8 - Potrà l`estate rimettere tutti i nostri peccati?

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8 - Potrà l`estate rimettere tutti i nostri peccati?
I GIOVEDI’
DI SCRITTURA FRESCA
Scrittura a soggetto
Ia Edizione
Da una idea di Dolphy
Grafica di Ettore Bilbo
Numero Otto 02 Giugno 2005
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
Hanno partecipato:
Ettore Bilbo
Quello che vede il sole
Alessandro Gabriele
Luna Indiana (un’estate del 90)
dareios
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
rana fritta
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
Nicola Martini
Potrà l’estate rimettere tutti i peccati del
Martini?
fucsia
Playboy
Dario Carta
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
Brizgraz
La cicala peccatrice
Doremi
Il tempo discontinuo
Punto Mosso
Coincidenze
QUELLO CHE VEDE IL SOLE
scritto da: Ettore Bilbo
Dopo aver definitivamente risolto il caso l’ispettore Giuliani si portò ai margini del
campo di mais. C’era una grossa quercia in mezzo al sentiero che li aveva condotti
fin lì, che nessuno evidentemente s’era sentito di tagliare. Un albero veramente
magnifico, disse al carabiniere che lo accompagnava, poi si accese una sigaretta e
guardò il fumo salire verso il cielo come una preghiera di redenzione, una preghiera
già macchiata del peccato originale.
Giuliani aveva seguito la pista, come ogni altra volta e come ogni altra volta aveva
sperato in un epilogo diverso, ma si rendeva conto che lavorando nella omicidi di
finali, come sperava di vederne, ne accadevano ben pochi. Il corpo di Maddalena era
stato trovato in mezzo al campo. Il rigor mortis aveva costretto il corpo in una posa
quasi fetale, con le ginocchia sotto il mento e le braccia conserte. Sembrava che il
cadavere avesse un gran freddo ed invece si era in luglio. Trentasei gradi e non un
filo di vento che lenisse la disperazione del caldo. Trentasei gocce di sudore che si
accatastavano sulla pelle in un peso opprimente, trentasei pugnalate che sventravano
la carne.
Uno sconfinato spazio davanti agli occhi ed un orizzonte fluttuante, che mischiava i
pochi movimenti delle foglie alla distorsione ottica dell’aria calda che saliva, ed in
mezzo a quel mare, con le sue onde immaginarie, un cadavere a porre la parola fine
su quella storia cominciata tre giorni prima…
La famiglia Benvenuti era tornata in città da poco, per via d’una promozione sul
lavoro d’Ernesto Benvenuti, il padre di Maddalena; questo era stato detto a Giuliani
prima di presentarsi alla residenza in via Ortica. Del resto venne a conoscenza sul
posto, interrogando i familiari. La sua presenza era richiesta per prassi anche se non
si trattava ancora di un caso di omicidio. Precauzione diceva sempre il suo capo.
Maddalena era scomparsa da due giorni, nessuna notizia, nessuna richiesta di riscatto.
Stando alle parole del padre e della madre la ragazza si sentiva bene a casa, era a suo
agio nella città che non vedeva da quindici anni ma che, comunque, conosceva per
averci passato l’infanzia. Nessun nemico e nemmeno tanti amici, solo una coetanea
conosciuta il mese prima in università, dove aveva appena ripreso le lezioni dopo il
trasferimento. Il fratello di Maddalena, più piccolo, stava svolgendo il servizio
militare e di lì a pochi giorni, se non ci fossero state notizie, gli avrebbero concesso
un congedo temporaneo per raggiungere la famiglia.
Giuliani si fece dire il nome e l’indirizzo dell’amica.
Si recò in Via De Amicis immediatamente, al numero ventisei dove alloggiava
Alessandra Bellocchio, l’amica di Maddalena. L’appartamento era il classico buco da
studente. Vi albergavano in tre; tre ragazze tutte di ventisei anni. Alessandra ed Elena
erano studentesse. Marta lavorava, invece, già da un anno.
Tutte e tre conoscevano Maddalena sebbene l’amicizia più intima fosse con
Alessandra. La ragazza visitava il loro appartamento molto spesso e la sera uscivano
assieme, per lo più frequentando bar serali e discopub. Maddalena aveva introdotto
nel gruppo l’abitudine di fare l’aperitivo ed erano riuscite a trovare un locale poco
distante dove si poteva mangiare qualcosa di caldo mentre si beveva un cocktail od
una birra gelata. A prima vista il loro sembrava essere un gruppo di quattro ragazze
normali, senza nessun problema fuori dell’ordinario. Era per l’appunto in quel locale
che le tre ragazze avevano visto Maddalena l’ultima volta: al Mohito bar.
Il proprietario del Mohito era un uomo sulla cinquantina, vestito alla moda, con uno
stile decisamente più giovanile della sua età. Giuliani ebbe l’impressione che volesse
apparire simpatico a tutti i costi. Inconvenienti della divisa. Gli domandò se
conosceva Maddalena Benvenuti e l’uomo rispose subito di sì, che era una delle
ragazze più carine che frequentavano il posto, che veniva spesso in compagnia di tre
amiche. Si ricordava bene dell’ultima volta che l’aveva vista perché era solo tre
giorni addietro e le ragazze avevano bevuto un po’ troppo. S’erano messe a ballare
sui tavoli, raccontò il proprietario, e non c’era verso di farle smettere di ridere.
L’uomo disse anche di non aver cercato di fermarle più di tanto perché non era una
serata molto movimentata e poi, quattro ragazze giovani e belle come loro, erano una
delizia da vedere. Senza malizia, precisò subito, sono un uomo di cinquantatré anni,
sposato e con due figli, ma le cose belle le so ancora riconoscere. Poi l’uomo si lasciò
andare in un ampio sorriso cercando di conquistare Giuliani. Forse anche un po’
imbarazzato per paura d’essere frainteso. L’ispettore si concesse solo una smorfia.
Il secondo giorno d’indagini iniziò com’era finito il primo, senza nessun indizio
particolare, solo altre testimonianze di quanto Maddalena fosse una ragazza simpatica
e benvoluta, e del fatto che non avesse né motivo di fuggire, né amicizie “pericolose”.
Giuliani cominciava a preoccuparsi: questa mancanza d’indizi aveva di per sé un
valore importante. Lo conduceva verso una strada che non avrebbe voluto percorrere,
soprattutto per i genitori della ragazza. Si decise comunque a diramare una fotografia
di Maddalena verso gli ispettorati delle città limitrofe, fece seguire la fotografia dalla
didascalia: ragazza scomparsa.
Fu solo nel pomeriggio di quel giorno che arrivò la notizia. Una ragazza senza vita
era stata ritrovata in un burrone, poco distante dalla città, sembrava corrispondere
all’identikit di Maddalena. Giuliani si precipitò sul posto.
Sul fondo della scarpata si intravedeva un bozzolo giallo, un telone sotto al quale
stava il cadavere. Così lo aveva coperto la scientifica, nell’attesa del medico legale,
mentre compiva il proprio lavoro cercando di leggere segni improbabili sul terreno
circostante. Il corpo era stato gettato dalla cima ed era poi rotolato fino a valle.
Giuliani fu costretto a compiere un ampio giro per raggiungere il resto della squadra,
perché lungo il declivio principale erano stati messi dei pali a proteggere le eventuali
prove.
Il padre di Maddalena arrivò frenando appena in tempo con la propria BMW grigia.
