II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA

Transcript

II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA
II. LA CRISI DELLA FAMIGLIA
La famiglia rappresenta sempre, per Eduardo, lo speculum della società italiana e addirittura del mondo1.
In questo capitolo ci si accinge ad analizzare la figura della famiglia nell’opera eduardiana. Per fare ciò si è ritenuto utile effettuare un’analisi propedeutica di quella che fu l’esperienza familiare dell’autore2. In un primo breve paragrafo si propone una panoramica dei rapporti e delle dinamiche che formarono l’Eduardo figlio, fratello, padre e marito, integrando questo approfondimento con il più generico resoconto biografico del primo capitolo di questo lavoro. Nel secondo e terzo paragrafo si procede analizzando come questa 1 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo, in Eduardo in maschera. Incontri sul suo teatro, a cura di Manola BUSSAGLI, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 49­50.
2 Quanto della vita personale dell’autore sia nelle sue commedie è argomento di discussione. Sostiene Bentley: «Spesso si è discusso fino a che punto è necessario conoscere la vita e l’ambiente di un autore per poter giudicare la sua opera. Personalmente ritengo che se ne dovrebbe discutere solo quando c’è pericolo di scambiare per peculiarità dello scrittore quel che invece rappresenta la sua epoca e il suo paese. Alcuni aspetti di Eduardo autore [...] possono sembrare forzati se si considerano manifestazioni della sua volontà personale, ma, in quanto espressioni di una tradizione sociale, sono del tutto comprensibili. Ho l’impressione [...] che con le sue commedie Eduardo cerchi principalmente di esprimere suoi giudizi personali, l’impressione insomma che scriva laboriosi drammi a tesi». Eric BENTLEY, Eduardo De Filippo e il Teatro napoletano, in AA.VV., Eduardo nel mondo, a cura di Isabella QUARANTOTTI , Roma, Bulzoni & Teatro Tenda, c1978, p. 44.
125
istituzione venga rappresentata nell’opera eduardiana. Naturalmente i lavori di Eduardo sono figli del proprio tempo3, il che implica una diversa rappresentazione della famiglia a seconda del momento storico. Come è facile immaginare, non tutte le commedie sono imperniate su questa tematica, anche se la famiglia come contesto strutturale è sempre presente. Ma ci soffermeremo in questi paragrafi, in accordo con l’intenzione del presente lavoro, su quelle che investono l’istituzione familiare in maniera più diretta. Di queste una, Mia famiglia, sarà analizzata dettagliatamente nel quarto ed ultimo paragrafo. Il contesto familiare eduardiano, come osserva Barsotti, si fissa in una struttura topica che si trova fin da Gennareniello, e che
corrisponde sostanzialmente a quella di Natale in casa Cupiello: ma si ritroverà poi in Napoli milionaria! e perfino nella altoborghese Mia famiglia degli anni Cinquanta. O meglio vi corrisponde in una misura originaria, le cui varianti saranno significative. Padre­
madre­figlio­sorella (o fratello) del padre; un piccolo nucleo, cui s’aggiungerà il personaggio della figlia [...] In Napoli milionaria! Sparirà invece il personaggio sorella/fratello del padre (forse da mettere in relazione con l’inconscia rimozione di Peppino dal «Teatro di Eduardo»). Ma la misura ideale, almeno sul piano spettacolare, doveva comprendere questa figura/funzione, tanto è vero che il personaggio del fratello ricompare poi in Mia famiglia e in Sabato, domenica e lunedì4.
3 Pur non tralasciando il concetto di “tempo grande” (Bachtin) citato da Anna Barsotti: «La proiezione nel tempo grande libera sempre l’opera davvero artistica (più informativa) dalla prigione della sua “contemporaneità” [...]». Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), Roma, Bulzoni, 1988, p.43 e nota.
4 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 66.
126
II.1 La famiglia di Eduardo
1.1 La famiglia­clan
L’istituzione familiare condizionò la vita personale e artistica del drammaturgo. Il padre Eduardo Scarpetta, lo ricordiamo, non lo riconobbe; ma la sua figura fu comunque presente nella giovinezza di Eduardo, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai nonni. Cresciuto in una famiglia­
clan scoprì solo a undici anni che colui che aveva imparato a chiamare “zio” era in realtà suo padre, e quelli che credeva cugini erano fratellastri:
Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita, [...] e quando a undici anni seppi che ero “figlio di padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre [...] d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”5.
Nonostante le resistenze della madre, Eduardo seguì la strada che gli si apriva innanzi, dietro la scia di Eduardo Scarpetta, ma attraversando anche generi “altri”6. La sua paternità rimase per molti anni nascosta ai più, niente altro che una voce circolante negli ambienti teatrali, fino a quando Peppino, nel 1977, dichiarò ufficialmente la discendenza dei tre De Filippo­
5 Eduardo DE FILIPPO, Eduardo De Filippo: vita e opere. 1900­1984, a cura di Isabella QUARANTOTTI e Sergio Martin, Milano, Mondadori, 1986, p. 58.
6 Cfr. capitolo I.
127
Scarpetta. Pochi anni dopo, rispondendo alla domanda postagli da Luigi Compagnone «il tuo era un padre buono o un padre cattivo?», Eduardo rispose recisamente: «era un grande attore»7.
Non sappiamo se con questa risposta abbia voluto difendere quella sfera privata che ha sempre voluto rimanesse tale; ma potremmo anche leggervi una considerazione del padre “a metà” così come il padre aveva riconosciuto “a metà” il figlio, facendosi chiamare zio. Per Eduardo costui non sarebbe stato dunque un “padre” che fu come un maestro, ma un maestro che fu come un padre. 1.2 Il rapporto coi fratelli
A dividere con lui questa situazione erano la sorella Titina e il fratello Peppino, coi quali inoltre conquisterà i primi successi formando la compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo” negli anni Trenta. Con loro il rapporto sarà spesso burrascoso. All’inizio degli anni Quaranta Titina, in seguito a malumori avuti con Eduardo, lascerà la compagnia per un anno. Ma il legame fra i due è molto forte, e Eduardo continua a lavorare con lei fino al 1948, anno in cui la sorella lascia le scene per il malore che la porterà alla morte nel 1963. Rimarrà traccia di lei in molte commedie del fratello e principalmente nelle figure femminili.
Con Peppino invece i rapporti si incrinano definitivamente nel 1944 quando i fratelli si separano. Isabella Quarantotti ha scritto che «travolto e trascinato dall’entusiasmo del pubblico, poco a poco Peppino non volle più dipendere da nessuno. Adulato, istigato da amici e conoscenti, cominciò a 7 Luigi COMPAGNONE, «Oggi», 21 maggio 1980.
128
ribellarsi a Eduardo che, da parte sua, serviva il teatro con passione fin troppo severa». E continua:
Come poteva accettare tutto questo un giovane attore appena esploso sulla scena, che veniva acclamato in teatro e dovunque andasse? Di carattere allegro, ansioso di vivere fino in fondo la sua stagione di gloria, Peppino rifiutava la severità, il rigore di Eduardo.
[…] Non aveva saputo capire (come invece anni dopo capì Luca) che sul piano artistico Eduardo ne voleva l’abnegazione assoluta e una fiducia senza tentennamenti, per poterlo rendere sempre più grande come attore.
Chi sa, forse se di tanto in tanto Eduardo avesse incoraggiato suo fratello, questi sarebbe stato meno fragile di fronte alle tentazioni; da una parte gli applausi, le lusinghe, l’approvazione di tutti, dall’altra il rigore del fratello che lo addolorava, lo sconfortava...8
Da quel momento in poi i rapporti sono intermittenti, ma non torneranno mai insieme in teatro. I rancori e le amarezze emergono da una lettera del 1946 con la quale Eduardo risponde ad un riavvicinamento di Peppino:
Caro Peppino, ti pare che dopo quanto è accaduto fra me e te, dopo anni di veleno amarissimo che ebbero come conclusione la scenata del Vomero... un semplice colpo di spugna può cancellare dal animo l’offesa e il risentimento? Tu dici: “Siamo fratelli.” Certo. E chi più di me ha saputo affrontare e comprendere questo sentimento? Credi tu che da estraneo avresti potuto infliggermi le torture morali che 8 Isabella QUARANTOTTI , Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1986, pp. 30­
32.
129
sistematicamente, minuto per minuto, mi infliggevi? L’amore fraterno è un sentimento da asilo infantile, credi a me. Fratelli si diventa dopo di aver guardato nell’animo di una persona come in uno specchio d’acqua limpida, e dopo di averne scorto il fondo. Scusami, ma io guardando nel tuo animo, il fondo non lo scorgo. La tua lettera è troppo ingenua. Io voglio tenderti la mano, ma con un chiarimento esauriente, onesto, sincero. Se tu mi vuoi bene come ai primi tempo della nostra miseria, vuol dire che nulla puoi rimproverarmi... mentre io, e questo è il mio più grande dolore, non ti voglio bene come allora: ti temo. [...] Scusami se ti ho parlato così, ma è la maniera migliore per far diventare uomini due fratelli, e fratelli due uomini.
Parto domani per un periodo di riposo. Puoi trovarmi al Parco Grifeo 53. Il portiere ti potrà dire dove sono. Ti vedrei volentieri.
Eduardo9
Secondo Anna Barsotti echi del loro tormentato rapporto si ritroverebbero anche nella drammaturgia eduardiana dopo la separazione. Nelle famiglie che Eduardo porta in scena compare la coppia fratello­
fratello – o la variante fratello­sorella – soprattutto dopo il divorzio artistico dei due:
Se in Napoli milionaria! il ruolo del Fratello del Protagonista scompare, nella topica “famiglia” eduardiana, questo ricompare, in un rapporto esclusivo fra i due, in Le voci di dentro. Dove, anzi, il minore prepara ai danni del maggiore un “tradimento”, cercando di svendere di nascosto il “patrimonio di tradizioni” che avevano in 9 Eduardo DE FILIPPO, lettera a Peppino, 7/7/1946 cit. in Isabella QUARANTOTTI , Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite cit., pp. 47­50. Corsivo nostro.
130
comune: e proprio la scoperta di “quel” tradimento fa esplodere tutta l’amarezza di Alberto! Ricordiamo che Eduardo incolpava, della diserzione di Peppino, i «mercanti» che lo «assediavano per la loro cassetta». Quindi il “dramma dell’incomprensione” rispunta, nella variante Padre­Figlio, con Mia famiglia: c’è un “padre” che non accetta l’emancipazione del “figlio”, né gli parla, e un “figlio” che matura segretamente la propria “ribellione”. [...] Ma l’interesse dell’Autore per la “famiglia” come luogo di conflitti non meno che di affetti, particolarmente adatto a rivelare gli interessi egoistici – travestiti da sentimenti altruistici –, è confermato, con note anche troppo aspre e polemiche, dalla commedia subito successiva: Bene mio e core mio. Dove il titolo, frase idiomatica con cui si commentano ironicamente a Napoli i torti insospettati ricevuti dai parenti stretti, e la situazione principale fanno riferimento ai “difficili” rapporti tra Fratello e Sorella...10 Paola Quarenghi sostiene che «anche in Natale in casa Cupiello si ritrovano i germi e, insieme, le tracce di questo conflitto»11, riferendosi allo stesso rapporto dissonante tra il padre e il figlio all’interno di quella commedia.
1.3 Eduardo marito
Quanto detto richiama una figura problematica di Eduardo figlio e 10 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 476 nota 51.
11 Paola QUARENGHI, Dal pari al dispari. Una commedia del repertorio di Eduardo, in L’arte della commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, a cura di Antonella OTTAI e Paola QUARENGHI, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 45­46.
131
fratello. Al contrario, nei panni del padre e del marito sembra ripagato dei disagi che ebbe da quella che Peppino molti anni dopo definì «una famiglia difficile»12. Sposato quattro volte, Eduardo ebbe tre mogli. La prima fu Dorothy Pennington, giovane americana sposata a ventotto anni, la quale mal riuscì a sopportare la vita itinerante e l’ambiente teatrale chiuso del marito; il matrimonio sarà annullato venti anni dopo, nel 1952. Thea Prandi, la seconda moglie di Eduardo, era invece nell’ambiente teatrale, lavorando come soubrette per le riviste dell’impresario Aulicino; conosciuta nel 1947, la sposerà solo nel 1956, legittimando i due figli avuti da lei. Ma appena tre anni dopo i coniugi si separeranno consensualmente davanti al Tribunale di Roma. Dopo lunga malattia nel 1961 Thea muore, ma poco prima, al capezzale di lei, Eduardo la sposerà nuovamente, in extremis. Questa tragica scena chiude l’esistenza di Thea Prandi, ricordando quella d’apertura della commedia Filumena Marturano, là dove la protagonista si finge malata per strappare un matrimonio sul letto di morte: la finzione al teatro, la verità alla vita. Ma già qualche anno prima, nel 1956, Eduardo aveva conosciuto Isabella Quarantotti; lei sarebbe diventata poi sua stretta collaboratrice, per esempio nello sceneggiato televisivo Peppino Girella, tratto da un suo racconto, che sarà diretto e interpretato da Eduardo stesso. Molti anni dopo, nel 1977, i due si uniranno in matrimonio, e lei lo accompagnerà fino alla fine.
A proposito del matrimonio Eduardo si espresse rispondendo ad alcune domande poste da un gruppo di studenti nel 1976; deluso per una società che si ostinava a non cambiare disse: «il matrimonio è ancora una catena
che solo la morte di uno dei coniugi può spezzare»13. Ma già per bocca di 12 Peppino DE FILIPPO, Una famiglia difficile, Napoli, Marotta, 1977.
13 Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di studenti, Roma, Teatro Eliseo,1976, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite cit., pp. 172­
132
Domenico Soriano, l’antagonista di Filumena Marturano, si era pronunciato: nel terzo atto, quando i due ormai non più giovani decidono di sposarsi, Domenico sottolinea la particolarità di questo matrimonio.
DOMENICO. Tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a Dio, non come due giovani che ci si trovano per aver creduto amore un sentimento che poteva essere soddisfatto ed esaurito nel più semplice e naturale dei modi... Filume’, nuie ’a vita nosta ll’avimmo campata... io tengo cinquantaduie anne passate e tu ne tiene quarantotto: due coscienze formate che hanno il dovere di comprendere con crudezza e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo, assumendone in pieno tutta la responsabilità14.
1.4 Eduardo padre
Eduardo ebbe due figli dalla seconda moglie Thea Prandi, Luca e Luisella, nati rispettivamente nel 1948 e nel 1949. Era molto fiero dei suoi bambini, e pareva scorgere in loro una precoce attitudine al teatro. «È nata parlante – dirà di Luisella in un’intervista a Enzo Biagi – e tanto lei, come Luca, hanno la passione del teatro nel sangue»15.
Luisella purtroppo venne a mancare il 1959, a soli dieci anni, per una emorragia cerebrale. Questo evento segnò moltissimo Eduardo, come racconta Andrea Camilleri:
L’immagine che uno aveva di Eduardo era di un uomo 174.
14 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 1998, p. 243.
15 Enzo BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.
133
corazzato, un uomo che si difendeva anche recitando la parte che si era assegnata lui stesso nella vita. Non so come nel ’60 ero preoccupato perché una delle mie figlie aveva la febbre alta; non pensai all’incidente della bambina di Eduardo e gli dissi che ero un po’ preoccupato per mia figlia. Rispose: “Io l’ho persa una figlia”. E mi raccontò minutamente come lui aveva vissuto la cosa e si mise a piangere. Non è una cosa che si sopportava facilmente veder piangere Eduardo. È stata una cosa inenarrabile, penosa. Mi dispiace anche di averla rammentata16.
Per quanto riguarda Luca, un anno dopo perderà anche la madre, ma Eduardo lo terrà sempre vicino a sé. Esordirà a soli otto anni nel ruolo di Peppeniello in Miseria e nobiltà, secondo la tradizione; poi, senza essere forzato sulla strada del teatro, proseguirà gli studi fino alla maturità scientifica conseguita nel 1966; nello stesso anno debutta ufficialmente nell’opera paterna Il figlio di Pulcinella, per la regia di Gennaro Magliulo. Da questo momento in poi la sua intensa attività teatrale sarà incentrata quasi esclusivamente17 sull’obbiettivo di tramandare l’opera del padre18.
16 Andrea Camilleri durante un’intervista per il ciclo Eduardo. Teatro e magia, RaiSat/Università di Roma: Dipartimento di Italianistica e Spettacolo, 2000.
17 Luca ha anche preso parte ad alcuni film – I giovani tigri (1967), Il negozio di piazza Navona, (1969), Petrosenella, Le scene di Napoli (1982), Naso di cane (1985), Il ricatto, Sabato, domenica e lunedì (1990), Uscita di emergenza (1992), Come te nessuno mai (1999) – e messo in scena commedie fuori dalla tradizione, tra le quali ricordiamo: La casa del mare, di Vincenzo Cerami (1991­1992); L’amante di Harold Pinter (1997, diretto da Andrée Ruth Shammah); Aspettando Godot, di Samuel Beckett (2001­2002). 18 Fausto Della Ceca parlerà di «straordinaria e moderna mimesi». Fausto DELLA CECA, Oltre Eduardo riproponendo Eduardo, in AA.VV., Parole mbrugliate, a cura di Emilio POZZI, Parole mbrugliate, Roma, Bulzoni, 2007, p. 36.
134
II.2 La famiglia nella Cantata dei giorni pari
2.1 Prime commedie
Già in Farmacia di turno, il primo atto unico scritto da Eduardo nel 1920, si trova una tirata del farmacista Saverio contro il matrimonio, che comunque non si spinge oltre l’ironia farsesca della commedia.
Il dottore, Teodoro, legge sul giornale un fatto di cronaca:
TEODORO (dopo pausa). ...Don Save’ avete letto stu marito che uccide la moglie per semplice sospetto sulla sua onestà!
SAVERIO. Stupido... Mo và ngalera e ti saluto! La vera risoluzione del problema la trovai io. Tu con me non puoi più vivere felice? Preferisci l’altro, e sia!... Vattene cu’ isso in santa pace e nun ne parlammo cchiù!... TEODORO. Vabbene, ma questo se po’ fa’ quando nun ce stanno figli... Caro don Saverio... SAVERIO. Fino a un certo punto... Il matrimonio... la più grave sciocchezza che un uomo può commettere... Vuie pazziate... ho riacquistato la mia pace... Figurateve, ’a guaglione songo stato sempe dint’ ’a farmacia ’a mano a papà e sempe appresso a isso: per me non sono mai esistiti amici, divertimenti eccetera... Non ho messo mai un piede fuori di quella porta e poi anche volendo... Vuie ve ricordate a papà negli ultimi tempi... Malato... nun se puteva cchiù movere... si passò gli ultimi mesi della sua vita ncopp’ a chella poltrona addò state assettate vuie mo... e lloco murette... (Teodoro si alza e si siede su altra sedia). Io facevo tutto... come avrei potuto... e peggio 135
ancora dopo la sua morte che presi addirittura le redini della farmacia... [...] Feci la bestialità ’e me nzurà, credendomi che essendo rimasto solo avessi trovata na femmina che m’avesse fatta una certa compagnia... chi t’a dà! Chella penzava a teatre, tulette, cappielle... il suo cozzava con il mio carattere. Primma ’e me spusà non era accussì... Un bel giorno, la mia signora sparì... Dotto’... chillu iuorno manco si avesse pigliato na quaterna secca...19.
Nella commedia successiva, Uomo e galantuomo, del 1922, il secondo e il terzo atto20 rappresentano l’ipocrita accomodamento del marito “cornuto” che chiede all’amante della moglie di mostrarsi pazzo per salvare le apparenze, minacciandolo di morte. Alla fine del terzo atto l’amante sarà salvato da una corrispondenza equivoca che la moglie porterà al delegato di polizia, dimostrando che anche il marito la tradiva. Il matrimonio come facciata funge da spunto per il finale di questa divertente commedia.
La famiglia rimane come contesto nelle opere successive: Requie all’anema soja... (1926), Ditegli sempre di sì (1927), Filosoficamente (1928). Ma è importante ricordare il tipo di legame familiare che viene rappresentato, riassunto nella scena finale di Ditegli sempre di sì: qui Teresa Lo Giudice, sorella del protagonista Michele, si nega alla proposta di matrimonio di don Giovanni Altamura perché dovrà dedicarsi al malato di casa: «Tengo nu sacro dovere da compiere: mio fratello»21. Nota Barsotti che «la famiglia è ancora un’entità unitaria, la trasgressione di uno dei membri alla norma del comportamento sociale coinvolge tutti gli altri 19 Eduardo DE FILIPPO, Farmacia di turno, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1998, p. 12 20 Il primo atto, quasi a sé stante, è più imperniato sulle vicende di una compagnia di giro, ospiti in una località di villeggiatura per merito del De Stefano, l’amante.
21 Eduardo DE FILIPPO, Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni pari cit., p. 178.
136
[...]»22.
Mentre una immagine familiare più dolce è quella paterna data dall’ “artista da strapazzo” Sik­Sik, l’artefice magico23. Da premuroso a bonariamente ironico all’inizio dell’atto unico quando domanda alla moglie incinta:
SIK­SIK. Comme te siente?
GIORGETTA. ’O solito... e nun fumà...’o ssaie che m’avota ’o stommaco.
SIK­SIK. Famme sentì, si muove? (Le tasta l’addome)
GIORGETTA. No, mo no. Ogge ha fatto un’arte; verse ’e sette m’ha dato dduie cauce.
SIK­SIK. Povero figlio... già fa le mie vendette!24
Molto più tragico il momento in cui, per colpa dei due “assistenti” mescolati al pubblico, il gioco di prestigio della cassa fallisce. La moglie, che vi è stata chiusa dentro, sarebbe dovuta uscire manomettendo un lucchetto fasullo, ma l’assistente Rafele lo ha perduto, e lo ha sostituito con uno vero:
SIK­SIK. Un altro sicondo ancora e la cascia sarà aperta. Prego maestro. (Altro rullo di tamburo ancora più 22 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p.35.
23 Sik­Sik è un personaggio «costretto alle situazioni più spericolate per procurarsi di che vivere, [...] pestato e deriso da tutti. Personaggio educato, perciò, all’arte della menzogna per legittima difesa, abile nel raggiro e libero di fantasia; sprovveduto di voglia di lavorare, parassita e rassegnato per vocazione, disposto a tutto tranne che alla fatica e alla sincerità; impastato di una sofferenza agrodolce, amara e succube, ridanciana e disperata. Il personaggio di Eduardo nasce di qui, ed è ingenuo e scaltro nello stesso tempo, vinto dalla vita e vincitore per quella vocazione di sognatore che lo porta a salvarsi sempre dalla tragedia». Giorgio PULLINI, Teatro italiano del Novecento, Bologna, Cappelli, 1971, p. 125.
