RICOMINCIAMO - Camera di Commercio di Modena

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RICOMINCIAMO - Camera di Commercio di Modena
Modena
Economica Numero 4
luglio‐agosto 2012
da qui
E. F.
Come le imprese hanno affrontato il terremoto:
le storie delle aziende che hanno ricominciato
S
i dice spesso che per un imprenditore l’azienda è parte integrante del suo progetto di vita. Una considerazione che appare ancora più vera leggendo storie del
terremoto. Anzi, dei terremoti, perché sono stati molti
coloro che, se subito dopo la scossa del 20 maggio si
erano dati da fare per riprendere immediatamente l’attività, dieci giorni più tardi hanno dovuto ricominciare tutto daccapo.
Gente che, mentre la terra tremava ancora, era già lì, spesso e
volentieri assieme ai propri dipendenti, a vedere come riprendere subito a lavorare, a cercare soluzioni per non perdere mercato, da quelle più temporanee, magari addirittura all’aperto,
sotto un gazebo o dentro un container, fino ad arrivare a delocalizzazioni meno estemporanee.
Insomma, un territorio ferito, ma non finito. Tanto che, nonostante le evidenti difficoltà, il 59% delle aziende nei comuni
colpiti direttamente dal terremoto e il 73% delle aziende danneggiate pensano positivo e ritengono che la ricostruzione potrebbe risultare addirittura un’opportunità. Persino il 55% delle
imprese danneggiate è convinto che, nell’arco di cinque anni,
l’economia del territorio tornerà a essere forte come prima del
sisma o addirittura più forte.
Utopia? Le storie che presentiamo di seguito – la punta di un
iceberg fatto di tanta determinazione, volontà e impegno – sono
lì a dimostrare che non si tratta soltanto di un sogno, ma di una
possibilità concreta. Da alimentare, da sostenere, perché i feriti
bisogna curarli. Ma la determinazione di ritornare più forti di
prima, un centimetro alla volta, giorno dopo giorno, quella non
è crollata. Quella non crollerà.
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FARE SQUADRA
PER TORNARE
A CRESCERE.
SUBITO
La storia della HMC:
in 30 giorni la produzione
addirittura aumentata
rispetto al pre sisma
N
on ci ha messo molto Giuseppe Bisi a decidere che il terremoto non avrebbe fermato la sua azienda. E se dopo la
scossa del 20 maggio per riattrezzarsi aveva impiegato
un paio di giorni, dopo i terremoti del 29 è servito un mese di lavoro per rimodellare una sede temporanea individuata a Rubiera,
riadattarla di tutto punto e riprendere l’attività. «Al 110%, per
recuperare il tempo perduto», sottolinea Bisi, titolare della HMC
Premedical spa, azienda di 120 dipendenti specializzata nello
stampaggio dei cosiddetti disposable biomedicali. «Sono serviti
un investimento di 750.000 euro, ottenuti in parte anche grazie
alla sensibilità delle banche, poi la disponibilità di numerosi artigiani che hanno lavorato letteralmente giorno e notte per allestire il capannone (e attivare una camera bianca da 1.500 mq).
Abbiamo addirittura acquistato più macchine rispetto a quelle
distrutte dal sisma per potenziare la produzione, ma c’era, c’è
da onorare un impegno. Subito dopo il terremoto – racconta Bisi
– ho detto che entro il 2013 sarei tornato a Mirandola. Per farlo,
però, era necessario ricominciare a lavorare subito: per accumulare il capitale necessario a riportare tutto là dove siamo nati e
per non perdere le commesse. Il primo passo lo abbiamo fatto, e
forse è stato quello più difficile».