Piangeva ed urlava chiedendo di poter vedere la figlia. Giuliani si domandò chi lo
avesse avvertito prima ancora che la ragazza fosse identificata da lui. Imprecò contro
quell’assurda mancanza di tatto e si lanciò sull’uomo, incontrandolo a mezza discesa
per bloccarlo col proprio corpo. Gli disse di aspettare e Benvenuti accettò a capo
chino, esausto dopo la forte emozione.
Arrivò anche il medico legale e Giuliani lo accompagnò fino al corpo. Un ultimo
rivolo di sangue si insinuava da sotto il telo e zigzagava attraverso piccoli sassi,
morendo poi disseccato tra la terra arsa dal sole. Il corpo era stato gettato poco dopo
la morte quindi, forse ancor prima dell’ultimo respiro.
Scostò il telo. Il padre della ragazza, non ebbe la forza di aspettare un’inutile
responso e si avvicinò inosservato con la morte negli occhi, ma le parole che gli
uscirono di bocca sorpresero anche lui. Non era lei, disse, non era lei, anche se le
somigliava.
Veronica, una ragazza alta e bruna, vita snella, un tatuaggio sull’avambraccio destro
simile ad un bracciale e degli occhi marroni dai contorni languidi, guardava di
traverso Giuliani dalla fotografia appoggiata sul piano del tavolo. Era uno scatto
dell’estate precedente; mostrava la ragazza con una mano tra i capelli ed il viso di tre
quarti rivolto verso l’obiettivo.
Giuliani decise che la pausa di silenzio poteva concludersi lì. Distolse lo sguardo
dalla fotografia, sulla quale erano incollati anche gli sguardi dei due genitori, e
domandò subito se la figlia avesse conosciuto qualcuno negli ultimi giorni, qualcuno
di nuovo, o di strano. Gli risposero che no, nulla era cambiato delle solite abitudini
della ragazza.
L’ispettore aspettò che il pianto sugli occhi della madre si asciugasse, anche se
sapeva che lacrime di quel genere avrebbero lasciato una macchia indelebile sulla
pelle. Si disse d’essere abituato ormai, ma l’ombra di un sottile senso di colpa lo
percosse dentro lo sterno. Il cinismo non lo aveva mai aiutato in realtà, e per quanto
dovesse apparire freddo e lucido, vi era una sorta di dolore personale a guidarlo.
Giuliani estrasse dalla tasca una busta di plastica sigillata. Era trasparente e ne mostrò
il contenuto ai due che aveva di fronte. Si trattava di un biglietto scritto a macchina il
cui testo recitava: “Nella gola tagliata degli inferi si nasconde, quando ancora il
sangue bagna la barba della terra. L’occhio lucente di Dio è l’unico a poter vedere lo
scempio. Nella casa del signore la santissima trinità avrà giudizio”.
Il padre di Veronica lesse ad alta voce, come già aveva fatto quello di Maddalena,
con il medesimo risultato: il testo non aveva alcun senso alle sue orecchie. L’uomo
domandò cosa fosse e Giuliani rispose che era stato trovato addosso alla figlia. La
madre riprese a piangere, mentre il padre diede voce al pensiero comune.
Un pazzo dunque, disse reprimendo un singhiozzo carico di tensione. Giuliani rispose
che era probabile, a questo punto. Raccontò loro la storia di Maddalena, potevano
esserci delle affinità tra i due casi. Il biglietto suonava come una poesia od un enigma
ed, in effetti, l’ispettore credeva che la gola tagliata fosse il burrone nel quale era
stata trovata Veronica. Evitò d’aggiungere che anch’essa aveva la gola aperta da una
lama.
Quando uscì dalla casa la luna era già alta. Piena di luce gialla. Gravida di cattivo
presagio pensò l’ispettore, riferendosi però alla sua mente. Scacciò i pensieri e cercò
di ragionare. Se l’assassino di Maddalena aveva lasciato un indizio, quella specie
d’indovinello, allora era davvero probabile che si trattasse di un omicida seriale.
Veronica era troppo somigliante a Maddalena per essere un caso: lo stesso colore di
capelli, la stessa corporatura, la stessa età. Era scomparsa pressappoco lo stesso
giorno di Maddalena anche se i genitori non avevano dato peso alla sua assenza; era
una ragazza vivace avevano detto, spesso si dileguava qualche giorno in compagnia
di amici. Amava viaggiare e capitava che lasciasse solo un biglietto, o neppure
quello, tornando dopo pochi giorni piena di regali per i genitori. Lavorava come
Copyrighter in un’agenzia pubblicitaria ed economicamente non aveva problemi.
Ancora una volta nessun indizio tangibile cui aggrapparsi. Veronica non conosceva
Maddalena, avevano amici differenti, ed oltre alla somiglianza Giuliani non riusciva a
trovare punti di contatto. Gli servivano luoghi o persone invece, dei nodi, delle
congiunture che spiegassero come il possibile assassino le avesse unite nei suoi
disegni.
La mattina del terzo giorno, l’ispettore si svegliò di buon mattino. Solo l’occhio
lucente di Dio poteva vedere. Il sole! Solo dall’alto si poteva vedere lo scempio. Solo
da lassù, da quel cielo terso dell’estate torrida. Ma quale fosse la barba della terra
neppure la notte aveva saputo dirglielo.
Telefonò in centrale, chiedendo ad un elicottero di sorvolare la zona. Poi si recò
nuovamente dai genitori di Maddalena. Il signor Benvenuti lo accolse fingendosi di
buon umore. Il fatto che la ragazza nel burrone non fosse la figlia lo aveva sollevato,
cercava di convincersi che era un buon segno, ma rimaneva conscio del fatto che
portava le indagini in una direzione scabrosa. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie e
cantare una nenia. Come da piccolo. Giuliani chiese di poter salire nella stanza della
ragazza anche se già i suoi colleghi vi erano stati senza trovarvi nulla di utile. Aveva
bisogno di conoscere Maddalena più a fondo, arrivare dove neppure i genitori
sarebbero potuti giungere.
La stanza era abbastanza grande, arredata in maniera semplice senza un eccessivo
gusto. Non diceva molto della ragazza, in effetti. Niente disegni alle pareti, né poster.
Solo la stampa di un quadro di Magritte. Sul letto mancavano i classici pupazzetti.
Maddalena a detta dei genitori era una ragazza seriosa e non amava certe abitudini
fanciullesche. Passò ai cassetti. Quelli del comodino rivelarono soltanto oggetti d’uso
quotidiano, nell’armadio invece vestiario estivo: gonne, magliette, abiti da sera non
particolarmente eleganti ma di buon gusto. Giuliani guardò sotto il letto. Nulla,
neppure la polvere, perché la madre continuava a fare le pulizie nella stanza ogni
giorno. Cercò di immaginare dove una ragazza come Maddalena potesse tenere i
propri segreti, sperando che non fosse una di quelle poche persone tanto furbe da
tenerli soltanto nella propria testa. Chiese dove fossero i vestiti invernali ed i genitori
lo portarono in uno sgabuzzino nel sottotetto. Là, dentro due armadi incassati nel
muro, stavano maglioni e giacche accatastati a sandwich assieme a tonnellate di
prodotti anti tarme. L’ispettore provò a frugare con le mani oltre quel muro di lana.
