L`ELLENISMO La storia dell`antica Grecia non è sempre stata
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L`ELLENISMO La storia dell`antica Grecia non è sempre stata
L’ELLENISMO La storia dell’antica Grecia non è sempre stata gloriosa. Sono state spesso le guerre a scandirne le tappe, come quella vittoriosa contro la Persia, che rappresenta anche uno dei rari momenti di unità tra le diverse polis greche. Il V secolo è l’età d’oro di Atene, la vera vincitrice della guerra contro i Persiani. Grazie anche alle casse della Lega Ellenica, la città diventa il centro più importante del Mediterraneo. Una ricchezza che provoca invidia e risentimento tra i suoi alleati, in primo luogo Sparta. E l’unità interna si sfalda. La Guerra del Peloponneso è un’altra tappa fondamentale nella storia greca, poiché sancisce il declino ateniese, senza tuttavia aprire una nuova fase di sviluppo altrove. Violenza e intolleranza dilagano. A farne le spese, tra i tanti, il filosofo Socrate. Testimone di questa decadenza è un suo discepolo, Platone, che disegna uno Stato molto lontano dalla realtà, di fatto utopico, sebbene ispirato alla realtà spartana. Quando Aristotele giunge in Atene, la Grecia è ormai in piena crisi. All’orizzonte si affaccia una nuova potenza, la monarchia macedone. Significativo il fatto che il padre del filosofo sia medico di corte e che Aristotele stesso diventerà il precettore del più grande condottiero di tutti i tempi: Alessandro Magno. È con il suo impero che, di fatto, si conclude l’era della Grecia classica. Il suo impero universale è qualcosa di assolutamente originale: un sistema politico e culturale vastissimo, capace di mettere insieme popoli, lingue, religioni molto distanti tra loro. L’impresa, avviata nel 343, si conclude con la morte dell’imperatore, avvenuta nel 323 a.C. Venti anni in cui il mondo muta profondamente. L’unità politica e la relativa tolleranza alessandrina consente di abbattere confini politici e steccati ideologico-cultrali secolari. È vero che quando l’impero si sfalda nascono monarchie centraliste, come quelle d’Egitto, Siria, Pergamo e Macedonia, ma ormai il processo di fusione tra le diverse culture è un dato acquisito. La società mediterranea è ormai multietnica e multiculturale. Si tratta di una svolta epocale. La Grecia non esiste più e non esistono più nemmeno le polis, quanto meno come entità politiche libere ed autonome. Per l’uomo greco il colpo è durissimo. Per secoli egli si era infatti identificato con le sue istituzioni, con la sua libertà. L’uomo greco era un “cittadino”, con annessi diritti e doveri. La cittadinanza conferiva cioè al greco uno status sconosciuto altrove. Di qui quel senso di superiorità che lo portava a vedere negli altri popoli degli schiavi, degli esseri inferiori per natura. Ma ora, con la fine dell’indipendenza politica, il greco non può vantarsi più di nulla: egli non è più un cittadino, bensì un “suddito”. Le ripercussioni sull’intera società greca sono notevoli. In primo luogo viene a mancare la giustificazione della schiavitù, e in secondo luogo l’impegno politico e civile intesi come un dovere etico. La politica non si fa più nelle polis: al suddito non resta che obbedire, passivamente. Di qui il dilagare di quel disimpegno che finisce per travolgere anche la stessa filosofia, che era nata e cresciuta in stretto rapporto con le polis. L’impero universale di Alessandro Magno rappresenta dunque una svolta epocale, una sorta di globalizzazione antica, che ha consentito una fusione tra le diverse culture mai visto prima. Ogni popolo ha dovuto così confrontarsi con culture sconosciute, lontane e profondamente diverse dalla sua. Questo è il cosiddetto “Ellenismo”. Pare che il termine sia stato coniato per la prima volta dallo storico tedesco Johann Gustav Droysen a indicare una progressiva orientalizzazione della cultura greca. Ma è altresì vero che quel termine indica anche il processo inverso, vale a dire quello della “ellenizzazione” di tutta la cultura mediterranea. E tutto questo accade grazie ad Alessandro Magno, che aveva fatto conoscere ai Greci le culture più remote e ai popoli più lontani la cultura greca. Tuttavia, gli storici moderni tendono ad identificare l’Ellenismo non tanto con gli anni del governo alessandrino, ma con quelli successivi, quando effettivamente tale processo si istituzionalizza. Ma mentre si conviene per la sua data di nascita, il 323 (anno della morte di Alessandro), le cose si complicano allorquando si cerca di identificare la sua fine. Alcuni la individuano nella fine dell’era repubblicana romana, altri invece prendono come emblematica l’anno della chiusura della Scuola platonica di Atene, avvenuta ne 529 d.C. ad opera dell’Imperatore Giustiniano. Le scuole filosofiche dell’Ellenismo La filosofia nasce con le polis, ma non muore con le polis. Lo stretto connubio, dunque, non impedisce alla filosofia di rinnovarsi profondamente e di adeguarsi al mutare dei tempi, rispondendo alle sfide di un’epoca profondamente diversa da quella precedente. A contendersi il primato filosofico in questo periodo saranno soprattutto tre scuole: l’Epicureismo, lo Stoicismo e lo Scetticismo. Questo non significa che le più antiche siano tramontate. E tuttavia il successo arride soprattutto a quelle nuove e come tali in grado meglio delle altre di farsi interpreti della nuova società greca, quella dell’epoca dell’Ellenismo. Ma tra le antiche scuole ce n’è una che meglio delle altre riesce a rinnovarsi, la Scuola socratica, che in questi anni prende il nome di Cinismo. IL CINISMO La Scuola socratica non scompare con la morte del maestro, anche se viene messa in ombra prima dall’Accademia platonica e poi dal Liceo aristotelico. D’altro canto, Socrate non aveva lasciato nulla di scritto e questo non favorisce certo l’unita interna del movimento socratico. In fondo, anche Platone si presenta come il più fedele tra i socratici e la sua scuola può essere fatta rientrare nell’alveo del movimento socratico. Dunque, è piuttosto difficile ricostruire la storia della scuola socratica propriamente detta. Ai tempi in cui la stella di Atene sta ormai tramontando e all’orizzonte avanza la potenza macedone, a guidare il movimento socratico è ANTISTENE, il quale imprime al pensiero del maestro una decisa svolta scettica, in aperta polemica con l’Accademia platonica. È a Platone che Antistene si riferisce quando esclama: “io vedo il cavallo, non la cavallinità!”