1.Breve Storia della Cooperazione allo sviluppo in Italia.DEFINITIVO

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1.Breve Storia della Cooperazione allo sviluppo in Italia.DEFINITIVO
Breve storia della Cooperazione allo Sviluppo in Italia
L’Italia entra nel settore della cooperazione allo sviluppo fondamentalmente per due
fattori: le pressioni internazionali e i legami coloniali. L’Italia inizia il suo percorso di
cooperazione per gestire i rapporti con la Somalia, paese di cui ha l’Amministrazione
fiduciaria fino al 1960, e per allinearsi agli altri paesi occidentali impegnati nelle attività
di cooperazione. In questi primi anni la presenza italiana, in termini di contributi
finanziari, è pressoché irrilevante; solamente a partire dagli anni Ottanta, periodo nel
quale cresce l’interesse della classe politica e dell’opinione pubblica nei confronti dei
temi legati alla cooperazione, si registra l’avvio di una vera e propria politica di
cooperazione allo sviluppo. Con lo scopo di riesaminare l’azione e l’evoluzione della
disciplina nel nostro paese, si riconoscono cinque fasi fondamentali che marcano la
storia della cooperazione italiana.
La prima fase è caratterizzata da una profonda incertezza sul piano della gestione delle
attività di cooperazione e della divisione dei compiti a livello ministeriale. Le
competenze sono infatti ripartite tra quattro ministeri (Affari Esteri, Tesoro, Difesa e
Istruzione) e la Banca d’Italia. In questa situazione di nulla progettualità e scarsa
organizzazione, l’intervento italiano si concentra quasi esclusivamente sulla
Somalia, paese al quale l’Italia è legata per via dell’esperienza coloniale. Tra il 1950 e
il 1960 vengono stanziati 90 miliardi di lire per il paese africano; altri 60 miliardi sono
erogati tra il 1961 e il 1971. Il contributo italiano serve principalmente a risanare il
bilancio somalo, rilanciare il settore bananiero e formare competenze locali attraverso
l’invio di tecnici italiani.
Negli anni successivi le pressioni del volontariato cattolico e il maggiore interesse degli
organismi internazionali verso i problemi dei PVS, spingono l’Italia a impegnarsi
maggiormente nel settore della cooperazione. L’approvazione della legge Pedini
(1966), che autorizza il servizio civile all’estero come alternativa al servizio militare, da
nuova linfa al tema della solidarietà verso i popoli del Sud del mondo, anche se la classe
politica si mostra indifferente verso il settore della cooperazione. Tale indifferenza si
traduce nello scarso contributo finanziario apportato dall’Italia, che si attesta su valori
nettamente inferiori rispetto agli altri paesi che formano il DAC (Comitato per l’Aiuto
allo Sviluppo), e nel mancato accordo sulla riforma legislativa della materia(1).
La seconda fase della cooperazione italiana si apre con l’approvazione della legge nº
1.222 del dicembre 1971, che caratterizzerà il futuro della cooperazione allo sviluppo.
Con questa misura viene ridisegnata l’impostazione istituzionale del settore, affidato a
una Sezione del Ministero degli Esteri, anche se sul canale multilaterale l’ultima parola
spetta al Tesoro. Questa bipartizione di competenze non permette all’Italia di fare
sostanziali passi in avanti dal punto di vista amministrativo, ne tantomeno di rendere più
snelle ed efficaci le procedure. In termini operativi, l’impegno italiano rimane
1
I paesi che formano il DAC (Development Assistance Committee) sono: Australia, Austria, Belgio,
Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia (dal 1985), Giappone,
Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito,
Stati Uniti.
Breve storia della Cooperazione allo Sviluppo in Italia – Paolo Gallizioli, UTL La Paz, 2009
strettamente vincolato alla cooperazione multilaterale; l’80% delle risorse statali va
infatti a finire nelle casse degli organismi internazionali, mentre il resto è quasi
completamente destinato all’invio di personale nei PVS (cooperazione tecnica).