Tastò a lungo la parete posteriore del primo armadio e poi del secondo, fin quando
sul volto non gli si dipinse un aria svagata, piena di mal simulata eccitazione. Aveva
trovato qualcosa.
Quando si mise in contatto con l’elicottero già sapeva dove farlo dirigere, quello che
non sapeva era cosa avrebbero trovato in quel luogo i suoi uomini. Ma prima doveva
andare da un'altra parte.
Entrò nel Mohito bar a passo spedito. Franco era il nome del proprietario e Giuliani si
sorprese ad urlarlo con forza. L’uomo sopraggiunse spaventato spuntando da dietro il
bancone. Chi sono? Chiese l’ispettore senza neppure salutare.
Franco lo guardò con aria interrogativa. Cosa c’entrava quella fotografia che gli
veniva mostrata? Dove l’aveva trovata Giuliani?
L’immagine ritraeva Maddalena e Veronica assieme, sorridenti, sedute ad un tavolo
del Mohito. Con loro una terza donna: una suora. Anche Franco riconobbe Veronica.
Disse che frequentava il locale solo poche volte e che si ricordava bene la sera in cui
quella foto venne scattata, l’aveva fatto lui stesso. Maddalena era venuta da sola e
così anche Veronica immaginava. No, le due ragazze non si conoscevano. Aveva
fatto da catalizzatore suor Maria che s’era messa a suonare la chitarra. Fuori pioveva
ed entrambe le ragazze non sembravano di buon umore, così la musica di Suor Maria
le aveva attirate allo stesso tavolo.
Giuliani chiese dove fosse Suor Maria, se sapeva come rintracciarla. Il proprietario
del bar sembrò allarmato ma disse lo stesso che, ovviamente, sapeva dove trovarla;
non sono molte le suore che frequentano certi locali, tranne quando sono le sorelle del
proprietario.
La madre superiora non sembrava incline ad aiutarlo. Era restia a rispondere alle sue
domande. Solo quando Giuliani divenne rude e la spaventò questa acconsentì a dirgli
dove potesse trovarsi suor Maria. Quella era l’ora della preghiera: nella cappella per
cui. Giuliani corse verso il corridoio centrale del convento, la superiora aveva detto di
andare sempre dritto fino in fondo e poi entrare nella porta a destra.
Correva senza saperne il perché, sentiva dentro di sé che non aveva più tempo, che
qualcosa stava per chiudersi alle sue spalle inesorabilmente. Un cerchio aperto chissà
quando di cui nemmeno conosceva il contenuto, lui aveva solo viaggiato attorno al
perimetro sfiorando verità che si celavano troppo profonde per venire scorte. Solo più
tempo, solo ancora un po’ di tempo per capire, per non lasciarsi sfuggire anche questa
volta la verità sotto al naso. Solo per avere qualcosa da raccontare ai genitori di
quelle due ragazze e non lasciarli semplicemente nella disperazione. Un motivo,
questo stava cercando, un motivo qualunque per comprendere tanta violenza.
Suor Maria non era nella cappella. Tutte le sorelle si erano alzate assieme, di scatto,
all’entrare dell’ispettore e parlottavano tra loro incuriosite come tante stupide galline,
pensò Giuliani, Parlate voleva urlare, dov’è Maria, dov’è? Eppure sembrò che non
una si fosse accorta della mancanza della donna, sembrarono stupite della loro stessa
poca accortezza.
La cappella ad una sola navata era lunga una decina di metri, con una fila centrale di
panche e l’abside sul fondo. Il santissimo non era esposto naturalmente, stava ben
chiuso dentro al tabernacolo che lo proteggeva dal sole di quell’estate sempre più
rovente. I raggi si riflettevano sulle rifiniture in oro dell’altare e accecavano Giuliani
che guardava in quella direzione, quasi chiedendo conforto.
Il sole, certo. Lo scempio si vede solo dall’alto. Solo dal cielo si può vedere tutta la
verità, quando sulla terra noi navighiamo come poveri ciechi. Giuliani chiese alla
suora più vicina quale fosse il luogo più alto del convento. Il campanile, gli venne
risposto dalla suora, che indicò una porticina sul lato della cappella. L’ispettore corse
ancora, e dietro a lui tre carabinieri giunti con una volante dalla centrale. Gli scalini
salivano ripidi entro i confini angusti della tromba delle scale. Poi lo spazio si
rimpicciolì ulteriormente e rimase solo una scala a chiocciola di pietra che si
avvolgeva attorno ad un pilastro portante. Infine giunse sulla sommità e varcò una
porta se possibile ancor più piccola di quella dalla quale era entrato. Ebbe appena il
tempo di vedere una saetta nera dietro alla campana sfiorare il cielo. Poi un urlo. Poi
un tonfo. Poi silenzio, solo l’affanno dei carabinieri rimasti indietro, sulle scale.
Giuliani stava guardando il corpo di Suor Maria accasciato al suolo. Dal campanile,
quando aveva guardato di sotto, gli era sembrato soltanto un punticino nero affogato
nel verde. Si rese conto che non aveva trovato quello che andava cercando. Se suor
Maria si era uccisa questo significava, con tutta probabilità, che il cerchio si era
effettivamente chiuso senza che lui potesse afferrarne il senso. Ma ora aveva tempo…
anche se tutto il tempo del mondo non sarebbe bastato ai signori Benvenuti né ai
Rossetti, i genitori di Veronica.
Guardò, mentre lo stringeva fra le mani, il raccoglitore che aveva trovato
nell’armadio. Era pieno di fotografie che ritraevano Maddalena fin dall’infanzia. Dal
bordo spuntava ancora la foglia che segnava la pagina in cui aveva trovato la
fotografia che la ritraeva con veronica e suor Maria. Era tutta rinsecchita ma si
distinguevano ancora i filamenti che compongono la barba della pannocchia del mais.
Quando arrivò la telefonata dall’elicottero, Giuliani rispose parlando a monosillabi,
sì, sì, mm, va bene. Molto di più dicevano i suoi occhi che s’andavano arrendendo a
quanto già sapeva.
Chiuse la chiamata dicendo che stava arrivando.
C’era ancora una storia che univa quelle tre donne, tutta da scoprire, eppure il caso
era risolto, nella camera della suora il carabiniere aveva trovato vestiti sporchi di
sangue ed una piena confessione. Ho ucciso Maddalena e Veronica, firmato, punto.
Quanto bastava. Ma a chi? Non alla sua colpevole innocenza di uomo.
Non fece in tempo a sentire il carabiniere rimasto sul campanile, Giuliani era già
risalito in macchina. Era un giovane appuntato dai capelli rasati, con un velo di peletti
sopra le labbra a fingere dei baffi che ancora non c’erano. Disse: “Signor ispettore, ho
trovato, è tutto quassù, tutto. La spiegazione!”.
Ma la sua voce si perse nell’immensità del cielo e nel calore dell’aria.
LUNA INDIANA (un'estate del 90)
scritto da: Alessandro Gabriele
Guardo il Baba naufrago alla fine della sua passeggiata mattutina, un vecchio
bellissimo che cammina tutto storto come sulle fiamme di una probabile artrosi. Ha
l’aspetto sorridente di uno scampato a una teoria infinita di disastri materiali, vestiti
stracciati tenuti su da una corda grezza di fibra di cocco, due dita mancanti alla mano
sinistra e una specie di buco profondo rimarginato a lato dell’ombelico. Qualcuno gli
ha strappato le viscere chissà quando. Eppure ha due occhi come soli tropicali che
scaldano ancora molto dopo che il tuo sguardo si è perso dietro l’India sfuggente a
lato.
