoni li nutrono e li moltiplicano. E in questo terribile rimando di specchi che maledice la mia notte di sete, c’è una sola uscita dove ti vedo percorrere il suolo polveroso del marciapiede, truccata da Durga e da Kali, con una collana di teste che spargono sangue sul vestito giallo e cento braccia per illudere chi, sdraiato su di te, va a cercare la piccola morte tra le pieghe poco costose della tua carne. Ratna, io sono lontano e sono la stessa cosa, come te giudiziosa e disperata e libera e priva di domani, come il tuo amore semplice e la malinconia. E cosa importa che sia finito anche questo viaggio. Cosa importa che faremo domani, i sogni che si perdono, quelli che vanno via di testa. Sono andato giù da solo l’ultima mattina a Delhi per il viale congestionato tra la Jama Mashid e il Forte Rosso, come cinque anni fa. Ho visto lo stesso troncone umano elemosinare con rabbia sull’ingresso della moschea, gli stessi lebbrosi agitare moncherini e cantilenare misteriosi Mantra sospesi tra inferno e paradiso, lo stesso vecchio esporre una notte di tenebra al posto delle palle degli occhi. Ricordo un bagno di notte per accompagnare Ganesh tra le viscere dell’Oceano Indiano. C’era la luna altissima e intoccabile, la luna che sorge sulla spiaggia di notte, la più intima e segreta. E sono sceso dal bus scassato, affollato di odori, con gli occhi semichiusi in cerca di un Chay bollente. La luna che si arrampica sulle mura rosa di Jaisalmer al tramonto, il disco perfetto che risuona di percussioni acquatiche, la luna che mi accompagna intorno al lago di Udaipur, perfettamente riflessa in milioni di pieghe liquide e fin dentro quest'ultimo respiro stasera. La luna è testimone ed è il viaggio stesso. Ganesh, mio dio infantile e un po’ pasticcione, signore della fortuna e del buon commercio, accompagnami verso casa. Non ho più voglia di scrivere, di sognare, di dormire. Vengo da te, con le moltitudini dei tuoi fratelli dispersi tra i fumi d’incenso e la musica assordante, partiti come me a settembre di ritorno dalle spiagge dell’India. POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI PECCATI? scritto da: Dareios (sonetto caudato in terza rima) Chiedete, amici, se potrà l'estate Rimettere i peccati d'una vita? Rispondo a modo mio, dico: guardate, Secondo la dottrina stabilita, Le colpe solo vengono lavate Se almeno un poco l'anima è contrita. E io, sapete... io non sono un frate: Colgo tutti i piaceri cui m'invitano, Non mi rimorde affatto il coltivarne, Si tratti dell'accidia, della gola O, quando gira bene, della carne... Non abbiam altro che una vita sola! E per quanto riguarda il Padre Eterno, Penso ci sia uno sbaglio di parola: Gli inquisitori hanno capito "inferno", Ma credo, anche irredento, di scamparne: Dopo l'estate, Iddio intendeva "inverno". POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI PECCATI? scritto da: Rana Fritta a me, e al mio amico Guido La ricordo abbastanza bene, iniziò il 10 luglio e sarebbe finita il 5 settembre. La mia estate apriva le sue parentesi allorché partivo per il campeggio e le chiudeva al ritorno. Tutto ciò che rimaneva fuori era semplicemente un periodo afoso fatto di semplici tentativi di evadere dalla mortale nenia dei grilli. La ricordo abbastanza bene quell’estate perché l’amico Sandro riuscì a rimetterci un esame. Io ero come lui novella matricola all’università e entrambi, abbagliati dalla forte luce degli studi finalmente autogestibili, rimettemmo a quella stagione un anno di vita di studi. Era appena finita la stagione calcistica e la Roma ci rimise la Coppa dei Campioni, perché Sebino non rimise al centro e qualche tifoso deluso, ingozzatosi di gloria preventivata, andò al bagno a rimettere le sue speranze. Come ogni anno, ma quella volta fu una chiavedivolta, si partiva per il campeggio. Luogo di regole non scritte. Centro sociale delle mie speranze. Zona franca per l’approccio terapeutico della mia