24 Eduardo DE FILIPPO, Sik­Sik, l’artefice magico, in Cantata dei giorni pari cit., p. 230.
137
prolungato del primo. Sik­Sik conta come ha fato prima, mentre gocce di sudore freddo cominciano a partire dalla fronte e discendono giù lentamente per le guance. Ancora pochi attimi di esitazione. Sorride meccanicamente al pubblico, s’indugia per lasciare il tempo che egli crede necessario perché Giorgetta riesca ad aprire il lucchetto, poi, deciso e sicuro questa volta dell’effetto tira di nuovo la tenda) Avanti, madamigella. (Ma la cassa è ancora inesorabilmente chiusa. Che dirà, che farà il pubblico? Ma il dramma di Sik­Sik è un altro: più vasto, più grande, più intimo. L’illusionista pensa alla povera moglie prossima a divenir madre, chiusa là dentro. Ed allora l’esperimento, il pubblico, il teatro, tutto, scolora nel suo cuore tormentato)25.
Quando finalmente Sik­Sik riesce ad aprire la cassa, con metodi disperatamente poco convenzionali (un martello), la didascalia ci dice che «interroga con lo sguardo la moglie e la sua mano esitante si poggia, paterna e timorosa, sul grembo di lei»26.
Non solo critica dunque, ma anche descrizione di momenti fondamentali della natura umana come quelli legati alla paternità. La successiva commedia, Chi è cchiù felice ’e me!, ci mostra un bilancio di famiglia che il protagonista, Vincenzo, ha rigidamente stilato – senza calcolare che questa non è un’isola, e pertanto deve porsi in relazione con il mondo esterno. Alla fine del primo atto la tranquillità della scena campestre viene interrotta dalla peripezia: un uomo di città, Riccardo, inseguito dalla polizia, si nasconde nella sua casa. Successivamente, scagionato dalle accuse, stringerà amicizia con la famiglia di Vincenzo intessendo una tresca con Margherita, la moglie. Proprio un attimo prima 25 Ivi, p. 239.
26 Ivi, did., p. 240.
138
dell’entrata di Riccardo, Vincenzo afferma:
VINCENZO. ’O destino ce ’o facimmo cu’ ’e mmane noste... tu m’ ’e a dicere a mme che me po’ succedere? Niente. Ma se po’ nega ca io so’ n’ommo felice? [...] Io aggio preveduto tutto, che me po’ succedere a me? Margarì nuie avimmo voglia d’essere felice!27
2.2 «Natale in casa Cupiello»
Altra commedia nella quale la vicenda ruota attorno all’istituzione familiare (e alla sua fragilità) è Natale in casa Cupiello, atto unico del 1931, cui viene aggiunto un antefatto (primo atto) nel 1932 e un seguito (terzo atto) nel 193428. A raccontarci la sua genesi è Eduardo stesso:
[...] questo mio lavoro è stato la fortuna della Compagnia, dopo Sik Sik, s’intende. Ebbe la sua prima rappresentazione al Kursaal di Napoli, ed era un atto unico. L’anno seguente, al Sannazzaro, altro teatro di Napoli, scrissi il primo atto, e diventò in due. Immaginate un autore che scrive prima il secondo atto e, a distanza di un anno, il primo! Due anni fa venne alla luce il terzo: parto trigemino con una gravidanza di quattro anni... Quest’ultimo non ebbi mai il coraggio di recitarlo a Napoli, perché è pieno di amarezza dolorosa ed è 27 Eduardo DE FILIPPO, Chi è cchiù felice ’e me, in Cantata dei giorni pari cit., p. 268.
28 Secondo Peppino Eduardo regredisce «a favore di un ritorno di vecchi schemi teatrali», nel momento in cui comincia a « modificare la forma sintetica e la maniera evolutrice altamente antiretorica di alcune sue commedie in due atti, quali: “Natale in casa Cupiello”, “Chi è cchiù felice ’e me?” aggiungendo sia all’una che all’altro un terzo atto». Peppino DE FILIPPO, Una famiglia difficile cit., pp. 288­289.
139
particolarmente commovente per me che conobbi quella famiglia. Non si chiamava Cupiello, ma la conobbi: povere creature ai cui occhi il sole di Napoli fa risplendere persino le crude miserie della loro triste vita quotidiana; e allora, per un bisogno istintivo di liberazione, si urtano, si feriscono a sangue, giungono fino all’odio, perché il nostro sole ingigantisce anche la loro puerilità. Ma si adorano... essi stessi non sanno quanto si adorano...29
La particolarità della commedia sta nel suo doppio registro30: il primo, quello della farsa, ci mostra lazzi e battute ricorrenti del quotidiano di una famiglia popolare napoletana; l’altro è quello del dramma popolare a fosche tinte di stelliana31 memoria. Già dall’elenco dei personaggi si possono separare quelli che appartengono alla sfera della farsa da quelli che rientrano nella sfera del dramma. Nei primi (ma con effetti drammatici) Luca Cupiello32 (il capofamiglia fittizio), Tommasino (il figlio scapestrato), 29 Eduardo DE FILIPPO, Primo... secondo (Aspetto il segnale), in «Il Dramma», Torino, n. 240, 1936. In una lettera del 22 febbraio 1983 (pubblicata in appendice a Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo cit., p. 511) Eduardo dichiarò ad Anna Barsotti di aver scritto il terzo atto nel 1943. In realtà a quell’anno risale la prima edizione a stampa, pubblicata sul periodico «Il Dramma» (1 marzo 1943). Per un ventaglio di ipotesi circa la datazione del terzo atto cfr. Anna Barsotti, Nota storico­critica a Natale in casa Cupiello, in Cantata dei giorni pari cit., pp. 344­347.
30 A proposito della struttura di questa commedia Paolo Grassi la definì un «potente squillo di tromba, in un paese di coscienze addormentate e di ricorrenti banalità sulla scena». Paolo GRASSI, Filumena Marturano, «Avanti», 15 aprile 1947.
31 Federico Stella (1842­1927) dal 1980 aveva portato con successo al Teatro San Ferdinando i suoi lavori popolari all’insegna di sangue, onore e lacrime, tratti dai racconti di Francesco Mastriani.
32 Luca Cupiello, uno dei più discussi protagonisti eduardiani, è stato così definito da Luigi Ferrante: «un personaggio penetrato da una umanità figlia del candore [...]. Ma è altro candore diverso anche dal “fanciullino” pascoliano sebbene ne condivida le premesse poetiche. Nel Pascoli è un modo di vivere e di vedere scoprendo nuove relazioni tra le persone e gli oggetti, analogie e simboli, una bontà disarmata che disarma. Luca Cupiello ha l’animo di “un grande bambino che considerava il mondo come un enorme giocattolo”, in questa disposizione, candida, sa accogliere le verità del cuore, accenderle con la fantasia, luce infantile e dolce». Luigi FERRANTE, Teatro italiano grottesco, Bologna, Cappelli, 1964, p. 58.
140
Pasqualino (fratello di Luca e «eterno scontento» che vive presso il fratello), i casigliani Olga e Luigi Pastorelli, Alberto, Rita e Maria (vicini di casa che secondo la tradizione veglieranno il moribondo nel terzo atto). Nel secondo registro si inscrivono Concetta (il capofamiglia effettivo), Ninuccia, Nicola e Vittorio Elia (il fulcro del dramma), il portiere Raffaele (personaggio d’appoggio per Concetta), il dottore, Carmela e Armida (casigliane “serie”). È pacifico che non manchino incursioni dei personaggi nell’una e nell’altra sfera, indorando la pillola di una critica familiare forse ancora agli albori, ma presente.
La scena si svolge in casa Cupiello. Il primo atto, ambientato durante l’antivigilia di Natale, comincia subito all’insegna della farsa con dialoghi e screzi fra la moglie e il marito al risveglio, seguiti da quello lento di Tommasino, protetto di Concetta33. Mentre si compiono gli ultimi preparativi (fondamentalmente il presepe, maggiore preoccupazione di Luca34), la figlia, sposata a Nicola, decide una fuga d’amore con Vittorio Elia. La farsa prosegue anche dopo l’arrivo di questa: LUCA. Ch’è stato? (Ninuccia tace). Te si’ appiccicata n’ata vota co’ tuo marito? (Ninuccia non risponde). Io non capisco… Quello è un uomo che ti adora. [...] Perché vi siete contrastati? (Ninuccia rimane ostinatamente muta). Perché vi siete contrastati? (visto che la figlia non risponde, tenta di usare un tono più forte e risentito nel ripetere la domanda ma la domanda ottiene lo stesso 33 Concetta parlando a Raffaele di Tommasino lo giustificherà dicendo: «Se capisce, è giuvinotto, fa qualche pazzaria, ma è l’età: tutto è perdonabile. Don Rafe’ ’o guaio ’e chesta casa è mio marito». (Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 382). 34 Secondo Anna Barsotti il presepe sarebbe simbolo di una chiusura che ripiega su se stessa. «il protagonista resta chiuso nel suo mondo, nella sua a volte patetica, a volte grottesca, alla fine lirico­
simbolica, monomania per “ ’o presebbio ”». Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 52. 141
risultato per cui Luca rivolgendosi a sua moglie e indicando la figlia, sentenzia convinto) Questo è un altro capolavoro tuo, il più riuscito!35
Luca sconsolato esce dalla stanza. Il registro muta improvvisamente, l’umorismo si eclissa dietro al dramma: la madre cerca di riportarla sulla “retta via” e in uno scatto di nervi la figlia distrugge il presepe. Luca torna in scena e, resosi conto dell’accaduto, accusa Concetta, come sempre, della condotta della figlia.
CONCETTA. È stata figlieta, ’a vi’? Pigliatella cu’ essa.
LUCA. Cu’ essa? Me l’aggia piglià cu’ donna Cuncetta! Cunce’, te l’ho detto sempre: tu sei la mia nemica! Ecco l’educazione che hai dato ai tuoi figli, e questi sono i frutti che raccogli! (Ora sbraita senza riserve) Ma io me ne vado! Vi lascio tutti quanti, vi saluto! Vado sopra una montagna a fare il romito!36
La battuta non è priva di un certo umorismo amaro. Concetta, avvilita, cerca di reagire, ma i sensi le vengono meno e si accascia ai piedi del letto. Dopo poco si riprende e Luca, spaventato, la rassicura spostando la sua 35 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 371. Vi è un interessante analogia tra Luca Cupiello e Luca De Filippo, il nonno di Eduardo. Peppino lo descrive così: «Su don Luca non si poteva fare nessun affidamento serio. Era a sua madre che [Rosina, sorella di Luisa De Filippo] confidava sempre i suoi piccoli e grossi dolori[...]. Spesso mio nonno le sorprendeva a parlare sottovoce, quasi mormorando e s’arrabbiava se nel chiedere loro il perché di quelle segretezze si sentiva rispondere: “...è niente... niente!” “Comme? – replicava lui – vuje chiacchierate sottovoce e nun pozzo sapè che ve dicite?” “...niente – rispondeva ancora mia nonna o Rosina – è niente...!” Di qui, spesso, liti furibonde! Don Luca considerava “complotto” quel parlottare sottovoce: un complotto contro la sua rispettabile persona: un affronto a lui, uomo di casa: il “pater familias”! Ma che uomo di casa? [...] Era abile solamente nel portare con sé confusione e disordine». Peppino DE FILIPPO, Una famiglia difficile cit., pp. 114­115.
36 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 373.
142
amarezza sui figli:
LUCA. Tu nun m’he ’a fa’ mettere appaura a me... (Commosso) He ’a vedé che paura me so’ miso! Conce’, ccà simme rimaste io e te solamente... ’E figlie nun ’e dda’ retta, tanto se sape ’a riuscita che fanno. Cunce’, penzammo a nuie. (Con sincera amarezza) Hai voglia ’e te sacrificà pe’ lloro... È comme si nunn ’e facisse niente... Cunce’, si tu muore, moro pur’io! (Un nodo di pianto gli stringe la gola; si toglie gli occhiali e si asciuga una lacrima)37.
Suona il campanello e per andare ad aprire Luca lascia nuovamente le due donne sole, che riprendono il dramma da dove era stato interrotto. Concetta convince la figlia a desistere dai suoi propositi; all’arrivo di Nicola e i due si riappacificano. Il primo atto si conclude come era iniziato, sotto il registro farsesco, mentre Luca, all’oscuro di tutto38, trova per terra la lettera indirizzata a Nicola e gliela consegna. Il secondo atto invece si apre con aria grave sulle confidenze di donna Concetta al portiere:
CONCETTA. Don Rafe’, mi credete, mi è venuto lo sconfido...
RAFFAELE. Ma c’ ’o dicita a fa’... io saccio tutte cose...
CONCETTA. C’avit’ ’a sapé … che avit’ ’a sapé ….. Io sono una povera martire. ’O cielo m’ha voluto castigà cu’ nu marito ca nun ha saputo e nun ha voluto fa’ maie niente. In 37 Ivi, p. 375.
38 «Da una fondamentale inadeguatezza del protagonista nei confronti delle situazioni nasce la comicità, o piuttosto l’umorismo» (Paola QUARENGHI, Dal pari al dispari cit., p. 37). Più che inadeguato Luca è «l’inetto a vivere» secondo Barsotti (Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 49).
143
venticinque anni di matrimonio m’ha consumata, m’ha ridotto nu straccio. [...] E se non era pe’ me, chissà quanta vote sta casa sarebbe andata sotto sopra.
RAFFAELE. Io e mia moglie lo diciamo sempre: vuie avivev’ ’a nascere c’ ’o cazone!
CONCETTA. Adesso avete detto una cosa santa39.
Subito la tensione scompare con l’apparire di uno dei personaggi comici, Pasqualino, che lamenta il furto di “una cinque lire” da parte di Tommasino. Quest’ultimo entra in casa con un amico, Vittorio Elia, lo stesso che sogna la fuga d’amore con Ninuccia. Ma il dramma non emerge finché i personaggi della farsa non sono usciti di scena: in un breve giro di battute Vittorio chiede comprensione a Concetta che lo invita a lasciare la casa, raccontando (a lui e al pubblico) con quanta fatica sia riuscita a riappacificare la figlia col genero dopo la consegna della lettera. Proprio mentre l’ospite sta per uscire Luca rientra, e con lui l’umorismo. L’atmosfera rimane quella farsesca fino all’arrivo di Ninuccia e Nicola, precisamente fino al momento in cui a quest’ultimo viene presentato Vittorio Elia.
LUCA. Mo te lo faccio conoscere... (Lo sgomento delle donne è evidente). Don Vitto’, vi voglio rappresentare mio genero. (Vittorio avanza, a occhi bassi). Niculi’, ti presento Vittorio Elia, fa Natale con noi. (Indicando suo genero) Nicolino Percuoco, fabbricante di bottoni. Tiene centinaia di operai che dipendono da lui. Tiene i pensieri. (Nicolino vedendo Elia resta pietrificato. Gli si legge sul volto la piena di sdegno che vorrebbe traboccare... Vittorio accenna un lieve saluto col capo. Luca e Pasquale si guardano sorpresi di quella freddezza. 39 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 381.
144
Concetta, con la morte nel cuore, aggiusta qualcosa sulla credenza, per darsi un contegno e parla sottovoce con Tommasino. Luca, disorientato chiede al fratello) Ma che è stato?
Pasquale si stringe nelle spalle.
NICOLINO (trae in disparte Ninuccia, annichilita e sprofondata nel suo dramma, e le chiede con rabbia repressa). Nun ne sapive niente, tu? (E attanaglia in una stretta potente la piccola mano di Ninuccia nella sua gelida e tremante).
NINUCCIA (non resiste alla stretta ed emette un grido acuto). Aaaaaaah! (Libera la mano e massaggiandola con l’altra dice a denti stretti) E statte fermo, ca me faie male!40
Dopo questa breve parentesi riconquistano la posizione i personaggi comici che, cercando un dialogo con quelli drammatici, presi da tutt’altro, creano gaffes e esilaranti equivoci (Luca mostrando a Nicolino il manico dell’ombrello: «è materia tua, tu te ne intendi: è corno vero»41). Rimasti soli Vittorio e Ninuccia si baciano, ma Nicolino entra con orgasmo, assesta uno schiaffo a Vittorio, e all’acme del dramma popolare esclama: «Tu si’ n’ommo ’e niente!»42 I due scendono in strada per battersi, Ninuccia li segue per intervenire e Concetta rimane affranta senza riuscire a profferire parola. All’improvviso, la farsa: Luca, Pasqualino e Tommasino, travestiti da re magi, entrano in scena recando i doni per Concetta e intonando «Tu 40 Ivi, p. 392.
41 Ivi, p. 397.
42 Ivi, p. 399.
145
scendi dalle stelle, Concetta bella, e io t’aggio purtata quest’ombrella»43, in grottesca antitesi con la tragedia che si sta consumando fuori scena. Nel terzo atto l’umorismo è più sottile, quasi rispettoso del dolore che si vive in quei giorni in casa Cupiello44. Sono passati tre giorni: dopo la catastrofe del secondo atto Luca, investito da quella realtà che la moglie, ritenendolo incapace, gli aveva sempre tenuta nascosta, non regge: «la realtà dei fatti ha piegato come un giunco il provato fisico dell’uomo che per anni ha vissuto nell’ingenuo candore della sua ignoranza»45. Nella camera da letto i casigliani vegliano il malato che, quasi privo di sensi, continua a chiedere di Nicola. Qualche breve sketch, poi una battuta di Concetta alla figlia che piomba la scena in un’atmosfera ancora più cupa.
CONCETTA (a Ninuccia, in tono di rimprovero). Mo si’ cuntenta, mo... a chisto posto ccà t’ ’o dicette: «Giurame ca faie pace con tuo marito e fernesce tutte cose»... He visto ch’he fatto succedere?46
Dopo la visita del medico, che annuncia a Pasqualino l’inevitabile (con 43 Ivi, p. 400.
44 Meldolesi chiama in causa Pirandello «a proposito dello sperimentalismo di quel terzo atto. Eduardo, nell’occasione, sperimentò una durata tutta per linee interne, senza colpi di scena, che nasceva dallo stesso tema del caffè del primo atto. Era questa la principale novità. Come tutti gli attori­autori, egli si era abituato a diagrammi drammaturgici stretti, puntellati da oggetti di sicuro richiamo. Invece, nel terzo atto di Natale in casa Cupiello, la drammaturgia degli effetti lasciava il campo a una drammaturgia dilatata dall’intimità del personaggio, all’interno della quale l’effetto, anche l’effetto comico, si faceva segno leggero di tragedia». Claudio MELDOLESI, La trinità di Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro nazionale, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, p. 60.
45 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., did., p. 401. Franca Angelini sostiene che Luca «reagisce con la malattia, l’immobilità, il silenzio, l’involontaria ricerca dell’assenza e della morte al crollo del suo mito familiare». Franca Angelini, Il teatro del Novecento, Roma­Bari, Laterza, 1976, p. 139.
46 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 404.
146
un invito, «date curaggio ’e femmene», che ha del paradossale), Vittorio Elia si presenta in casa Cupiello, cercando il perdono di donna Concetta; ma Luca nel suo delirio lo scambia per Nicolino47 e unisce al capezzale la sua mano con quella di Ninuccia chiedendogli: LUCA. [...] Fate pace in presenza mia, e giurate che non vi lasciate più. (E visto che i due non parlano, insiste) Giurate, giurate!48
In quel mentre arriva Nicola che assistendo alla scena, «ha come una furia di sangue al cervello»49 ed esce di scena trascinato via dai casigliani. In chiusura, dopo aver ottenuto dal figlio l’agognato “sì” alla domanda «te piace ’o Presebbio?»
Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come il mondo, sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si dànno un da fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e 47 Dopo la consegna della lettera a Nicola nel primo atto e l’invito a cena di Vittorio nel secondo atto, Luca, nonostante la buonafede, ancora una volta si mostra come «involontario creatore di odi e non di amore». Giovanni ANTONUCCI, Introduzione a Eduardo De Filippo, introduzione e guida allo studio dell’opera eduardiana, Firenze, Le Monnier, 1990,, p. 56.
48 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., p. 411. Secondo Quarenghi «[...] questo nuovo finale [col terzo atto], con un moribondo che si fa giurare eterna fedeltà da due amanti, risulta piuttosto difficile da accettare per una società perbenista che pone tra i suoi fondamenti il culto della famiglia (e in questo senso si possono individuare nella commedia le tracce di una battaglia verso un nuovo modello di famiglia che Eduardo porterà avanti, forse più consapevolmente, anche in opere successive)» (Paola QUARENGHI, Dal pari al dispari cit., p. 43). Inoltre la stessa struttura della commedia portava allo spettatore una «specie di doccia scozzese [...] propinata dopo due atti estremamente comici» (Titina DE FILIPPO in Augusto CARLONI, Titina De Filippo: vita di una donna di teatro, Milano, Rusconi, 1984, p. 46).
49 Eduardo DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello cit., did., p. 414.
147
una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno riscaldando con i loro fiati un Gesù Bambino grande grande che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo... 50
2.3 «Gennareniello»
Ambientato in una terrazza, Gennareniello è una panoramica su una giornata di una famiglia popolare napoletana. La storia, racchiusa in un atto unico, è semplice: Gennaro e Concetta vivono col figlio Tommasino, la sorella di lui, Fedora, e un inquilino insolvente, Matteo. Su questo «angusto terrazzino tra i tetti»51 Concetta stende il bucato, in mezzo ai balconi del vicinato, fra i quali vi è quello della bella e discussa vicina Anna Maria. Gennaro scrive poesie e crea invenzioni; le prime sono per la bella vicina, che si diverte a provocarlo. Michele, giovane ingegnere invitato da Gennaro per mostrargli l’ultima invenzione, pare più interessato a Anna Maria che al brevetto. Il climax della commedia si raggiunge quando la vicina chiede un bacio a Gennaro, che si arrampica su una sedia per riuscire a darglielo. Sorpreso dalla moglie, viene amaramente ripreso. Scoppia la lite, Gennaro minaccia di lasciare la casa, mentre Michele e Matteo cercano di trattenerlo, invitando i coniugi alla riappacificazione. A un tratto il pittore e l’ingegnere, che hanno riso finora dello scherzo, passano allo scherno. È il momento della iacuvella52: i due prendono i panni del bucato e li appoggiano su don Gennaro, deridendolo ferocemente. 50 Ivi, p. 415. Ci sembra di vedere in questo “passaggio di consegne” una metafora di quel generazionale “slittamento” di ruoli.
51 Eduardo DE FILIPPO, Gennareniello, in Cantata dei giorni pari cit., p. 427.
52 Con il termine “iacuvella” si indica nel dialetto napoletano un «fatto serio trasformato in cosa ridicola da persona poco seria». Ivi, p. 776.