Se ne sta in piedi tra le palme e la spiaggia, con le mani sui fianchi e il barbone
bianco che svolazza leggermente. Lo vedo girare lentamente su se stesso, spingere lo
sguardo verso l’orizzonte, considerare prospettive, respirare venti, formulare pensieri
ignoti, forse definitivi, chissà se giusti e maturi, privi di rimpianti, così pare, che senta
questo sollievo, lui spiaggiato ora tranquillo ai piedi della sua esistenza, io sfuggito
alla mia estate che odio, se la penso così squarciata brevemente nel corpo di una
madre lavoro necessaria come una spada nel braccio che non sente più. Aggiungo,
Baba, amore per il ciclo di questa vita che ci manda in giro come palline da
ammaestrare nel gran gioco dell'infinito.
Mi osservo scrivere fintopoeticamente di una realtà che mi scavalca come una rampa
per traffico superveloce, buona solo per sentirne il rumore fastidioso di gas espulso,
l’attrito di ciò che sogni e non si trova, si trova, il peccato semplice di rintracciarla in
te, la Visione, l’imprecisione delle forme degli uomini. Di questo scrivi come un
invasato, senza meta e senza costrutto, in braccio a Goa facile e avvolgente, in mezzo
all’India putrida alla tua vita di transito senza un centro, spessa come un fantasma,
semplice come un amore platonico e irrisolto, puttana dello Spirito con slanci eroici e
verità definitive.
Controllo il popolo degli amici abbandonati tra i tavolini sotto la tettoia di foglie
secche, di ritorno dal bagno per bere nel Sun’n’Moon cullati dal drum’n’bass che
agita in alto le grandi palme piegate al suolo.
Qualcuno si dà il cambio sulle amache distese quasi a riva. Cerco Herbert dagli occhi
azzurri vivacissimi e folli, medico etilico impressionante e lucidissimo, la sua bella
moglie tibetana, una villetta e discografia Pure Seventies, Reiki e Chakras, due figli
pienotti, i più grassi dell’India, tranquilli e fortunati. Chi ha trovato casa e chi come
me si accontenta di accamparsi lungo il percorso compiuto, o su quello che verrà, se
verrà, tra amori sempre più rari e difficili da decifrare.
Arriva il vento improvviso fortissimo che fa volare i bicchieri, un’altra scarica di
pioggia. Il monsone si prende tutto, attenzione, cartacce, libri, i resti della mia
passione breve e secca per Marina, la pelle che fa male, vestiti da lavare, mutande da
asciugare, mezzanotti da rispettare, cani randagi di Palolem da accudire.
L’ho presa in agosto pieno da un palazzo di Testaccio, stava spaurita e dignitosa a
passarsi una mezza estate deludente, qualcuno l’aveva lasciata sul più bello. Le ho
organizzato venti giorni che non s’aspettava, l’addio che non sapeva, sotto un
monsone che siamo tutti ubriachi alle sette di sera.
Kathrina mi legge le carte, mezzoinglese mezzotedesco, Katrina la scansano dal
Sun’n’moon, è pazza dicono, ha occhi di una Durga sassone abituata all’omicidio
rituale, qualcuno traduce il gesto che fa avvicinandosi alla mia testa: dice che ho
come un’antenna di luce che mi esce dal cervello, che è pericoloso, che capto senza
filtro il dolore dell’universo, mica cazzi.
Con Marina. Farò spegnere il piccolo fuoco di cenere. Non ce la faremo a diventare
nemmeno amici, per questo viaggio, sento la lunga marea del suo dolore che mi
sfiora inutilmente le dita dei piedi. E l’India in mezzo che ci separa, il patimento
vuoto per i derelitti, l’orrore per la merda e piedi nudi che si fermano inutilmente
sulla sporcizia del tempio di Laxmi a Hampi.
Penso a mio fratello che ce l’ha fatta a passarmi il testimone prima di scendere da
questo viaggio, a cartoline estatiche di passaggio da Calangute vent’anni fa, al sorriso
leggero di Marco in qualche vecchia posa di album. Marco non ce l’ha fatta, l’India
che gli ha dato una mano a riempirsi le vene di sogni corrosivi e il cuore di oblio.
Scatto tutte le fotografie che posso per allungare il giorno. Il giorno più lungo di un
viaggio che non mi basta più. La solitudine, infine, come potrò dirlo a Marina, tutte le
moltitudini di solitudini che allagano il Subcontinente indiano tra Cape Comorin in
Keraka a sud, fino alle creste dell’Himalaya che chiudono il nord. La solitudine di
Terzani in cerca di una morte di pace giusta, quella di Cesare, Baba torinese
trapiantato tra le rovine di Hampi nello stato del Maharastra, la lunga teoria dei suoi
capelli che trascinano la terra al suolo, senza misteri, con un accento di
circonvallazione che strappa il sorriso, solo sperduto nelle pianure centrali, senza
seguaci. La mia che ho pazientemente atteso, che mi ha generosamente avvolto
cinque anni fa e tre anni fa e oggi ancora, scavata tra il deserto del Thar e le
spaventose maree di Kovalam fin dentro i deliri prospettici del Kailasa Temple tra le
colline di Ellora. Tutto il dolore che oggi fa sorridere: in definitiva, l’unico tesoro di
saggezza strappato a questa vita.
Me ne vado a fine estate, vergognandomi un po’, con un amore struggente che mi
riempie, un amore donatomi gli ultimi giorni, quando già t’assale il blues del rientro,
qualcosa ti dice che tra una settimana precisa sarai di nuovo carne del tuo macello,
dei loro mercati, impossibile da spiegare, che ti sembra il peccato ultimo, quello più
denso che li racchiude tutti, i tuoi. Marina fa sorridere al confronto.
Mi ubriaco per questo e passo l’ultima notte a voltarmi nella sete di un letto che è una
fossa tra noi. Mi sono innamorato di Ratna, una piccola bambina di otto anni, una
piccola regina vagabonda, questo dice il mio poeta segaiolo. Metà del viaggio l’ho
fatto attraverso i suoi occhi, con la sua voce, dentro il piccolo grugnito di gioia che
avevamo incontrandoci per strada, piccolo verso rimasto alle sue infanzie già
trascorse che tuttavia rifiutavano evidentemente di perdersi.
La mattina che siamo partiti pensavo che non sarei riuscito a dirle addio e lei deve
averlo sentito, non son riuscito più a trovarla, dicevano che fosse andata a giocare
lontano, i suoi saltelli di piccola pazzia e l’ignoranza del futuro, desolato come l’arida
piana del Karnataka da cui venivano i suoi poverissimi.
Ora sei sola nel vicolo notturno di Hampi a sgranare il rosario dei giorni che
mancano. E botte certo non ne prenderai più, piccola mia, perché io tornerò a
prenderti, io, bambino di mezz’età che confonde il giorno con la notte, il seme del
dolore con l’albero del frutto maturo. Io bambino, quel giorno mi esiste già da sempre
nel novero delle favole bruciate, quelle che non aiutano ad addormentarsi, che invece
di scacciare i demoni li nutrono e li moltiplicano.