timidezza che mi avrebbe portato ad essere il giullare di tutti, ma mai nei pensieri di nessuno, meglio di nessuna, in particolare. Portai con me un’energia incredibile, un amore giovane per la vita, un marsupio di speranze timidissime, una chitarra da boy scout e un giro di do. Che se hai la musica nel cuore, con un giro di do ci puoi cantare qualsiasi cosa. A mezzanotte, il menù estivo prevedeva spiaggia e stelle gratis con illuminazione cannabis e karaoke di cazzate. Il giro di do suonava alla grande e ogni tanto sbluesava in tempi più larghi. Anche le zanzare mi volevano bene. Qualcuno camminava sull’acqua perché si sentiva un dio. Durante il giorno c’era troppo sole per i miei gusti di spiagge annuvolate, avevo un fisico che suggeriva sempre una t-shirt. Ero brillante con le fanciulle. Tutte mi adoravano, ma ovviamente scopavano con chiunque altro. Misi su un gruppo di giocherelloni, suonatori e cantastorie, Le rane fritte. Dominammo la scena con idee geniali che ancora nutrono la luce dei nostri ricordi. Giocammo a calcio con l’entusiasmo di chi si gioca ogni volta una finale dentro uno stadio di persone che hanno soprattutto voglia di divertirsi e con la consapevolezza pur competitiva che, vaffanculo, alla fine l’importante è partecipare. In quaranta giorni feci di tutto e cioè non feci niente, ma il mio entusiasmo era tale che non percepivo più se mi stavo divertendo alla follia o se mi stavo annoiando ed ero semplicemente folle. Ma qualcosa non andava. Avevo un blues da suonare e quello, cazzo!, non potevo farlo solo con un giro di do. “Devi trovare altri accordi” mi disse qualcuno. “D’accordo!” replicai io e intonai “Campèggio di così si muore…”. La città mi aveva lasciato andare con delle raccomandazioni precise “Divertiti ma fallo sapendo di vivere una menzogna…”. Quell’estate ebbe pietà della mia innocenza e mi rimise i miei peccati di ingenuitudine, poi tornò a spiegarmi, l’estate successiva, che la mia ricerca di ciò che era stato era futile e vana, che nulla si ripete. Io prendevo le cartoline dei miei ricordi dell’anno prima e le mettevo in controluce per confrontarle con ciò che avevo sotto i piedi in quei momenti. Anche la mia chitarra perdeva il suo smalto. Avevo anche altri accordi nelle dita ma la magia non era più la stessa, a corte c’erano altri giullari, più bravi, più seri, più divertenti, più colorati o più cupi. Il mio blues era l’omaggio che gli altri mi facevano ascoltandolo e io ero felice solo tre minuti… campèggio di così si muore… cantavo e sorridevo, gli altri pure, poi mi auguravano la buonanotte. Quell’estate fu la prima a rimettere i miei peccati. Mi donò emozioni energiche ma al tempo stesso calibrò il parametro di riferimento di ogni mia felicità marginale. Ogni anno affidava ai miei ricordi l’ennesima effimera consolazione. L’estate significava per me essenzialmente due cose. L’amicizia e la scoperta mai definitiva dell’altro sesso, sicché la meraviglia non finì mai di abitare la mia bocca. Avrei voluto amare fisicamente, perché sarebbe stata la prima volta, ogni amica, farla mia, toccarla e sorridere con lei nell’intimità più vergognosa. Ma sapevo che ogni volta mi sarei innamorato e così mi fermavo a ragionare per almeno sette anni e lasciavo andare sguardi consenzienti, labbra lucide e timide, desideri e sogni di passione. E quel ricordo mi sta scavando ancora le tempie echeggiando nel mio teschio come in un tempio sconsacrato, facendosi beffe del mio candore. Quell’estate rimise anche quel mio peccato. E mi lasciò nella convinzione che sarei stato in grado di supplire ai miei gesti paralizzati con le parole, soprattutto quelle scritte col senno di poi, poi dissennato. E le estati successive mi dettarono lettere lunghissime. Lusingai molte fanciulle e forse fui anche poeta romantico oltre che ispirato, ma se ero sincero con loro, non lo ero con me stesso, perché non ebbi mai neppure una volta il coraggio di