148
MICHELE. Mo, ’a sera, a Gennareniello lo vedremo spesso al Trocadero... Però dovete essere più elegante... Ce vo’ nu fiore mpietto... camicie di seta...
MATTEO. ’E capille se l’ha da tignere... Na bella scatola ’e cromatina nera...
MICHELE. Mettiteve accussì... (Lo aggiusta con un bastoncino e un cappello vecchio […] ed un paio di calzini spaiati in mano come guanti).
MATTEO. Donna Cunce’, ccà sta Gennareniello...53
A questo punto Concetta si ribella, decide di rimettere “al posto loro” i due rivendicando il possesso e in tal modo salvando la dignità del marito:
CONCETTA. Ma vuie a chi credite ’e sfruculià...? Ma ’o sapite ca io femmena e bona tengo ’o core ’e ve piglià a pacchere a tutte dduie... Maritemo è n’ommo serio... Maritemo è d’ ’o mio e ghiatevenne!54
La commedia si chiude nel lieto fine con Gennaro che si avvicina esitante alla moglie cantando «Nun me dicite no... uocchie che ragiunate... senza parlà... senza parlà...» e lei commossa, lo guarda. «La poesia si può salvare anche nella mediocrità quotidiana»55, e soprattutto nella quotidianità familiare.
Come ha notato Barsotti, questo atto unico «è senza dubbio fra i più interessanti, anche per il rapporto gemellare che lo lega al Natale»56 (la 53 Ivi, p. 441.
54 Ibidem. Il corsivo è nostro.
55 Anna BARSOTTI, Nota storico­critica introduttiva a “Gennareniello”, in Cantata dei giorni pari cit., p. 418.
56 Ivi, p. 415.
149
commedia è stata scritta nel 1932 in concomitanza col secondo atto della commedia dei Cupiello). Infatti anche i personaggi si corrispondono: Luca e Concetta, per età e per carattere, si riconoscono nella coppia di Gennaro e Concetta; Tommasino rimane se stesso anche nel nome, sempre “grande bambino cresciuto”, stavolta caratterizzato ulteriormente da una pulcinellesca fame atavica; Ninuccia, l’innesco drammatico nel Natale, la ritroviamo in Anna Maria, bella vicina di casa; al posto di zio Pasquale abbiamo qui zia Fedora, sempre in contrapposizione col nipote. Anche in Matteo e Michele si possono affiancare, rispettivamente, Nicolino e Vittorio Elia. Entrambi sono abbagliati dalla stessa Anna Maria, ma sarà Michele­Vittorio che con la sua entrata nell’ambiente familiare (in entrambe le commedie questo personaggio viene da “fuori”) determina la “catastrofe”.
Una interessante chiave di lettura di questa commedia familiare è quella di Barsotti: «Gennaro non si rassegna a sentirsi “un uomo finito”; più che mostrare il ridicolo d’un innamoramento fuori stagione, il suo personaggio esprime il piccolo dramma – quasi cecoviano – di uno coi capelli grigi, che sente all’improvviso ritornare l’illusione della giovinezza»57. 2.4 «Uno coi capelli bianchi»
Seguendo la linea del “famigliarismo” arriviamo a Uno coi capelli bianchi58, commedia in tre atti del 1935. La vicenda si svolge intorno alla 57 Ivi, p. 417.
58 Fiorenza Di Franco istituisce un parallelo fra questa commedia e Mia famiglia, nella quale «a distanza di vent’anni, si ritrova una tematica simile a quella sviluppata in Uno coi capelli bianchi: il rapporto fra i giovani e gli adulti, la fede del capofamiglia nella propria presunta superiorità e infallibilità». Fiorenza DI FRANCO, Il teatro di Eduardo, Bari, Laterza, 1975, p. 167 .
150
famiglia di Giambattista Grossi. Il vecchio capofamiglia vive nella «ricchezza sfrontata degli industriali arricchiti»59, con sua moglie Teresa. Sua figlia Giuseppina ha sposato Giuliano, giovane socio di Battista, il quale è deciso a non lasciargli troppo potere decisionale («io so’ vivo ancora, eh! Non credere che dopo tanti anni che ho buttato il sangue, mi si debba mettere in disparte! Che figura farei?»60).
L’innesto drammatico di tutta la vicenda è dato dal fastidioso modo in cui Giambattista rinfaccia la sua vecchiaia per castrare il genero:
BATTISTA. Giulia’, io devo salvaguardare la mia serietà di uomo che sta vicino alla sessantina! Quando ci arriverai pure tu, capirai come e perché si deve camminare sul taglio di un coltello. Io, grazie a Dio, non mi son trovato mai in mezzo a guai perché, più giovane, lavoravo all’oscuro, accanto alla buon’anima di mio padre che, povero vecchio, s’era mezzo rimbambito; e dovevo dargli l’illusione che facesse tutto lui, che tutto dipendesse da lui. Mo, cu’ na fabbrica ncopp’ ’e spalle, aggi’ ’a menà a te nnanze, perché sei giovane, sei il marito di mia figlia, e t’aggi’ ’a fa’ fa’ strada... Ho l’esperienza... n’aggio visto che n’aggio visto...61
Giuliano è il genero di Giambattista, ma la contrapposizione rappresentata è quella eterna tra padri e figli. Quella per cui i primi hanno sempre della aspettative nei confronti dei secondi, pensando che la formazione dovrebbe essere la stessa che hanno avuto loro da giovani:
BATTISTA. Come siete giovane! Beato voi! Avvoca’, che 59 Eduardo DE FILIPPO, Uno coi capelli bianchi, in Cantata dei giorni pari cit., did., p. 472.
60 Ivi, p. 476.
61 Ivi, p. 475. Corsivo nostro.
151
bella cosa ’a gioventù! Specie per lui che, con la morte della buonanima del padre, si è trovato socio mio senza sapé nemmeno come!... senza quel tirocinio che ti avvelena tutta un’adolescenza... E bravo ’o piccerillo! E bravo il mio socio!62
Nel secondo atto emerge particolarmente viscida la figura del suocero63, che loda il genero per magnificare se stesso. Il giovane Giuliano mostra segni di insofferenza e si sfoga con l’industriale Lorenzo, quando questi, parlando di Battista, gli dice:
LORENZO. Io non lo conoscevo personalmente, ma vi garantisco che sono rimasto veramente colpito dal modo come tratta gli affari, dalla sua serietà, e soprattutto dalla sua modestia. Parlammo a lungo pure di voi, e vi vuole molto bene. Quando io gli feci i complimenti, non solo per l’idea felice della nostra fusione, ma anche per il modo come sono state condotte a termine le trattative, lui disse testualmente: «No, no, il merito a chi spetta... Tutto si deve a mio genero; io non ho fatto altro che seguirlo...» È meritevole di ammirazione, questo, perché si nota il proposito di spingere avanti i giovani. Lui, magari, lancia l’idea, dà il consiglio, e poi si ritira tranquillo in disparte... Questo è bello... È ammirevole veramente.
62 Ivi, p. 477.
63 Il personaggio suocero­padre è amplificato nei suoi difetti quasi con accanimento. Sostiene Frascani: «Questa commedia sembra scritta per fatto personale, centrata com’è su di un protagonista la cui odiosità dà l’impressione di essere stata ricavata mediante la meticolosa osservazione di un modello vivente. Anche un risentimento, un’antipatia, il ricordo di un torto subìto, possono mettere in moto la penna di uno scrittore di teatro. Tra i tanti personaggi la cui paternità spetta ad Eduardo De Filippo ve ne sono alcuni che sembrano il pagamento di un conto che l’autore non ha saputo lasciare in sospeso. Il Battista di Uno coi capelli bianchi deve appunto essere arrivato sulla scena per questa via». Federico FRASCANI, Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 41.
152
GIULIANO. Già. L’unico mezzo per farsi credere innocente o per lo meno creare il dubbio, è quello di dichiarare apertamente: «Io sono il colpevole!» Caro Commendatore, sarebbe ora di finirla col fatto dei giovani e dei vecchi. A parte il fatto che qualunque cosa fai: «Sì, è grazioso; ma io tengo un’altra esperienza... Nella mia vita ho visto ben altro...» E vuie agliuttite, agliuttite... a parte questo, ci sono dei casi singolari. Ce sta ’o viecchio ca nun è viecchio e nun è giovane, che al suo attivo tiene solamente gli anni... E come se li fa valere! Con l’esasperarti, sapendo che ti esaspera; col deridere la tua giovinezza, avendo l’aria di fartene una colpa; e te stuzzica, te pogne; e tu zitto, perché lo devi considerare: è viecchio! Tene ’e capelli bianchi; è un trucco, credete a me. A questo tizio, l’ha truccato il Padreterno!64
Nel terzo atto Battista, inopportuno, rivela alla figlia una confidenza fattagli dal genero, che durante una serata con amico si è trovato a ballare con una tedesca ubriaca. Giuseppina reagisce dando sfogo a un malessere troppo a lungo serbato: quello di una moglie trascurata e annoiata:
GIUSEPPINA. [...] Il lavoratore!.. L’uomo che lotta per affari... che torna a casa stanco... che nun se fida manco ’e parlà... E io? Io!... Io nun faccio niente!... Non è più dura la condanna mia? Quante volte ce l’aggio ditto: «Famme fa qualche cosa... Un lavoro qualunque!» Perché la mia vita è vuota, vuota! Vuota pecchè tengo nu marito lavoratore!... E sì, va bene... Ma questio marito, poi un’ora di libertà che tene, invece di dedicarla alla moglie, che passa la vita aspettando, se ne va al Circolo, a ballà...65
64 Eduardo DE FILIPPO, Uno coi capelli bianchi cit., pp. 487­488.
65 Ivi, p. 503.
153
Il finale della commedia, amarissimo, mostra Giuliano esasperato riversare sul suocero tutto quello che questi ha provocato con la sua serietà mancata e pretesa solo per l’esperienza dei suoi «capelli bianchi»; Giuliano all’apice della rabbia inveisce contro Battista schiaffeggiandolo:
GIULIANO. Carogna! M’ha distrutto una casa, m’ha distrutto una vita!
[...]
BATTISTA (alla vista degli astanti riprende coraggio e senza alzarsi da terra naturalmente per destare maggiore pietà urla con odio). Fuori di casa mia! Fuori! Vigliacco! Mi ha schiaffeggiato! Che bell’eroismo! (Ora il suo tono è pietoso) [...] Mi ha messo le mani addosso! A me! (Prende una ciocca dei suoi capelli bianchi, come per mostrarli) A me!66
66 Ivi, p. 508.
154
II.3 La famiglia ne La cantata dei giorni dispari
Questa stagione Barsotti la descrive
scandita storicamente dal passaggio attraverso il boom economico, l’egemonia culturale americana, la contestazione e il crollo dei pregiudizi e degli antichi valori famigliari e sociali, fino alla crisi stessa di quel sistema così come si era provvisoriamente costituito. I due filoni in cui si articola e si alterna questa fase sono quello della trasformazione traumatica della famiglia (da Mia famiglia del ’54 a Sabato, domenica e lunedì del ’59), e quello della necessità e problematicità di un impegno civile (da De Pretore Vincenzo del ’57 a Il sindaco del Rione Sanità del ’60). Opera riassuntiva dei due filoni avrebbe dovuto essere l’ultima: Gli esami non finiscono mai del ’7367.
3.1 «Napoli milionaria!»
In Napoli milionaria! la figura della famiglia assurge a simbolo di una società. Il luogo scenico è un “basso” («enorme “stanzone” lercio e affumicato»68 che da’ sulla strada) nel cui spazio angusto si muovono i personaggi della commedia.
Il primo atto si apre sul risveglio della famiglia di Gennaro Jovine, tranviere disoccupato, composta da Amalia sua moglie e i figli Maria Rosaria e Amedeo. La scena si svolge sul finire del 1942, secondo anno di 67 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 49.
68 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria!, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 1998, did., p. 17.
155
guerra. Per portare avanti la famiglia Amalia si dedica al mercato nero; inoltre il suo basso è un punto di ritrovo per la gente del quartiere che, tra un bombardamento e l’altro, vi si ferma per comprare una tazza di caffè, in quei giorni introvabile. Amalia è
una donna sui trentotto anni, ancora piacente. Il suo modo di parlare, il suo tono e i suoi gesti dànno subito l’impressione di un carattere deciso, di chi è abituato al comando. [...] Ha degli occhi irrequieti: tutto vedono e tutto osservano. Riesce sempre a formarsi una coscienza delle proprie azioni, anche quando non sono del tutto rette. Avida negli affari, dura di cuore; talvolta maschera il suo risentimento per una qualche contrarietà con parole melate, lasciando però indovinare il suo pensiero dall’ironia dello sguardo69.
Gennaro è preoccupato per l’attività della moglie, ma non può che cedere innanzi alla situazione: «Se colla tessera nun se po’ campà, allora si deve ricorrere alla borsa nera.. Si deve vivere col pericolo che ti arrestano, che vai carcerato... (Non sa più dove parare con le sue argomentazioni; cedendo ad una ineluttabilità, dichiara con un tono umano, comprensivo) Ama’, stàmmece attiente...»70. Nel secondo atto sono passati alcuni mesi, lo sbarco alleato è avvenuto. Gennaro, lo apprendiamo, è stato fatto prigioniero dai tedeschi e non se ne è più saputo niente. Amalia intanto si è arricchita col mercato nero e ha messo su un’attività di commercio con Errico Settebellizze, giovane scaltro del rione. Fra i due esiste una tensione equivoca:
69 Ivi, did., pp. 21­22. 70 Ivi, p. 35.
156
AMALIA: Voi sapete se io vi stimo e si ci ho o no ci ho una simpatia per voi... Anzi sento un trasporto così reciproco che alle volte mi sento a voi vicino che mi guardate con gli occhi talmente assanguati, ca me pigliassi a schiaffi io stessa, talmente ca desiderasse che la fantasia fosse lealdà (Errico abbassa gli occhi triste. Amalia incalza) La società che ci abbiamo... io accattanno e vennenno e vuie cu’ ’e camionne... ci ha fatto guadambiare bene... e ringraziammo Dio... (Conseguenziale) Perché dobbiamo commettere il malamente? Io tengo na figlia grossa... E Gennarino?
ERRICO (scettico). Ma don Gennaro, oramaie, è più ’e n’anno ca nun avite nutizie... [...] Pe’ me, dico ca don Gennaro è muorto!71
Anche per gli altri le cose sono cambiate. Il figlio Amedeo ha lasciato la società del gas dove lavorava e ora frequenta Peppe «’o Cricco», il quale ruba le ruote delle automobili per poi rivenderle. La piccola Rituccia – che anche per questo atto e per il seguente non entrerà in scena 72 – si ammala. La figlia Maria Rosaria rimane incinta di un soldato americano che, dopo averle promesso di portarla con se in America, è scomparso. Nel confessarlo a Amalia accuserà lei dell’accaduto, colpevole di non aver saputo fare la madre:
MARIA ROSARIA. E io nun ce avevo miso sulo ’o pensiero... Ma ’o core, ce avevo miso... E vuie putìveve tene’ nu poco cchiù ll’uocchie apierte ncuollo a me! E mo è inutile ca 71 Ivi, pp. 61­62.
72 La figura della figlia minore emerge da «una “camera di là”, “in prima quinta a sinistra”, appunto, [che] proietta in scena tutta la carica simbolica di Rituccia, personaggio assente, e della sua malattia, che è la malattia del vicolo che trapela dal fondo, e la malattia di Napoli». Antonella OTTAI, Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo, in L’arte della commedia cit., p. 90.
157
alluccate, pecché nun c’è cchiu rimedio...[...] L’avìvev’ ’a vede’ primma! E quann’io ’a sera ascevo cu ’e cumpagne meie, invece ’e ve fa piacere, accussì putiveve fa’ ’o còmmedo vuosto, v’avìvev’ ’a sta attienta... Invece ’e penza’ agli affari, a ’e denare... penzàveve a me! [...] Ma pecché teniveve ’o tiempo ’e penza’ a me? E a Settebellizze chi ce penzava? Io?
AMALIA (riesce a stento a frenare il suo furore) Uh, guardate?... E io mo t’ ’o spiego n’ata vota... Settebellizze e io teniamo una società di accattare e vénnere... E so’ affare ca nun te riguardano! (D’improvviso diventando aggressiva) E me l’aggi’ ’a vede’ io, he’ capito? Ma tu, parla... Fatte asci’ ’o spireto. (Va in fondo e chiude i battenti della porta) Quanno... Addo’?
MARIA ROSARIA (trattando la madre da pari a pari e guardandola negli occhi le grida). Ccà... ’O facevo trasi’ ccà... Quanno vuie, ’a sera, ve ìveve a fa’ ’e passiate e ’e cenette cu Settebellizze...
AMALIA (sbarrando gli occhi). Ccà? Dint’ ’a casa mia? Schifosa! E nun te miette scuorno e’ m’ ’o ddicere nfaccia? E parle ’e me? Tu nun si degna manco ’e m’annummena’! Ma io te scarpéso sott’ ’e piedemieie... Te faccio addeventa’ na pizza...
MARIA ROSARIA (non disarma). E chiammate pure a Settebellizze... Dicitincelle ca me venesse a vàttere pur’ isso... Tanto, vuie chistu deritto ce l’avite già dato...
AMALIA (controlla a stento il tono della sua voce perché il fatto non dilaghi nel vicolo). Malafemmena! Si’ na malafemmena!
MARIA ROSARIA (puntando l’indice verso la madre). Chello ca site vuie...
AMALIA (fuori di sé). T’accido, he’ capito?73
73 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., pp. 64­65.
158
D’un tratto un mormorio di voci nel vicolo preannuncia il ritorno di Gennaro. Rientrato in casa, non riconosce la moglie, bellissima e ben vestita. Si trova stranito quando vede che tutti attorno a lui ridono spensierati festeggiando il compleanno di Settebellizze. Nessuno vuole ascoltare quello che gli è capitato ed egli, in mezzo agli schiamazzi gioiosi dei commensali, si ritira con Maria Rosaria a vegliare Rituccia. Nel terzo atto le condizioni della piccola peggiorano; il medico chiederà una medicina introvabile grazie a quelle logiche di mercato nero tante volte dalla stessa Amalia adottate. Trovato il rimedio, il medico non potrà che osservare: «Mo ha da passà ’a nuttata. Deve superare la crisi»74. La stessa crisi e la stessa nottata dovranno essere superate anche dai familiari di Gennaro, metonimia dell’intera società postbellica. Gennaro riesce a mettere i suoi familiari dinnanzi a quella realtà che non avevano saputo affrontare:
GENNARO (chiude il telaio a vetri e lentamente si avvicina alla donna. Non sa di dove cominciare; guarda la camera della bimba ammalata e si decide). Ama’, nun saccio pecché, ma chella criatura ca sta llà dinto me fa penza’ ’o paese nuosto. Io so’ turnato e me credevo ’e truva’ ’a famiglia mia o distrutta o a posto, onestamente. Ma pecché?... pecché io turnavo d’ ’a guerra... Invece, ccà nisciuno ne vo’ sentere parla’. Quann’io turnaie ’a ll’ata guerra, chi me chiammava ’a ccà, chi me chiammava ’a llà. [...] Ma mo pecché nun ne vonno sèntere parla’? Primma ’e tutto pecché nun è colpa toia, ’a guerra nun l’he’ vuluta tu, e po’ pecché ’e ccarte ’e mille lire fanno perdere ’a capa... (Comprensivo) Tu ll’he’ accuminciate a 74 Ivi, p. 94.
159
vede’ a poco ’a vota, po’ cchiù assale, po’ cientomila, po’ nu milione... E nun he’ capito niente cchiù... [...] (Pausa) Che t’aggi’ ’a di’? Si stevo cca, forse perdevo ’a capa pur’io... A mia figlia, ca aieressera, vicino ’o lietto d’ ’a sora, me cunfessaie tutte cosa, che aggi’ ’a fa’? ’A piglio pe’ nu vraccio, ’a metto mmiez’ ’a strada e le dico: «Va fa’ ’a prostituta»? E quanta pate n’avesser’ ’a caccia ’e figlie? E no sulo a Napule. Ma dint’ ’a tutte ’e paise d’ ’o munno. A te ca nun he’ saputo fa’ ’a mamma, che faccio, Ama’, t’accido? Faccio ’a tragedia? (Sempre più commosso, saggio) E nun abbasta ’a tragedia ca sta scialanno pe’ tutt’ ’o munno, nun abbasta ’o llutto ca purtammo nfaccia tutte quante... E Amedeo? Amedeo che va facenno ’o mariuolo? [...] (Il crollo totale di Amalia non gli sfugge, ne ha pietà) Tu mo he’ capito. E io aggio capito che aggi’ ’a sta’ ccà. Cchiù ’a famiglia se sta perdenno e cchiu ’o pate ’e famiglia ha da piglia’ ’a responsabilità. (Ora il suo pensiero corre verso la piccola inferma). E se ognuno putesse guarda’ ’a dint’ ’a chella porta... (mostra la prima a sinistra) ogneduno se passaria ’a mano p’ ’a cuscienza... Mo avimm’aspetta’, Ama’... S’ha da aspetta’. Comme ha ditto ’o dottore? Deve passare la nottata75.
3.2 «Filumena Marturano»
La successiva commedia in cui è direttamente trattata la tematica familiare è Filumena Marturano, ma ricordiamo che questo aspetto, anche quando non centrale per l’intreccio, viene affrontato in altre opere. È il caso di Questi fantasmi!, commedia sull’incomunicabilità nel rapporto fra 75 Ivi, pp. 95­96.
160
coniugi (non ci sono figli), concetto che poi sarà ripreso e allargato in alcune commedie successive. Alfredo, l’amante della moglie del protagonista (Maria), ha abbandonato la sua famiglia e paragona cinicamente il suo matrimonio (ma anche il matrimonio in generale) a un contratto:
MARIA. [...] quante volte ti ho consigliato di tornare in te, alla tua casa...