E in questo terribile rimando di specchi che maledice la mia notte di sete, c’è una sola
uscita dove ti vedo percorrere il suolo polveroso del marciapiede, truccata da Durga e
da Kali, con una collana di teste che spargono sangue sul vestito giallo e cento
braccia per illudere chi, sdraiato su di te, va a cercare la piccola morte tra le pieghe
poco costose della tua carne.
Ratna, io sono lontano e sono la stessa cosa, come te giudiziosa e disperata e libera e
priva di domani, come il tuo amore semplice e la malinconia.
E cosa importa che sia finito anche questo viaggio. Cosa importa che faremo domani,
i sogni che si perdono, quelli che vanno via di testa.
Sono andato giù da solo l’ultima mattina a Delhi per il viale congestionato tra la Jama
Mashid e il Forte Rosso, come cinque anni fa. Ho visto lo stesso troncone umano
elemosinare con rabbia sull’ingresso della moschea, gli stessi lebbrosi agitare
moncherini e cantilenare misteriosi Mantra sospesi tra inferno e paradiso, lo stesso
vecchio esporre una notte di tenebra al posto delle palle degli occhi.
Ricordo un bagno di notte per accompagnare Ganesh tra le viscere dell’Oceano
Indiano. C’era la luna altissima e intoccabile, la luna che sorge sulla spiaggia di notte,
la più intima e segreta. E sono sceso dal bus scassato, affollato di odori, con gli occhi
semichiusi in cerca di un Chay bollente. La luna che si arrampica sulle mura rosa di
Jaisalmer al tramonto, il disco perfetto che risuona di percussioni acquatiche, la luna
che mi accompagna intorno al lago di Udaipur, perfettamente riflessa in milioni di
pieghe liquide e fin dentro quest'ultimo respiro stasera. La luna è testimone ed è il
viaggio stesso.
Ganesh, mio dio infantile e un po’ pasticcione, signore della fortuna e del buon
commercio, accompagnami verso casa. Non ho più voglia di scrivere, di sognare, di
dormire. Vengo da te, con le moltitudini dei tuoi fratelli dispersi tra i fumi d’incenso
e la musica assordante, partiti come me a settembre di ritorno dalle spiagge
dell’India.
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI
PECCATI?
scritto da: Dareios
(sonetto caudato in terza rima)
Chiedete, amici, se potrà l'estate
Rimettere i peccati d'una vita?
Rispondo a modo mio, dico: guardate,
Secondo la dottrina stabilita,
Le colpe solo vengono lavate
Se almeno un poco l'anima è contrita.
E io, sapete... io non sono un frate:
Colgo tutti i piaceri cui m'invitano,
Non mi rimorde affatto il coltivarne,
Si tratti dell'accidia, della gola
O, quando gira bene, della carne...
Non abbiam altro che una vita sola!
E per quanto riguarda il Padre Eterno,
Penso ci sia uno sbaglio di parola:
Gli inquisitori hanno capito "inferno",
Ma credo, anche irredento, di scamparne:
Dopo l'estate, Iddio intendeva "inverno".
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI
PECCATI?
scritto da: Rana Fritta
a me, e al mio amico Guido
La ricordo abbastanza bene, iniziò il 10 luglio e sarebbe finita il 5 settembre. La mia
estate apriva le sue parentesi allorché partivo per il campeggio e le chiudeva al
ritorno. Tutto ciò che rimaneva fuori era semplicemente un periodo afoso fatto di
semplici tentativi di evadere dalla mortale nenia dei grilli.
La ricordo abbastanza bene quell’estate perché l’amico Sandro riuscì a rimetterci un
esame. Io ero come lui novella matricola all’università e entrambi, abbagliati dalla
forte luce degli studi finalmente autogestibili, rimettemmo a quella stagione un anno
di vita di studi.
Era appena finita la stagione calcistica e la Roma ci rimise la Coppa dei Campioni,
perché Sebino non rimise al centro e qualche tifoso deluso, ingozzatosi di gloria
preventivata, andò al bagno a rimettere le sue speranze.
Come ogni anno, ma quella volta fu una chiavedivolta, si partiva per il campeggio.
Luogo di regole non scritte. Centro sociale delle mie speranze. Zona franca per
l’approccio terapeutico della mia timidezza che mi avrebbe portato ad essere il
giullare di tutti, ma mai nei pensieri di nessuno, meglio di nessuna, in particolare.
Portai con me un’energia incredibile, un amore giovane per la vita, un marsupio di
speranze timidissime, una chitarra da boy scout e un giro di do. Che se hai la musica
nel cuore, con un giro di do ci puoi cantare qualsiasi cosa.
A mezzanotte, il menù estivo prevedeva spiaggia e stelle gratis con illuminazione
cannabis e karaoke di cazzate. Il giro di do suonava alla grande e ogni tanto sbluesava
in tempi più larghi. Anche le zanzare mi volevano bene. Qualcuno camminava
sull’acqua perché si sentiva un dio.
Durante il giorno c’era troppo sole per i miei gusti di spiagge annuvolate, avevo un
fisico che suggeriva sempre una t-shirt. Ero brillante con le fanciulle. Tutte mi
adoravano, ma ovviamente scopavano con chiunque altro.
Misi su un gruppo di giocherelloni, suonatori e cantastorie, Le rane fritte.
Dominammo la scena con idee geniali che ancora nutrono la luce dei nostri ricordi.
Giocammo a calcio con l’entusiasmo di chi si gioca ogni volta una finale dentro uno
stadio di persone che hanno soprattutto voglia di divertirsi e con la consapevolezza
pur competitiva che, vaffanculo, alla fine l’importante è partecipare.
In quaranta giorni feci di tutto e cioè non feci niente, ma il mio entusiasmo era tale
che non percepivo più se mi stavo divertendo alla follia o se mi stavo annoiando ed
ero semplicemente folle.
Ma qualcosa non andava. Avevo un blues da suonare e quello, cazzo!, non potevo
farlo solo con un giro di do. “Devi trovare altri accordi” mi disse qualcuno.
“D’accordo!” replicai io e intonai “Campèggio di così si muore…”.
La città mi aveva lasciato andare con delle raccomandazioni precise “Divertiti ma
fallo sapendo di vivere una menzogna…”.
Quell’estate ebbe pietà della mia innocenza e mi rimise i miei peccati di
ingenuitudine, poi tornò a spiegarmi, l’estate successiva, che la mia ricerca di ciò che
era stato era futile e vana, che nulla si ripete.
Io prendevo le cartoline dei miei ricordi dell’anno prima e le mettevo in controluce
per confrontarle con ciò che avevo sotto i piedi in quei momenti.
Anche la mia chitarra perdeva il suo smalto. Avevo anche altri accordi nelle dita ma
la magia non era più la stessa, a corte c’erano altri giullari, più bravi, più seri, più
divertenti, più colorati o più cupi. Il mio blues era l’omaggio che gli altri mi facevano
ascoltandolo e io ero felice solo tre minuti… campèggio di così si muore… cantavo e
sorridevo, gli altri pure, poi mi auguravano la buonanotte.
Quell’estate fu la prima a rimettere i miei peccati. Mi donò emozioni energiche ma al
tempo stesso calibrò il parametro di riferimento di ogni mia felicità marginale. Ogni
anno affidava ai miei ricordi l’ennesima effimera consolazione.
L’estate significava per me essenzialmente due cose. L’amicizia e la scoperta mai
definitiva dell’altro sesso, sicché la meraviglia non finì mai di abitare la mia bocca.