scrivere “Sappilo, cara, che sarei voluto entrare nelle tue grazie, sdraiato su di te sulla sabbia fresca, sotto curiose stelle tenute al guinzaglio dalla luna che le ha portate fuori a pisciare”. Non ho mai capito dove finiva il romanticismo e dove poteva essere il confine della mia cerebrale passione. Non ho mai osato. Non ho mai portato un po’ d’acqua nel vaso di una qualsiasi orchidea. Mai tentata una puntata. Son sempre rimasto con quella fiche in mano, senza mai scegliere rosso o nero. E la roulette girava per altri che puntavano vincendo sui miei numeri. Quell’estate ha rimesso i miei peccati ogni volta che mi ha chiamato a crescere almeno un po’, allorché mi ha dato il primo gettone stringendomi il pugno con la sua mano affabile. Mi diceva “Fanne buon uso!”. Io invece ne ho fatto solo tesoro. Ogni tanto oggi apro la mano e provo a giocarla quella fiche, ma il croupier mi rimprovera “Ma fammi il piacere, sono passati quindici anni, quelle puntate sono memoria antica, quella roulette ha smesso di girare e probabilmente è gettata in una discarica che i topi ci fanno girare le loro merdine tonde. Quella tua è una mancia di una vecchia notte di una degna estate, un invito alla vita, da consumarsi preferibilmente entro… guarda sul retro, bimbo, che la data è scaduta...”. Io la conservo quella fiche. Ci punto su i miei ricordi e poi faccio girare la ruota delle mie stagioni felici con i suoi quindici numeri, qualsiasi numero esca vinco comunque e l’uomo al tavolo congratulandosi annoiato mi restituisce ogni volta la fiche e mi dice “Les jeux sont faits, rien ne va plus…”. Stringo forte quella fiche come fosse la medaglietta di un reduce. Avevo diciotto anni quando fui arruolato. Ho combattuto per dieci anni contro le regole della vita “da grandi”, ho resistito alla naturale mia crescita, ho sparato cazzate contro i nemici che mi volevano serio sotto la loro bandiera. Ho studiato più del dovuto per non laurearmi presto e perdermi nel labirinto del “presto ché è tardi se vogliamo arrivare in anticipo”. Ma la guerra era di anno in anno sempre più feroce e ogni volta contavo numerose vittime tra i miei amici e la spiaggia era sempre più vuota, rimanevamo in pochi a combattere. Ovunque chitarre abbandonate e echi di blues portati dal vento da chissadove o chissaquando. Alla fine, mi sono arreso anch’io, io non sono un eroe, sono stato fatto prigioniero dalle cose della vita, non prima di essere ferito a morte. Quell’estate, lei sì, è tornata a trovarmi, anche d’inverno. Mi ha portato i suoi conforti reliquiosi “Te li rimetto io, i tuoi debiti, mio fiero custode di gioie giovanili. Io ti perdono, ché tu il sole ce lo avevi dentro e io di quello mi nutrivo”. Poi sono morto. Solo allora quell’estate mi ha frugato piangendo nelle tasche, ha preso la mia fiche e l’ha puntata tutta sulla mia anima, poi ha imbracciato la mia chitarra e seduta su un gommone in riva a onde balbuzienti ha cantato il mio blues. La roulette sta ancora girando. E io sono qui, non chiedetemi dove, con le dita incrociate. POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I PECCATI DEL MARTINI? scritto da: Nicola Martini Potrà rimettere, mettendosi due dita in gola e vomitando, di conseguenza, fino al 15 settembre. I peccati del Martini son venali, che lui è genovese. C'è il refuso, ma lì per lì non lo trovo. Ad ogni buon conto, siccome è imprenditore, non vorrebbe rimetterci, quindi l'estate, per quanto lo riguarda, può anche andare a dare di stomaco in un'altra contrada e presso altra famiglia. Rimetto adesso il testo alla vostra gentile attenzione. Quello che mi sta seduto davanti si scosti sennò lo prendo in pieno. Qui i sacchetti non usano. PLAYBOY scritto da: Fucsia Col cappotto sulla spiaggia. Dentro un astro che infuoca, un cappello sbilenco incastrato nei pensieri calze di lana a grattare la pelle e guanti e scarpe gravi dove la gomma nera appoggia sulla rena davanti al