ALFREDO. Per metterti a posto con la tua coscienza. Pe’ nun fa’ peccato... perché è peccato, hanno detto gli uomini, di seguire il proprio istinto e d’arrivà addò te porta ’o core. Però sei venuta da me di nascosto, quanno ’o core te diceva ’e sì. La gioia l’hai desiderata e l’hai voluta, poi hai fatto il caso di coscienza, credendo di metterti a posto con Dio, e mi hai detto: «Alfre’, smettiamola!... Torna a casa tua, dai figli tuoi...» Vedi, Mari’ io rispetto le tue idee; però tu conosci le mie... Non è colpa tua. Te l’hanno ditto, l’hanno predicato, ’o ssapive primma ’e nascere ca ’e ccose se fanno ’e nascosto. Ma il mio progetto non cambia. E se è vero che non si può pretendere di cambiare da un momento al’altro tutto l’ordinamento di una vita sociale, ti garantisco che l’ordinamento di un solo mondo, quello nostro, lo cambierò io. Con mia moglie ho parlato chiaro. I figli andranno per la loro strada, so’ gruosse... Pago, pago la penale per essere venuto meno ad un contratto, nu piezzo ’e carta ca, quanno ll’ ’e firmato, è comm’ a na cundanna a morte... ca te ncatena pe’ tutta ’a vita...76
Mentre Pasquale riconosce davanti alla moglie il loro dramma, la 76 Eduardo DE FILIPPO, Questi fantasmi!, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 1998, pp. 150­151.
161
perdita della comunicazione.
PASQUALE. [...] Che tristezza... Come finisce tutto l’entusiasmo, tutto l’amore. Mesi e mesi senza scambiare una parola, un pensiero... [...] Te ricuorde, Mari’, quanno facevamo ’ammore? Ce guardàvemo dint’ all’uocchie e nun parlàvamo per timidezza, ma cu’ ll’uocchie ce dicévemo tanta cose. E io mi sentivo infelice, nel senso che mi sentivo goffo vicino a te, perché mi sentivo niente... E quanno uno se sente niente, tutto diventa più facile, più piacevole... Per qualunque cosa si trova il rimedio: pure ’a morte addeventa bella! Si scherza, si ride, senza quel preconcetto di superiorità... E invece no, s’ha da mantenè ’o punto. E, forse, ci portiamo un cuore gonfio di amarezza, di tristezze, di tenerezze, che, se solamente per un attimo riuscissimo ad aprire l’uno con l’altro... Ma niente... Ha da sta’ chiuso, rebazzato... A nu certo punto se perde ’a chiave e va t’ ’a pesca! Avimmo perza ’a chiave, Mari’!... (Si avvia triste)77.
Filumena Marturano, commedia in tre atti, porta sulla scena la questione dei figli illegittimi, come Eduardo stesso. La storia è imperniata sulla figura di una prostituta raccolta dal lupanare da un ricco borghese, Domenico Soriano, che ha vissuto accanto a lui “come una serva” per venticinque anni, mentre questi, dapprima sposato, poi troppo libertino per impegnarsi, non sente verso di lei alcun legame.
FILUMENA. [...] ’A strada d’ ’a casa t’ ’a scurdave. ’E mmeglie feste, ’e meglie Natale me ll’aggio passate sola comm’ a na cana. [...] Comm’ all’ultima femmena m’ he 77 Ivi, p. 178.
162
trattato, sempe! (A Rosalia e Alfredo, unici testimoni delle sacrosante verità che dice) E nun parlammo ’e quann’isso era giovane, che uno puteva dicere: «Tene ’e sorde, ’a presenza...» Ma mo, all’urdemo all’urdemo, a cinquantaduie anne, se retira cu’ ’e fazzulette spuorche ’e russetto, ca me fanno schifo...78
Mentre lei continua a portare avanti la casa lui inizia una relazione con un’altra donna, Diana, che vuole sposare. Esasperata Filumena escogita uno stratagemma e fingendosi moribonda chiede a Domenico di essere sposata in extremis. Lui non può negarle l’ultimo desiderio, ma subito dopo il rito lei si alza, nel pieno possesso delle sue forze, sarcasticamente affermando: «Don Dummi’ tanti auguri: simmo marito e mugliera!»79.
Il sottile intreccio eduardiano fa cominciare la commedia in questo momento, lasciando al pubblico il dovere di capire cosa sia successo attraverso la discussione fra Domenico e Filumena nel corso del primo atto. La scena si apre su un ring, che presenta ad un angolo Domenico Soriano assistito da Alfredo Amoroso, e all’altro angolo Filumena Marturano, con l’anziana confidente Rosalia Solimene. È Eduardo a dirlo, nella didascalia introduttiva:
In piedi, quasi alla soglia della camera da letto, le braccia conserte , in atto di sfida, sta Filumena Marturano. [...] Ella è pallida, cadaverica, un po’ per la finzione di cui si è fatta protagonista, quella cioè di lasciarsi ritenere prossima alla fine, un po’ per la bufera che, ormai, inevitabilmente dovrà affrontare. Ma ella non ha paura: è in atteggiamento, anzi, da belva ferita, pronta 78 Ivi, p. 203.
79 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 1998, p. 202.
163
a spiccare il salto sull’avversario.
Nell’angolo opposto, precisamente in prima quinta a destra, Domenico Soriano affronta la donna con la decisa volontà di colui il quale non vede limiti né ostacoli, pur di far trionfare la sua sacrosanta ragione, pur di spezzare l’infamia e mettere a nudo, di fronte al mondo, la bassezza con cui fu possibile ingannarlo. [...] Ora è lì, in pantalone e giacca di pigiama, sommariamente abbottonati, pallido e convulso di fronte a Filumena, a quella donna «da niente» che, per tanti anni, è stata trattata da lui come una schiava e che ora lo tiene in pugno per schiacciarlo come un pulcino80.
Ma la motivazione che ha mosso Filumena all’inganno sembrerebbe non essere amore, stando a quanto dichiarato da lei, ma la necessità di dare un cognome ai suoi tre figli:
FILUMENA. [...] Ma tu te cride overo ca io ll’aggio fatto pe’ te? Ma io nun te curo, nun t’aggio maie curato. Na femmena comm’ a mme, ll’he ditto tu e mm’ ’o stai dicenno ’a vinticinc’anne, se fa ’e cunte. Me sierve... Tu, me sierve! Tu te credive ca doppo vinticinc’anne c’aggiu fatto ’a vaiassa vicino a tte, me ne ievo accussi, cu’ na mano nnanze e n’ata areto?
DOMENICO (con aria trionfante, credendo di aver compresa la ragione recondita della beffa di Filumena). ’E denare! E nun te l’avarria date? [...]
FILUMENA (avvilita per l’incomprensione, con disprezzo). Ma statte zitto! Ma è possibile ca vuiate uommene nun capite maie niente? ...Qua’ denare, Dummi’? Astipatille cu bbona salute ’e denare. È n’ata cosa che voglio ’a te... e m’ 80 Ivi, did., pp. 197­198.
164
’a daie! Tengo tre figlie, Dummi’!81
Dopo aver rassicurato Domenico di non esserne il padre, Filumena ammette che questi tre figli sono stati cresciuti con i soldi rubati a lui che, d’altronde, non si era mai accorto di niente. Più per spiegare che per discolparsi, Filumena sostiene che l’unica alternativa sarebbe stata non farli mai nascere. In un famosissimo monologo rievoca l’angoscioso dubbio la prima volta che rimase incinta: FILUMENA (con uno scatto improvviso). E ll’avev’ ’a accidere? [...] E chesto me cunzigliavano tutt’ ’e ccumpagne meie ’e llà ncoppo... (Allude al lupanare) «A chi aspetti? Ti togli il pensiero!» (Cosciente) M’ ’avarria miso ’o penziero! E chi avesse pututo campà cu’ nu rimorso ’e chillo? E po’, io parlaie c’ ’a Madonna. [...] (rievocando il suo incontro mistico) Erano’e tre doppo mezanotte. P’ ’a strada cammenavo io sola. D’ ’a casa mia già me n’ero iuta ’a sei mise. (Alludendo alla sua prima sensazione di maternità) Era ’a primma vota! E che ffaccio? A chi ’o ddico? [...] Senza vulé, cammenanno cammenanno, me truvaie dint’ ’o vico mio, nnanz’ all’altarino d’ ’a Madonna d’ ’e rrose. L’affruntaie accussi (Punta i pugni sui fianchi e solleva lo sguardo verso una immaginaria effige, come per parlare alla Vergine da donna a donna): «C’aggi’ ’a fa’? Tu saie tutto... Saie pure pecché me trovo int’ ’o peccato. C’ aggi’ ’a fa’?» Ma essa zitto, nun rispunneva. (Eccitata) «E accussi ffaie, è ove’? Cchiu nun parle e cchiu’ ’a gente te crede? ...Sto parlanno cu’ te! (Con arroganza vibrante) Rispunne!» (Rifacendo macchinalmente il tono di voce di qualcuno a lei sconosciuto che, in quel momento, parlò da ignota 81 Ivi, p. 204.
165
provenienza) «’E figlie so’ ffiglie!» Me gelaie. Rummanette accussi, ferma. (S’irrigidisce fissando l’effige immaginaria) [...] ...E nun saccio si fuie io ’a Madonna d’ ’e rrose ca facette c’ ’a capa accussì! (Fa un cenno col capo come dire: “Si, hai compreso”) «’E figlie so’ ffìglie!» E giuraie. Ca perciò so’ rimasta tant’anne vicino a te... Pe’ lloro aggio suppurtato tutto chello ca m’ he fatto e comme m’he trattato!82
Sul finire del primo atto Filumena decide che i figli devono conoscere la loro origine, «hann’ ’a sapé chi è ’a mamma...», e soprattutto «nun s’hann’ ’a mettere scuorno vicino all’at’uommene: nun s’hann’ ’a sentì avvilite quanno vanno pe’ caccià na carta, nu documento: ’a famiglia, ’a casa... ’a famiglia ca s’aunisce pe’ nu cunziglio, pe’ nu sfogo...»83. E aggiunge infine Filumena: « S’hann ’a chiammà comm’ a mme! [...] Soriano»84.
Nel secondo atto vediamo Domenico, il giorno dopo, “recuperare terreno”, chiedendo con l’avvocato l’annullamento del matrimonio. Filumena, messa all’angolo, chiama i suoi tre figli e si rivela loro come per agnizione. Prima di lasciare la casa, gioca la sua ultima carta: svela a Domenico che uno dei tre è figlio suo. Non glielo ha detto quando nacque per paura che lui l’avrebbe spinta all’aborto. Ma nella richiesta di identificare suo figlio, Domenico si sente rispondere: «Hann’ ’a essere 82 Ivi, pp. 206­207. La posizione di Eduardo a proposito del risvolto cattolico della commedia emerge da una lettera a Franco Zeffirelli, che si accingeva a mettere in scena l’opera in America: «Io sono un autore non cattolico, e quando al terzo atto, durante il matrimonio fuori scena, sulla scena fai inginocchiare Rosalia, centrandola con uno spot, e le fai giungere le mani, in breve quando fai succedere il “miracolo”, io mi sento, come autore, tradito». Lettera da Roma del 22 novembre 1979, cit. in Maurizio GIAMMUSSO, Vita di Eduardo cit., p. 349.
83 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano cit., p. 212.
84 Ibidem
166
eguale tutt’ e tre!»85
Terzo atto: sono trascorsi dieci mesi. La scena è sempre la stessa, ma addobbata di fiori che preannunciano le nozze di Domenico Soriano e Filumena Marturano. Si capisce, nel corso dell’atto, che Domenico ha deciso di lasciare Diana e, dopo aver ottenuto l’annullamento del matrimonio, vuole ora sposare nuovamente Filumena, per stare vicino all’ignoto figlio. Ma non si è rassegnato: mette alla prova i tre ragazzi, che stanno per prendere il suo cognome, per scoprire di quale sia il padre: li invita a chiamarlo “papà” ma rifiutano, e Domenico capisce che nessuno dei tre sente un legame filiale con lui, o almeno non così forte. Tenta altre strade, cercando passioni comuni: le donne – ma le donne piacciono a tutti e tre – e il canto – ma nessuno dei tre vi è portato. Rimasto solo con Filumena, Domenico esterna il suo tormento:
DOMENICO. [...] Si tu sapisse quanta vote, in questi ultimi mesi, ho cercato di parlarti e non ci sono riuscito. Ho tentato con tutte le mie forze di vincere questo senso di pudore e me n’è mancato il coraggio. Capisco, l’argomento è delicato e fa male a me stesso metterti di fronte all’imbarazzo delle risposte; ma nuie ce avimm’ ’a spusà. Tra poco ci troveremo inginocchiati davanti a Dio, non come due giovani che ci si trovano per aver creduto amore un sentimento che poteva essere soddisfatto ed esaurito nel più semplice e naturale dei modi... Filume’, nuie ’a vita nosta ll’avimmo campata... [...]due coscienze formate che hanno il dovere di comprendere con crudezza e fino in fondo il loro gesto e di affrontarlo, assumendone in pieno tutta la resonsabilità. Tu saie pecché me spuse: ma io no. Io saccio sulamente che ti sposo pecché m’he 85 Ivi, p. 235.
167
ditto che uno ’e chilli tre è figlio a me...86
A questo punto Filumena capitola: «Tu si’ ancora a tiempo. Male nun te ne voglio... Lasciammo sta ’e cose comme stano, e ognuno va p’ ’a strada soia»87. Domenico esasperato accoglie la proposta e nel chiamare i ragazzi, per comunicare loro l’annullamento delle nozze, si sente rispondere dai tre in coro «Sì, papà!»88. Adesso Domenico capisce: tutti e tre adesso si sentono figli suoi, pur credendo ognuno di non esserlo; così lui, accettato per padre, li accetta come figli89. Avviene il matrimonio fuori scena, e dopo qualche brindisi cala la tela sull’ultima battuta di Domenico, mentre Filumena sta finalmente piangendo:
DOMENICO (stringendola teneramente a sé). È niente... è niente. He curruto... he curruto... te si mmisa appaura... si’ caduta... te si’ aizata... te si’ arranfecata... He pensato, e ’o ppensà stanca... Mo nun he ’a correre cchiù, non he ’a penzà cchiù... Ripòsate!... (Ritorna al tavolo per bere, ancora, un sorso di vino) ’E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte eguale... Hai ragione, Filume’, hai ragione tu!... (E tracanna il suo vino, mentre cala la tela)90.
86 Ivi, p. 243.
87 Ivi, p. 245.
88 Ivi, p. 246.
89 Come nota Felicity Firth «L’uomo incapace di affrontare la vita è una figura consueta. Lo si ritrova in Domenico Soriano, nei primi due atti di Filumena Marturano; al terzo, lo stesso Domenico scopre, come molti altri personaggi di De Filippo in chiusura di commedia, che fuggire dalla realtà non costituisce una risposta». Felicity FIRTH, Un’affermazione di vita, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit., p. 68.
90 Eduardo DE FILIPPO, Filumena Marturano, in Cantata dei giorni dispari cit., p. 248. Eduardo teneva molto a quest’ultima battuta, reputandola rappresentativa dell’intera commedia. Si risentì infatti del taglio di questa nella messinscena di Zeffirelli: «So che la Plowright ha contribuito all’abolizione della battuta finale di Domenico, ma tu ti devi imporre per dare alla commedia il giusto significato che l’autore ha voluto darle, e cioè la capitolazione assoluta dei privilegi borghesi nei confronti del diritto 168
3.3 «La paura numero uno»
La trama de La paura numero uno non è strettamente connessa alla critica familiare che attraversa alcune commedie eduardiane. Ciononostante troviamo in quest’opera una “storia nella storia”, il dramma di una maternità tormentata che si interseca alla vicenda primaria, quella di un uomo ossessionato dalla minaccia di un’ipotetica terza guerra mondiale (Matteo Generoso, simbolo della società della “guerra fredda”).
Già nel primo atto incontriamo la figura di Luisa Conforto, una donna che ha perduto il marito e un figlio per colpa della guerra («mio marito l’ho perduto nell’altra guerra... disperso... nemmeno il conforto di sapere il posto dov’è sotterrato... L’altro figlio mio, Gastone, preso e fucilato dai tedeschi nella guerra passata... Mariano sbandato per la stessa guerra... Iddio me lo volle salvare per puro miracolo...»91) e per questo adesso è morbosamente attaccata all’altro, Mariano. Questo sentimento viene esternato in uno sfogo con Virginia Generoso:
LUISA. No, non potete capire quali sono i sentimenti veri che mi spingono a certe manifestazioni che possono apparire esagerate agli occhi degli altri. Sono una donna sola. Resto per molte ore della giornata sola. E non ne faccio colpa a nessuno: voglio sta’ sola. E penzo, penzo... Voi siete anziana come me; tenite na figlia, e mi potete considerare. Io penso che non faccio abbastanza per lui; di tutti all’uguaglianza [...]». Lettera da Roma del 22 novembre 1979, cit. in Maurizio GIAMMUSSO, Vita di Eduardo cit., p. 349
91 Eduardo DE FILIPPO, La paura numero uno, ne La cantata dei giorni dispari, vol. I, Torino, Einaudi, 1998, p. 474.
169
che nun ’o voglio bene come sarebbe giusto; che... dentro di me... non mi giudicate male... forse nun ’o voglio proprio bene. Che ho voluto troppo bene a Gastone, il fratello. E che perciò sono stata punita92. Questa figura materna angosciata dal senso di colpa, vittima del timore di perdere anche l’ultimo figlio, è un prodotto della guerra. La guerra, che tanto ha sconvolto l’istituto familiare, dove non ha ucciso ha lasciato famiglie mutilate. Quando Arturo, il fratello di Virginia, induce Matteo a pensare che sia scoppiata una terza guerra mondiale, nel tentativo di distoglierlo dalla sua fissazione, Luisa ci crede. Nel timore di vedersi portar via anche l’ultimo figlio, lo imprigiona; proprio il giorno del suo matrimonio con la figlia dei Generoso, lo mura in una stanza:
MARIANO. [...] Aveva lasciato solamente un foro per passarmi il mangiare. Infatti mi portò latte e caffè. «Mammà, mammà, che avete fatto? Evelina, il padre, la madre mi stanno aspettando!» «C’è la guerra figlio mio... c’è la guerra... Bello ’e mammà, quando finisce ti faccio uscire!» mi sono disperato, ho gridato: niente... faceva finta di non sentire93.
Anche quando, nel terzo atto, le viene chiesto «Ma gliel’hanno detto che la guerra non c’è, e che fu tutta una storia inventata?», Luisa risponde che «la guerra c’è»94. Ma infine Luisa si rasserena, lascia partire i due sposi novelli e consola addirittura Virginia: «Donna Virgi’, ma perché voi pensavate di tenervela sempre vicina, la figlia vostra? Noi siamo i genitori, non siamo i proprietari dei figli». Così, infine, Luisa Conforto è costretta a 92 Ivi, p. 453.
93 Ivi, p. 489.
94 Ivi, p. 497.
170
deviare quel sentimento di possesso che aveva verso il figlio sulle sue creazioni, le marmellate:
LUISA. Io mi affeziono a queste marmellate. ’E vvoglio bene, come se fossero creature mie. Quando sto sola e me vene ’o gulìo ’e nu poco d’amarena, per esempio, io ci parlo come se fosse una persona viva. «Quanto sei buona. Come sei saporita. Ti ho fatta io, con le mie mani. Sono proprio contenta di come sei riuscita». E loro mi rispondono, dandomi un poco di dolcezza. L’unica dolcezza che ha il diritto di pretendere dalla vita una povera donna come me. [...] È robba mia. Ma è difficile. La marmellata è veramente mia e nessuno me la tocca. E po’ io tengo ’a chiave. E non commetto un reato se la chiudo dentro. [...] (Con tono di voce bonario, comprensivo) Vostra moglie poco fa ha detto: «Beata voi che ve la pigliate allegramente». Don Matte’, ho tolto il respiro ai miei figli. Da quando cominciarono ad avere uso di ragione. Se tardavano mezz’ora per tornare a casa pensavo subito ad una disgrazia. Per non farli uscire organizzavo trattenimenti in casa, invitavo ragazze carine, giovani: niente, non li potevo frenare. E qualche volta mi facevano capire apertamente che la mia presenza dava fastidio. Scappavano, se ne andavano. Me dicevano nu sacco ’e buscie per vivere per conto loro una vita che non mi doveva riguardare. Don Matte’, a Mariano l’ho chiuso dentro con un muro di mattoni e cemento. E nun se n’è scappato?... E se uno di voi andava a denunziare il fatto, le autorità non mi avrebbero rinchiusa in manicomio? [...] (Non può controllare più i suoi sentimenti. La voce diventa opaca, mozzata da qualche lieve singulto subito represso) Don Matte’, vi ricordate le ordinanze tedesche 171
dalla radio? «I giovani che non si presentano al Comando saranno puniti con la morte... I genitori che nascondono i propri figli saranno fucilati sul posto». E avrei lottato ancora, ma avevo capito che Mariano mi avrebbe odiato. Un giorno mi ha detto: «Ma lasciami campare! Questa generazione passata! Prima ci avete inguaiati...» Don Matte’, vi giuro davanti a Dio che non sono pentita di quello che ho fatto, no! No, sono felice! Per quindici giorni l’ho sentito un’altra volta figlio mio, come quando ce l’avevo qua. (Con tutte e due le mani aperte si batte ripetutamente sul ventre) Come quando, durante i nove mesi di gravidanza, trovavo modo di rimanere sola con lui, sdraiata sulla poltrona, con le mani come le tengo adesso, per parlarci. (Si tocca ancora il ventre) E lui si muoveva dentro e mi rispondeva; mi rispondeva dandomi una dolcezza che voi non potrete mai immaginare! Io capivo lui, e lui capiva me, poi non ci siamo capiti più95.
3.4 «Bene mio e core mio»
Tralasciando per il momento l’analisi di Mia famiglia, alla quale è dedicato l’ultimo paragrafo di questo capitolo, un’altra commedia dedicata alla famiglia, amaramente96, è Bene mio e core mio. Il significato del titolo 95 Ivi, p. 502­504. Secondo Eric Bentley in questa e in altre commedie eduardiane le pietas familiari «sono la roccia basilare da cui tutto il resto, forse anche la sanità mentale, è stato portato via a colpi di cannone. I sani di mente sono solo ipocriti e complici dell’offensiva generale. Il senso di umanità si è rifugiato nei pazzi e negli infermi. [...] La vecchia Luisa Conforto della Paura numero uno non ha bisogno di venir convinta da altri per credere che sia scoppiata la guerra perché sostiene che essa è già in atto. Privata di entrambi i figli può chiamare “suoi” solo i barattoli di marmellata e di conserva». Eric BENTLEY, Eduardo De Filippo e il Teatro napoletano, in AA.VV., Eduardo nel mondo cit., pp. 40­42.
96 Eduardo ebbe a dire, riferendosi a questa commedia: «la famiglia è diventata e resta un’istituzione 172
lo spiegò l’autore in un volantino agli spettatori della prima milanese, il 13 dicembre 1955:
“Bene mio e core mio” è l’espressione abituale con la quale la gente del mio paese diagnostica e sintetizza ironicamente il tiro mancino che di sovente viene praticato ai suoi danni da una insospettabile persona di famiglia [la quale] riesce altresì a far risultare lo spirito di sacrificio che determinò il suo gesto, nonché la colpa totale e l’intera responsabilità delle conseguenze che ne deriveranno a carico del congiunto danneggiato97.