Questa sproporzione dimostra lo scarso interesse delle forze politiche nel costruire
rapporti di cooperazione bilaterale, fattore che per estensione mette in luce la poca
rilevanza della politica estera italiana. Quasi a voler dichiarare il diffuso disinteresse
verso i temi della cooperazione, l’Italia, in mancanza di una strutturata politica di
cooperazione, affida quindi i propri contributi alla gestione degli organismi
multilaterali. Altro dato importante è quello legato alla componente dell’aiuto italiano.
Tra il 1971 e il 1979 i flussi privati, soprattutto crediti di esportazione, superano di gran
lunga i contributi pubblici, che rappresentano soltanto il 19% dei flussi complessivi
italiani. La seconda fase della cooperazione italiana giunge a una svolta nel 1975, grazie
alla scadenza della copertura finanziaria della legge 1.222. Ciò implica la preparazione
di una nuova legge, che dopo un estenuante iter legislativo viene finalmente approvata
nel febbraio del 1979.
Anche questa legge, la nº 38/79, segna l’inizio di una nuova stagione, che si segnala per
essere tra le più attive e innovative nella storia della cooperazione italiana. La prima
novità è di carattere teorico. Il primo articolo della nuova legge sancisce infatti il
concetto di cooperazione allo sviluppo, differenziandolo da quello di cooperazione
tecnica. La seconda importante innovazione è la creazione di un Dipartimento per la
Cooperazione allo Sviluppo, organo che si colloca a metà strada tra le richieste di
coloro che spingono per la formazione di un’Agenzia autonoma e quanti difendono il
ruolo del MAE (Ministero degli Affari Esteri). L’impatto di questa seconda novità viene
però ridimensionato dalla riconfermata centralità del MAE quale soggetto coordinatore
tra i vari ministeri, elemento che certifica una certa continuità con la legge del 1971.
Lungi dallo stimolare un più efficace funzionamento del sistema della cooperazione, la
riorganizzazione prevista dalla nuova legge paralizza il settore, causando il blocco totale
degli stanziamenti finanziari.
Alla paralisi politica fa da contraltare la crescente attenzione dell’opinione pubblica che,
sensibile alla mobilitazione promossa nel 1979 dal Partito Radicale di Marco Pannella,
si rende conto del problema della fame nel mondo. L’interesse dell’opinione pubblica
risveglia l’intero mondo politico, da sempre attento a cogliere i sentimenti popolari in
funzione della corsa elettorale, portando a un consistente aumento dell’APS (Aiuto
Pubblico allo Sviluppo) italiano. L’aiuto italiano passa dai 1.043 milioni di US$ del
1980 ai 2.764 milioni del 1989, registrando un incremento del 165%. Rispetto al
decennio precedente crescono in maniera considerevole le risorse destinate al canale
bilaterale, mentre la componente multilaterale rimane stabile. A fronte di questo
importante aumento dei flussi finanziari governativi calano invece i contributi privati,
che arrivano addirittura a generare un saldo negativo nel periodo 1986/1987.
Nei primi anni Ottanta la questione del sottosviluppo va quindi a occupare il centro del
dibattito politico-culturale; nel momento in cui la classe politica intuisce che la
cooperazione allo sviluppo può essere usata per attirare le simpatie delle masse, i
finanziamenti verso il settore cominciano a sbloccarsi con maggiore facilità e velocità. I
partiti italiani sono ormai pienamente consapevoli della rilevanza politica del
sistema cooperazione, che, se controllato, consente di raggiungere ruoli chiave nelle
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dinamiche parlamentari ed esercitare una grande influenza sulla politica estera. Al pari
della classe politica, anche le lobbies economiche vedono nella cooperazione uno
strumento da cui trarre profitto. Le imprese, messe in ginocchio dal calo delle
esportazioni verso i PVS (1982-1983), manifestano in questo periodo il loro interesse
verso l’APS come forma di penetrazione commerciale.
La crisi del governo Spadolini relega però la cooperazione in secondo piano e i ritardi
nell’attuazione della legge 38/79 si fanno sempre più evidenti, portando con loro una
scia di critiche dovute alla lentezza delle procedure burocratiche, al ritardo
nell’erogazione delle somme impegnate e alla difficoltà nell’adottare programmi
coerenti. L’intero operato della cooperazione italiana è messo sotto accusa e la
situazione sembra pronta per una nuova riforma. Nel 1985, vista l’impossibilità di
arrivare ad un accordo tra le diverse forze politiche, viene studiata una parziale riforma
che introduce il tema dell’intervento straordinario (furono stanziati 1.900 miliardi di lire
da spendere in soli 18 mesi).