Anche se i problemi non sono mancati. «In particolare uno – sottolinea il titolare della HMC –, la difficoltà di far capire ad alcuni
dipendenti la necessità di lavorare anche in agosto, sabato e do-
menica compresi, per rispettare le consegne delle forniture alle
multinazionali nostre committenti. Intendiamoci, la maggioranza
dei nostri collaboratori si è dannata l’anima per permettere l’immediata ripresa dell’attività, ma la reticenza di pochi ha rischiato
di gettare al vento il lavoro fatto. E in una situazione di emergenza
come quella che stiamo vivendo ho trovato questa difficoltà incomprensibile, perché qui non è in gioco solo il futuro della HMC,
ma anche la sopravvivenza del biomedicale nell’Area nord».
Il rischio paventato da Bisi, infatti, è quello che l’eventuale incapacità della filiera di rispondere alle esigenze dei grandi fornitori rappresenti un’ulteriore spinta alla delocalizzazione di queste
aziende. Con le ovvie, disastrose conseguenze per l’economia e
l’occupazione del territorio.
«Per ripartire servono tre cose: rimborsi celeri e finanziamenti,
che chiamerei investimenti, perché non abbiamo bisogno di soldi
“gratis”. Ma prima di ogni altra cosa serve che il territorio ritrovi
quella capacità di lavorare per lo stesso obiettivo, come accaduto dagli anni sessanta in poi per circa un ventennio. Credo che
questa comunità di intenti sia stata la vera chiave del successo
della nostra come di altre imprese, la caratteristica principale del
cosiddetto modello emiliano». Guarda caso, proprio gli anni in
cui nasceva – era il 1998 – e si sviluppava HMC. «Nel giro di pochi anni abbiamo quintuplicato il nostro fatturato, arrivando agli
attuali 25 milioni di euro, rilevando un’impresa nel Rodigino e
aprendo una piccola filiale in Serbia, con un mercato proprio che
si aggira attorno al 60% e un 40% di produzione in conto terzi.
Si tratta di quote di mercato che dobbiamo ripristinare subito
perché condizione essenziale per la ripresa è dimostrare ai nostri
committenti che noi siamo qui, pronti come sempre a soddisfare
le loro esigenze in termini di quantità e qualità». Quella qualità
che oggi rappresenta probabilmente il fattore competitivo più importante, dopo gli anni dell’inventiva.
«Sì, forse un tempo era più facile, di certo diverso, fare impresa.
Oggi rispetto al passato servono molta più organizzazione e più
servizio. Ma siamo cresciuti anche in questo. Ecco perché ritengo
che le prospettive non manchino. Solo se riusciremo a fare squadra, però».
I L P R I M AT O
DELLA MIX
Nessuna perdita di fatturato
per l’azienda di Cavezzo
malgrado il KO dei capannoni
N
on è una disciplina olimpica, ma in fatto di tempi di ripartenza dopo un terremoto la Mix di Cavezzo il podio
lo meriterebbe tutto: in 48 ore un ufficio tecnico fatto di
25 postazioni già pronto a dialogare con il mondo (fatto essenziale per una multinazionale tascabile come quella modenese),
3 giorni (passati prima a estrarre le attrezzature poi a riallestirle
in altri reparti, tra cui lo showroom aziendale) per riprendere le
lavorazioni. In soli 10 giorni allestito un capannone a Nonantola
per il completamento di alcune fasi produttive.
«E non ci siamo fermati a questo. Mentre avevamo superato tutto sommato indenni il primo sisma, con le scosse del 29 maggio sono collassati 6.000 metri quadrati del nostro stabilimen-
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La Fonderia Scacchetti,
dalla distruzione
alla ricostruzione in 90 giorni
to, mentre altri 4.000 necessitavano della messa in sicurezza.