Avrei voluto amare fisicamente, perché sarebbe stata la prima volta, ogni amica, farla
mia, toccarla e sorridere con lei nell’intimità più vergognosa. Ma sapevo che ogni
volta mi sarei innamorato e così mi fermavo a ragionare per almeno sette anni e
lasciavo andare sguardi consenzienti, labbra lucide e timide, desideri e sogni di
passione. E quel ricordo mi sta scavando ancora le tempie echeggiando nel mio
teschio come in un tempio sconsacrato, facendosi beffe del mio candore.
Quell’estate rimise anche quel mio peccato. E mi lasciò nella convinzione che sarei
stato in grado di supplire ai miei gesti paralizzati con le parole, soprattutto quelle
scritte col senno di poi, poi dissennato. E le estati successive mi dettarono lettere
lunghissime.
Lusingai molte fanciulle e forse fui anche poeta romantico oltre che ispirato, ma se
ero sincero con loro, non lo ero con me stesso, perché non ebbi mai neppure una volta
il coraggio di scrivere “Sappilo, cara, che sarei voluto entrare nelle tue grazie,
sdraiato su di te sulla sabbia fresca, sotto curiose stelle tenute al guinzaglio dalla luna
che le ha portate fuori a pisciare”. Non ho mai capito dove finiva il romanticismo e
dove poteva essere il confine della mia cerebrale passione. Non ho mai osato. Non ho
mai portato un po’ d’acqua nel vaso di una qualsiasi orchidea. Mai tentata una
puntata. Son sempre rimasto con quella fiche in mano, senza mai scegliere rosso o
nero. E la roulette girava per altri che puntavano vincendo sui miei numeri.
Quell’estate ha rimesso i miei peccati ogni volta che mi ha chiamato a crescere
almeno un po’, allorché mi ha dato il primo gettone stringendomi il pugno con la sua
mano affabile. Mi diceva “Fanne buon uso!”. Io invece ne ho fatto solo tesoro.
Ogni tanto oggi apro la mano e provo a giocarla quella fiche, ma il croupier mi
rimprovera “Ma fammi il piacere, sono passati quindici anni, quelle puntate sono
memoria antica, quella roulette ha smesso di girare e probabilmente è gettata in una
discarica che i topi ci fanno girare le loro merdine tonde. Quella tua è una mancia di
una vecchia notte di una degna estate, un invito alla vita, da consumarsi
preferibilmente entro… guarda sul retro, bimbo, che la data è scaduta...”.
Io la conservo quella fiche. Ci punto su i miei ricordi e poi faccio girare la ruota delle
mie stagioni felici con i suoi quindici numeri, qualsiasi numero esca vinco comunque
e l’uomo al tavolo congratulandosi annoiato mi restituisce ogni volta la fiche e mi
dice “Les jeux sont faits, rien ne va plus…”.
Stringo forte quella fiche come fosse la medaglietta di un reduce. Avevo diciotto anni
quando fui arruolato. Ho combattuto per dieci anni contro le regole della vita “da
grandi”, ho resistito alla naturale mia crescita, ho sparato cazzate contro i nemici che
mi volevano serio sotto la loro bandiera. Ho studiato più del dovuto per non laurearmi
presto e perdermi nel labirinto del “presto ché è tardi se vogliamo arrivare in
anticipo”. Ma la guerra era di anno in anno sempre più feroce e ogni volta contavo
numerose vittime tra i miei amici e la spiaggia era sempre più vuota, rimanevamo in
pochi a combattere. Ovunque chitarre abbandonate e echi di blues portati dal vento da
chissadove o chissaquando. Alla fine, mi sono arreso anch’io, io non sono un eroe,
sono stato fatto prigioniero dalle cose della vita, non prima di essere ferito a morte.
Quell’estate, lei sì, è tornata a trovarmi, anche d’inverno. Mi ha portato i suoi conforti
reliquiosi “Te li rimetto io, i tuoi debiti, mio fiero custode di gioie giovanili. Io ti
perdono, ché tu il sole ce lo avevi dentro e io di quello mi nutrivo”.
Poi sono morto.
Solo allora quell’estate mi ha frugato piangendo nelle tasche, ha preso la mia fiche e
l’ha puntata tutta sulla mia anima, poi ha imbracciato la mia chitarra e seduta su un
gommone in riva a onde balbuzienti ha cantato il mio blues.
La roulette sta ancora girando.
E io sono qui, non chiedetemi dove, con le dita incrociate.
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I PECCATI
DEL MARTINI?
scritto da: Nicola Martini
Potrà rimettere, mettendosi due dita in gola e vomitando, di conseguenza, fino al 15
settembre.
I peccati del Martini son venali, che lui è genovese. C'è il refuso, ma lì per lì non lo
trovo.
Ad ogni buon conto, siccome è imprenditore, non vorrebbe rimetterci, quindi l'estate,
per quanto lo riguarda, può anche andare a dare di stomaco in un'altra contrada e
presso altra famiglia.
Rimetto adesso il testo alla vostra gentile attenzione. Quello che mi sta seduto davanti
si scosti sennò lo prendo in pieno. Qui i sacchetti non usano.
PLAYBOY
scritto da: Fucsia
Col cappotto sulla spiaggia.
Dentro un astro che infuoca,
un cappello sbilenco incastrato nei pensieri
calze di lana a grattare la pelle
e guanti e scarpe gravi
dove la gomma nera appoggia sulla rena
davanti al mare.
Fermo, trasfigurato
tra gelati squagliati e imprudenti totali protezioni.
Stai.
Per perdonarti quelle cento notti al freddo
quando la neve incorniciava i vetri
e tu nudo acciuffavi la vita per i capelli
e annusavi l’odore di ogni bocca
Ogni volta era rinascita sopra una morte altrui.
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI
PECCATI?
scritto da: Dario Carta
Lo vedi nel vibrare
del fiato terreno
Il muovere lento della luce
dice
che costa fatica sentirsi leggeri
E chiami il vento
a sorreggere irrigazioni di pelle
a sdebitarti della siccità
Quasi che le sere senza ombra
non possano cristallizzare
- emozionate Finestre spalancate sulle lenzuola
spiate dalla luna
Ma se anche fossi inverno
non vorrei davvero evitare l’estate
della mia stessa acqua
Sarei sempre io
con i miei peccati a fluire
Solo mi vedresti diverso
solo mi sentiresti
vita
nella tua sete
LA CICALA PECCATRICE
scritto da: Brizgraz
Stornella la cicala ar solleone
e se la gode spenzieratamente,
chè dell'inverno nun ricorda gnente
e canta a squarciagola la canzone!
Se passa la formica previdente
spignendo la mollica cor fiatone,
la pija in giro, ride e all'occasione
se je risponne, quella nun ce sente.
D'artronne la cicala cià 'sto vizzio
e quest'estate invece da capillo
e mettese de impegno e de giudizzio,
S'è fatta giurà amore sempiterno
da quer frescone fracico der grillo
che la mantiene quanno viè l'inverno!
Un grazie a Trilussa per lo spunto e la sponda per la poesiola. Lo sviluppo però è
mio...
IL TEMPO DISCONTINUO
scritto da: Doremì
A sei, sette anni, il tempo è discontinuo. Perché un futuro atteso è come un quadro
lontano, da cui ci separa un fossato che ci appare insuperabile. Si può solo credere,
per pura fede, che quel momento arriverà. Ma è contrario all’esperienza, perché il
tempo non passa mai e sei mesi, come sei giorni ed anche sei ore, a volte sono un
tempo infinito, impercorribile.