La nuova riforma legislativa, con la quale si entra nella quarta fase della
cooperazione italiana, viene finalmente approvata nel 1987. Anche in questo caso
non ci sono segni di rottura totale rispetto alla normativa precedente; tra le novità si
registrano l’istituzione del Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo
(Cics) e la creazione di un’apposita Commissione per le Ong, con il compito di
attribuire loro l’idoneità allo svolgimento di attività di cooperazione. Altro aspetto
importante, incluso nell’art. 1 della legge, è il riconoscimento dell’importanza della
cooperazione allo sviluppo come “parte integrante della politica estera”, a ribadire
l’assoluto controllo del MAE sulle attività di cooperazione. Viene aperto il ‘Fondo
speciale per la cooperazione allo sviluppo’, gestito dalla nuova Direzione Generale per
la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS), e il ‘Fondo rotativo dei crediti d’aiuto’, gestito
dal Tesoro.
La creazione dei due fondi non cambia la modalità di gestione dei finanziamenti,
affidati all’ormai classica ripartizione tra MAE (cooperazione bilaterale) e Tesoro
(cooperazione multilaterale). A differenza del passato, la legge 49/87 include però
un’ampia gamma di obiettivi sociali e umanitari; mette in evidenza l’importanza dei
processi di sviluppo endogeno; risalta il ruolo che possono occupare le autonomie locali
e le espressioni organizzate della società civile nei processi di sviluppo. Sono fattori,
questi ultimi, che nemmeno le leggi degli altri paesi industrializzati prendono in
considerazione. In netto anticipo rispetto alle normative degli altri paesi donatori,
l’ordinamento italiano si dota quindi di un quadro legale all’avanguardia, pronto a
supportare le attività di cooperazione.
La specificità del caso italiano è confermata dal fatto che, mentre alla fine degli anni
Ottanta gli altri paesi industrializzati diminuiscono gli stanziamenti per gli aiuti, in Italia
si verifica un forte aumento dei flussi. In altri periodi era successo l’esatto contrario, con
il poco protagonismo dell’Italia proprio quando gli altri paesi investivano maggiori
risorse. Questo aumento dei flussi governativi, che tocca il massimo nel 1989
quando l’Italia destina lo 0,41% del PNL all’APS, ha però vita breve. Lo scandalo di
‘Tangentopoli’ si ripercuote infatti anche sulla cooperazione, associata dai cittadini alla
dilagante corruzione che investe l’universo politico-economico del nostro paese. I flussi
di denaro destinati ai PVS diminuiscono e vengono orientati sui paesi della exBreve storia della Cooperazione allo Sviluppo in Italia – Paolo Gallizioli, UTL La Paz, 2009
Yugoslavia, sull’Albania e sull’Africa; a causa di questa riduzione degli aiuti in
America Latina sono quasi esclusivamente le Ong a fare cooperazione. Sono anni
nei quali aumenta notevolmente il numero di Ong, che si avvalgono di programmi cofinanziati dalla Commissione Europea e acquistano maggior peso nel gestire le
situazioni d’emergenza. Tuttavia, il crollo delle risorse destinate alla cooperazione allo
sviluppo è impressionante e, come sottolineano M. Zupi e M. Mellano, negli anni
Novanta “nessuna voce di bilancio pubblico è stata decurtata quanto quelle relative alla
cooperazione allo sviluppo”(2).