. L’autore dunque nega l’esistenza delle idee iperuraniche, dunque di quei concetti universali che rappresentano il fondo di tutta la speculazione platonica. Sulla stessa lunghezza d’onda il suo successore, DIOGENE DI SINOPE. Nato sulle sponde del Mar Nero, Diogene è costretto alla fuga perché accusato, insieme al padre, di avere contraffatto alcune monete. Giunge così ad Atene, dove conosce Antistene, divenendo presto suo discepolo. Si mette subito in luce per uno stile di vita bizzarro e provocatorio. Diogene ama presentarsi come un disadattato, come un emarginato, dormendo in una botte di vino e girando per le strade di Atene con una lanterna accesa in mano anche in pieno giorno e gridando di continuo: “Cerco l’uomo! Cerco l’uomo!”. Perché? L’atteggiamento di Diogene, in fondo, non si discosta da quello di Socrate, anch’egli avvezzo alla provocazione. Il maestro era solito bersagliare i “sapienti” della città per smascherarne tutta la loro ignoranza. Diogene rinuncia invece a dialogare con gli altri uomini perché non li ritiene in grado di farlo. La sua spasmodica ricerca dell’uomo è quasi un grido disperato: non vi sono più uomini che possano filosofare. Il pessimismo di Diogene è in realtà un atto d’accusa contro tutta la cultura greca. Egli si batte infatti contro tutte le scuole filosofiche in nome di un’etica attiva, che elimina di volta in volta gli atteggiamenti superflui. Un’esaltazione della prassi che di fatto cancella ogni aspetto razionale dell’uomo. Il salto con il passato è netto: l’uomo, definito da tutti i filosofi del passato come “animale razionale”, finisce per essere degradato a semplice “animale”. E infatti Diogene vive come un animale, come un cane randagio: “scodinzolo festosamente verso chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non mi dà niente, mordo i ribaldi”. Ecco perché per gli ateniesi Diogene e i suoi seguaci erano dei “cinici”, in quanto vivono come cani. Ma perché vivere in questo modo? Cosa vogliono dimostrare con tali atteggiamenti provocatori i cinici? Che l’unico fine della vita umana è la libertà e si è liberi solamente se ci si libera di tutti i bisogni superflui. La vita randagia appare loro come la migliore, in un mondo dominato da leggi ingiuste e assurde convenzioni. L’uomo deve raggiungere la più completa autosufficienza, vale a dire l’autarchia. Ma per raggiungerla occorre anche liberarsi da altre catene, quelle che ci legano alle passioni. Dunque, liberarsi dai mali materiali non basta per raggiungere la felicità: occorre eliminare anche i mali dell’anima per raggiungere uno stato di perfetta apatia, l’indifferenza per quanto ci accade intorno. Racconta Plutarco che un giorno Diogene, mentre sta prendendo il sole, vede avvicinarsi niente meno che l’imperatore Alessandro, suo grande ammiratore, il quale gli dice: “chiedimi quello che vuoi e io te lo darò!”. E Diogene, serafico come sempre: “non farmi ombra e rendimi il sole!”. Apatico, indifferente, provocatore e anche un po’ sbruffone: questo è Diogene. L’evoluzione (o involuzione) del movimento socratico rappresenta il termometro di una società ormai in decadenza. Apatia e indifferenza – al di là delle provocazioni ciniche – dilagano in tutti gli strati della popolazione greca, a causa della decadenza della polis, della fine delle antiche libertà e dell’indipendenza. Ed è la stessa storia di Diogene a dimostrarlo. Vero è che gli ateniesi lo disprezzano, ma nessuno lo può condannare, come invece sarebbe accaduto in passato. Anzi, Diogene può vantare addirittura l’amicizia con l’uomo più potente del mondo antico. L’EPICUREISMO Epicuro nasce a Samo nel 341 a.C. Suo padre è un maestro di scuola, sua madre una maga. Frequenta la Scuola platonica di Pamfilo e successivamente quella atomistica di Nausifane. A 32 anni Epicuro decide di fondare una propria scuola a Mitilene, quindi un’altra a Lampsaco. Giunge ad Atene solamente nel 306 per fondare una terza scuola, bellissima, immersa nel verde, lontana dai trambusti della città e, soprattutto, dotata di un meraviglioso giardino. Ecco perché quella scuola passa alla storia come “Scuola del Giardino”. Poco di Epicuro è giunto fino ai nostri giorni, solamente le Lettere indirizzate ad Erodoto, Pitocle e Meneceo, nonché due raccolte di Massime e diversi frammenti. La Lettera a Meneceo rappresenta una sorta di “summa” filosofica, i cui punti fondamentali possono così essere sintetizzati: 1. “Non bisogna temere gli dei”. Epicuro non intende negare l’esistenza delle divinità, quanto confutare l’idea che questi si occupino di cose umane. Gli dei – sostiene– se ne stanno, eterni e beati, in un altro mondo, nettamente separato dal nostro, in un’altra dimensione. Non avrebbe alcun senso che simili esseri, che possono godere di felicità e beatitudine eterna, ingeriscano nelle umili vicende umane. 