Al centro della vicenda sono due fratelli, Lorenzo e Chiarina Savastano, un restauratore e una quarantenne nubile. La scena si apre su una lite fra i due. Chiarina in piedi sul davanzale vuole suicidarsi. «O – e sarebbe più attendibile – sta minacciando di farlo, per ricattare e piegare la volontà di qualcuno, ad uno scopo preciso», come ci indica la didascalia iniziale98. Chiarina accusa il fratello di aver deciso di apportare dei cambiamenti alla casa paterna senza averla prima consultata, ma lui la smentisce; lei gioca il ruolo della vittima e martire della famiglia: CHIARINA. Mi sta offendendo da quando ha capito che non sono scema completamente. Perché è così. Il fatto di mostrarsi compiacente e arrendevole e sempre pronta a qualunque richiesta di sacrificio, non si attribuisce a uno spirito altruistico, spinto fino all’annullamento d’ogni basata sull’ipocrisia e l’interesse». Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di studenti, Roma, Teatro Eliseo, 1976, cit. in Isabella QUARANTOTTI, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite cit., pp. 172­174.
97 Il testo è riportato ne «Il Dramma», dicembre 1955, pp. 54­55.
98 Eduardo DE FILIPPO, Bene mio e core mio, ne La cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998, did., p. 95.
173
proprio diritto, no; ma a fessaggine vera e propria. Quando poi, la persona, un bel giorno, si sveglia e dice: «Vuò sapé ’a verità mi sono stancata di fare il comodo degli altri; da oggi in poi voglio fare un poco pure il comodo mio», allora l’altro, visto che ha perduto il privilegio non si può fare capace: «Ma come? Quella è stata fessa tanto bello fino a pochi minuti fa; come si permette di giovarsi, da un momento all’altro, del diritto al ragionamento comune?» E s’imbestialisce99. Lorenzo, che come tutti i protagonisti eduardiani non è mai “buono” fino in fondo, accusa la sorella di essere inacidita dal lungo nubilato: «Tu non hai la cognizione del tempo che è passato (con una punta di cattiveria) pecché si’ rimasta zetella, e te cride sempre ca tiene quìnnece anne»100. Chiarina non demorde, e a proposito dell’annunciata intenzione del fratello di sposarsi una straniera si finge preoccupata per lui («Quando si saranno calmati i bollenti spiriti dei primi tempi, il periodo fisiologico di carattere internazionale, diciamo... alla prima discussione: “Io sono tedesca e tu sei italiano”»101), poi ammette il suo principale timore: diventerebbe la serva della cognata.
Infine Lorenzo, esasperato, decide di interrompere la relazione, ma di accettare una proposta di affari che lo porta in America: «Deve andare a restaurare dei quadri antichi in casa di un miliardario, il quale da cinque mesi lo sta subissando di lettere e telegrammi. Ma lui non ne voleva sapere, pure perché io lo sconsigliavo»102, dice Chiarina ammettendo il suo egoismo.
99 Ivi, pp. 103­104.
100 Ivi, p. 101.
101 Ivi, p. 104.
102 Ivi, p. 109.
174
In chiusura d’atto, fa la sua comparsa Filuccio, il verduraio del quartiere. «Entra col suo incedere spavaldo, vanesio, invadente. Spavaldo perché sa di poter contare sulla struttura solida del suo fisico massiccio. Vanesio perché ha successo con le cameriere del rione. Invadente perché manca assolutamente del senso della misura»103. Stabilito un contatto con Chiarina, riesce a rubarle un bacio, sul quale si chiude il primo atto.
Dieci mesi dopo troviamo Chiarina incinta di Filuccio, e Lorenzo di ritorno dall’America. La situazione adesso si è ribaltata e Chiarina attende con ansia il ritorno del fratello, mentre fanno il loro ingresso Filuccio e suo zio Gaetano («tronfio partenopeo di eloquio un po’ camorrista»104) intenzionati a definire con Lorenzo la situazione. Quest’ultimo, arrivato e messo a conoscenza dell’accaduto dal vicino di casa che lo ha prelevato alla stazione, indugia sulla porta di casa dieci minuti. Poi entra in scena e si mostra sereno e disposto alla discussione. Matilde, la vicina, è senza parole, come gli altri:
MATILDE. [...] Voi non state parlando come ci aspettavamo, e come avreste il diritto di parlare. Mio marito ci ha detto che quando avete saputa la notizia vi siete arrabbiate al punto che non volevate salire...
LORENZO (precisando ciò che Matilde avrebbe stentato a dire). ...e adesso sto qua, parlando con tutta la calma, senza spaccare nemmeno una sedia, senza rompere nemmeno un oggetto contro il muro... [...] Vedete , donna Mati’, quei dieci minuti di sosta sul portone di casa sono stati utili per tutti quanti, Quelli che non vedevano l’ora di raccontarmi la notizia con tutti i dettagli, hanno avuto il tempo di liberarsi del peso che avevano sullo stomaco; ed 103 Ivi, did., p. 110.
104 Anna BARSOTTI, Nota storico­critica a Bene mio e core mio cit., p. 88.
175
io, quello di capire che, più si affronta con calma e serietà il fatto, meno faremo ridere la gente105.
Ora che Lorenzo è stato messo al corrente dell’accaduto, e che ha acconsentito al matrimonio tra Chiarina e Filuccio, iniziano le trattative. Qui si cominciano a percepire quelle che sono le vere mire di Filuccio. La storia si complica. Filuccio lavora in una bottega che fu del padre, ed è ora in mano alla donna che questi sposò in seconde nozze, prima di morire. La famiglia, oltre a Filuccio, la matrigna (“la vicchiarella” la definisce lui) e il fratello del padre, comprende un fratello ritardato, Pasqualino. Proprio davanti alla loro bottega si trova una proprietà di Lorenzo, un locale sul quale Filuccio aveva messo gli occhi e che la sorella vorrebbe ora come dono di nozze. Il locale comprende anche quattro stanze che i novelli sposi potrebbero usare come abitazione. Dopo lunghe e difficili trattative, si arriva ad un accordo:
LORENZO. Lasciatevi guidare da me. Faremo le cose in regola e con la piena legalità. Per ora non c’è bisogno di prendere in fitto una casa; restate qua; ’a casa è grossa e non ci daremo fastidio. Per il deposito [...] faremo un affitto regolare, fissando un tanto al mese di pigione. [...] Per le quattro camere, ci metteremo d’accordo dopo [...]. Se le cose si mettono bene, e Filuccio dimostra una seria attività, quando Chiarina mette al mondo l’erede, io piglio il deposito con le quattro camere e ve li cedo come regalo di nozze.
[...]
FILUCCIO. E quando vi sarete deciso, io non voglio niente per me; io tengo ’e braccia per lavorare; la proprietà la dovete intestare a mia madre, a quella povera donna, che 105 Ivi, p. 136.
176
rimane sola con un figlio scemo: mio fratello.
LORENZO. Questo ti fa ancora più onore. Nun ce penzà: ’a mamma è mamma. ’A Vicchiarella ’a mettimmo a posto106.
Prima che il secondo atto finisca fa il suo ingresso Virginia, la matrigna di Filuccio, che con sorpresa di tutti è «una bellissima donna di trentasei anni»; i suoi gesti sono controllati «affinchè denunzino un complesso religioso spinto fino alla superstizione», che non riesce ad armonizzare «con la flessuosità del suo corpo invadente»107. La chiusura è sarcastica:
LORENZO (puntando uno sguardo ironico su Filuccio, bruscamente gli chiede). ’A vicchiarella?
FILUCCIO (a denti stretti e con un mezzo sorriso amaro, conferma). ’A vicchiarella108.
Nel terzo atto Lorenzo fa una scoperta inquietante: Pasqualino, nella sua ingenuità, racconta che il padre parla ancora a Virginia «dalla pancia di Filuccio», il quale facendo leva sulla superstizione della matrigna, riesce a controllare le sue decisioni:
PASQUALINO. [...] Papà sta al camposanto, ma sta pure dentro Filuccio. (E continua a tagliare) Quando vuole parlare con mammà, Filuccio si addormenta e papà si sveglia... E quando si sveglia parla da dentro alla pancia di Filuccio. Poi, quando ha parlato, papà si addormenta e Filuccio si sveglia. E quando si sveglia non si è accorto di niente, e nun sape nemmeno quello che papà ha detto a 106 Eduardo DE FILIPPO, Bene mio e core mio cit., p. 145.
107 Ivi, did., p. 146.
108 Ivi, p. 148.
177
mammà.
LORENZO (falsamente convinto). Guardate... E tu non sai che lle dice papà a mammà?
PASQUALINO. Sì! E mammà non si può sposare un’altra volta, perché papa non vuole. Lo dice sempre: «Se ti mariti, io non esco dalle fiamme del Purgatorio»109. Lorenzo capisce la situazione e trova il modo di restare solo con donna Virginia. Deciso a mostrarle la realtà per quella che è, le regala un broccato “magico”, inventando una storia che la induca a credere che il tessuto sia in grado di guarirla dai suoi malesseri psicosomatici110. Virginia, convinta, è ora serena, e Lorenzo ne approfitta per chiederle «con puerile semplicità»: «Virgì, ce vulimmo spusà?» Lei acconsente e Lorenzo portata la situazione a suo vantaggio – non solo il locale resterà di suo possesso, ma acquisirà la proprietà della bottega di Filuccio – avverte i due sposi promessi delle decise nozze con Virginia, e lasciandoli increduli chiude la commedia con questa battuta:
LORENZO. Filu’, e mi raccomando: quando qualche volta andrai a trovare mammà, nun ’o fa’ venì cchiù a papà: so’ geluso111.
109 Ivi, p. 152.
110 Osserva Barsotti: «La favola, come sempre, contiene una metafora: “tutto il mistero consiste nel disegno e nei colori”; il disegno segue il percorso del pensiero, che nel groviglio finale “cancella inesorabilmente la macchia scura del colore triste che ognuno di noi porta sulla coscienza”, il nero; una volta cancellato il colore triste, entrano in funzione quelli allegri, “il rosa, il rosso, il celeste, il verde...” (Cantata dei giorni dispari, vol. II, p.167). È la poetica dei colori di Eduardo, di quelle “parole colorate” che tentano di opporsi nel suo teatro come nella sua poesia, alle parole “nere” o “grigio scure” dell’ipocrisia e del potere». Anna BARSOTTI, Nota storico­critica a Bene mio e core mio cit., p. 90. 111 Ivi, p. 167.
178
3.5 «Sabato, domenica e lunedì»
La vicenda di Sabato, domenica e lunedì si svolge, appunto, in tre giorni, che corrispondono temporalmente ai tre atti112. «Questa corrispondenza – osserva Barsotti – significa un ritorno [...] all’intenzione poetica dell’autore di realizzare, mediante la scena, l’illusione della “vita che continua”»113.
La commedia è ambientata in casa Priore, e ci presenta una famiglia patriarcale costituita da tre generazioni: quella degli anziani ha un solo esponente, Antonio Piscopo, il padre di Rosa; quest’ultima con suo marito Peppino Priore e i cognati Raffaele e Amelia, costituiscono la generazione di mezzo; ad essi si affiancano i vicini di casa, i signori Ianniello, Luigi e Elena; i “giovani”, infine, sono costituiti dai figli dei Priore, Giulianella, Rocco e Roberto, la moglie di quest’ultimo, Carolina, il figlio di Amelia, Attilio, e Federico, amico di Rocco e fidanzato di Giulianella.
Ogni personaggio è indispensabile all’azione114, e l’opera, dietro un apparente buonismo cela un messaggio più complesso. Federico Frascani osserva che la commedia
pur se ritorna sull’argomento dei rapporti tra congiunti non per pervenire a un’amara constatazione o far squillare un campanello d’allarme, ha un suo sentito e persuasivo avvertimento da trasmettere. Eduardo questa volta vuol 112 Parlando di questa commedia Eduardo la definì «come una vita che si svolge in tre giorni». Eduardo DE FILIPPO, Lezioni di teatro, Torino, Einaudi, 1986, p. 15.
113 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., pp. 335­336.
114 Osserva Federico Frascani che la commedia «non ha un personaggio che non sia definito a dovere, che non sia plausibile; non ha una scena, una battuta, che non risultino essenziali». Federico FRASCANI, Eduardo, Napoli, Guida, 1974, pp. 109­110.
179
soprattutto farci riflettere sul pericolo insito in certi silenzi stagnanti fra le pareti domestiche; e, in particolare, sulle conseguenze irreparabili che possono derivare da ingiustificate reticenze nei rapporti tra marito e moglie. Certe pericolose tensioni non si attenuano, ammonisce implicitamente l’autore, «parlando d’altro». Queste parole, scritte tra virgolette, caratterizzano, come è noto, il comportamento dei personaggi, appartenenti a quel teatro che fu definito «intimista». E appunto una commedia sostanzialmente intimista è Sabato, domenica e lunedì, ad onta di certi suoi risvolti comici che teatralmente la ravvivano, senza intorbidarne il lirismo di fondo, né sminuirne la plausibilità psicologica115.
Il primo atto, il sabato, comincia con la preparazione del pranzo domenicale, e ci mostra i coniugi Priore in atteggiamento di insofferenza reciproca. Peppino è «un onesto e simpatico commerciante del Rettifilo»116, sua moglie è una donna piacente, decisa e imponente117. Mentre Rosa prepara il ragù Peppino si mostra contrariato all’idea di aver a pranzo il giorno dopo i signori Ianniello: «Uno aspetta la domenica per passare una 115 Ibidem.
116 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998, did., p. 399. Il Rettifilo, ufficialmente Corso Umberto I, è una strada napoletana centrale dal punto di vista commerciale.
117 Achille Fiocco così la descrive: «una povera moglie e madre, che si trascina dalla mattina alla sera dietro al marito e ai figli, [che] a un tratto cambia sistema, non cura più il marito, non gli fa più le gentilezze di prima, e lui, a cinquantasette anni, ne è geloso, è geloso di lei, che ne ha cinquantatre, e alla fine si chiarisce che tutto questo ha origine da un motivo futilissimo [...] e tutto questo porta alla scoperta del bene, che si sono sempre voluti, del bene, che si vogliono come non mai, perché è un bene, che ha scoperto l’intimo perché di se stesso: sotto l’apparenza banalissima, quella moglie trascurata è una donna coraggiosa e accorta, che ha saputo salvare l’integrità dell’amore, e l’uomo vi si riflette intero». Achille FIOCCO, Teatro universale dal Naturalismo ai giorni nostri, Bologna, Cappelli, 1971, pp. 225­226.
180
giornata in famiglia... nossignore ci vogliono i signori Ianniello a tavola»118. La storia procede con l’ingresso in scena degli altri personaggi e di vicende periferiche: il nonno che stravede per il nipote Rocco; questi che si mostra “scostumato” nei confronti della madre e lei che lo caccia in malo modo; zia Memele (Amelia) che fa sentire malato il figlio per tenerlo vicino a sé («era un ragazzo svelto che nel negozio poteva rendere – dirà Peppino nel terzo atto – ma mia sorella l’ha rimbambito»119); zio Raffaele che si prepara per il giorno successivo a recitare Pulcinella; una piccola lite tra Giulianella e il fidanzato; l’incomprensione tra padre e figlio, che hanno intrapreso strade diverse aprendo quest’ultimo un negozio più moderno. La discussione con Rosa monta sul filo della difficoltà di comunicazione fra i due coniugi, che è poi la morale della commedia:
PEPPINO (come rilevando una dura quanto evidente fatalità). Non ti controlli più.
ROSA (sincera). Ma che dici? Che significa: «non ti controlli più»?
PEPPINO (ambiguo). Tu mi capisci.
ROSA. No, non capisco. Sei tu che ti devi spiegare. Io capisco soltanto che tutto quello che faccio in questa casa è perduto. (D’improvviso perde ogni lume di ragione e si mette a gridare come fosse stata presa da un attacco di isterismo) Avete capito don Peppi’? Non voglio più combattere con i figli, i parenti, la pazienza ha un limite. […] (battendo ripetutamente la mano sul tavolo). Qua... qua... tutta la mia vita qua dentro a fare la serva, a servire tutta la famiglia, come una vaiassa120.
118 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì cit., p. 402.
119 Ivi, p. 432.
120 Ivi, pp. 421­422.
181
Rosa esce avvertendo «mi devono tagliare le mani se metto più piede in cucina»; anche Peppino si veste e esce di casa. Zia Memé manda via la cameriera ed esce di scena col figlio spegnendo la luce e lasciando la scena vuota. Dopo pochi istanti
Rosa entra mogia mogia e riaccende la luce. Poi si avvicina al fornello e rimette il tegame con il ragù sul fuoco. Ora va alla dispensa e trae da essa una cartata di maccheroni di zita e una grande insalatiera. Sempre lentamente si avvicina al tavolo e si dispone a spezzare i maccheroni. Il sipario scende lentamente e allontana insieme ai singhiozzi repressi della donna e qualche frase mozza, pure quel tinnire allegro e promettente degli ziti spezzati che la mano esperta lascia cadere nella grande stoviglia di porcellana121.
Atto secondo, la scena rappresenta adesso la sala da pranzo. La tavola è fastosamente apparecchiata per il pranzo domenicale. In scena Antonio con il sarto, sta provando il vestito per l’inaugurazione del nuovo negozio di Rocco, e lo attende per mostrargli l’abito; ma alla notizia che forse il nipote non verrà – per una discussione avuta il giorno prima con la madre –, Antonio la prende sul personale: ANTONIO. [...] Vi ho detto tante volte che quello che fate a Rocco lo fate a me. Quel povero ragazzo si sente oppresso in questa casa. Tu (indica Rosa) lo maltratti perché sei superba e ti credi una Padreterna, e lui (indica Peppino) lo sevizia in malafede.
PEPPINO. In mala fede?
121 Ivi, did., p. 423.
182
ANTONIO (precisando). Per l’invidia122.
Antonio accusa Peppino di essere invidioso del nuovo negozio che Rocco vuole impiantare per suo conto. Il vecchio solleva un problema che già si era presentato anni prima, come manifestazione di un gap generazionale:
PEPPINO. Siete ingiusto, scusate. [...] Che bisogno aveva di fare un tentativo quando le cose al Rettifilo andavano bene?
ANTONIO. Il negozio al Rettifilo non è più all’altezza dei tempi.
PEPPINO. Ma scusate, quando ventisei anni fa presi nelle mani le redini del negozio al Rettifilo e dissi che non era più adatto ai tempi e che i soli cappelli non rendevano più per cui bisognava trasformarlo in cappelleria e articoli di abbigliamento, n’altro poco facevate correre i carabinieri, e non ci volle poco per convincervi; adesso che si tratta di Rocco tutto va bene e nessuno si deve permettere di contraddirlo?123
Antonio se ne va di malumore. Entrano i signori Ianniello: il ragioniere reca per la padrona di casa una cassata alla siciliana, perché «una sera, parlando di dolci, donna Rosa disse che usciva pazza per la cassata alla siciliana». Arrivano anche gli altri commensali, tutti si siedono a tavola. Questa scena è il centro della commedia, non solo perché situata a metà del 122 Ivi, p. 427.
123 Ivi, pp. 427­428. Barsotti ha definito questa una delle commedie che rappresentano un antitesi «tra presente e futuro», indicando nei “giovani” la via della comprensione per i “vecchi”. Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 54.
183
secondo atto; è descritta in una delle didascalie registiche più poetiche124 del teatro eduardiano:
Tutti meno Peppino si accostano al tavolo per conquistare un posizione più comoda che consenta loro libertà di gesti, curando ognuno di limitare al massimo i propri per rendere più agevoli quelli del vicino. Questa scena deve essere concertata in modo perfetto. Essa ha una grande importanza ai fini della commedia, il cui contenuto è, o lo è per me, ben chiaro: caratteri, sentimenti umani, costume. Il regista senza preoccuparsi di annoiare il pubblico, solo in questo momento, farà rivivere un pranzo domenicale napoletano, elevandolo, come le famiglie napoletane lo elevano, all’altezza di un rito. Ognuno conosce l’importanza del proprio compito e l’apporto personale che deve dare alla perfetta riuscita della funzione. I piatti fondi passano di mano in mano come un giuoco clownesco da circo equestre, e vanno a formare una pila che mano mano aumenta di proporzioni, davanti a donna Rosa. Donna Risa maneggia il mestolo d’argento con disinvolta perizia. La mano esperta della donna conosce l’appetito dei familiari e degli ospiti. Nessuno osa opporsi a quella saggia ripartizione. La prima ad essere servita è la signora Elena Ianniello: un mestolo solo. Forse ripeterà perché sono davvero promettenti quei maccheroni, ma non ama vedere il piatto colmo, si 124 Proprio la “poesia” del teatro di Eduardo lo esula dal frequente accostamento ad altri autori del Novecento (cfr. Claudio MELDOLESI, La trinità di Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro nazionale, in Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 57­87). Secondo Carlo Filosa nel suo teatro «si coglie quasi sempre [...], a differenza di quanto accade per solito nei lavori di Pirandello e degli autori italiani del «grottesco» e del teatro esistenzialista e, soprattutto, di quelli del cosiddetto «teatro dell’assurdo», una vena d’incalzante e semplice umanità, di poesia». Carlo FILOSA, Eduardo De Filippo. Poeta comico del «tragico quotidiano», Napoli, La Nuova Cultura, 1978, pp. 30­31.
184
avvilisce. Zia Memé? Per carità... meno di un mestolo pieno. Perché preferisce mangiarli la sera per cena riscaldati e quasi bruciacchiati: ne va pazza. Don Peppino riceve la sua porzione e l’accoglie con indifferenza, ha altro per la testa lui. Il nonno non ama il piatto fondo. Adora l’insalatiera di media grandezza che contiene quasi mezzo chilo di pasta. I maccheroni suoi li vuole conditi a parte e lì dentro. Poi è la volta del dottore, Ianniello e gli altri. Quei due piatti colmi e ricoperti con altri due capovolti, sono stati messi ai posti dove si dovranno sedere Rocco e Federico. [...] L’euforia dei commensali, fatta di esclamazioni di gioia e di esultante ammirazione che abbiamo sentito esplodere, all’unisono, nell’attimo in cui Virginia ha mostrato la «sacra insalatiera», si va calmando e vieppiù affievolendosi fino a raggiungere un silenzio fitto che definirei «silenzio del Ragù», che può essere interrotto soltanto da un traffico discreto fatto di cigolii di sedie, tintinnii di bicchieri e fastidiosi stridii di forchette golose nei piatti125.