Tab. 1: Evoluzione APS/PNL, Italia 1989-1999
1989
0,41
1990
0,31
1991
0,30
1992
0,34
1993
0,31
1994
0,27
1995
0,14
1996
0,20
1997
0,11
1998
0,20
1999
0,15
Fonte: MAE, varie annate
La tabella mostra i dati relativi alla percentuale del PNL (Prodotto Nazionale Lordo)
italiano destinata all’APS. Come possiamo apprezzare, dopo il picco dello 0,41%
registrato nel 1989 la flessione si fa sempre più marcata, sino ad arrivare allo 0,11% del
1997, momento in cui la cooperazione italiana dispone di minori risorse. Il caso italiano
riflette la tendenza alla riduzione dell’impegno finanziario pubblico dei donors nel
corso degli anni Novanta. A questo trend negativo dal punto di vista finanziario, si
contrappone il moltiplicarsi degli obiettivi su cui dovrebbe lavorare la cooperazione e
un crescente interesse della società civile nei confronti della situazione dei PVS. La
gestione di crisi ed emergenze umanitarie, il rispetto dell’ambiente, il problema dei
flussi migratori, lo sviluppo ‘sostenibile’ e il capitale istituzionale sono alcuni dei nuovi
obiettivi della cooperazione, che si aggiungono alla lotta contro la povertà e all’impegno
per la crescita economico-sociale dei PVS.
In questo periodo di ridefinizione degli obiettivi della cooperazione allo sviluppo, le
basi delle politiche di aiuto vengono però criticate e messe in discussione; le analisi
economiche evidenziano l’inefficacia della struttura della cooperazione nel risolvere le
difficoltà dei PVS, causando un generale ripensamento su obiettivi e modalità
d’intervento. Il questionamento della disciplina degli aiuti, gli scandali interni e,
soprattutto, la crisi del sistema partitico italiano portano al drastico taglio delle risorse
che, come abbiamo visto, subiscono una forte flessione nel corso di tutto il decennio
dei ‘90. La cooperazione entra in crisi e l’Italia arriva a occupare il penultimo posto dei
paesi donatori dell’OCSE, davanti solo agli Stati Uniti (dati del 2000), fattore che
evidenzia la necessità di una revisione della legge 49/87, ritenuta ormai insufficiente per
regolare la politica di cooperazione italiana.
Nonostante il decennio dei Novanta sia stato il più critico della sua storia, la
cooperazione italiana ha saputo portare avanti alcuni progetti di estrema importanza
nella lotta contro la povertà e a favore dello sviluppo umano. Ci si riferisce in
2 Mauro Mellano e Marco Zupi, Economia e politica della cooperazione allo sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 2007.
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particolare al progetto ‘Attenuazione della povertà rurale’, co-finanziato dall’Italia e
dalla Banca Mondiale (Albania, 1993-1995); al ‘Social Rehabilitation Fund’, parte
integrante del programma per l’Etiopia ‘Economic Recovery and Reconstruction
Programme’ (ERRP), lanciato nel 1992 sotto il cordinamento della Banca Mondiale;
infine, il programma ‘Eritrean Community Rehabilitation Fund’ (ECRF), un’iniziativa
da 26 milioni di US$. La critica che si può muovere all’operato dell’Italia durante gli
anni Novanta è quella di non aver programmato strategicamente le proprie politiche di
cooperazione, disperdendo le risorse attraverso i cosiddetti interventi ‘a pioggia’ a
beneficio di numerosi PVS.
Al contrario, la cooperazione italiana si mette in luce positivamente nel
promuovere la crescita della cooperazione decentrata e nell’adottare un approccio
integrato nei suoi programmi d’aiuto (attenzione congiunta verso crescita economica,
sistema sanitario, istruzione, ambiente, e diritti umani).
Riprendendo la definizione formulata da P. Isernia, l’Italia è dunque passata da una
prima fase di ‘non politica’ della cooperazione allo sviluppo (1950-1971) a una seconda
fase di ‘gestazione della politica’ (1971-1979). Il terzo momento, della ‘crescenza della
politica’ (1979-1987), ha preceduto l’odierna fase della ‘politica istituzionalizzata’, dal
1987 ad oggi(3). Queste quattro fasi della storia della cooperazione italiana, ciascuna
marcata dall’introduzione di una nuova normativa, ci conducono al nuovo Millennio.