2. “La morte è nulla per gli uomini”. Epicuro intende eliminare la paura della morte dagli uomini, secondo un semplice quanto efficace ragionamento: “quando ci siamo noi, la morte non c’è; quando ce la morte, non ci siamo noi”. 3. “Il bene è facile a procurarsi”. Epicuro rivendica qui un radicale ottimismo, che lo porta a sostenere il facile raggiungimento del bene, quindi della felicità, per lo più per via negativa, cioè attraverso ben determinate rinunce, nello specifico di quelle che turbano l’animo, tra cui la politica. 4. “E’ facile sopportare il male”. Epicuro divide innanzitutto i mali fisici da quelli dell’anima. Per quanto concerne i primi, se questi sono lievi, allora il dolore è sopportabile; se sono acuti, passeranno presto; se sono acutissimi, allora non c’è problema, perché significa che presto moriremo e con noi morirà anche il dolore. Nel secondo caso, i mali dell’anima, ci si trova davanti a prodotti di opinioni fallaci, ad errori della mente, per i quali esistono rimedi molto efficaci, come la filosofia e la saggezza. E così la filosofia si trasforma in tetrafarmaco o quadruplice farmaco. Farmaco significa “rimedio”, “medicina”. Ecco allora spiegata la rivoluzione in atto nella cultura greca. La filosofia non offre risposte globali, non disegna né regni del Bene né Stati ideali e nemmeno si occupa di risolvere l’annosa questione dei rapporti tra l’Essere e il Divenire. La Filosofia è una medicina e come tale in grado, se ben utilizzata, di eliminare i mali individuali, fisici e dell’anima, e dunque di farci vivere meglio, con noi stessi e con gli altri. Epicuro divide la Filosofia in Logica (o Canonica), Fisica ed Etica. Sebbene sia sempre buona pratica seguire l’ordine indicato dall’autore, la Fisica assume nella filosofia epicurea un’importanza fondamentale. Di conseguenza si partirà proprio da lì. La Fisica L’importanza della fisica nella filosofia epicurea si evince da queste parole: “la fisica è necessaria per dare fondamento all’etica”. Epicuro ha dunque in mente una fisica molto particolare, vista come il fondamento della stessa esistenza umana. Ma quali sono i fondamenti su cui poggia? Il filosofo in primo luogo nega l’esistenza del nulla, vale a dire del non-essere: “nessuna cosa nasce dal non-essere e nessuna cosa si dissolve nel non-essere”. Viene dunque negata una visione molto ben radicata nel periodo presocratico, da Anassimandro a Eraclito, ma non certo per abbracciare il pensiero della Scuola di Elea. Infatti per Epicuro, a differenza di quanto sostenevano Parmenide e Zenone, il movimento esiste e questo perché esiste anche il vuoto. Ma se esiste il vuoto, allora perché negare l’esistenza del non-essere? Per la semplice ragione che il vuoto non corrisponde al non-essere, come invece sostenevano gli Eleati. Il vuoto di cui parla Epicuro è piuttosto uno “spazio vuoto”. Il vuoto è quello spazio privo di corpi che consente ai corpi di muoversi. Il mondo, dunque, è un insieme di corpi che si muovono negli spazi vuoti. Corpi e spazi sono infiniti e dunque infinito sarà anche il mondo. Di più, anche i mondi sono infiniti. Una posizione straordinariamente attuale, visto che è da pochi anni che la scienza parla di “multiversi” o “pluriversi”. Ma che cosa sono questi corpi che vagano negli spazi vuoti? Epicuro li chiama allo stesso modo di Democrito: atomi, vale a dire “non più divisibili”. Ma l’atomismo epicureo non è lo stesso del filosofo di Abdera. In primo luogo, Epicuro giunge alla scoperta degli atomi attraverso un ragionamento negativo: se, infatti, i corpi non fossero atomi, bisognerebbe ammettere una loro divisibilità all’infinito, dissolvendo in tal modo le cose nel non-essere, il che è assurdo. Il filosofo della Scuola del Giardino, poi, accetta, tra le qualità atomiche individuate da Democrito, solamente la figura, scartando sia l’ordine sia la posizione, sostituite con il peso e la grandezza. Ma la principale differenza tra i due filosofi sta nel movimento atomico: se per Democrito era di tipo caotico (o meglio ancora, vorticoso), determinando quegli urti fondamentali per la nascita di tutte le cose, per Epicuro è invece di tipo verticale, dall’alto al basso. Gli atomi, dunque, cadono in base al loro peso. Ma se così stanno le cose, come è possibile che si scontrino o si incontrino per dare via alle cose? Una domanda cruciale. Epicuro ha infatti negato l’esistenza del caso nella formazione delle cose del mondo e con voti verticali è impossibile che gli atomi si scontrino tra di loro. E allora? E allora ad Epicuro non resta che introdurre una forza esterna, che, come tale, non ha alcuna spiegazione logica né fisica e che dunque proviene proprio da quel nulla la cui esistenza aveva negato con forza: il Clinamen. Si tratta di una “declinazione” degli atomi, di una deviazione che permette loro di incontrare altri atomi dando vita alle cose, sostiene l’autore. Ma perché contraddirsi in questo modo? Perché non seguire la linea già tracciata da Democrito, quella del moto vorticoso? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alla citazione iniziale, la premessa di tutto il discorso epicureo: “la fisica è necessaria per dare fondamento all’etico”. Dunque, il Clinamen rappresenta sì una contraddizione e tuttavia necessaria per salvare l’etica, i cui fine è la celebrazione della libertà umana. Il sistema di Democrito, al contrario, nega tale libertà secondo Epicuro, in quanto tutto è dominato dalla legge del Fato: E in verità sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dei che non rendersi schiavi di quel Fato che predicano i fisici. Quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dei con onori, mentre nel Fato vi è una necessità implacabile. Insomma, la Fisica è subordinata all’Etica. Essa non è altro che un pretesto per fondare una nuova etica destinata a soppiantare quella tradizionale e a preparare il terreno per una grande rivoluzione. E dopo avere descritto i mondo fuori di noi, la Fisica descrive anche quelli dentro di noi, i mondi dell’anima, anch’essa composta da atomi, sebbene più leggeri degli altri. Di conseguenza, l’anima, come tutte le altre cose, avrà una nascita, una vita e una morte e come tale soggetta al divenire. E la Fisica spiega anche gli dei. Sulla sua esistenza Epicuro non nutre alcun dubbio, ma nega – come detto in precedenza – che si occupino di faccende umane, in quanto residenti nel cosiddetto intermondo, valle a dire negli spazi vuoti tra gli infiniti mondi, beandosi della loro saggezza e sapienza infinite. L’Etica L’anima è costituita da atomi e questo significa che è materiale. Di conseguenza, sarà di tipo materiale anche il raggiungimento della felicità. E questa è raggiungibile solamente attraverso il piacere. Un piacere molto particolare, che consiste da un lato nell’assenza di dolore nel corpo, l’aponìa, e dall’altro nell’assenza di turbamento nell’anima, l’atarassìa. Scrive Epicuro: Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati, che consistono in crapule [l’abbandono ai vizi, nda], come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male, ma alludiamo all’assenza di dolore dal corpo, all’assenza di perturbazione nell’anima. Non dunque le libagioni e le feste ininterrotte né il godersi fanciulli e donne, né il mangiare pesci e tutto il resto che una ricca mensa può offrire è fonte di vita felice, ma quel sobrio ragionare che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto e che scaccia le false opinioni per via delle quali grande turbamento si impadronisce dell’anima. Parole molto chiare, evidentemente rivolte ai critici della scuola, che non devono essere pochi nell’Atene del tempo, i quali interpretano l’etica epicurea come semplice abbandono ai più disparati vizi. Ma se il piacere non si identifica con il vizio, che cos’è? Per rispondere a questa domanda, Epicuro precisa che non di un solo piacere si deve parlare, ma di almeno tre: 1. Piaceri naturali e necessari 2. Piaceri naturali ma non necessari 3. Piaceri non naturali e non necessari I primi sono strettamente legali alla conservazione della vita dell’individuo. Si tratta del bere, del mangiare, del riposare e via dicendo. Significativamente, Epicuro esclude da questo gruppo l’amore, per il fatto che è sempre fonte di turbamento. Il secondo tipo di piaceri aggiunge qualcosa di più rispetto ai precedenti e perciò non è così necessario. Si tratta del mangiare “bene”, del bere “bevande raffinate”, del vestire “in modo raffinato” e via dicendo. Il terzo gruppo concerne piaceri non naturali e non necessari, piaceri definiti “vani” dall’autore. Si tratta dei piaceri generati dalle “vane opinioni degli uomini”, come quelli legati al desiderio di ricchezza, di potenza, di onore e via dicendo. Insomma, gli unici piaceri che vanno sempre e comunque soddisfatti sono quelli del primo tipo, finalizzati specificamente alla sola eliminazione del dolore e di cui non possiamo fare a meno. Se ci si allontana da questi, si finisce per precipitare gradualmente nel vizio. I piaceri del secondo tipo, infatti, sono un surplus non necessario, quasi una vanità. Quelli del terzo tipo, infine, oltre a non eliminare il dolore, finiscono per arrecare turbamenti e dunque sono assolutamente da evitare. Insomma, il fine di Epicuro è il medesimo di Diogene, l’autarchia, anche se mancano a Epicuro l’esaltazione di una vita cinica, la provocazione e l’indifferenza totale per le cose del mondo. Ma che cosa accade quando sopraggiungono mali non voluti, non ricercati, come quelli corporali? Se il male è lieve – sostiene Epicuro – allora è sopportabile, se invece è acuto, passerà presto, se invece è acutissimo, allora significa che stiamo per morire e quindi vicini alla cessazione del dolore. E i mali dell’anima? Per Epicuro sono causati da opinioni fallaci e da falsi ragionamenti, per i quali esiste un ottimo rimedio, uno straordinario farmaco: la filosofia. Della morte, poi, non bisogna proprio preoccuparsi perché se c’è lei non ci siamo noi e se ci siamo noi non c’è lei. In fondo la morte si presenta agli occhi di Epicuro come puro nulla, come un non-essere che, in quanto tale, non può (e non deve) coesistere con l’essere (Clinamen a parte). Se il fine dell’etica è il raggiungimento della felicità e se questa è possibile attraverso l’eliminazione di mali fisici e turbamenti dell’anima, è evidente che la politica è assolutamente da evitare. In questa decisa svalutazione della politica sta tutta la distanza tra l’Epicureismo (e più in generale tra la filosofia ellenistica) e le scuole precedenti. La politica è (o dovrebbe essere) per sua stessa natura passionale e le passioni provocano turbamento. Di più: le passioni politiche spesso degenerano in scontro fisico. Ecco spiegato quello che appare come un vero e proprio slogan epicureo: “vivi nascosto”. E ancora: Ritirati in te stesso, soprattutto quando sei costretto a stare tra la folla. Solo in questo modo è possibile trovare la tranquillità, di più, la pace dell’anima, l’atarassia. La corona dell’atarassia è incomparabilmente superiore alla corona dei grandi imperi. Ma con un simile approccio alla vita, su che cosa si fondano il Diritto, la Legge, la Giustizia, vale a dire i pilastri della cultura greca? Solamente sulla loro utilità. Di conseguenza, anche lo Stato, da realtà morale dotata di valore assoluto, si trasforma in una istituzione relativa, nata da un contratto tra gli uomini e per questo motivo relativo. Il salto rispetto a tutte le correnti filosofiche del