mare. Fermo, trasfigurato tra gelati squagliati e imprudenti totali protezioni. Stai. Per perdonarti quelle cento notti al freddo quando la neve incorniciava i vetri e tu nudo acciuffavi la vita per i capelli e annusavi l’odore di ogni bocca Ogni volta era rinascita sopra una morte altrui. POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI PECCATI? scritto da: Dario Carta Lo vedi nel vibrare del fiato terreno Il muovere lento della luce dice che costa fatica sentirsi leggeri E chiami il vento a sorreggere irrigazioni di pelle a sdebitarti della siccità Quasi che le sere senza ombra non possano cristallizzare - emozionate Finestre spalancate sulle lenzuola spiate dalla luna Ma se anche fossi inverno non vorrei davvero evitare l’estate della mia stessa acqua Sarei sempre io con i miei peccati a fluire Solo mi vedresti diverso solo mi sentiresti vita nella tua sete LA CICALA PECCATRICE scritto da: Brizgraz Stornella la cicala ar solleone e se la gode spenzieratamente, chè dell'inverno nun ricorda gnente e canta a squarciagola la canzone! Se passa la formica previdente spignendo la mollica cor fiatone, la pija in giro, ride e all'occasione se je risponne, quella nun ce sente. D'artronne la cicala cià 'sto vizzio e quest'estate invece da capillo e mettese de impegno e de giudizzio, S'è fatta giurà amore sempiterno da quer frescone fracico der grillo che la mantiene quanno viè l'inverno! Un grazie a Trilussa per lo spunto e la sponda per la poesiola. Lo sviluppo però è mio... IL TEMPO DISCONTINUO scritto da: Doremì A sei, sette anni, il tempo è discontinuo. Perché un futuro atteso è come un quadro lontano, da cui ci separa un fossato che ci appare insuperabile. Si può solo credere, per pura fede, che quel momento arriverà. Ma è contrario all’esperienza, perché il tempo non passa mai e sei mesi, come sei giorni ed anche sei ore, a volte sono un tempo infinito, impercorribile. E allora Anna si dice, mentre, in un giorno d’inverno si annoia dietro il vetro della sua camera di Roma, primo pomeriggio, adulti a riposare e bambini zitti: eppure ci sarà una prossima estate a San Remo ed io sarò di nuovo nel giardino della villa dei nonni, sentirò l’odore delle tuberose lungo la strada del Solaro e il cigolio del cancello dei Verruggio, di fronte al nostro, la mattina presto, e salirò nella soffitta a giocare coi pupi siciliani a grandezza naturale abbandonati in un angolo e a odorare la carta dei libri vecchi vecchi, quelli che erano per bambini quando erano bambini i grandi, e verrà il momento che sentirò l’odore delle alghe, sulla spiaggia… No, ecco, non è esattamente così. Anna deve immaginare un momento preciso: ad esempio l’arrivo a San Remo, con la nonna, la sua sorellina e la cameriera, piene di bagagli per una villeggiatura che durerà tre o quattro mesi – una vita - e poi il tassì, che alla curva stretta del Solaro dovrà fare marcia indietro per riuscire a girare e questo vuol dire che ci sono quasi, e presto – ma anche ora il tempo è discontinuo e qui gli ultimi minuti si dilatano in una bolla immobile - comparirà la villa tutta coperta di buganvillee e la zia Teresa col fazzoletto in testa e Mino Franco e Floriana, calzoncini e canottiera e piedi nudi, che avranno appena finito di irrigare i campi sotto la villa, ad aspettarle sulla strada sorridenti e festosi. No, neanche questo, bisogna immaginare qualcosa di più preciso, quasi una fotografia, per poter avere un riferimento : ad esempio lei e Floriana che fanno il giro della strada Solaro subito dopo il tramonto, per andare comprare il latte alla stalla, vicino al campo ippico, e, ancora più a fuoco: proprio il momento in cui, alla prima curva, sotto di loro si apre il panorama delle terrazze coltivate a tuberose e giù in fondo quel mare /cielo dolce, senza più orizzonte e piccole vele bianche a solcarlo e Anna si affaccia al parapetto perché questo Anna, sei o sette anni, lo fa sempre e sente uno