Bene, quest’ultima l’abbiamo completata a metà luglio, mentre
in agosto abbiamo iniziato la copertura del blocco crollato e tra
pochi giorni riporteremo a Cavezzo l’ufficio tecnico di assistenza. Possiamo tranquillamente affermare che la nostra clientela,
per l’80% estera, non si è nemmeno accorta della tragedia che
ci ha colpito». È un vulcano Ermes Prati – assieme a Guglielmo
Pellacani e Loris Manfredi uno dei tre soci della Mix, azienda
di Cavezzo che produce impianti per la miscelazione e la filtrazione, oltre ad altri dispositivi – a raccontare come ha reagito
questa bella realtà aziendale modenese a un evento così traumatico.
«Siamo riusciti a non perdere fatturato, anzi: abbiamo addirittura fatto alcune nuove assunzioni. Del resto, negli ultimi quattro
anni, malgrado la crisi dell’economia internazionale, non abbiamo fatto alcun ricorso agli ammortizzatori sociali. Il terremoto
ha richiesto solo qualche ora di ferie, ma già da luglio tutti i
nostri dipendenti sono al lavoro. Peraltro, uno degli elementi
della nostra politica aziendale è proprio il coinvolgimento dei lavoratori e né loro né noi abbiamo nutrito il minimo dubbio sulle
capacità di ripresa immediata dell’azienda».
Qualche conto lo avete già fatto? «A oggi abbiamo investito
600.000 euro senza chiedere un soldo alle banche, con le quali,
invece, stiamo trattando per ottenere un finanziamento necessario a sostenere la ricostruzione dei nostri capannoni. Speriamo
che questi sforzi, che sono quelli di tanti altri imprenditori del
territorio, siano apprezzati».
Il riferimento, ovviamente, va allo Stato, quello stesso Stato al
quale ogni anno l’area di quello che è definito, con un brutto
termine, il “cratere” sismico dà un contributo di 7 miliardi di
euro sotto forma di tasse e imposte varie. Ecco perché è più
giusto parlare di investimenti, piuttosto che di finanziamenti.
Anche se in proposito Prati nutre una certa disillusione: «Spero
di sbagliarmi, ma sino a oggi non è che abbiamo sentito molto
la vicinanza delle istituzioni, per cui, nostro malgrado, non è che
facciamo troppo affidamento su questo aiuto. Ecco perché ci
stiamo organizzando da soli, anche se un sostegno renderebbe
tutto più facile, più veloce».
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uesto maledettissimo terremoto nasconde storie per le
quali immaginare un lieto fine è davvero difficile. È il caso
della Fonderia Scacchetti Leghe Leggere, un’azienda di
270 dipendenti, un fatturato di 3 milioni al mese (per il 70%
proveniente dall’estero, in particolare Asia e Russia), che il 20
maggio si ritrova con un capannone crollato e un altro con gravi
danni strutturali e che con le scosse del 29 vede compromessi
anche gli impianti.
Un colpo pesantissimo per un’azienda storica per il territorio –
la Fonderia Scacchetti è nata negli anni sessanta e ancora oggi
annovera nel capitale societario la famiglia fondatrice – che nel
corso degli anni aveva saputo rinnovarsi senza perdere la propria identità.
«Già dopo la prima scossa la produzione di fatto era completamente ferma, e lo è stata per un mese e mezzo. Ma già martedì
22, tirato un sospiro di sollievo per non aver registrato incidenti
al nostro personale, eravamo al lavoro per ripartire», racconta
Leonardo Pivetti, uno dei soci della Fonderia Scacchetti.
Un’attività iniziata con una riorganizzazione della produzione:
«Lavoriamo per l’automotive, in particolare realizzando elementi strutturali per famose case automobilistiche nazionali
e internazionali che non potevamo certo lasciare scoperte. Per
questo abbiamo iniziato a delocalizzare, per quanto possibile,
la produzione presso altre fonderie, facendo però attenzione
a monitorare direttamente i processi produttivi per garantire quella qualità che ci ha permesso di distinguerci in questi
anni».
Una situazione per forza di cose temporanea, per quanto agevo-
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DI CORSA.