Il ragioniere Ianniello continua, invadente, a coprire donna Rosa di elogi e attenzioni, defraudando il marito del suo spazio. Quando Rosa chiede a bruciapelo al marito – che per tutto il pasto è restato in disparte – per quale motivo non mangi, lui le risponde che non ha appetito e ancora una volta il ragioner Ianniello si infiltra: «avete torto perché il ragù di donna Rosa non si rifiuta mai»126. Il pranzo prosegue e zia Memé racconta ai commensali dell’autobiografia che sta scrivendo, incentrata sulla sua movimentata vita matrimoniale, dal titolo Sì, ma ci vuole coraggio. Peppino coglie il momento per alludere: «Proprio così: ci vuole coraggio, 125 Eduardo DE FILIPPO, Sabato, domenica e lunedì cit., did., pp. 443­444. Il corsivo è nostro. 126 Ivi, p. 447.
185
pulizia interna, purezza di sentimenti. Io non sono istruito come il dottore e mia sorella [...] ma capisco più di quello che la gente crede. So cogliere i particolari, le sfumature di una situazione e mi rendo conto della ipocrisia, la falsità e del furto continuato e l’abuso di fiducia»127. La rabbia di Peppino monta:
PEPPINO (non gli reggono i nervi e decide di vuotare il sacco). Io per questa donna non esisto più, mi tratta come se fossi un servitore. La mattina quando esco di casa per andare al negozio non se ne accorge nemmeno. [...] Da quattro mesi donna Rosa si è cambiata nei miei confronti. Non mi parla più. Se la interrogo, appena appena risponde. Tutto quello che faccio io è mal fatto, non mi posso muovere che le do fastidio. Insomma un insieme di cose che mi dicono chiaramente quanto e come navighiamo io e lei in un mare torbido e infetto128.
Finalmente esplode:
PEPPINO. [...] Vergogna! E io seduto qua (batte con violenza la mano sul tavolo) fesso fesso, in continua ammirazione di questa tresca schifosa!129
Tutti rimangono senza parole. Il ragioniere, dapprima stupito, si mostra comprensivo nei confronti di Peppino: «per giungere a questo significa che il cavaliere, giustamente o ingiustamente, ha sofferto, perché chissà da quanto tempo si è tenuto in corpo, diciamo, “il rospo”»130. Rosa, «livida e 127 Ivi, p. 451.
128 Ivi, p. 453.
129 Ivi, p. 454.
130 Ibidem.
186
tutta tremante di sdegno»131 esclama tra le lacrime: «ricordati l’invito a colazione che mi facesti alla Casina Rossa a Torre del Greco e quello che mi dicesti a tavola»; poi stringendo fra le braccia il figlio Roberto aggiunge: «figlio mio... io e te simme vive pe’ miracolo»132, e sviene. Tutti accorrono e il secondo atto si avvia alla sua conclusione mentre Peppino, «che fino a quel momento è rimasto inchiodato al suo posto e chiuso in una convinzione che man mano ha perduto consistenza e valore realistico, ora si rende conto della gravità del momento e smaltisce la sua follia schiaffeggiandosi ripetutamente»133.
Il terzo atto si apre sul risveglio mattutino dei vari componenti della famiglia. Peppino chiede informazioni a zia Memé sullo stato della moglie. Lei lo rassicura dicendogli che Rosa sta inconsciamente ingigantendo il suo malore perché «si compiace del fatto che tutta la famiglia è seriamente preoccupata per lei»134. Peppino è distrutto e la sorella cerca di mostrarsi comprensiva:
ZIA MEMÉ. [...] La tua non è stanchezza fisica: è abbattimento morale. Uno crede di sentirsi liberato quando riesce a mettere fuori certe amarezze, che forse per anni non ha voluto dire; quando poi le ha dette gli rimane dentro un vuoto che fino a quel momento non avvertiva, e che è più amaro delle amarezze che conteneva135. Piano piano affluiscono nella stanza da pranzo i componenti della famiglia, chiedendo informazioni sulla salute di Rosa e sdrammatizzando i 131 Ivi, did., p. 455.
132 Ivi, p. 456.
133 Ivi, did., p. 456.
134 Ivi, p. 459.
135 Ibidem.
187
fatti del giorno precedente. Quando Giulianella dice, citando zio Raffaele, che la loro «è una famiglia da teatro comico napoletano», Peppino indispettito richiama la figlia alla serietà di ciò che è accaduto. Proprio la figlia riporta il padre alla giusta prospettiva e centra il problema della mancata comunicazione dei genitori.
GIULIANELLA. Papà, scusa se te lo dico, ma è la verità. Tu e mammà state diventando davvero ridicoli, tu per conto tuo e lei per conto suo. [...] Ma è mai possibile che non capite come vi dovete comportare per non farvi il sangue cattivo e per conservare il rispetto l’uno per l’altra? [...] Ma perché non vi dite le cose non appena succedono? State insieme da tanti anni e non avete saputo raggiungere un’intimità che vi possa permettere di dire pane al pane e vino al vino, l’uno con l’altra? Quando vi chiudete in camera per delle ore intere... io li conosco i vostri discorsi, perché quando ero piccola mi mettevo dietro la porta a sentire; adesso non lo faccio più perché mi sono scocciata di sentire sempre le stesse cose; vi raccontate i sogni che vi siete fatti, le malattie che vi sentite e «tu non vuoi mangiare questo e io voglio mangiare quello», pigliate a pretesto un motivo qualunque per litigare e il dito sulla piaga nessuno di voi due lo vuole mettere. Poi mi devo sentire gli sfoghi di mammà quando tu non ci sei e che tu sei un egoista e che non riconosci i sacrifici che fa lei, e che tu sopra e che tu sotto... e zia Memé quelli tuoi quando non c’è lei136.
Finalmente Giulianella svela il motivo per cui la madre è in collera con lui, quel “rospo” che Rosa non ha voluto tirar fuori. Quattro mesi prima, 136 Ivi, pp. 465­466.
188
ospitati a pranzo da Roberto e Maria Carolina, Peppino fece i complimenti alla nuora per i maccheroni da lei preparati: «Mammà tornò come una diavola quella sera»137.
Peppino comprende finalmente le conseguenze di una mancata comunicazione fra marito e moglie – e non solo. Chiama il figlio Rocco e lo avverte che parteciperà con gioia all’inaugurazione del suo nuovo negozio. Fa chiamare il ragionier Ianniello, che ora «ha perduto completamente la spontanea invadenza e la caparbia euforia che egli, inconsapevole, scambiava per qualità positive e indispensabili ad un uomo il cui obiettivo è quello di rendersi estremamente simpatico agli amici»138; Peppino si scusa con lui e lo invita di nuovo a pranzo per la domenica successiva. Ora arriva il momento più difficile, deve finire di tirar fuori “il rospo” con la moglie. Inizia spiegando il suo atteggiamento nei confronti del ragioniere:
PEPPINO. Ma come, io sono privo di raccontare un fatto che mi interrompi continuamente [...]... e quando parla il ragioniere stai tutta orecchi e non ti sfugge una parola? Quanto racconta una barzelletta stupida, lui, tu ti fai un sacco di risate, se la racconto io, nove volte su dieci o dici: «Scusa, non ho capito... stavo distratta» o dici: «Si, si, la sapevo; l’ha raccontata l’altra sera Rocco».
ROSA. Embè, tu dici che si deve raggiungere l’intimità fra di noi e poi ti dispiace che io mi alzo e me ne vado mentre tu stai parlando? Il ragioniere è una persona estranea, si capisce che quando parla uno deve mettere attenzione a quello che dice139.
137 Ivi, p. 466.
138 Ivi, did., p. 469.
139 Ivi, p. 477.
189
Peppino lamenta che per questa “intimità” da quattro mesi viene “trattato come un servitore”, ma quando vede che la moglie non vuole spiegarne la ragione, che lui conosce, non insiste. Però le chiede spiegazioni circa l’enigmatica frase del giorno prima – «Robe’ io e te siamo vivi per miracolo» – e lei gli ricorda di quando, giovani, lui fidanzato con una vedova “faceva l’amore” con Rosa; quando, in un primo momento, aveva deciso di lasciarla, lei non aveva replicato, ma ammette solo ora che già allora era incinta di Roberto, e lo aveva taciuto perché: «tu mi avresti sposata solo perché avevamo fatto un figlio»140. Finalmente
i due si guardano lungamente negli occhi e scoprono per la prima volta la vera natura dell’amore che li ha tenuti legati per tanti anni. Hanno insomma finalmente capito il motivo per cui due persone che vivono insieme si tormentano in un’ansia fatta di bene, di male, di dubbi e perfino di disistima e rancori reciproci141.
Infine Peppino chiede a Rosa: «Tengo nu desiderio. [...] Mi devi fare un bel ruoto di maccheroni al forno, alla siciliana, con le melanzane», lo stesso piatto che quattro mesi prima aveva lodato a Maria Carolina. Adesso invece sostiene: «vuoi mettere i maccheroni alla siciliana che fai tu e quelli che fa Maria Carolina?»142.
140 Ivi, p. 482.
141 Ivi, did., p. 482.
142 Ivi, p. 483.
190
II.4 Mia famiglia
4.1 Sinossi
La trama è sviluppata sulle vicende di una famiglia altoborghese napoletana, la scena si svolge in casa Stigliano. Alberto, il pater familias, si sente esautorato e per questo non si assume le sue responsabilità, intessendo una relazione con un’altra donna. Sua moglie Elena trascura la casa dedicandosi solamente al giuoco con le amiche del circolo. Il figlio Beppe, giovane arrivista, è entrato in contrasto col padre per aver rifiutato la proposta di un posto di lavoro alla radio: incitato dall’amico Guidone progetta di sfondare nel cinema, e riesce a farsi scritturare per un film a Parigi. La figlia Rosaria, che si distingue «per l’atteggiamento spigliato e moderno»143, in passato ha avuto una relazione con un uomo più grande di lei, con il quale ha diviso il tetto e – pare – il letto, prima di essere lasciata; è fidanzata con Corrado Cuoco, che sembra accettare in nome del suo carattere spavaldamente modernista il passato di Rosaria, pur dispensandole “schiaffoni” dai quali trapela qualcosa di represso. Alberto ha anche un fratello, Arturo, nostalgico ex militante fascista che vive per suo conto e vede come soluzione ai problemi familiari l’imposizione e la rettitudine. Fra gli altri personaggi di contorno (la cameriera, le amiche di Elena del circolo, il giornalista e il fotoreporter, i vicini di casa...) spiccano i signori Cuoco, Michele e Carmela, genitori di Corrado: la loro figura di genitori si contrappone a quella degli Stigliano, come vedremo nell’analisi 143 Eduardo DE FILIPPO, Mia famiglia, in Cantata dei giorni dispari, vol. II, Torino, Einaudi, 1998, p. 55. (D’ora in avanti le citazioni al testo in esame faranno sempre riferimento a questa edizione). L’osservazione è di un personaggio esterno, un giornalista, che indovina il suo carattere da una fotografia.
191
della commedia.
Il primo atto si apre su Beppe che, con l’amico Guidone, ride alle spalle del padre, ignaro della sua imminente partenza per Parigi. Nel frattempo arrivano Corrado e Rosaria, portando in scena la loro relazione disinvolta e moderna. Alberto, rientrato in casa sua, non degna nemmeno di uno sguardo i figli, e amareggiato constata la presenza in casa sua di Guidone. Scontroso verso tutti, porta i figli e Guidone a uscire, uno dopo l’altro, lasciandolo solo con Corrado. Anche il futuro genero non è stimato da Alberto, ma gli è simpatico; dal dialogo fra i due emerge che anche a lui era stato offerto il posto di lavoro rifiutato da Beppe, e anche lui lo aveva rifiutato. Amareggiato per l’atteggiamento di Corrado che se da un lato si mostra tanto “moderno” da accettare il passato di Rosaria, dall’altro si mostra con lei manesco ad ogni occasione, Alberto riesce a far uscire di scena anche lui. Dopo poco arriva Arturo, il fratello, che lo incita a risollevare le sorti della famiglia con autorità e fermezza, e soprattutto gli rimprovera il “cattivo esempio” dato con la sua relazione adulterina: Alberto risponde che trovandosi impotente di fronte a quello che succede non può fare altro che aspettare l’evolversi degli eventi. E questi precipitano quando torna a casa la moglie, Elena, che, dopo essersi mostrata inacidita e insofferente di tutto quello che la circonda, riceve la visita delle “amiche del circolo”; queste tre donne vengono a chiedere conto di un grosso debito di gioco contratto da Elena mesi prima, in seguito al quale non si è più fatta vedere. Alberto assicura alle tre signore che provvederà egli stesso al pagamento degli oneri della moglie e rimasto solo con lei viene a sapere che ha perso una cifra esorbitante: novecentocinquantamila lire. La situazione è più grave di quanto Alberto pensasse e, per il dispiacere, non riesce più a parlare. Cala il sipario sul primo atto.
192
Nel secondo atto la situazione cambia notevolmente, ma solo per alcuni aspetti. Sono passati quattro mesi e Alberto, speaker radiofonico, non ha più potuto lavorare. Per questo motivo Elena si è ingegnata ed è riuscita con duro lavoro a mettere su una piccola attività di sartoria. Veniamo a sapere che Beppe nel frattempo è partito per Parigi, subito dopo l’inizio della malattia del padre. Elena riceve in casa la visita improvvisa di un giornalista, che si professa un inviato di una rivista di moda, interessato alle attività della “donna che lavora”; ma intanto chiede foto dei figli, soprattutto di Beppe, e prima di andarsene si informa presso la cameriera circa i movimenti della famiglia Stigliano. Alberto, tornato dal medico, entra in scena per pochi momenti rispondendo a gesti alla moglie che si interessa del suo stato. Uscito di scena, Elena sente bussare alla porta, e nell’aprire si trova inaspettatamente davanti il figlio che, agitatissimo, viene raggiunto da Corrado e Rosaria: dal dialogo di questi si evince che Beppe è ricercato dalla polizia. Infatti mentre era a Parigi il produttore del film, che lo ospitava, è stato assassinato e lui, spaventato, è scappato per paura di essere coinvolto. Alberto durante il dialogo è silenziosamente entrato in scena e telefona alla polizia. Tutti stupiti si accorgono che Alberto ha ripreso la parola, per poi scoprire che non l’aveva mai persa, ma si era visto costretto ad isolarsi smettendo di parlare, perché inascoltato. Nell’attesa della polizia viene a sapere della presenza del giornalista, intuendone le intenzione scandalistiche. Inizia una dura requisitoria contro la sua famiglia, imputando alla moglie la responsabilità di quello che è successo, e rinfacciando al figlio che la sua ricerca di “indipendenza” ha finito per coinvolgere tutta la famiglia. L’atto si chiude tra i flash dei fotografi che riescono a intrufolarsi in casa Stigliano per preparare la cronaca del giorno 193
successivo.
Il sipario si leva stavolta su due personaggi nuovi, Michele e Carmela Cuoco, genitori di Corrado. Si viene a sapere che questi sono venuti di nascosto per le nozze del figlio, il quale li ha apertamente invitati a non presentarsi. In Michele Cuoco, uomo semplice dotato di una saggezza contadina, si scopre una figura paterna in netta antitesi con quella di Alberto. Quando stanno per partire, un altro colpo di scena porta in casa Rosaria tirata per un braccio da Corrado. Pentitosi del matrimonio, quest’ultimo vuol tirarsi indietro e ha riportato dai genitori la moglie. Questa, in lacrime, chiede di parlare da sola col padre, e gli racconta di come la perdita della sua dote (la verginità) fosse tutta una montatura per mostrarsi all’altezza dei giudizi della società “giovane e moderna”. Riscattatasi agli occhi del padre, questo la abbraccia e la tranquillizza: parlerà lui con Corrado, e sicuramente anche l’atteggiamento manesco del marito muterà. Elena invece parlando con Arturo lo inviterà a trasferirsi da loro, per tenerle compagnia ora che il marito è definitivamente andato a vivere da quell’altra donna. La commedia si chiude su Alberto che, uscendo, rassicura la moglie, con uno sguardo, che presto tornerà alla sua casa.
4.2 Storia della commedia
Mia famiglia è una commedia che Eduardo porta a termine alla fine del 1954. Poche settimane dopo, il 16 gennaio 1955, debutta al Teatro Morlacchi di Perugia; poi viene portata al Teatro Eliseo di Roma il 18 gennaio. Annunciata a Venezia l’estate del 1950, l’opera entrò in preparazione l’autunno seguente. In un’intervista a Silvio d’Amico del 194
1951 Eduardo già descrive uno dei temi della commedia: «l’incomprensione dell’uomo, l’uomo d’oggi, verso la sua compagna. Lui continua a chiederle di essere quella che sua madre fu per suo padre»; e vede in questo un problema «tipico dei nostri paesi»144. La commedia, che non incontra il gusto della critica né quello del pubblico, viene replicata da Eduardo145 solo due volte: il 7 marzo del 1955 al Teatro Odeon di Milano e il 10 maggio dello stesso anno al San Ferdinando di Napoli, oltre all’edizione televisiva del 1964.
Il testo sarà edito la prima volta da Einaudi nel 1956; due anni dopo viene pubblicata dagli stessi tipi nel secondo volume della Cantata dei giorni dispari (prima edizione); non presenta varianti nelle successive ristampe della Cantata. Ne I capolavori di Eduardo la commedia è presente già dal 1973 (prima edizione).
La lunga gestazione della commedia è data dai notevoli cambiamenti apportati, come si vede dal confronto fra la prima stesura, i vari copioni e l’edizione a stampa. Nel primo atto la maggiore variante è data dall’assenza di Arturo, il fratello del protagonista, e conseguentemente manca la scena del dialogo fra i due sul “disordine” della famiglia di Alberto. Il secondo atto inizialmente mancava della prima scena tra Corrado e Rosaria, rappresentativa del loro rapporto. Il mutismo di Alberto, inoltre, veniva interrotto da uno sfogo col giornalista Bugli, e nello stesso emergeva come tale artificio fosse all’inizio un’effettiva reazione psicologica al trauma del primo atto (mentre nell’edizione a stampa questo non è definito). Nel terzo atto, quello maggiormente modificato, viene dato un rilievo di gran lunga maggiore al personaggio di Michele Cuoco, che si intrattiene in una 144 Silvio D’AMICO, «Il Tempo», 3 gennaio 1951.
145 All’estero invece avrà maggiore fortuna. Lo si evince anche da un articolo di Enzo Biagi, che riporta: «nell’Urss, quaranta compagnie rappresentano contemporaneamente Mia Famiglia». Enzo BIAGI, La dinastia dei fratelli De Filippo, «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959.
195
discussione sulla sua passione per la ceramica. Inoltre al posto della scena di Corrado che irrompe in casa “riportando” la figlia ai suoceri, Rosaria originariamente entrava in scena da sola, piangendo, affermando di essere stata picchiata dal marito. Dopo la discussione col padre, questi usciva e rientrava poco dopo con Corrado che pubblicamente si scusava per il suo comportamento. Infine nel momento finale della commedia, quando Alberto ed Elena si salutano, lei lo invita a tornare e lui, con un breve cenno del capo che vuole significare un promettente «sì» (III, did., p. 81), esce di scena. Nelle versioni precedenti invece Alberto la rassicurava con un reiterato «sì, sì, sì...»146.
4.3 Fortuna scenica della commedia
Questa commedia «dell’incomunicabilità»147 sarà una delle più aspramente criticate, tacciata di moralismo e accusata di rappresentare «una famigliola come tante»148. Secondo Nicola Chiaromonte Eduardo, «nella lotta di un grande attor comico con se stesso per attingere alla serietà», fallisce nel suo intento; egli infatti sarebbe «rimasto vittima dell’illusione che, eliminando il comico, automaticamente si rivelasse la profondità della sua tristezza»149. Una netta stroncatura viene da Federico Zardi, che definisce la commedia «un enorme tonfo»; addirittura «nel secondo atto 146 Mia Famiglia, manoscritto del Gabinetto Viesseux, parzialmente riportato in Appendice a Mia famiglia, a cura di Paola QUARENGHI, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1483­1504.
147 Carlo FILOSA, Eduardo De Filippo. Poeta comico del «tragico quotidiano», Napoli, La Nuova Cultura, 1978, pp. 30­31.
148 Mario STEFANILE, Mia famiglia, «Il Mattino», 11 maggio 1955.
149 Nicola CHIAROMONTE, Mia famiglia, «Il Mondo», 1° febbraio 1955.
196
Eduardo viola il teatro»150. Una commedia «brontolona» e «moralista», questa, secondo Anton Giulio Bragaglia151.
Poche invece le critiche positive: ne citiamo alcune. Una «commedia validissima, ricca di umanità e di vigore», secondo Cavacchioli 152. Per Lucignani l’opera è addirittura «uno dei pezzi migliori del nostro teatro»153. Positiva anche la critica di Eligio Possenti:
Come autore, non era per lui facile superare i lavori precedenti, e dobbiamo notare che ha saputo tenersi alla pari con essi per la sincerità della psicologia, la pensosità delle battute e la felicità di certi passaggi che danno ai tre atti un’animazione che non varca mai limiti di un’abilità sorvegliata ed esperta. E oltre tutto il De Filippo ha scritto una commedia necessaria. Richiamare le eterne norme nel viver sano è oggidì un ardimento. Il De Filippo l’ha avuto, senza rispetti umani, apertamente, lealmente, convinto della tempestività della sua commedia in questi anni sconnessi, incerti, in cui tutti cercano un appoggio, una soluzione, una bussola. [...]
Eduardo De Filippo si aggiunge, con la originalità e la forza persuasiva della arte sua, alla schiera degli autori nostrani e stranieri che, preoccupati dell’avvenire delle generazioni, hanno tratto argomento dall’osservazione della vita d’oggi154.
Comunque Eduardo si dichiarò incompreso e in diverse occasioni 150 Federico ZARDI, «Cronache», 1° febbraio 1955, cit. in Paola QUARENGHI, Nota storico­teatrale a Mia famiglia cit., pp. 1349­1350. 151 Anton Giulio BRAGAGLIA, Un eccellente padre di famiglia, «Film d’Oggi», 27 gennaio 1955.
152 Luigi CAVACCHIOLI, «Oggi», 3 febbraio 1955.
153 Luciano LUCIGNANI, La famiglia di Eduardo, «Vie Nuove», 6 febbraio 1955.
154 Eligio POSSENTI, «Corriere della Sera», 8 marzo 1955.
197
accusò la critica: «hanno raccontato il fatto e il fatto in Mia famiglia non è importante»155. Nella presentazione all’edizione televisiva spiegò le intenzioni della sua critica:
Presento una famiglia che si sbanda; naturalmente io devo presentare i difetti per poi trarre delle conclusioni e dare un costrutto alla fine del terzo atto. A me sembra che ci sia riuscito. Qualcuno potrà pensare che io sia contro l’istituto del matrimonio... per carità. Anzi in tutte le mie commedie ho speso sempre qualche parola in favore della famiglia156.