struggimento e non lo sa definire. - Che bello neh! - fa la Floriana, che ha sei anni più di lei, ma se la porta sempre dietro in questa commissione quotidiana. E intanto scorrono lontane, sulle terrazze, figure di ragazzi e uomini a torso nudo, abbronzato, e i pantaloni arrotolati, che tornano dai campi con fasci di fiori dai gambi lunghi sulle spalle e quando Gino Verruggio le incrocerà, proprio in quel punto sulla strada, lasciando quel ‘Boona’ strascicato di saluto, il profumo dei fiori sarà così forte che Anna ne sarà stordita. In quel preciso momento, si dice Anna , in quel preciso momento dovrò ricordarmi di ora, di me che sono qui alla finestra della mia stanza di Roma a chiedermi come mai potrà passare tutto il tempo necessario perché quel momento arrivi. E stabilisce una posizione precisa nella sua stanza, magari prende un quaderno in mano, perché la fotografia sia più nitida, e legge: classe seconda elementare. Mi dovrò ricordare, allora, di me che leggo le parole classe seconda elementare su una copertina azzurra. E così Anna si dà degli appuntamenti col tempo, tratti di un tempo discontinuo, sperando di afferrarne il mistero. Perché la sua fede vacilla e forse il tempo non passerà e quel momento non arriverà mai. Puntualmente arriva l’estate e con l’estate San Remo, in uno scorrere a scatti del tempo, segmentato in frazioni sempre più brevi. Anna entra nel salone della villa e sente subito l’odore di muffa e cera della casa vecchia e le si allarga il cuore, poi guarda il mandarino cinese appeso al muro, proprio nell’ingresso, che le fa tanta paura perché ha gli occhi che ti seguono ovunque tu vada, e poi arriva la zia Teresa con la torta di zucchine preparata come sempre per il giorno dell’arrivo e presto tutto diventa dolcemente quotidiano anche l’odore del DDT spruzzato la sera con la macchinetta nelle stanze da letto, e Anna dimentica il suo appuntamento col tempo e con l’istante di Roma, perché dovrebbe guardare a ritroso. E non fa ammenda per aver mancato di fede. La sabbia sotto ai piedi e l’odore forte del mare, il pane e pomodoro e basilico, ‘pane e pumata’ dopo il bagno, i pomeriggi pigri in giardino, mentre i grandi riposano, a giocare e leccarsi il sale dalla pelle, che odora di sole e di buono e poi giù nei campi a seguire in mezzo alle zolle allagate Floriana che regge la manica ai fratelli, le merende di pane e fichi. E alla sera, prima di cena, proprio all’imbrunire, Floriana va a chiamare Anna per andare a comprare il latte. La passeggiata più bella, l’aria dolce e il mare che ti aspetta ad ogni curva. Ed ecco Anna che si affaccia al muretto e Floriana dice : - Che bello neh? - e si incantano a guardare il celeste delicato e piatto su cui scendono i fianchi delle colline. E teorie di uomini e ragazzi a torso nudo e abbronzati scorrono sulle terrazze coltivate a tuberose tornando a casa con fasci di fiori dai lunghi gambi sulle spalle. - Boona - saluta Gino Verruggio e il profumo è così intenso che Anna ne è stordita. Poi riprendono il cammino e scherzano e chiacchierano ed Anna ha dimenticato l’appuntamento con la Anna dell’altro tempo, quell’altra lei di Roma, immobile alla finestra con quel quaderno in mano con su scritto Seconda Elementare. E’ estate. E l’estate è dolce e sa perdonare. COINCIDENZE scritto da: Punto Mosso Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati? Le strofe, allineate a sinistra, sono il testo di una canzone dei Múm, presa dal loro ultimo albo: "Summer make good" L'ho pagato un occhio della testa, l'ho visto al collo di tutti i passeggeri della metropolitana, ho sentito dire che la fabbrica che lo ha prodotto ha implementato questa scatoletta con un macello di funzioni in più rispetto a quelle accessibili con i bottoni che ci sono sopra per questioni di marketing. Ma ora ce l'ho anch'io, questa collana di altri tempi, con fili di colore alla moda e auricolari dalla forma facilmente riconoscibile