Ad oggi il paese non si è dotato di una nuova legge in materia, essendo ancora in vigore
la 49/87, ormai pressochè insufficiente a regolamentare scenari interni e internazionali
che sono profondamente mutati negli ultimi vent’anni. In questo senso, la proposta di
disegno di legge delega presentata nell’aprile 2007 offriva lo spunto per un riassetto
normativo del settore. Tale proposta apriva il varco a una quinta fase della cooperazione
italiana, quella ‘post-istituzionalizzata’. Il disegno di legge impegnava il governo a
riformare l’intero settore della cooperazione entro 24 mesi dalla formulazione della
proposta (a partire dall’aprile 2007), confermando la responsabilità del MAE nello
stabilire finalità ed indirizzi della politica estera italiana. Inoltre, disponeva che le
attività di cooperazione dovessero privilegiare “l’impiego di beni e servizi prodotti nei
paesi in cui si realizzano gli interventi” e prevedeva, per quanto concerne la
cooperazione decentrata, il coordinamento della politica di cooperazione nazionale
con le iniziative attuate da Regioni, Province e Comuni. Il disegno di legge non ha
trovato applicazione, visti i problemi di politica interna che hanno portato alla caduta
del governo Prodi nel febbraio 2008.
Nei primi anni Duemila la cooperazione allo sviluppo sembra invece aver acquistato
nuova linfa. Accanto all’innovativo approccio lavorativo, che tende ad essere
focalizzato su un numero maggiore di varianti, sono cambiati anche gli obiettivi dei
programmi di cooperazione. Per quanto riguarda l’Italia si segnala che, nonostante il
trend di crescita degli aiuti fatto registrare dai paesi DAC (Development Assistance
Committee), il nostro paese non sta incrementando i volumi di APS destinati ai paesi
poveri. Al proposito si veda la tabella seguente.
3 Pierangelo Isernia, La Cooperazione allo sviluppo, Il Mulino, Milano, 1995.
Breve storia della Cooperazione allo Sviluppo in Italia – Paolo Gallizioli, UTL La Paz, 2009
Tab. 2: erogazione di APS in percentuale sul PNL, 2000-2006
Paesi del G7 + Spagna
Paesi
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
Canada
Francia
Germania
Giappone
Italia
Regno
Unito
Stati Uniti
Spagna
0,25
0,30
0,27
0,28
0,12
0,31
0,21
0,30
0,27
0,23
0,15
0,32
0,27
0,37
0,26
0,22
0,20
0,30
0,23
0,40
0,28
0,20
0,16
0,34
0,26
0,41
0,27
0,18
0,14
0,36
0,34
0,47
0,36
0,28
0,29
0,47
0,29
0,47
0,36
0,25
0,20
0,51
0,10
0,21
0,11
0,30
0,12
0,26
0,14
0,23
0,16
0,23
0,23
0,27
0,18
0,32
Fonte: OCSE, elaborazione UTL La Paz 2009.
Si osserva dalla tabella come l’Italia risulti agli ultimi posti tra i donatori dei paesi che
formano il Comitato per l’Aiuto allo Sviluppo (DAC), seguita solo dagli Stati Uniti. Si è
voluto includere qui anche il dato che si riferisce alla Spagna, paese che nel 2006 ha
visto un incremento del 20,7% del proprio APS. Altro aumento importante è quello fatto
registrare dall’Irlanda che, sempre nel 2006, ha saputo aumentare le risorse destinate
all’APS del 36,9%. Un capitolo a parte andrebbe aperto per descrivere la politica di
cooperazione praticata da Danimarca, Lussemburgo, Olanda, Norvegia e Svezia,
unici paesi in grado di raggiungere e superare la quota dello 0,7% del PNL stabilita
in sede internazionale.