4.4 Analisi della commedia
«Alla base del famigliarismo scenico del nostro autore», sostiene Barsotti, «c’è la convinzione che i problemi individuali e sociali sono il riflesso di quelli domestici [...]. Il punto d’osservazione interno consente al teatro di Eduardo di rispecchiare anche il modo di vivere esterno»157. Infatti questa commedia porta in scena la crisi della famiglia come metafora della crisi della società. E se il rappresentante della prima è il protagonista Alberto Stigliano, la seconda trova il suo referente nel fratello di questi, Arturo Stigliano: ad ogni modo, entrambi sono colpevoli di non aver saputo reagire, come vedremo, alla relativa crisi, se non chiudendosi nelle loro ragioni (o presunte tali).
L’ambientazione di Mia famiglia è la stessa per tutti e tre gli atti: «una 155 Eduardo DE FILIPPO, «Sipario», n. 119, marzo 1956.
156 Presentazione alla ripresa televisiva di Mia famiglia, 1964, ora in Eduardo racconta Eduardo, VHS allegato, Torino, Einaudi, 2003. Trascrizione nostra.
157 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 65. 198
stanza di passaggio che divide tutti gli ambienti dell’appartamento» (I, did., p. 21). Come osserva la Barsotti, «l’unità di luogo dei testi eduardiani che hanno come centro tematico la “famiglia” non è certo la stessa [...] del Topos scenico e morale dei drammi naturalisti “borghesi”»158; qui gli oggetti di scena «non fungono solo da corredo scenico, [...] assumono ora una significanza nell’intreccio drammatico»159. Infatti la scena del primo atto è così descritta dalla didascalia:
L’arredamento dell’ambiente si riduce a pochi mobili di un certo buon gusto, mal disposti e mal curati. Qualche poltrona zoppicante; del sediame malfermo; un telefono ed un apparecchio radio. Cumuli di giornali cinematografici, sparsi un po’ da per tutto, completano il disordine dell’insieme. (I, did., p. 21).
Su questo “campo di battaglia” si trovano in apertura di commedia Beppe e Guidone: quest’ultimo si mostra subito tanto sensibile160 quanto trasgressivo:
GUIDONE. [...] Se c’è un tizio che odia le convenzioni sociali, i luoghi comuni, l’ipocrisia, questo tizio sono proprio io… [...] Anzi, quando tu hai chiuso gli occhi, pensando che ti eri addormentato, ho appoggiato la testa sulla spalliera della poltrona, immergendomi in ipotesi e fantasticherie spirituali per mio conto (I, p. 22).
Ancora Guidone, parlando con Beppe di Alberto lo definisce «un essere 158 Ivi, p. 307.
159 Ivi, p. 308
160 Già nel 1953, intervistato da Raul Radice, Eduardo disse della commedia in preparazione che trattava il «tema scottante dell’inversione sessuale». Raul RADICE, «L’Europeo», 22 gennaio 1953.
199
brutale» e aggiunge: «non va d’accordo con te; la moglie, come se non esistesse; tratta la figlia come se fosse un’estranea… È proprio un bestio» (I, p. 22). Secondo Guidone del resto la famiglia si forma e cresce sul «desiderio egoistico dei tuoi genitori, specialmente da parte del padre, di volerti imporre la propria volontà, i propri gusti e tendenze al solo scopo di fare di te un doppione di se stessi».
Beppe, dal canto suo, si duole nel constatare che il padre, oltre a non aver saputo accettare la sua “indipendenza”, pensa che il figlio potrebbe seguire le sue orme, mentre secondo lui “la vita è cambiata”:
BEPPE. [...] Che ti credi, che si preoccupa di dare uno sguardo intorno, per vedere con quali mezzi e per quali vie la gente di oggi riesce a sfondare e vincere? Individui che nun te putevano pulezza’ nemmeno ’e scarpe, oggi marciano in automobile e comandano i milioni; con qualunque arma, buona o cattiva, ricattatoria o disonesta: sfondano! E i milioni li comandano, e in automobile marciano. Vittorio Sardelli come ha fatto? GUIDONE. (con ammirazione). Che cervello!
BEPPE. E l’hanno dovuto salvare. Proprio quelli che sono stati truffati da lui. Lo hanno dovuto salvare, se no finivano in galera tutti quanti. E guarda la posizione che tiene Vittorio Sardelli; riverito e rispettato da tutti! (I, p. 23)
Dopo questo “elogio dell’arrivismo”, comincia con quello “dell’indipendenza”:
BEPPE. L’accordo fra me e mio padre finì il giorno in cui gli dissi: “Papà, io e te siamo due cervelli differenti. Ti ringrazio di avermi messo al mondo… e accontentati che 200
ti dico: ti ringrazio. Ma non mi devi scocciare più. Quello che farò nella vita dipenderà esclusivamente dalla mia volontà: me nguaio, m’arruvino, nun aggi’ ’a da’ cunto a nisciuno”.[...] (borioso conclude) La vita è un dono! E a me quando me regalano na cosa, io ne faccio chello che me pare e piace. E poi, il donatore non fu mio padre. Lui, se mai, funzionò da intermediario (I, p. 23).
Questa scena, con l’ingresso in sequenza dei “giovani”, è rappresentativa di quel «processo di omologazione culturale che Eduardo intravede e sembra temere, l’Italia degli anni Cinquanta»161. Anche quando arriva Corrado, «un tipo di giovane sui ventitré anni, [...] indifferente a tutto ciò che lo circonda», il suo dialogo con Beppe e Guidone ci mostra una “gioventù bruciata” che fa sfoggio di un linguaggio insolente e di un atteggiamento arrogante:
CORRADO. Rosaria?
BEPPE. E chi l’ha vista. Io non so nemmeno se stanotte ha dormito qua.
GUIDONE. Ieri sera non eravate insieme?
CORRADO. Fino a mezzanotte quasi… (Dopo una breve pausa, con semplicità) La schiaffeggiai!
BEPPE (con lo stesso tono semplice). Per la strada?
CORRADO. No. Eravamo in casa di Mirella, quella cagna eternamente in calore… che ieri sera mi fece più schifo del solito. C’era pure altra gente, ma non mi ricordo di nessuno. Difficilmente avverto la presenza degli altri (I, p. 26).
161 Paola QUARENGHI, Nota storico­teatrale a Mia famiglia, in Cantata dei giorni dispari, vol. I, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1349­1350.
201
A completare il quadro162 entra Rosaria, una ragazza ventenne dall’aspetto «malsano di un ragazzaccio avvizzito, dal volto pallido e malaticcio», portando tipici oggetti da “contestazione giovanile”: «nella grande borsa a sacco, di vecchio cuoio, reca due pacchetti di sigarette americane, due scatole di fiammiferi svedesi e mezzo chilo di noci sorrentine, incartocciate in un pezzo di giornale. Col braccio sinistro stringe un fiasco di Chianti» (I, did., p. 28). La giovane viene informata dell’imminente partenza di Beppe, e anche lei, come Guidone, gli consiglia di comunicarlo al padre direttamente da Parigi. In quel mentre arriva Alberto, il «titolare della casa»: «Parla poco, ma in compenso prodiga cenni del capo e abbozzi di sorrisi, ogni qual volta gli si chiede d’intervenire in una discussione. Ad osservarlo bene, però, si scorge in quei cenni ed in quei sorrisi una rassegnazione distaccata da ogni cosa che gli fu cara e sacra». (I, did., p. 29). Il suo essere distaccato verso i figli porta nella vicenda un’amarezza che sembra venire da molto lontano, cresciuta sul terreno fertile di una famiglia dalla quale non si è sentito compreso. Entrando Alberto non saluta gli altri, così come loro «ammutoliscono ostili» (I, did., p. 30). Dopo aver parlato alla cameriera si siede al tavolo e – sempre senza guardare in faccia nessuno – liquida con battute acide uno ad uno tutti i personaggi. Rimane in scena solo Corrado. Il rapporto con lui è leggermente più cordiale di quello con i figli: «non esiste nessuna intesa fra i due, ma un tenue filo di simpatia istintiva, una lieve affinità d’animo, naturale, sì» (I, did., p. 32). I due iniziano a dialogare e Corrado rifiuta il posto alla radio offertogli dal suocero, il quale 162 A proposito del sarcasmo di questa ed altre commedie eduardiane Giovanni Calendoli sostiene: «il commediografo aderisce sentimentalmente soltanto ai personaggi che posseggono un bene fondamentale, sia pure oltre e contro le forme convenzionali; ma relega inesorabilmente tutti gli altri nel piccolo inferno dell’inganno sociale, smantella il castelletto delle menzogne dietro le quali essi si nascondono e li ferisce a sangue con la sua ironia, con il suo scherno, con la sua allegra cattiveria». Giovanni CALENDOLI, «La Fiera letteraria», Roma, 5 agosto 1956.
202
cerca di riportarlo coi piedi per terra: è meglio un lavoro umile ma onesto che “l’arte di Michelasso”: CORRADO. Non mi conviene. Penso ad altro.
ALBERTO. Per esempio?
CORRADO. Come si può dire specificamente qual è il pensiero migliore […] fra le mille idee che ti vengono in mente durante il giorno? Vedremo come si mettono le cose.
ALBERTO. Ma quali, Corra’? Le cose noi le mettiamo a posto e noi le spostiamo. E non credere che le cose spostate si possono rimettere a posto per conto loro.
CORRADO. Signor Alberto, non credo che le cose spostate dagli altri le debba rimettere a posto proprio io.
ALBERTO (bruscamente). Da chi? Mi dici da chi sono state spostate queste benedette cose?
CORRADO. Io che ne so.
ALBERTO (conclusivo). Da noi. Hai capito, Corra’: da noi! Da che è nato il mondo l’uomo sposta e l’uomo rimette a posto le cose. Tu mi dirai: “Ma allora fa l’arte dei pazzi”. E io ti rispondo: “Meglio fare l’arte dei pazzi che quella di Michelasso: mangiare bene e andare a spasso”. (I, pp. 32­
33).
Quasi in confidenza, Alberto confessa al giovane la sua amarezza nei confronti della figlia, rievocando la situazione che portò il rapporto padre­
figlia ad un punto di rottura:
ALBERTO. Tu puoi capire con quanta amarezza io te ne parli… Una figlia che ti costa quello che costa una figlia… la quale inizia una vita per conto suo. Naturalmente fuoco e fiamme in famiglia, e previsioni catastrofiche da parte 203
mia… Perché non era difficile prevedere la fine che ha fatto! Incontra il mascalzone… mascalzone poi perché, chiunque al suo posto avrebbe fatto lo stesso… E non se ne vergogna: niente affatto. Quale vergogna? Lo dice a tutti… se ne fa un vanto, come se avesse commesso un eroismo. Lo ha detto pure a te. (I, p. 33).
Non riesce a capacitarsi di come Rosaria abbia potuto contravvenire ad un dictat morale così ingenuamente, e senza neanche prendere in considerazione l’ipotesi che lei possa avere un codice etico differente dal suo, carica il comportamento della figlia di un significato altro, quello di una sfida, di uno sfoggio; e sembra quasi voler salvare il futuro marito, il quale invece si mostra indifferente (ma non lo è, come si scopre in seguito). Alberto ancora una volta scambia l’indifferenza del futuro genero per rassegnato disprezzo verso il genere femminile: CORRADO. Ma non m’interessa. Lo volete capire si o no? Quello che ha fatto Rosaria per il passato riguarda solamente lei.
ALBERTO. Già, tu non salvi nemmeno l’uno per mille delle donne.
CORRADO. Vi sbagliate. Io voglio salvarle nella piena totalità. Io, la donna, la metto su di un altro piano. Credete a me: la verginella a diciotto carati non esiste più. Ma fatemi il piacere, signor Alberto, noi viviamo i tempi del cellophan, della televisione, del nylon, dell’atomica, dei dischi volanti… Non possiamo pretendere di andare in giro con il campanello della parrocchia, cercando il candore, l’innocenza, la verginità, senza fare un bagno di ridicolo. C’è stata una evoluzione, un riscatto, una messa a punto. E non mi potete credere in mala fede. Se non fossi 204
convinto di quello che vi dico, non avrei scelto Rosaria per moglie.
ALBERTO (avverte un senso di disagio che lo scuote, lo amareggia, ed allora esclama a denti stretti un appena percettibile). Già. (Un breve silenzio gli basta per meditare e riprendere l’argomento) Però, scusa, Corrado… [...] Tu sei manesco. Tu non perdi occasione per usare le mani, e mi risulta che spesso Rosaria piglia schiaffoni da te, e quasi sempre per futilissimi motivi… Allora? Mi dici dove vanno a finire l’evoluzione e il riscatto, il cellophan e i dischi volanti?
CORRADO. Allora non mi sono spiegato. Quelli non sono schiaffi, sono prove di considerazione. Lo schiaffo significa: io ti tratto da pari a pari; ti ritengo all’altezza mia. […] C’è il pro e il contro; nell’evoluzione e nel riscatto ci sono pure gli schiaffi.
Nonostante la parodia della rivolta giovanile degli anni Cinquanta che vede negli “schiaffoni” un passaggio per l’evoluzione e la parità dei sessi, Alberto, seppure in linea con la mentalità della sua generazione, lotta dalla parte del torto: dalla stessa parte dell’autore. Infatti se nel terzo atto – come vedremo – la condizione di personaggio positivo sarà messa in discussione, non così l’accusa del protagonista (e dietro di esso dell’autore) contro una morale che vede nel sesso prematrimoniale (da parte della donna, naturalmente) uno dei fattori della crisi dei valori; in finale di commedia infatti la figlia si salverà non riuscendo a far accettare il suo sistema di valori, ma rivelando di non aver mai trasgredito quello del padre.
Altro momento interessante nel primo atto è la scena del protagonista che si confronta con un terzo sistema di valori, quello di Arturo, che sembra separato dal fratello da un gap generazionale: «tipico soldato in 205
ritiro» (I, did., p. 35), anche lui vede nella famiglia del fratello «una casa disordinata» (I, p. 36), ma ne incolpa il mancato capofamiglia:
ARTURO. E se permetti il pazzo principale sei tu. Ma come? […] Un uomo come te, che porta in casa quello che porta, non riesce a far valere la sua autorità?
ALBERTO. E che dovrei fare?
ARTURO. Mostrarti uomo e stringere i freni.
ALBERTO. Ma nun me fa’ ridere, Artu’! Ma perché, tu credi fermamente che solo la mia famiglia si trovi in queste condizioni? Qua chi più chi meno tutti cercano di tirare a campare come meglio possono. Ci sta chi non lo dà a sembrare e cerca di salvare il salvabile fin quando gli riesce, e chi arriva con l’acqua alla gola e scoppia. E leggi la cronaca nera. (I, p. 36).
Ciò che accomuna i due fratelli è la convinzione che le macerie di oggi vengono dai bombardamenti di ieri: la crisi dei valori risulterebbe da un codice morale imposto (quello del fascismo) che poi cadendo ha lasciato una situazione di disordine: ALBERTO. [...] Perché con il fascismo caddero illusioni, idoli e miti. E l’umanità, giovani e vecchi compresi, capì che gli incrollabili e i potenti si reggono in piedi fino a quando “sono le nove e tutto va bene”. E questo non è successo solo da noi, ma in tutto il mondo. Allora non crediamo più a niente, ed ecco che si vive all’arrembaggio… alla giornata: minuto per minuto. (I, p.37)
Senza soluzione di continuità, quasi ad indicare un flagello della stessa 206
portata, il protagonista porta sul banco degli imputati quel consumismo figlio della ricostruzione, del ritorno alla vita, preludio al boom che si svilupperà nel decennio successivo:
ALBERTO. Artu’, tu che vuo’ sape’, qua nun ce stanno denari che bastano. Si spende quello che guadagni nel mese in corso, quello del mese appresso, e quello che forse guadagnerai. Ed allora noi ci troviamo di fronte a due specie di disordini: finanziario e morale. La gente non crede più a niente… Vive alla giornata minuto per minuto. Tu vuoi stringere il freno a quello finanziario, d’accordo; ma credi che il freno isolato di un padre di famiglia sia sufficiente a fermare il disordine morale che è dilagato in tutto il mondo, che è poi quello che ha determinato il disordine finanziario? Ecco perché mi sono messo in finestra, e aspetto. (I, p. 37).
Dunque Alberto imputa il disordine familiare a quello sociale, e non riuscendo a fare altro sta “in finestra”, e aspetta. Arturo invece riporta l’uomo di fronte al problema, invitandolo ad assumersi le proprie responsabilità: egli coltiva infatti apertamente una relazione con un’altra donna. Ma Alberto, ottuso, ne imputa la colpa all’assenza dei suoi familiari – senza considerare la possibilità di invertire il rapporto causa­effetto.
Entra in scena Elena, la moglie di Alberto. Il suo personaggio è multiforme. Nel primo atto è così descritta:
Elena è la signora Stigliano, moglie di Alberto. L’età di costei si avvicina più ai quaranta che ai trentacinque. Di salute florida, di aspetto giovanile; le sopracciglia aggrottate; gli occhi controllati rigorosamente da un’idea 207
testarda, e il mastichio incessante con cui tormenta il lato destro del labbro inferiore, costituiscono nell’insieme la smorfia amara e scontenta di un essere inumano che, per aver rimuginato e sognato di continuo la vendetta, ha definitivamente elevato le sue sembianze a simbolo della stessa. Il suo modo di parlare è sempre farraginoso e vago. Quando ascolta gli altri, capisce male e non chiede di capire meglio; quando si esprime lei, quasi sempre tronca a metà il suo discorso, o per pigro disinteresse o perché via via dimentica soggetto e predicato. (I, did., p. 38).
Alberto, considerando la famiglia ormai perduta, cerca di “salvare il salvabile”, ovvero il suo matrimonio:
ALBERTO (sinceramente convinto). Bisogna tirare le somme, Elena. Non è la prima volta che te lo dico. La casa, come istituzione, è diventata un ricordo; la visione nostalgica di un racconto fiabesco. Convinciti, la casa non esiste più. Bisogna fare sforzi incredibili per farla funzionare in qualche ricorrenza eccezionale, e quando e se ci riesci, non hai realizzata che la rievocazione di un fatto storico superato. Ormai siamo rimasti io e te. I figli? Fanno la loro vita. Vendiamo questi quattro mobili… ca nun me fido d’ ’e vede’ cchiu… e pigliamoci un paio di camere in una pensione, un albergo… (I, pp. 39­40).
Elena non raccoglie e devia la discussione raccontando la sua giornata “lavorativa”: «Possibile che devo pensare a tutto io? Stammatina la cucina elettrica fulminata […] …e io sono andata in rosticceria. Dalla sarta ci devo andare? Mi è permesso qualche volta di andarmi a lavare i capelli, o devo 208
puzzare come una mendicante schifosa?»; poi si accende una sigaretta perché «qua questo ci è rimasto» e continua il suo resoconto: «sono stata a casa di Teresa Falanga. Mi ha telefonato per rimpiazzare un quarto […]. Dovevo interrompere il giro? Così non mi chiamano più e finisce pure quel tanto di distrazione innocente che una signora maritata si può concedere» (I, p. 41).
Ma la distrazione si rivela per niente “innocente” nel momento in cui fanno la loro “apparizione” le compagne del Circolo:
La signora Fucecchia dalla destra, seguita da altre due amiche, la signora Muscio e la signora Micillo. Queste tre donne hanno in comune fra loro lo stesso modo di parlare, di porgere e gestire. Tutte e tre benestanti, tutte e tre sposate, tutte e tre appartenenti alla media borghesia. [...] La Fucecchia è la più anziana, ed è infatti quella che con ogni artificio cerca di nascondersi gli anni. La Micillo è giovanissima e bella; ma già presa nell’ingranaggio del tenore di vita che menano le amiche, per cui poco si accorge più del privilegio che vanta sulle altre. La Muscio si avvicina all’età di Elena e della Fucecchia. L’ingresso di queste tre donne paralizza l’abituale energia di Elena. Inchiodata su quattro piastrelle, la donna non fiata, non gestisce; si limita appena a seguire con lo sguardo le tre amiche, le quali con passo lento avanzano inesorabili fino a schierarsi in atto di sfida di fronte a lei. Alberto stupito segue la scena con curiosità. E la Fucecchia, più pratica di vertenze del genere, rompe l’incanto. (I, did., p. 42).
Questo “schieramento” rivela il motivo della sua “calata”: Elena ha contratto un debito di gioco e da allora si è dileguata. Alberto risolve la 209
situazione promettendo alle tre che il giorno seguente manderà i soldi che spettano loro. Rimasto solo con Elena scopre l’ammontare del debito. Dopo un attimo di sbigottimento, deciso a mettere la moglie davanti alle sue responsabilità, si accorge che nemmeno lei potrà saldare il debito, trovando al posto dei suoi gioielli delle polizze di pignoramento. La moglie si abbandona a un pianto dirotto invocando pietà e Alberto, il quale sente definitivamente che la situazione gli è sfuggita di mano, tenta di reagire:
ALBERTO (più irritato che commosso, reagisce al pianto di lei con uno scatto rabbioso, come se imprecasse contro se stesso). Presentati al mondo chiudendoti nello stomaco tutta la bile e il veleno che te ne viene da tutto quello che, con sacrifici e rinunce, hai creato con le tue mani, e che pensavi ti dovesse dare in cambio soltanto gioia. La casa… i figli… la famiglia… (Ora è preso da una disperazione intima, cattiva e inesternabile che lo costringe a comprimersi le mani sul volto, come per contenere lo scoppio dei tessuti) Ma che ho creduto io? E chi me l’ha fatto credere? Perché ho insistito nel credere? (E se ne va in camera da letto). (I, p. 47).
A questo punto accade qualcosa di interessante, quasi in sordina, una didascalia di tre righe indica una metafora: quella dei figli che, davanti all’handicap comunicativo dei genitori, cercano punti di riferimento all’esterno del contesto familiare: Rosaria entra dalla sinistra, come se non la riguardasse quello che è accaduto, e che, evidentemente, ha udito dalla sua camera; attraversa la stanza ed esce silenziosa dalla porta d’ingresso. (I, did., p. 47).