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lata dalla presenza di una filiera forte e dalla considerata stima
di cui l’impresa di San Felice gode da parte sia dei fornitori sia
dei clienti. Ecco perché la Fonderia Scacchetti si è subito data
da fare anche per riprendere l’attività, dando il via alle demolizioni controllate per salvaguardare i macchinari e mettendosi
al lavoro per il consolidamento e la ricostruzione conservativa
degli edifici danneggiati.
«A fine luglio – rivela Pivetti – eravamo già tornati al 40% dell’attività produttiva e a un fatturato di 1,6 milioni di euro al mese.
Ricavi peraltro pressoché totalmente destinati alla ricostruzione». Che sarà costosa, estremamente costosa. Almeno 7 milioni
di euro. «E nel contesto attuale, con un mercato estremamente
concorrenziale e margini molto più bassi di qualche anno fa, si
tratta di un esborso davvero difficile da affrontare».
Dunque, se nell’immediato i problemi maggiori sono stati la
logistica, la riorganizzazione e la delocalizzazione, sul mediolungo periodo il problema è reperire le somme necessarie per
affrontare la ricostruzione. «Servono finanziamenti – Pivetti si
unisce al coro di chi rivendica aiuti – perché è impensabile credere che si possa fare affidamento su mezzi propri per costi così
rilevanti. Disponibilità di risorse finanziarie, regole certe, poca
burocrazia: ecco ciò di cui abbiamo bisogno – conclude Pivetti
– perché saremo anche bravi, ma qui dobbiamo fare i conti con
qualcosa di imprevedibile e più grande noi».
UN AIUTO
PER RIPARTIRE
Maria Rosa Vioni: «Abbiamo
sempre aiutato tutti,
ora siamo noi ad avere bisogno
di una mano»
«D
opo la scossa del 29 chi vedeva il mio capannone mi diceva di mettermi il cuore in pace: l’unica
soluzione sarebbe stata la demolizione. Ma per la
mia impresa l’abbattimento avrebbe significato la fine, visto che
per l’attività che svolgiamo le strutture più importanti sono nel
soffitto. Così ho tenuto duro e ho fatto bene, perché alla fine
ho trovato un ingegnere che ha individuato le soluzioni giuste.
Complicate, certo, e costose – circa 200.000 euro – ma proprio
in questi giorni l’attività ricomincerà al 100%». È preoccupata
per il futuro, e non potrebbe essere altrimenti, Maria Rosa Vioni,
titolare della Kris Baby, azienda di Concordia con 13 dipendenti
specializzata nel taglio di tessuti, ma altrettanto determinata,
e non solo a parole. «Mentre aspettavamo di decidere che cosa
fare non siamo rimasti con le mani in mano, ma abbiamo subito
portato all’esterno, sotto quattro gazebo, il computer, il plotter
e tutto ciò che poteva essere utilizzato all’aperto. Questo ha
impedito il blocco totale dell’attività».
Certo, in quelle condizioni non è stato possibile fare molto, non
più del 5% della normale produzione, ma almeno dal punto di
vista morale è stato importante poter in qualche modo continuare a lavorare. Anche se il morale da solo non basta. «Ci servono
anche dei finanziamenti, a noi come ad altri artigiani. Perché
noi modenesi abbiamo sempre aiutato tutti. E oggi, malgrado le
nostre capacità, malgrado la nostra volontà, siamo noi ad avere
bisogno». E sarebbe un delitto non sfruttare le capacità di ripresa del nostro sistema produttivo. «Proprio quest’anno – racconta
in proposito Maria Rosa Vioni – ricorre il 35° anniversario della
Kris Baby. Se siamo riusciti a rimanere sul mercato per tanto
tempo è stato per la qualità, il servizio che abbiamo sempre
riservato ai nostri clienti che, proprio per questo, ci hanno confermato la loro fiducia anche in questo difficile momento. Credo
che questa sia una caratteristica delle stragrande maggioranza
delle aziende che operano sul nostro territorio».