e quindi accettabili senza pensieri. Si connette direttamente al cervello e lo stimola con onde di pressione di lieve entità. Lievi, onde di piccolo ordine, senza peso, come leggere sono le canzoni che ho scelto. Will The Summer Make Good For All Of Our Sins Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati? Please don't cry for hammer in your teeth We'll spoil the pretty snow that lies beneath Who go cry for hammer in her teeth We'll spoil her pretty face at least she feels real No-go cry for hammer in your teeth We'll spoil the pretty snow that never feels real Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti noi ritorceremo la neve bella che sta sotto Colei che grida per il martello nei suoi denti noi ritorceremo il suo viso bello almeno che si senta viva Non serve piangere per il martello nei tuoi denti noi ritorceremo la neve bella che non sembra mai vera Prima fermata, questo convoglio comincia a riempirsi di gente, menomale che un posto c'è sempre, ed è questo il vantaggio di abitare un po' fuori, tranquilli, sempre, sia sopra sia sotto, sia a casa sia quando si va in centro. E così sempre, da ormai 4 anni a questa parte, da quando ho accettato a occhi chiusi, o per meglio dire bendati di un paraocchi molto stretto, questo contratto in questa anonima città, lasciando tutto, tutto ciò che ora è scordato, appassito, dimenticato, memoria persa nelle illuse speranze. Seduti, tutti ormai seduti, e come tutte le mattine debbo farmi queste quattro stazioni in piedi, poco più che cinque minuti, ma vorrei per una volta farli da seduto. Chi in un libro, chi con la testa guidata da fili a pensieri normali ai suoi gusti, chi guarda fuori per guardarsi dentro, chi guarda dentro per sentirsi osservato a sua volta. Non è certo il periodo della giornata che attiva di più le mie conversazioni interiori, diciamo che lo sfrutto solo se un pensiero mi perseguita già dalla mattina prestissimo, allora con un quarto di occhio guardo il percorso e con il resto delle attività celebrali faccio finta di tirare su un punto della situazione. Cosa mangio oggi a pranzo? Come al solito andrò nella mensa comune e prenderò qualcosa di cui mi lamenterò in silenzio pensando: "Se me lo fossi cucinato io..." per poi rientrare a casa la sera e mangiare una scatoletta di tonno, e, se è la serata buona, anche un po' di verdura in scatola. Breathe, you breathe Believe you me tonight Breath in, breath out Make good, make float Bleed you me ú nótt Respira, respira tu Credi in me tu questa notte inspira, espira redimi, solleva sanguinami ú nótt Lasciate che mi presenti, se voi siete gli interessati, io sono la persona che soddisferà i vostri bisogni, altrimenti per tutti gli altri sono alcune righe a libero complemento di tutto ciò che sta sopra o sotto, prima e dopo. Una metropolitana e due persone, sono sullo stesso vagone? Il ciò vorrebbe dire: lo stesso treno, alla stessa ora, nella stessa città, lasciatemi dire subito che siccome non ci interessano queste due povere anime, la probabilità di una loro vicinanza non si sacrifica a costruzioni di scena. Ebbene no, per ora non ci servono queste due vite, ma sono uscite dal sacco, e forse riuscirò a non doverle buttare, se la scopa e la paletta verranno usate bene e se non c'è troppa sporcizia per terra li rivedremo perché riusati. Mi viene giusto ora un'idea... Ma no, alla prossima volta, lasciamo le cose come stanno, anzi interessiamoci di due attimi di tempo differenti, due luoghi diversi, ma anche loro coincidenze. Please don't cry for hammer in your teeth We'll spoil the pretty snow that lies beneath And summer will make good for all of our sins if we only wish it hard enough Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti noi ritorceremo la neve bella che sta sotto E l'estate redimererà tutti i nostri peccati se solo noi lo desideriamo forte a sufficienza Giulia dormiva ancora nel suo letto, e sentiva rumori, i