E allora Anna si dice, mentre, in un giorno d’inverno si annoia dietro il vetro della
sua camera di Roma, primo pomeriggio, adulti a riposare e bambini zitti: eppure ci
sarà una prossima estate a San Remo ed io sarò di nuovo nel giardino della villa dei
nonni, sentirò l’odore delle tuberose lungo la strada del Solaro e il cigolio del
cancello dei Verruggio, di fronte al nostro, la mattina presto, e salirò nella soffitta a
giocare coi pupi siciliani a grandezza naturale abbandonati in un angolo e a odorare la
carta dei libri vecchi vecchi, quelli che erano per bambini quando erano bambini i
grandi, e verrà il momento che sentirò l’odore delle alghe, sulla spiaggia… No, ecco,
non è esattamente così. Anna deve immaginare un momento preciso: ad esempio
l’arrivo a San Remo, con la nonna, la sua sorellina e la cameriera, piene di bagagli
per una villeggiatura che durerà tre o quattro mesi – una vita - e poi il tassì, che alla
curva stretta del Solaro dovrà fare marcia indietro per riuscire a girare e questo vuol
dire che ci sono quasi, e presto – ma anche ora il tempo è discontinuo e qui gli ultimi
minuti si dilatano in una bolla immobile - comparirà la villa tutta coperta di
buganvillee e la zia Teresa col fazzoletto in testa e Mino Franco e Floriana,
calzoncini e canottiera e piedi nudi, che avranno appena finito di irrigare i campi
sotto la villa, ad aspettarle sulla strada sorridenti e festosi.
No, neanche questo, bisogna immaginare qualcosa di più preciso, quasi una
fotografia, per poter avere un riferimento : ad esempio lei e Floriana che fanno il giro
della strada Solaro subito dopo il tramonto, per andare comprare il latte alla stalla,
vicino al campo ippico, e, ancora più a fuoco: proprio il momento in cui, alla prima
curva, sotto di loro si apre il panorama delle terrazze coltivate a tuberose e giù in
fondo quel mare /cielo dolce, senza più orizzonte e piccole vele bianche a solcarlo e
Anna si affaccia al parapetto
perché questo Anna, sei o sette anni, lo fa sempre e sente uno struggimento e non lo
sa definire.
- Che bello neh! - fa la Floriana, che ha sei anni più di lei, ma se la porta sempre
dietro in questa commissione quotidiana. E intanto scorrono lontane, sulle terrazze,
figure di ragazzi e uomini a torso nudo, abbronzato, e i pantaloni arrotolati, che
tornano dai campi con fasci di fiori dai gambi lunghi sulle spalle e quando Gino
Verruggio le incrocerà, proprio in quel punto sulla strada, lasciando quel ‘Boona’
strascicato di saluto, il profumo dei fiori sarà così forte che Anna ne sarà stordita.
In quel preciso momento, si dice Anna , in quel preciso momento dovrò ricordarmi di
ora, di me che sono qui alla finestra della mia stanza di Roma a chiedermi come mai
potrà passare tutto il tempo necessario perché quel momento arrivi. E stabilisce una
posizione precisa nella sua stanza, magari prende un quaderno in mano, perché la
fotografia sia più nitida, e legge: classe seconda elementare. Mi dovrò ricordare,
allora, di me che leggo le parole classe seconda elementare su una copertina azzurra.
E così Anna si dà degli appuntamenti col tempo, tratti di un tempo discontinuo,
sperando di afferrarne il mistero.
Perché la sua fede vacilla e forse il tempo non passerà e quel momento non arriverà
mai.
Puntualmente arriva l’estate e con l’estate San Remo, in uno scorrere a scatti del
tempo, segmentato in frazioni sempre più brevi. Anna entra nel salone della villa e
sente subito l’odore di muffa e cera della casa vecchia e le si allarga il cuore, poi
guarda il mandarino cinese appeso al muro, proprio nell’ingresso, che le fa tanta
paura perché ha gli occhi che ti seguono ovunque tu vada, e poi arriva la zia Teresa
con la torta di zucchine preparata come sempre per il giorno dell’arrivo e presto tutto
diventa dolcemente quotidiano anche l’odore del DDT spruzzato la sera con la
macchinetta nelle stanze da letto, e Anna dimentica il suo appuntamento col tempo e
con l’istante di Roma, perché dovrebbe guardare a ritroso. E non fa ammenda per
aver mancato di fede. La sabbia sotto ai piedi e l’odore forte del mare, il pane e
pomodoro e basilico, ‘pane e pumata’ dopo il bagno, i pomeriggi pigri in giardino,
mentre i grandi riposano, a giocare e leccarsi il sale dalla pelle, che odora di sole e di
buono e poi giù nei campi a seguire in mezzo alle zolle allagate Floriana che regge la
manica ai fratelli, le merende di pane e fichi. E alla sera, prima di cena, proprio
all’imbrunire, Floriana va a chiamare Anna per andare a comprare il latte.
La passeggiata più bella, l’aria dolce e il mare che ti aspetta ad ogni curva. Ed ecco
Anna che si affaccia al muretto e Floriana dice : - Che bello neh? - e si incantano a
guardare il celeste delicato e piatto su cui scendono i fianchi delle colline. E teorie di
uomini e ragazzi a torso nudo e abbronzati scorrono sulle terrazze coltivate a tuberose
tornando a casa con fasci di fiori dai lunghi gambi sulle spalle.
- Boona - saluta Gino Verruggio e il profumo è così intenso che Anna ne è stordita.
Poi riprendono il cammino e scherzano e chiacchierano ed Anna ha dimenticato
l’appuntamento con la Anna dell’altro tempo, quell’altra lei di Roma, immobile alla
finestra con quel quaderno in mano con su scritto Seconda Elementare.
E’ estate. E l’estate è dolce e sa perdonare.
COINCIDENZE
scritto da: Punto Mosso
Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati?
Le strofe, allineate a sinistra, sono il testo di una canzone dei Múm, presa dal loro
ultimo albo:
"Summer make good"
L'ho pagato un occhio della testa, l'ho visto al collo di tutti i passeggeri della
metropolitana, ho sentito dire che la fabbrica che lo ha prodotto ha implementato
questa scatoletta con un macello di funzioni in più rispetto a quelle accessibili con i
bottoni che ci sono sopra per questioni di marketing.
Ma ora ce l'ho anch'io, questa collana di altri tempi, con fili di colore alla moda e
auricolari dalla forma facilmente riconoscibile e quindi accettabili senza pensieri.
Si connette direttamente al cervello e lo stimola con onde di pressione di lieve entità.
Lievi, onde di piccolo ordine, senza peso, come leggere sono le canzoni che ho
scelto.
Will The Summer Make Good For All Of Our Sins
Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati?
Please don't cry for hammer in your teeth
We'll spoil the pretty snow that lies beneath
Who go cry for hammer in her teeth
We'll spoil her pretty face at least she feels real
No-go cry for hammer in your teeth
We'll spoil the pretty snow that never feels real
Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti
noi ritorceremo la neve bella che sta sotto
Colei che grida per il martello nei suoi denti
noi ritorceremo il suo viso bello almeno che si senta viva
Non serve piangere per il martello nei tuoi denti
noi ritorceremo la neve bella che non sembra mai vera
Prima fermata, questo convoglio comincia a riempirsi di gente, menomale che un
posto c'è sempre, ed è questo il vantaggio di abitare un po' fuori, tranquilli, sempre,
sia sopra sia sotto, sia a casa sia quando si va in centro.