210
Infine Alberto, come reazione a una situazione più grande di lui, davanti alla quale “non ci sono parole”, implode nel mutismo. Elena solo adesso, innanzi alla tragedia, ritrova le energie e subisce una metamorfosi, trasformando quella donna stanca che si trascinava dalla sarta al parrucchiere al tavolo da gioco nella moglie disperata che muove in soccorso al marito «con tono energico» e corre «svelta e tutta presa dalla gravità del momento», impartendo disposizioni alla cameriera. In chiusura d’atto Elena «senza perdersi d’animo, e con vigore sconosciuto fino a quel momento anche a se stessa, si avvicina ai due materassi e li trascina verso la camera da letto» (I, did., p. 48).
Il mutismo di Alberto è stato interpretato in modi diversi. Secondo Gennaro Magliulo il protagonista «inutilmente ha tentato di comunicare con gli altri: è impossibile», perché «ognuno deve trovarsi di fronte alla propria realtà»; «Alberto dovrà farsi da parte, ognuno è solo, ma deve anche essere solo», poiché «in se stesso è la sua salvezza»163. Per Federico Frascani Alberto «perde la parola o meglio, finge di perderla […] perché ritiene opportuno farsi credere muto in una casa dove la sua voce, la voce del buon senso, resta inascoltata»164. Questo mutismo sarebbe secondo la Barsotti «il silenzio metaforico – in cui egli si era già chiuso nei confronti
dei famigliari e di tutto quanto il presente – [che] si letteralizza, diventa
reale»165.
Nel secondo atto assistiamo ad una trasformazione. Il tavolo da pranzo è stato spostato per lasciar posto a «sei macchine da cucire che figurano, allineate a poca distanza l’una dall’altra, come in un vero e proprio laboratorio» (II, did., p. 49). Si tratta della nuova attività che Elena ha messo in piedi per sostituire le entrate che l’indisposizione del marito ha 163 Gennaro MAGLIULO, Eduardo De Filippo, Bologna, Cappelli, 1959, p. 75.
164 Federico FRASCANI, Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, Parenti, 1958, p. 84.
165 Anna BARSOTTI, La drammaturgia di Eduardo De Filippo cit., p. 53.
211
fatto mancare. Essa ha reagito guadagnandosi uno spazio di indipendenza. «’A signora mia, quando il marito parlava, non alzava una sedia da qua a là» (II, p. 52) dirà la cameriera166 poco dopo a un giornalista. Ma il suo riscatto si inserisce nel contesto della commedia come alternativa alla sterile denuncia della crisi della famiglia. Quello che Eduardo sembra presagire167 è una possibile soluzione al problema: l’evoluzione dell’istituzione. Anche il rapporto col marito è cambiato. Ora che non parla, la sua voce gli manca:
ELENA (al marito). E sei stato dal medico? (Alberto accenna di sì). E ti ha dato buone speranza? (Alberto c.s.). Non per niente. Grazie a Dio il lavoro mio va bene, e non ci manca il pane... ma per scambiare quattro chiacchiere regolarmente, per sentire un tuo parere su questo o su quello argomento. E poi, mi credi? Io ’a voce toia nun m’ ’a ricordo. Sarà un fenomeno strano; ma ho l’impressione che quando tu parlavi, io nun sentevo niente. (Alberto annuisce ironicamente). (II, pp. 57­58).
Dopo un breve dialogo fra Maria Rosaria e Corrado, che delinea ulteriormente il loro rapporto all’insegna della comunicazione mancata, irrompe nella stanza il giornalista Bugli: costui si dichiara un reporter della rivista «Donna d’oggi» che sta conducendo un’inchiesta sull’attività della donna moderna – in realtà raccoglie informazioni sulla famiglia Stigliano per lo scoop che comparirà sui giornali il giorno successivo. Nel mentre 166 Maria è una tipica figura che discende dalla tradizione della commedia dell’arte, quella del “servo sciocco” (presente in molte commedie eduardiane), spalla del protagonista (in questo caso della deuteragonista) che non perde occasione per dire spudoratamente la verità. 167 «Il mio è finito col diventare un discorso profetico: nelle commedie ho trattato una verità che è diventata verosimile... Credo che in questo senso del futuro sia il compito dello scrittore». Eduardo DE FILIPPO, «Il Giornale d’Italia», 19 maggio 1981.
212
entra Arturo, constatando con amarezza un ribaltamento dei valori che vede la stampa interessarsi più allo Stigliano attore che allo Stigliano “combattente di guerra”.
BUGLI. Siete lo zio di Beppe Stigliano? Bravo.
ARTURO (con amaezza). A servirvi. (Ed esclama come per sottolineare una dura constatazione) S’è avutato ’o canisto.
BUGLI (che non l’ha compreso). Come?
ARTURO. Il cesto si è capovolto! Il mondo è una caccavella di fagioli. Sapete come fanno i fagioli, nella pila, quando bollono? Quelli di sotto arrivano sopra, e quelli di sopra vanno a finire sotto. La stampa non mi conosce perché sono Arturo Stigliano, combattente dell’altra guerra, ardito nel Battaglione d’assalto “I fulminanti”, ferito in battaglia alla gamba sinistra e promosso sergente sul campo, per merito di guerra… no; ma perché sono lo zio di Beppe Stigliano, attore cinematografico in voga, pagato con fior di quattrini e colpi di obiettivo che ne proiettano le sembianze in tutto il mondo… In altri termini: mio nipote è il fagiolo di sopra, e io il fagiolo di sotto. (II, p. 55).
Il momento della “catastrofe” arriva poco dopo che il giornalista è uscito, con l’entrata di Beppe, fuggito dal luogo dove è stato ucciso il regista che lo ospitava. Alberto entra in scena e inizia la scena madre, la peripezia del capofamiglia che riprende la parola e la sua autorità innanzitutto con un richiamo all’ordine, telefonando alla polizia: «se sei innocente che paura hai?» dice al figlio come per invitarlo ad affidarsi nelle mani dell’autorità giudiziaria, là dove sente che ha fallito l’autorità paterna.
ALBERTO. […] Voglio dire tutto quello che non ho detto in 213
tanti anni, e forse per non averlo detto, ci troviamo in questa situazione. Già, che fa, che fa che ci troviamo così combinati? Ci sentiamo uniti, legati fra noi? Esiste forse un vincolo che ci accomuna nella buona e nella cattiva sorte? (II, p. 61).
L’autocritica però dura poco, e non è incentrata sul non aver cercato una via di comunicazione con la famiglia, bensì sul non aver perseguito fino in fondo quello che secondo lui era il suo ruolo. Infatti dopo aver rinfacciato al figlio la sua fallita indipendenza («Hai capito? Sei rimasto con le mani dentro? Ti sei reso conto che quando in famiglia c’è uno che cade, si trascina appresso tutti quanti?») scarica la colpa sulla moglie: «io e te siamo stati in lotta perché tu non volevi la stessa cosa che volevo io». Mentre per il suo progressivo distacco dalla famiglia (giunto all’estremo del mutismo simulato) trova giustificazione negli errori degli altri: «se mi sono disamorato e disinteressato della mia famiglia, una ragione ci sarà stata. Ho lottato, fin quanto ho potuto, per farti capire che i figli costano sacrifici e rinunzie; ma poi ho mollato» (II, p. 61). Il figlio cerca di ribellarsi un’ultima volta all’autorità paterna, ma Alberto lo riporta davanti alla realtà dei fatti:
BEPPE. Io non volevo arricchirmi illecitamente. Ho scelto una via come potevo sceglierne un’altra. Volevo sganciarmi da te per non esserti di peso. Mi sono trovato implicato in un fatto di sangue che non mi riguarda: ma questo non significa che l’uomo debba rinunciare all’indipendenza personale: ognuno è padrone della sua vita.
ALBERTO. No. Questo lo diciamo quando ci fa comodo. Perché, se ammettiamo che ognuno di noi, per vivere nel 214
consorzio umano, deve ubbidire ad un autocontrollo delle proprie azioni, già riconosciamo che l’indipendenza personale ha dei limiti precisi. Non siamo liberi, non possiamo disporre egoisticamente della nostra vita. Siamo agganciati come una catena: una maglia cede, e tutte le altre appresso. (II, p. 62)
In ultima istanza, la colpa è stata di un mancato accordo tra moglie e marito («la lotta fra me e te c’è stata e i figli l’hanno avvertita»), che ha portato inevitabilmente a una destituzione del pater familias, fino a svilirlo, a farlo dubitare di se stesso e del suo ruolo. Infine la dura requisitoria si accanisce contro Guidone, elemento esterno alla famiglia (vero “indipendente” perché «una famiglia non se la potrà mai creare»). È un duro atto d’accusa verso l’intera categoria che, come ha notato la Barsotti168, è «al limite della paranoia»:
ALBERTO. Una setta diabolica, che funziona da un capo all’altro del mondo, ramificando e mettendo radici da per tutto. S’impongono servendosi dell’Arte per corrompere e distruggere quel tanto di buono che ci serve a credere nella vita che dobbiamo vivere giorno per giorno. E si servono del gusto “raffinato”. Mettono su negozio? E tutti di corsa al negozio dei “raffinati”. “Non sapete niente? È uscito il romanzo del “raffinato”. In quella strada, c’è la sartoria del “raffinato”; in quell’altra c’è il parrucchiere “raffinato”. (II, p. 63).
A questo punto Elena, inserendosi nel punto di vista del marito, lo accusa di aver esitato invece di far valere la sua autorità. Ma Alberto si difende: «un padre di oggi, di fronte alla strafottenza dei figli, o parla o è 168 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 332.
215
muto, è ’a stessa cosa». E spiega al figlio il significato della paternità; ma non prima di aver licenziato la figlia:
ALBERTO. Per te no. Per te non ci sono argomenti da smaltire. (Indicando Beppe) Lui, dopo una quindicina d’anni di galera, può rifarsi una vita; tu no! E se te ne vai mi fai piacere. (Rosaria, intimamente ferita, china il capo e lentamente si apparta. Intanto Alberto, dopo un silenzio che gli è servito a mettere un po’ d’ordine nelle sue idee confuse, riprende il filo del suo discorso interrotto) Quando sposai tua madre… lei sta qua, lo può dire… ne parlavamo da fidanzati... [...] Volevo dei figli. E infatti venisti tu: il maschio! Mi sentii un Dio. E pensai: “Nun moro cchiù”. Non vedevo più nessuno; non mi occupavo più di tante cose che mi erano sembrate indispensabili fino a quel momento. Dicevo: “Tengo nu figlio… che me mporta d’ ’o riesto!” Mi sentivo felice perché capivo che, finalmente, potevo riversare su me stesso… perché un figlio è parte di te stesso… tutto l’affetto che mio padre e mia madre avevano riversato su di me, evidentemente con lo stesso sentimento mio. E faticavo, faticavo cu’ na forza e na capacità di resistenza che facevano meraviglia a me stesso. “Nun moro cchiu”. Cammenavo p’ ’a strada, e parlando solo dicevo: “Nun moro cchiu”. Poi venne il periodo delle malattie; sciocchezze, si capisce, malattie che tutti i bambini devono avere; ma ogni volta avevo l’impressione di tornare a casa e di non trovarti più. E vuoi sapere quali erano i pensieri che mi venivano in mente in quei momenti? Uno dei pensieri che più mi torturava era quello che mi faceva credere che se tu morivi la colpa sarebbe stata mia. Non perché ti avevo fatto mancare qualche cura o qualche specialista; ma perché pensavo: 216
“L’ho messo io al mondo, la colpa è mia!” Tu capisci, allora, che un padre, di fronte a un figlio, la responsabilità se la sente; per quello che deve fare, per come deve vivere quando sarà grande. Che Iddio mi fulmini se una sola volta pensai di fare qualche cosa per costringerti a farti prendere la mia stessa strada, e farti avere il mio stesso avvenire. (II, pp. 65­66; corsivo nostro).
Sul finire dell’atto entrano due agenti di polizia, preceduti da un gruppo di giornalisti che investono la stanza del flash dei fotografi. Beppe raggiunge gli agenti mentre Elena è affranta dal dolore e Alberto «si apparta in un angolo della stanza, coprendosi il volto con le mani» (I, did., p. 66).
All’inizio del terzo atto, un anno dopo lo scandalo che ha colpito gli Stigliano, fanno la loro comparsa i coniugi Cuoco, introducendo un sistema di valori “altro”. Laddove nel primo atto avevamo assistito allo rovina dei “giovani” (fra i quali, oltre ai figli, Corrado e Guidone, rientra Elena, la cui modernità emerge nella sua “indipendenza positiva”) e nel secondo atto al rinfacciato trionfo dei “vecchi” (classe che comprende l’autorità di Alberto ma anche quella più esasperata di Arturo)169, ora la dicotomia sembra spaccarsi, presentando un’autorità alternativa, “morbida”. È quella di Michele Cuoco, venuto dalla campagna beneventana per assistere clandestinamente (era stato invitato a non venire) alle nozze del figlio con Rosaria: egli già anni prima si trovò ad affrontare quello che Alberto ha affrontato col figlio, ma mentre quest’ultimo ha spiegato la sua paternità con una visione “introspettiva” («perché un figlio è parte di te»), il padre di Corrado la spiegò al figlio da un’angolazione “proiettiva”. Dopo essere scappato con una cavallerizza di un circo equestre, e dopo che 169 Per la distinzione in categorie di personaggi o sistemi di valori cfr. Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., pp. 309­334.
217
Michele riuscì a riportarlo a casa «venne il periodo più tragico, quanno se vuleva suicida’!» MICHELE. [...] Don Albe’, ore intere parlavamo del suicidio, io e lui, come due pazzi. (Indicando sua moglie) E lei non sapeva niente. (Ricostruendo una delle tante discussioni avute col figlio) “Ma perché vuoi morire?” “Ma perché devo vivere?”, rispondeva lui. “Come, perché? E non consideri il dolore che ne riceverebbe tua madre, io?” “Va bene, ma dopo un poco di tempo vi mettete l’anima in pace tutti e due”. “Vuoi fare un viaggio? Vuoi andare all’estero per un poco di tempo?” “No, voglio murì’”. “Ma perché?” (Con un senso di dolore sofferto in quel tempo, che risente ancora dello smarrimento che provocò in lui la risposta del figlio) Don Albe’, indovinate che mi rispose? “Allora mi devi dire che significa la vita e che significa la morte. Una di queste due spiegazioni mi potrà chiarire l’altra e allora io nun m’acciro cchiu!” Don Albe’, io che potevo rispondere? Stavamo fuori al terrazzo, sopra al parapetto camminava una formica… (Prende dal portafogli della tasca interna della giacca una bustina di carta bianca) Guardate, don Albe’. […] La formica. Questa forse salvò la vita di mio figlio. (Ripigliando il tono del racconto interrotto) “Corra’, figlio mio, io songo nu pover’ommo, che ne pozzo sape’?… ’A vita, secondo me, significa tutto. E dicendo tutto, voglio dicere tutto! ’A morte nun significa niente, pecche ’a morte nun esiste. Guarda sta furmica.” E con un fiammifero la stuzzicavo. [...] “Guarda, se mette paura e scappa pecche vo’ campa’. Certo, ’a furmicola nun fa tanta ragiunamente che putimmo fa’ nuie; ma ’a vita ’a capisce, nun capisce ’a morte. ’A vita è na cosa ca se vede con gli occhi. E se nun 218
teniamo gli occhi, pecche’ a furmicola nun ce vede, se tocca cu’ ’e mane. Perciò ’a furmicola vo’ campa’. Quando po’ sta furmicola finisce di vivere naturalmente, nun se mette paura e nun scappa. E pecche? Pecche ’a morte nun esiste. Se tu ti uccidi, sei tu che rinunzi alla vita. Allora questo che significa? Che ’o Padreterno ha creato la vita, e noi abbiamo creato la morte” “E la speranza nostra qual è?” Allora perdette ’a pazienza e dicette: “Corra’, si tu nun capisce ch’ ’a speranza mia si tu, e che ’a speranza toia hann’ ’a essere ’e figlie tuoie, fa chello che vuo’ tu… Sparati, scannati, menate ’a coppa abbascio… speranze pe’ te nun ce ne stanno”. (II, pp. 70­
71).
Il modo in cui Michele affronta la situazione è più calmo di quello di Alberto, più sereno, e soprattutto arriva a conclusioni diverse: «un figlio è parte di te stesso» aveva detto Alberto a Beppe; «’a speranza mia si tu, e […] ’a speranza toia hann’ ’a essere ’e figlie tuoie», secondo Michele.
Da un dialogo fra Arturo ed Elena veniamo a sapere che Beppe, uscito indenne dal processo, adesso lavora alla radio; Alberto invece, da quella sera, si è trasferito definitivamente a casa dell’altra donna. Quando il fratello gli chiede: «Albe’, ma non pensi di tornare qua e chiudere definitivamente la parentesi?» lui risponde netto «Oramai le strade sono tracciate. Significa che così doveva andare». Arturo, invitato da Elena, decide di trasferirsi in casa di questa, per farsi reciprocamente compagnia. In un momento di gratitudine il suo carattere schivo si apre lasciando intravedere per un attimo un’altra storia, quella di un uomo vittima dell’incomunicabilità: «Albe’, ho sofferto! E zitto! Sempre zitto! Ho sbagliato pure io. Mi sono chiuso in corpo tutto quello che, per la cattiveria degli altri, o per deficienza mia, non lo so… mi è successo nella vita». (III, 219
p. 73)
All’improvviso arrivano Corrado e Rosaria, con un cappottino a coprire la camicia da notte. La figlia è stata “riportata” dal marito, che solo adesso si è reso conto di non riuscire a sopportare l’idea che gli altri, gli “amici”, ridessero alle sue spalle perché «finalmente il fesso era arrivato». Quando a casa lo ha confidato alla moglie lei, senza comprendere, si è messa a ridere e lui, ancora una volta, ha reagito con violenza. Ora non è più sicuro di voler portare questo matrimonio fino in fondo. Uscito di scena, Rosaria chiede di parlare da sola con il padre. A questo punto il meccanismo risolutore non risiede nell’accettazione da parte di Corrado di una situazione, ma in una rivelazione «un po’ da romanzo d’appendice»170: Rosaria confessa al padre di non aver mai perduto la sua verginità, solo di averlo simulato per conformarsi all’ambiente delle amiche che altrimenti avrebbero riso di lei. Il pretesto drammaturgico appare debole e inizialmente focalizzato sul padre. «Le ferite del suo cuore sono ancora troppo vive perché egli possa dare giusto valore al sentimento che anima sua figlia in quel momento». Tuttavia la figlia lo aiuta a capire che non tutto può essere misurato con lo stesso metro, e che nella sua crescita il distacco dal padre era un passaggio obbligato:
ROSARIA. Non complicare le cose. Non pensare: questa cosa è così, mentre invece vuole significare questo e quest’altro. Perché vuoi confondere momenti con momenti e fatti con fatti? […] Vedi, papà, se tu sapessi per quanto tempo ho cercato di risolvere da sola i problemi che mi riguardavano. E quale, secondo te, poteva essere quello che più mi stava a cuore, e che mi dava maggiore pensiero, se non di trovare marito? E tu che cosa avresti potuto fare, povero papà, per consigliarmi e facilitarmi il 170 Anna BARSOTTI, Eduardo drammaturgo cit., p. 317.
220
compito? Che ne sai tu della nostra generazione? E credi che l’astuzia della tua esperienza poteva essere utile a me come lo fu a te all’epoca tua? Capii che dovevo fare tutto da me. E ti pare facile agire da soli senza urtare contro il modo di vedere e di sentire degli altri? Ecco perché cercai di essere libera, incontrollata. Sì, per non incontrare i tuoi occhi che mi rimproveravano ogni passo che facevo. (III, p. 77).
Poi passa al racconto di una storia di incomprensioni, dove lei si fingeva altro per incontrare le idee del fidanzato («volevo mettermi all’altezza delle sue teorie e del suo modo d’intendere la vita di una ragazza d’oggi [...] e gli raccontai la storia di un errore commesso…»), mentre Corrado simulava soltanto queste idee, probabilmente perché non accettava che il suo pensiero fosse uguale a quello del padre. Infine la confessione della sua conservata verginità. Grazie a questa avviene in Alberto una mutazione: ALBERTO (tace. Il racconto di Rosaria lo ha annientato. Ora guarda la figlia con infinita tenerezza. L’ultima affermazione di lei lo ha disorientato, trova soltanto la forza per dire e ripetere). Non capisco, non capisco! (Poi ci ripensa e afferma) No, invece capisco… Capisco tante cose. (III, p. 77).
La cameriera comunica che Corrado sta aspettando la moglie sotto casa, e Alberto, riprendendosi quello spazio tradizionale di cui era stato privato, «offre il braccio alla figlia, al quale Rosaria si aggrappa con infinito amore». Quando risale la moglie gli chiede spiegazioni, e lui racconta l’accaduto:
221
ALBERTO. Io stasera non mi sento veleno nel sangue. È successa una cosa che mi ha messo dentro un’altra volta la fiducia che avevo prima. [...] Una cosa sublime! Poveri figli! Tu capisci in quale situazione si trovano i giovani di oggi… Se vulevano bene, e se mettevano scuorno ’e s’ ’o dicere. E noi, forse, con il nostro atteggiamento ostile, li abbiamo disorientati ancora di più. Non bisogna confondere momenti con momenti e fatti con fatti. La confusione c’è stata per loro e pure per noi. Ma questo non ci deve far credere che se n’è caduto ’o munno. Può cadere una pietra, due… ma ’e muntagne so’ muntagne, e ’o munno è ’o munno. (III, p. 81).
Questo ritrovato ottimismo sembra spingere Alberto nuovamente verso la moglie. Sarebbe il trionfo della (vecchia) famiglia. Il finale di questa commedia vede la soluzione in un ritorno all’Ancien régime, una restaurazione, piuttosto che un evoluzione: Beppe è andato a lavorare dove voleva il padre, il che dimostra che la sua non era un’indipendenza sbagliata, ma che è sbagliata l’indipendenza; Rosaria non ha mai smesso di credere nei valori della famiglia quali erano quelli del padre, ha solo finto; Corrado non è riuscito nel suo intento di elevare la figura della donna, e addirittura il suo essere manesco viene giustificato come “riflusso” di una forzata trasgressione al padre; perfino Arturo viene “risucchiato” da questo vortice familiare che lo riporta nella casa del fratello. Gli altri, fuori dal consorzio familiare, sono visti come “estranei”. «Sempre un’estranea è» dice Arturo della sua padrona di casa (III, p. 73); «È un’estranea, Albe’» (III, p.81) sostiene Elena a proposito della sua “rivale”.
L’ultimo tassello lo deve mettere a posto Alberto, che però si mostra incerto: su questo indugio («Mo vedimmo...»; III, p. 81) si chiude la 222
commedia, lasciando il pubblico senza una epilogo, come avveniva in Napoli milionaria!: «ha da passa ’a nuttata»171.
171 Eduardo DE FILIPPO, Napoli milionaria! cit., p. 98.
223