passato, e soprattutto rispetto al platonismo, è netto. Un piccolo legame l’epicureismo lo mantiene solamente con una parte dell’etica aristotelica, soprattutto quando viene celebrata l’amicizia come unica virtù. L’amicizia è di per sé libera e a differenza dell’amore non provoca alcun turbamento. E, sempre a differenza dell’amore, l’amicizia è completamente disinteressata. L’amicizia trascorre per la terra, annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l’un l’altro. La Logica (o Canonica) La logica epicurea, vale a dire la Canonica, è anch’essa molto originale e per certi versi rivoluzionaria. Una logica che vuole offrire un criterio di verità, un “canone”, all’uomo, affinché possa orientarsi nel mondo. Si tratta dunque di una vera e propria teoria della conoscenza, basata essenzialmente sui sensi, quegli stessi che Platone aveva svalutato e che, almeno in parte, Aristotele aveva rivalutato. Ma Epicuro va ben oltre lo Stagirita, sostenendo che la sensazione coglie l’essere “in modo infallibile”. Ma come è possibile? Le cose emanano un flusso di atomi che colpiscono i nostri sensi. Ecco perché la sensazione è sempre vera, perché sono le cose a presentarsi a noi e non noi a cercare le cose. La moltitudine di sensazioni penetrano nella nostra mente come prolessi o anticipazioni, vale a dire schemi che consentono all’uomo di rammentare quanto esperito. Derivando dalle sensazioni, anche i concetti rappresentano un criterio di verità. Insomma, l’esperienza lascia nella mente dell’uomo una impronta delle passate sensazioni, che ci permette di conoscere in anticipo i caratteri delle cose corrispondenti anche senza averle attualmente di fronte. Tipico l’esempio del bambino e del fuoco. Una volta constatato, attraverso i sensi, che il fuoco brucia, il bambino memorizzerà tale esperienza per tutta la vita. Le prolessi sono dunque un processo di “astrazione” della mente nei confronti delle esperienze dei sensi. Dunque, la loro validità dipende solamente dal legame che hanno con le sensazioni. Esistono infine anche i sentimenti di piacere e di dolore, soggettivi in quanto soggettive sono pure le sensazioni, ma hanno un’importanza particolare, poiché, oltre che rappresentare un criterio per discriminare il vero dal falso, costituiscono anche il criterio per discriminare il bene dal male e quindi rappresentano la regola stessa di ogni nostra azione. Ancora una volta l’epicureismo mostra come il suo principale interesse sia di natura etica. Epicuro, anticipando di parecchi secoli il pensiero moderno, afferma che la conoscenza, per essere valida, deve fondarsi sul criterio di evidenza. Seguendo tale criterio, l’errore è impossibile. E siccome l’evidenza viene colta dai sensi, sono appunto i sensi il fondamento della conoscenza come anche le prolessi e i sentimenti di piacere e dolore che da essi derivano. Se gli uomini sbagliano, dunque, è solamente a causa delle opinioni, materiale di seconda mano sul quale lavora la nostra ragione. E tuttavia le opinioni non necessariamente sono tutte errate. Quale è il confine tra vere opinioni e false opinioni? Vere sono quelle opinioni che: - “ricevono attestazione probante”, vale a dire che sono confermate dall’esperienza e dall’evidenza “non ricevono attestazione contraria”, cioè non ricevono smentita dall’esperienza e dall’evidenza Sono invece false quelle opinioni che: - “ricevono attestazione contrarie”, ossia che sono smentite dall’esperienza e dall’evidenza “non ricevono attestazione contraria”, vale a dire che non ricevono conferma dall’esperienza e dall’evidenza Insomma, anche per le opinioni resta valido il criterio dell’evidenza, che solo i sensi possono attestare. Questo spiega allora perché Epicuro neghi con forza l’esistenza del non-essere, poiché i sensi non possono coglierlo. Ma sappiamo anche come tale regola viene violata dal Clinamen e sappiamo che questa violazione è conseguente all’esigenza di edificare l’etica della libertà. Conclusioni L’Epicureismo riprende alcune tematiche della scuola cinica. E tuttavia la vita di Epicuro, come quella di tutti i suoi seguaci, è scandita da una rigida disciplina interna. Sebbene sia un partigiano della libertà, Epicuro impone alla Scuola Giardino una sorta di “centralismo democratico”, vale a dire un sistema apparentemente democratico, ma nella sostanza dittatoriale, dove cioè non viene ammesso alcun dissenso e dove la linea del capo viene seguita dai seguaci senza fiatare. Va da sé che alla morte di Epicuro, avvenuta nel 270, il movimento, privato della sua unica guida, decada, al punto che persino il terreno dove sorge la scuola alla fine viene venduto. E tuttavia, nel I secolo, in una splendida villa ad Ercolano, in Italia, di proprietà di FILODEMO DI GADARA, nasce una nuova scuola epicurea. L’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel 79 d.C., ha conservato pressoché intatto l’edificio e persino la sua biblioteca, con alcune opere del padrone di casa e persino dello stesso Epicuro. Ma come è accaduto che l’epicureismo, ormai in crisi ad Atene, abbia trovato ospitalità in Italia? Difficile rispondere. E tuttavia la stessa cosa capita anche allo Stoicismo. Le ragioni stanno dunque nell’Ellenismo, cioè in un processo culturale, oltre che politico, che consente da un lato alla cultura greca di acquisire elementi ad essa estranei e dall’altro di espandersi in tutta l’area mediterranea. E così l’Epicureismo rinasce proprio nel nostro paese. Il pensiero della Scuola Giardino folgora anche un noto scrittore romano, TITO LUCREZIO CARO. Il suo De rerum natura, scritto in versi, è forse il più grande poema filosofico di tutti i tempi. Ed è un poema interamente epicureo. Certo, Epicuro non