Nel febbraio 2008 è stato presentato a Parigi il Rapporto sulla Cooperazione allo
Sviluppo dell’OCSE; l’Italia non fa registrare risultati incoraggianti, piazzandosi al
penultimo posto tra i donatori europei, seguita solo dalla Grecia. Nel 2006 il nostro
paese ha visto scendere del 30% il suo contributo di APS rispetto all’anno
precedente, attestandosi sullo 0,20% del PIL, cifra ben al di sotto dello 0,39% fissato
in sede europea quale obiettivo da raggiungere entro il 2006. Questo risultato è inferiore
anche se confrontato con la media dei paesi europei del DAC (0,43%) e con quella dei
paesi del G7 (0,27%). L’OCSE segnala che tra le conseguenze della scarsissima
incisività dell’intervento italiano figurano la mancata riforma della cooperazione, la
carenza di personale e la poca flessibilità operativa; altre raccomandazioni riguardano la
qualità dei sistemi di valutazione, che secondo l’OCSE andrebbero rafforzati, e la
pianificazione degli indirizzi operativi. Lo stesso organismo apprezza i progressi fatti
registrare dall’Italia a livello di prioritá e strategie, riferendosi in particolare ai
programmi di rafforzamento del protagonismo femminile avviati in Somalia,
Afghanistan, Libano e Palestina.
A tal proposito, si segnala che al disegno di legge delega del 2007 ha fatto seguito, nel
febbraio 2008, il ‘Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla politica di
cooperazione allo sviluppo’. Un testo che si presenta come l’ennesimo compromesso tra
Breve storia della Cooperazione allo Sviluppo in Italia – Paolo Gallizioli, UTL La Paz, 2009
le diverse forze politiche, nel quale si formalizza il ruolo del Viceministro con delega
alla cooperazione, si ribadisce l’idea del fondo unico in cui dovrebbero confluire tutte le
risorse destinate alla cooperazione, si insiste sulla programmazione triennale e si
rimarca la responsabilità politica del MAE nelle attività di cooperazione. L’idea più
innovativa contenuta nel disegno di legge del 2007, ossia la creazione di un’Agenzia
esterna, viene bocciata dal documento del 2008, in quanto non si vuole “sovraccaricare,
dal punto di vista procedurale e organizzativo, la cooperazione allo sviluppo di una
macchina autoreferenziale, che finisca con il costare più delle risorse che si riescono ad
erogare”(4).
Il rinnovamento del sistema della cooperazione risulta, un’altra volta, parziale e non
sostanziale. Il documento, inoltre, relega le Ong in una posizione secondaria e non
chiarisce il ruolo del Comitato Interministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo
(Cics). L’Italia, qualora le direttive tracciate dal documento si traducano in legge, perde
quindi un’altra occasione per il definitivo rinnovamento della normativa sulla
cooperazione.
La storia della cooperazione italiana arriva così ai nostri giorni, passando da fasi di
profonda indifferenza ad altre di forte attenzione da parte dell’opinione pubblica e della
classe politica. Anche le misure adottate durante questi primi cinquant’anni di
cooperazione allo sviluppo si caratterizzano per essere marcate da forti incongruenze. A
periodi, infatti, nei quali le risorse destinate alla cooperazione sono scarsissime,
seguono momenti nel corso dei quali l’impegno finanziario è più che consistente. Un
fattore, forse l’unico, rimane però costante nella storia della cooperazione italiana:
l’allocazione dell’aiuto. L’Italia, al pari della Francia, non concentra le proprie risorse
su pochi paesi, al contrario, le ripartisce tra molti paesi. Un esempio su tutti è il periodo
1987-1988, quando l’Italia indirizza il suo aiuto a ben 108 Stati. Questo
comportamento, che da un lato può essere giudicato altruistico e in linea con la cultura
della cooperazione, dall’altro riflette l’assenza di un’ispirazione politico-strategica
nell’azione della cooperazione italiana, che dovrà necessariamente far parte dei piani
promossi nel futuro.
4 Parere della Commissione Esteri del Senato durante la seduta che ha portato alla redazione del ‘Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla politica
della cooperazione allo sviluppo’, del 26 febbraio 2008. In risposta al documento e allo scarso interesse della classe politica verso i temi legati alla cooperazione, il
Coordinamento Italiano Network Internazionali (Cini) ha indetto un controsondaggio elettorale in vista delle elezioni di aprile 2008, nel quale si sottopongono ai
candidati premier dieci domande inerenti a questioni di cooperazione allo sviluppo. Il controsondaggio è stato pubblicato su ‘La Repubblica’ del 28/02/2008.
Breve storia della Cooperazione allo Sviluppo in Italia – Paolo Gallizioli, UTL La Paz, 2009