Imprese che, come la Kris Baby, hanno investito nel tempo in
qualità e in ricerca, sempre disponibili a mettersi in gioco. «Lo
abbiamo sempre fatto da soli – sottolinea Vioni –. Adesso, però,
ci serve una mano. Senza piagnistei, ma con la consapevolezza
di poter dare in cambio il benessere che imprese come la nostra
hanno garantito alla collettività».
IL TIMBRO,
DA SAN FELICE
A BOLOGNA
CON LA VOLONTÀ
DI RITORNARE
Il valore della solidarietà
imprenditoriale
L
e quattro di notte del 20 maggio. La terra trema, trema
forte, e il primo pensiero va ai famigliari: staranno tutti
bene? Sarà tutto a posto? Telefoni, corri da loro, ti accerti
che i tuoi cari siano al sicuro. Solo in un secondo momento
pensi alla tua impresa, al capannone. Altra corsa, e se solo
qualche minuto prima avevi pensato di averla in qualche modo
scampata, ecco che davanti alle rovine della tua fabbrica ti accorgi che non è andato tutto bene, no, proprio per niente.
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LA SOLIDARIETÀ
PER CONTRATTO
È la storia di Franco Scannavini, una storia come tante altre
quella capitata al titolare de Il Timbro snc, azienda di San
Felice sul Panaro leader nella preparazione di impianti stampa per packaging di qualità, fornitrice di importanti cartiere e
scatolifici di tutto il Paese.
«Io e mia moglie ci siamo sentiti morire nel vedere un capannone inaugurato nel 1998 di fatto distrutto. Ma dal dolore
è nata subito la voglia di inventarsi qualche cosa per ricominciare, per non disperdere quanto avevamo realizzato negli
anni precedenti».
Primo obiettivo, allora, salvare il “cuore” dell’impresa, ovvero
il reparto grafico. E così parte una demolizione controllata
che permette di aprire il capannone come una scatola. «Per
tre settimane abbiamo vissuto una vita d’inferno, dormendo
davanti all’edificio per fare la guardia agli impianti, ai computer e ai sistemi grafici computerizzati, e spaccandoci la
schiena di giorno per portare le macchine a Bologna».
Già, a Bologna, non in un posto qualunque, bensì sotto il capannone di un diretto concorrente. «Lo scriva, perché quello
che ha fatto per noi il signor Mario Salotti, titolare della New
Timbriflex srl, è la testimonianza di una solidarietà imprenditoriale tanto sincera quanto preziosa». «Che problema c’è?
Vieni da me con i tuoi computer» si è offerto Salotti dopo
una prima telefonata di Scannavini, mettendo a disposizione
di sua iniziativa la parte inutilizzata del proprio capannone.
«Che problema c’è? Al massimo mi aiuterai a pagare l’affitto»
si è ripetuto l’imprenditore bolognese dopo una seconda telefonata, il 29 maggio, quando le due ulteriori scosse hanno
messo in pericolo anche gli impianti di produzione polimeri
ancora in sede a San Felice Sul Panaro.
Del resto, quella straordinaria rete di solidarietà che si è immediatamente attivata dopo il terremoto è stata uno dei pochissimi aspetti positivi di questa tragedia.
«Dopo nemmeno due mesi dal terremoto avevamo già ripristinato l’80% della produzione, salvando l’azienda e ridando fiducia anche ai nostri 18 dipendenti. Certo – continua
Scannavini – le difficoltà ci sono, logistiche e operative. Per le
prime 3 settimane si lavorava a turni presso la ditta concorrente, loro lavoravano sino alle 17 e noi dalle 17 sino alle 24.
Alcuni clienti, che in un primo momento avevamo avuto diverse difficoltà a servire, si sono momentaneamente allontanati
per ovvie ragioni di servizio e urgenza, ma ora stanno tornando tutti e questo è stato un grande aiuto che compensa i tanti
sacrifici morali e finanziari che abbiamo dovuto sostenere in
questi due mesi di doppio lavoro».