si sarebbe mai sognato di scrivere in versi. E tuttavia la scelta poetica non solo non snatura il pensiero del filosofo greco, ma lo rafforza. Il linguaggio poetico consente cioè all’epicureismo di penetrare anche in strati sociali solitamente non attratti dalla saggistica filosofica. Scrive lo studioso Pierre Boyancé: per liberare gli uomini, Lucrezio ha capito che non si trattava di ottenere, nei momenti di fredda riflessione, la loro adesione ad alcune verità di ordine intellettuale, ma che bisognava rendere queste verità […] comprensibili al cuore. Lucrezio parla dunque al cuore dei lettori, con un linguaggio poetico la cui efficacia verrà confermata nei secoli successivi dalle opere di autori del calibro di Agostino e Pascal. Filosofia e poesia iniziano così un sodalizio molto proficuo. LO STOICISMO La Scuola stoica segue di pochi anni la nascita dell’epicureismo. Il fondatore è ZENONE DI CIZIO un giovane di origine semitica nato a Cizio, nell’isola di Cipro, intorno al 333 a.C. Zenone si trasferisce ad Atene nel 312, dove, assetato di filosofia, si avvicina subito agli ambienti cinici. Quando Epicuro fonda la Scuola Giardino, Zenone non ha un pensiero filosofico ancora ben strutturato. Saranno proprio gli epicurei a fornirglielo. Ma, forse per la rigida disciplina interna o forse per un’etica troppo libertina, Zenone gradualmente si allontana dalla Scuola Giardino. Il filosofo di Cizio ha ora un obiettivo ambizioso: fondare una propria scuola, alternativa a quella di Epicuro. Ma non può comprare né un terreno né un edificio, in quanto meteco. E allora decide di tenere le sue lezioni in un portico nel centro di Atene, quello dipinto da Polignoto. In greco, portico si dice stoà. Di qui il nome della scuola: Stoicismo. La scuola della Stoà è molto diversa da quella di Epicuro. In primo luogo, non è un edificio, ma un luogo aperto. In secondo luogo, non si trova immersa nel verde della periferia ateniese, ma nel centro della città, in mezzo a quel trambusto che Epicuro non aveva mai sopportato. Questo significa che chiunque, passando nei pressi, può assistere alle lezioni di Zenone e può pure intervenire, cosa assolutamente impossibile nella Scuola Giardino. Zenone, dunque, ama il dibattito, il dialogo con discepoli e persino con i passanti. Di conseguenza, mentre l’epicureismo non subirà mai alcuna modifica di rilievo – nemmeno dopo la morte del maestro – lo Stoicismo rimarrà sempre una sorta di cantiere aperto. Gi storici hanno individuato tre fasi nella storia della Stoà: 1. Periodo dell’antica Stoà: dalla fine del IV a tutto il III secolo a.C.. Sono gli anni della guida di ZENONE e poi dei suoi immediati successori, come CRISIPPO DI SOLI 2. Periodo della Media Stoà: dal II al I secolo a.C, un periodo nel quale si assiste ad un mutamento sostanziale dei fondamenti della filosofia originale 3. Periodo della Stoà romana o Nuova Stoà: lo stoicismo si lega alla nascente filosofia cristiana, assumendo forti connotati religiosi. In questa sede verrà analizzato il primo periodo. L’Antica Stoà Anche Zenone accetta la tripartizione della filosofia stabilita da Epicuro, secondo la nota metafora del frutteto, dove la Logica rappresenta il muro di cinta, gli alberi la Fisica (in quanto struttura fondamentale del frutteto) e i frutti l’Etica (il fine dell’intero frutteto). Dunque, anche per Zenone l’Etica assume un ruolo fondamentale nell’impianto filosofico complessivo. E tuttavia senza la Logica, che delimita e protegge i confini del frutteto, non sarebbe possibile agli alberi dare vita ai frutti. Dunque in questo caso si comincerà dalla Logica. La Logica Anche per gli Stoici, come già per gli Epicurei, la Logica ha il compito di fornire un criterio di verità all’uomo. E come gli Epicurei, anche gli Stoici individuano la base della conoscenza nei sensi: un’impressione provocata dalle cose su nostri organi sensoriali, che si trasmette all’anima e si imprime in essa generando la rappresentazione. Ma le similitudini con l’Epicureismo finiscono qui. Per gli Stoici, infatti, la rappresentazione non implica solamente un “sentire”, ma anche un “assentire”, un’approvazione che proviene dal Logos presente nell’anima umana. L’impressione non dipende da noi, ma dall’azione che gli oggetti esercitano sui nostri sensi: su questo aveva ragione Epicuro. E tuttavia noi siamo liberi di prendere posizione di fronte alle impressioni e alle rappresentazioni che si formano in noi, dando l’assenso o rifiutando di dare l’assenso. Se diamo il nostro assenso, allora si ha apprensione (katàlepsis) e la rappresentazione è rappresentazione comprensiva o catalettica e solo questo è criterio di verità. La spontaneità dell’assenso è forse il punto più delicato di tutta la Logica stoica. La ragione umana ha un’importanza decisiva, in quanto spetta proprio a lei decidere la validità su quanto i sensi attestano. Rispetto all’epicureismo il salto è dunque notevole. E tuttavia anche gli Stoici affermano che i sensi sono infallibili. E allora? Chi avrà ragione: i sensi o la ragione? Anche gli Stoici, come già Epicuro con il Clinamen, rischiano di rimanere imbrigliati in una radicale contraddizione. E infatti la risposta alla domanda non è affatto logica: saranno vere solamente le rappresentazioni dotate di forza ed evidenza (il medesimo criterio di Epicuro). Insomma, di fronte a tali rappresentazioni la nostra ragione (a cui spetta di dare l’assenso finale) non può fare altro che assentire. Ma il processo cognitivo non si ferma alla rappresentazione. Il passaggio successivo è quello che porta al concetto, che rimanda inevitabilmente al problema degli universali. Platone li aveva collocati nell’Iperuranio, dotandoli di