E così sempre, da ormai 4 anni a questa parte, da quando ho accettato a occhi chiusi,
o per meglio dire bendati di un paraocchi molto stretto, questo contratto in questa
anonima città, lasciando tutto, tutto ciò che ora è scordato, appassito, dimenticato,
memoria persa nelle illuse speranze.
Seduti, tutti ormai seduti, e come tutte le mattine debbo farmi queste quattro stazioni
in piedi, poco più che cinque minuti, ma vorrei per una volta farli da seduto.
Chi in un libro, chi con la testa guidata da fili a pensieri normali ai suoi gusti, chi
guarda fuori per guardarsi dentro, chi guarda dentro per sentirsi osservato a sua volta.
Non è certo il periodo della giornata che attiva di più le mie conversazioni interiori,
diciamo che lo sfrutto solo se un pensiero mi perseguita già dalla mattina prestissimo,
allora con un quarto di occhio guardo il percorso e con il resto delle attività celebrali
faccio finta di tirare su un punto della situazione.
Cosa mangio oggi a pranzo? Come al solito andrò nella mensa comune e prenderò
qualcosa di cui mi lamenterò in silenzio pensando: "Se me lo fossi cucinato io..." per
poi rientrare a casa la sera e mangiare una scatoletta di tonno, e, se è la serata buona,
anche un po' di verdura in scatola.
Breathe, you breathe
Believe you me tonight
Breath in, breath out
Make good, make float
Bleed you me
ú nótt
Respira, respira tu
Credi in me tu questa notte
inspira, espira
redimi, solleva
sanguinami
ú nótt
Lasciate che mi presenti, se voi siete gli interessati, io sono la persona che soddisferà
i vostri bisogni, altrimenti per tutti gli altri sono alcune righe a libero complemento di
tutto ciò che sta sopra o sotto, prima e dopo.
Una metropolitana e due persone, sono sullo stesso vagone? Il ciò vorrebbe dire: lo
stesso treno, alla stessa ora, nella stessa città, lasciatemi dire subito che siccome non
ci interessano queste due povere anime, la probabilità di una loro vicinanza non si
sacrifica a costruzioni di scena.
Ebbene no, per ora non ci servono queste due vite, ma sono uscite dal sacco, e forse
riuscirò a non doverle buttare, se la scopa e la paletta verranno usate bene e se non c'è
troppa sporcizia per terra li rivedremo perché riusati.
Mi viene giusto ora un'idea...
Ma no, alla prossima volta, lasciamo le cose come stanno, anzi interessiamoci di due
attimi di tempo differenti, due luoghi diversi, ma anche loro coincidenze.
Please don't cry for hammer in your teeth
We'll spoil the pretty snow that lies beneath
And summer will make good for all of our sins
if we only wish it hard enough
Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti
noi ritorceremo la neve bella che sta sotto
E l'estate redimererà tutti i nostri peccati
se solo noi lo desideriamo forte a sufficienza
Giulia dormiva ancora nel suo letto, e sentiva rumori, i rumori della mattina, o
perlomeno quello che lei presumeva fosse mattina, e in ogni caso, nulla le poteva
dare indizi che quelli fossero esattamente i rumori della mattina di una mattina in
quella casa che aveva visto per la prima volta circa 10 ore prima.
Dario, vestito di poco, entra con tutta la delicatezza di un ladro, spinge l'anta della
porta della camera, che cigola con quel rumore ben conosciuto. L'unica cosa che
riesce a fare è bestemmiare in silenzio contro un dio, "ma quale dio", aggiunge
mentalmente. Non poteva far meglio il poverino, ci ha sempre provato, a lui dava
fastidio dover svegliare il suo normale compare di stanza alle 3 o 4 di notte,quando,
dopo aver visto su internet non si sa quale cavolata, -e vi giuro che anche se sono
onnisciente sui fatti, questa è una di quelle cose che dimentico e poi ignoro- rientrava
in quella sua stanza doppia, e che oggi era una fantastica singola per una coppia.
Ma quella mattina era una mattina diversa, nuova, una mattina di regali, dove le cose
terrene non dovevano prendere nessuna influenza dalla materialità delle cose.
Breathe, you breathe
who go who cry
believe you me
to night/múm night
Breathe in, breathe out
make good, make float
bleed you me
ú nótt
Respira, respira tu
Chi va, chi piange
Credi in me tu
questa notte
inspira, espira
redimi, solleva
sanguinami
ú nótt
Shé cry, who closes eyes and hopes not to come back
Il pianto di Shé, che chiude gli occhi e spera di non tornare.
Diciamo che spiegarvi anche quello che passa ora per la testa di Dario è un po'
difficile, magari vi riporto pari pari il suo monologo.
Eccovelo
Non la amo, ma non riesco a capire da dove arriva questa mancanza, forse dal fatto
che mi preservo per Giulia, Giulia che mi ha rimosso, forse dal fatto che non riesco a
baciarla, se si fosse concessa al primo momento, avrei detto cosa? Sacrificarsi a soli
abbracci, per chi?
Devo dirglielo, devo baciarla, a costo di capire dopo che era tutto dettato da una
voglia, anche se fosse, non sarebbe giusto consumare questa voglia? E provare dei
sentimenti non sarebbe sbagliato, anzi ci farebbe sentire in vita, cosa che non succede
così spesso.
Se fa affidamento sulla mia scarsa passione, si ricrederà, martedì non mi muoverò
anzi non la seguirò se non ci scambiamo un segno di affetto un po' più grande di un
bacio. Non posso andare avanti così, non ha senso, non la amo e perché dovrei
proprio perdere così il mio tempo? Aspettare... no nemmeno, tollerare quasi, ma io
sono fatto di carne e anche lei, perché darci regole? perché vivere per uno stupido
futuro, viviamo il presente, che già è difficile così.
In definitiva, io vedo tutto ciò a termine, non prevedo nulla con lei oltre il primo
giugno, questo è solo una vacanza, un modo per evitare di restare soli, perché lei non
la pensa uguale? Penso che con il suo comportamento lei è consapevole di queste
cose, basta, devo farla cedere, devo baciarla, devo farla mia, devo farla urlare di
piacere, e le piacerà, più di quanto lei possa credere, più di quanto lei possa mai aver
avuto esperienza.
Devo proporle la cosa come normale, mi sta facendo mito del rapporto sessuale, cosa
che sono convinto non essere vera, miticizzandola si rovinano i rapporti che vivono
questo aspetto pregiudiziando i momenti relegandolo a attimi troppo incercabili,
prendere un caffè e fare un po' di sesso.
Voglio sfruttare lei per esercitare la mia passione, io non la voglio, o per lo meno,
non 24/7 come succedeva con Giulia, ma a volte, vorrei proprio averla, mia, come la
natura ci chiede di accontentarci tra di noi.
E mi chiederete del resto, e mi chiederete di darvi un lieto fine, o se si vuole scendere
a compromessi una semplice fine, e non queste scene interrotte e non legate, beh, non
chiedetele a me, io vi ho dato qualche attimo di persone immaginarie e ho rubato il
vostro tempo.
Questo è un peccato.
UN GRAZIE A TUTTI I PARTECIPANTI
Arrivederci alla prossima edizione…