E per il futuro? «La nostra volontà è di tornare a casa nostra, a
San Felice – ribadisce Scannavini –, ma aspettiamo di sapere
quali saranno le agevolazioni che saranno concesse a chi, come
noi, non si vuole arrendere. Abbiamo bisogno di azioni concrete
e di regole certe perché non possiamo certo fare scelte approssimative. Il mercato e la situazione non lo permettono. Il problema è che affinché ciò avvenga serve un cambio di passo rispetto
al passato, perché se stiamo alle capacità dimostrate in altre
occasioni dallo Stato non c’è da stare molto allegri».
Il caso della EcoByte, società
di San Felice sul Panaro
I
l terremoto ha permesso di scoprire tante forme di solidarietà.
In primo luogo, la solidarietà umana, fatta dell’impegno di tutti quei volontari che nelle ore immediatamente successive alle
scosse del 20 e poi del 29 sono scesi nella Bassa per dare una
mano. Poi la solidarietà imprenditoriale, quella nata spontaneamente, che si è concretizzata in tanti modi: dalla messa a disposizione di capannoni e macchinari alla dilazione dei pagamenti
concessa dai fornitori o, all’inverso, dall’anticipazione dei crediti
da parte dei clienti. C’è poi stata la cosiddetta millantata solidarietà: gente, cioè, che offriva la propria collaborazione magari per
cercare di accalappiare nuove commesse o, peggio, che lucrava
sui primi interventi, quelli di emergenza.
Ma c’è anche chi la solidarietà l’ha messa nero su bianco, fissandola per contratto. È quanto ha fatto la EcoByte di San Felice,
che ha deciso di devolvere mensilmente il 10% del fatturato sui
nuovi contratti siglati da luglio in poi al conto corrente di tesoreria
dell’amministrazione comunale locale. Il tutto sino al 2015. E i
clienti potranno decidere la destinazione delle somme relative al
proprio rapporto con la EcoByte: se, cioè, destinare la percentuale relativa al proprio contratto alla popolazione piuttosto che
al recupero di edifici comunali (le scuole, ad esempio) o di beni
storici e culturali (il castello di cui tanto si è purtroppo parlato).
«Un’idea – racconta il titolare della EcoByte, Paolo Malaguti – che
nasce anche dalle sollecitazioni di alcuni nostri importanti clienti nazionali che ci chiedevano di poter fare qualcosa, ma soprattutto che i
contributi eventualmente erogati avessero una destinazione precisa.
Con la modalità che abbiamo studiato riusciamo appunto anche a
rendicontare le somme destinate al Comune e, per suo tramite, al
recupero di un territorio al quale sono intimamente legato».
La risposta dei clienti? «Positiva: abbiamo in cantiere le prime trattative, e in questi giorni dovrebbero arrivare i primi accordi siglati».
Cioè i primi passi verso un obiettivo anche ambizioso. «Ci piacerebbe – conferma Malaguti – arrivare a 100.000 euro per dare un
segnale di solidarietà importante». Importante, e si tratta di un
aspetto non irrilevante, anche per la EcoByte. «Anche noi abbiamo
subito il contraccolpo del terremoto, se non in termini strutturali, di
certo sul versante del fatturato perché tutti i contratti con le aziende locali danneggiate sono stati ovviamente risolti, con una perdita
di circa il 30% del fatturato. Ma – precisa il titolare della Ecobyte,
che peraltro la solidarietà l’ha dimostrata nei fatti ospitando nei
propri uffici un’azienda che ha subito notevoli danni ai propri edifici – non è questo il punto essenziale dell’operazione. La volontà è
di contribuire direttamente a cercare di riportare alla normalità il
paese dove sono nato e cresciuto. Fa troppo male vederlo così».
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