immortalità, mentre Aristotele li aveva individuati nelle cose mortali. E così, mentre per il primo la conoscenza è sempre ricordo di un tempo in cui l’anima (immortale anch’essa) vagava oltre i cieli, per lo Stagirita è un processo di progressiva eliminazione degli accidenti per giungere al cuore delle cose, alla loro essenza. E gli Stoici? Essi ritengono che tutte le cose siano corpi, anche l’anima. Di conseguenza, gli universali dovrebbero essere anche loro di natura corporale. Ma non è così. Essi sono invece un puro prodotto della nostra mente e dunque non hanno alcune esistenza reale (come invece per Platone ed Aristotele). Un concetto universale è un arbitrio della nostra mente, volta a semplificare la realtà e a rendere la vita dell’uomo meno complessa. Di conseguenza, anche il linguaggio sarà un prodotto della mente umana e per di più convenzionale, dunque relativa a ben determinati contesti storici. Lo Stoicismo si confronta anche con la logica tradizionale, in particolare con quella di Aristotele. Viene sostanzialmente accettato il sillogismo dei paripatetici, ma dotandolo di una valenza non solo deduttiva. Ed è probabilmente agli Stoici che si deve la nascita del termine “logica” (logiké), come “scienza del logos”. Secondo gli Stoici, vi sono tre elementi strettamente connessi fra loro: il “significato” (semainòmenon), il “significante” (semino) e l’”evento” (tynchàanon). Il significante è il suono della parola stessa, il significato è l’oggetto mentale, il contenuto del pensiero di quella parola, e l’evento è l’evento stesso al quale si riferisce quella parola. Ora, mentre il significato sarà sempre identico a se stesso, il significante può anche cambiare: ci si può infatti riferire ad un “cavallo” e dirlo in diverse lingue. La logica stoica rappresenta quella che oggi viene definita Logica Proposizionale, nel quale viene considerato solamente il valore di verità delle proposizioni e non la loro struttura interna. Una logica che consente agli Stoici di formulare una distinzione che ad Aristotele era sfuggita: quella tra i ragionamenti conclusivi e proposizioni vere. Dunque, un ragionamento, un sillogismo, è un sistema costituito da premesse e da una conclusioni, come per Aristotele. Ma le premesse sono le proposizioni accettate per la dimostrazione della conclusione e la conclusione è la proposizione dimostrata a partire dalle premesse, come nell’esempio che segue: Se è giorno allora c’è luce; è giorno; dunque c’è la luce I ragionamenti possono essere “conclusivi” o “non conclusivi”. Se sono conclusivi significa che a proposizione condizionale che inizia con la congiunzione delle premesse del discorso e finisce con la sua conclusione è vera. Il sillogismo precedente, per esempio, è vero. a) La Fisica Il presupposto della Fisica stoica sta nello studio dell’essere, identificato come “ciò che ha la capacità di patire”. Ma l’unico ente che ha tale capacità è proprio il corpo. Ne consegue che Essere e Corpo sono identici Insomma, ancora una volta gli Stoici si collocano su posizioni epicuree. Se l’essere è solamente corpo, saranno corpi anche vizi e virtù, bene e male, verità e falsità. E tuttavia, questo radicale materialismo non prende la strada del meccanicismo pluralistico degli atomisti. La Fisica stoica, semmai, si rifà alla visione eraclitea dell’Eterno ritorno e del Fuoco come forza produttiva e ordinatrice del mondo. Secondo gli stoici, ogni periodo storico si produce dal fuoco e viene distrutto dal fuoco. La ricostituzione del tutto avverrà non una ma più volte, o meglio le stesse realtà si ricostituiranno all’infinito e senza limite. E gli dei, non essendo soggetti alla distruzione, ma succedendo a ogni ciclo, conoscono perciò tutto quanto avverrà nei cicli successivi, perché non vi sarà nulla di diverso rispetto a ciò che è accaduto in precedenza. Il Fuoco crea e distrugge da sempre e per sempre. Una “conflagrazione universale” metterà fine anche al nostro mondo, ma poi tutto “rinascerà esattamente come prima”. Dunque, la fisica stoica si spinge ben otre quella epicurea: lì agiva una sola forza, il Clinamen, mentre qui ve ne sono due: una attiva, chiamata in vari modi (Logos, Pneuma, Natura e anche Fuoco), ed una passiva, che è poi la materia stessa delle cose. Una visione che ricorda quella di Aristotele, secondo il quale la materia non può esistere senza una forma. E tuttavia per gli Stoici non esiste alcun passaggio dall’atto alla potenza, come per lo Stagirita, in quanto dio (il Primo Motore Immobile di Aristotele) non sarebbe perfetto se la materia fosse ancora in qualche modo dipendente da lui. Di conseguenza, dio non solo produce le forme ma rappresenta anche la materia stessa, l’elemento passivo che viene plasmato da quello attivo. Dio, insomma, è “puro pensiero”, che nel pensare se stesso pensa e crea anche l’universo, in una inscindibile unità di spirito e di materia. Esiste dunque, per gli Stoici, una “Anima del mondo”, che fa di questo mondo una sorta di enorme organismo, un tutto omogeneo dove non esiste alcuno spazio vuoto. Un organismo perfettamente strutturato in ogni sua parte e dominato da precise leggi. Di conseguenza, per gli Stoici come già per Democrito e al contrario di quanto sostenuto da Epicuro, nulla avviene per caso: sono il Fato e il Destino a guidare gli eventi. È la Prònoia, vale a dire la ragione universale, la Provvidenza, che predispone il mondo in base a criteri di giustizia, orientandola verso un fine prestabilito. Ma in un simile mondo, dove tutto avviene di necessità, che ne sarà della libertà umana? b) L’Etica Anche per gli Stoici l’Etica costituisce la parte fondamentale di tutto il sistema filosofico. E anche per Zenone lo