rumori della mattina, o perlomeno quello che lei presumeva fosse mattina, e in ogni caso, nulla le poteva dare indizi che quelli fossero esattamente i rumori della mattina di una mattina in quella casa che aveva visto per la prima volta circa 10 ore prima. Dario, vestito di poco, entra con tutta la delicatezza di un ladro, spinge l'anta della porta della camera, che cigola con quel rumore ben conosciuto. L'unica cosa che riesce a fare è bestemmiare in silenzio contro un dio, "ma quale dio", aggiunge mentalmente. Non poteva far meglio il poverino, ci ha sempre provato, a lui dava fastidio dover svegliare il suo normale compare di stanza alle 3 o 4 di notte,quando, dopo aver visto su internet non si sa quale cavolata, -e vi giuro che anche se sono onnisciente sui fatti, questa è una di quelle cose che dimentico e poi ignoro- rientrava in quella sua stanza doppia, e che oggi era una fantastica singola per una coppia. Ma quella mattina era una mattina diversa, nuova, una mattina di regali, dove le cose terrene non dovevano prendere nessuna influenza dalla materialità delle cose. Breathe, you breathe who go who cry believe you me to night/múm night Breathe in, breathe out make good, make float bleed you me ú nótt Respira, respira tu Chi va, chi piange Credi in me tu questa notte inspira, espira redimi, solleva sanguinami ú nótt Shé cry, who closes eyes and hopes not to come back Il pianto di Shé, che chiude gli occhi e spera di non tornare. Diciamo che spiegarvi anche quello che passa ora per la testa di Dario è un po' difficile, magari vi riporto pari pari il suo monologo. Eccovelo Non la amo, ma non riesco a capire da dove arriva questa mancanza, forse dal fatto che mi preservo per Giulia, Giulia che mi ha rimosso, forse dal fatto che non riesco a baciarla, se si fosse concessa al primo momento, avrei detto cosa? Sacrificarsi a soli abbracci, per chi? Devo dirglielo, devo baciarla, a costo di capire dopo che era tutto dettato da una voglia, anche se fosse, non sarebbe giusto consumare questa voglia? E provare dei sentimenti non sarebbe sbagliato, anzi ci farebbe sentire in vita, cosa che non succede così spesso. Se fa affidamento sulla mia scarsa passione, si ricrederà, martedì non mi muoverò anzi non la seguirò se non ci scambiamo un segno di affetto un po' più grande di un bacio. Non posso andare avanti così, non ha senso, non la amo e perché dovrei proprio perdere così il mio tempo? Aspettare... no nemmeno, tollerare quasi, ma io sono fatto di carne e anche lei, perché darci regole? perché vivere per uno stupido futuro, viviamo il presente, che già è difficile così. In definitiva, io vedo tutto ciò a termine, non prevedo nulla con lei oltre il primo giugno, questo è solo una vacanza, un modo per evitare di restare soli, perché lei non la pensa uguale? Penso che con il suo comportamento lei è consapevole di queste cose, basta, devo farla cedere, devo baciarla, devo farla mia, devo farla urlare di piacere, e le piacerà, più di quanto lei possa credere, più di quanto lei possa mai aver avuto esperienza. Devo proporle la cosa come normale, mi sta facendo mito del rapporto sessuale, cosa che sono convinto non essere vera, miticizzandola si rovinano i rapporti che vivono questo aspetto pregiudiziando i momenti relegandolo a attimi troppo incercabili, prendere un caffè e fare un po' di sesso. Voglio sfruttare lei per esercitare la mia passione, io non la voglio, o per lo meno, non 24/7 come succedeva con Giulia, ma a volte, vorrei proprio averla, mia, come la natura ci chiede di accontentarci tra di noi. E mi chiederete del resto, e mi chiederete di darvi un lieto fine, o se si vuole scendere a compromessi una semplice fine, e non queste scene interrotte e non legate, beh, non chiedetele a me, io vi ho dato qualche attimo di persone immaginarie e ho rubato il vostro tempo. Questo è un peccato. UN GRAZIE A TUTTI I PARTECIPANTI Arrivederci alla prossima edizione…