scopo del vivere è rappresentato dal raggiungimento della felicità. Ma come raggiungere questo obiettivo? Vivendo secondo natura. Osservando gli esseri viventi, gli Stoici constatano che questi sono caratterizzati dalla tendenza a conservare sempre se medesimi. È la nota teoria dell’oikéiosis, che significa “appropriazione”, “attrazione”, “conciliazione”. Gli esseri cioè tendono ad appropriarsi del proprio essere e di tutto quanto è atto a conservarlo e a evitare ciò che gli è contrario, a conciliarsi con sé medesimi e con le cose che sono conformi alla propria essenza. Nelle piante e nei vegetali, tale tendenza è assolutamente inconsapevole, negli animali è consegnata a un preciso istinto o impulso primigenio, mentre nell’uomo il tutto è sorretto dalla ragione. Vivere secondo natura significa dunque vivere realizzando pienamente tale appropriazione/conciliazione del proprio essere e di ciò che lo conserva e lo attua. E siccome l’uomo è un “essere razionale”, vivere secondo natura per gi Stoici significherà vivere secondo la propria natura razionale. Viene scartata, dunque, la soluzione epicurea del piacere. Il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo avere cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione. Il primo e originario istinto, dunque, è quello della conservazione ed è da qui che occorre partire per comprendere l’etica stoica, poiché “bene” sarà tutto ciò che tende alla conservazione (o all’incremento) del proprio essere e “male” tutto ciò che lo danneggia (o lo diminuisce). Il bene e il male, dunque, sono relativi alla nostra natura, che è razionale, dunque al nostro logos e non al corpo, come accadeva in Epicuro. Di conseguenza, salute, bellezza, ricchezza e persino a stessa vita (come si vedrà in seguito) o anche la malattia, la bruttezza, la povertà e persino la stessa morte (idem) saranno moralmente indifferenti. Una posizione molto radicale, che suscita aperte discussioni anche all’interno della Stoà. Alla fine lo Stoicismo approderà ad una visione più moderata, che distingue tra le cose che nocciono o giovano anche al corpo. Ci saranno allora degli indifferenti preferiti (come appunto la salute, la bellezza, la ricchezza eccetera) e indifferenti respinti (come la malattia, la bruttezza, la povertà eccetera). E tuttavia gli interessi degli Stoici sono rivolti alla ragione. Ed è su questa via che si perviene alla nota distinzione tra azioni moralmente perfette e azioni viziose. È qui che lo Stoicismo ottiene i maggiori successi, sia in Grecia sia, in epoca successiva, a Roma in modo particolare. La maggioranza degli uomini è incapace di azioni moralmente perfette, ma è capace di azioni convenienti, vale a dire di azioni moralmente indifferenti ma compiuti “conformemente a natura”, vale a dire razionalmente. Azioni convenienti che l’etica stoica definisce doveri. Il noto dovere stoico rimanda ancora una volta all’oikesios, quel particolare istinto di autoconservazione che si riscontra anche nell’uomo. Ebbene, tale istinto va inteso in senso molto più vasto e cioè non in termini di conservazione solamente individuale. La natura spinge l’uomo ad amare non solo se stesso ma anche i suoi simili. Non si tratta di ribadire la nota concezione aristotelica dell’uomo come “animale sociale” o “animale politico”. Gli stoici mettono in piedi un vero e proprio ideale cosmopolita, che fa dell’uomo un “essere comunitario”. Ed è sulla base di tale ideale che lo Stoicismo denuncia con forza la schiavitù: gli uomini sono tutti uguali per natura. Per gli Stoici esistono dunque sia una legge naturale sia una legge civile, secondo una distinzione già evidenziata a suo tempo di Sofisti, quella tra nomos e physis. Per gli Stoici, la legge civile deve modellarsi su quella naturale, una posizione che verrà poi ripresa in epoca moderna dal Giusnaturalismo e ancora oggi nota come teoria dei “diritti naturali” (o universali). L’unica schiavitù che gli Stoici riconoscono – come già Platone – è quella derivante dall’ignoranza. E tuttavia, le idee progressiste professate dagli Stoici non significano impegno politico e civile. L’obiettivo, in fondo, è il medesimo di epicurei e cinici: il raggiungimento della felicità. E questa si raggiunge solamente attraverso una vita saggia, apatica. Una indifferenza per le cose terrene talmente radicale da giustificare il suicidio. LO SCETTICISMO L’ultimo grande movimento dell’età ellenistica è lo Scetticismo, dal greco sképsis che significa “ricerca” o anche “dubbio”. Lo Scetticismo non mette capo ad una vera e propria scuola, come l’Epicureismo o lo Stoicismo, ed è dunque più difficile ricostruirne la storia. Si è soliti identificare in Pirrone di Elide il fondatore di questo movimento. PIRRONE nasce a Elide, nel Peloponneso, tra il 365 e il 360 a.C. Partecipa alla spedizione di Alessandro Magno in Oriente e lì viene a conoscenza di culture molto diverse da quelle greche, come quella dei Gimnosofisti indiani, un movimento che sostiene la vanità di tutte le cose. Pirrone viene colpito soprattutto da un certo Calano, il quale sembra si sia dato volontariamente la morte gettandosi tra le fiamme e sopportando in maniera impassibile gli spasmi delle ustioni. Nel 323, Pirrone torna ad Elide, dove si spegne tra il 275 e il 270 a.C. Come si può notare dalle date, Pirrone vive nel pieno del periodo alessandrino, che precede l’ellenismo propriamente detto. Dunque, lo Scetticismo viene, in ordine di tempo, prima delle due grandi scuole epicuree e stoiche. Ma quella scettica – come detto in precedenza – non è una vera e propria scuola: non esiste un edificio, un portico, uno spazio nel quale gli scettici siano soliti ritrovarsi. Una scuola itinerante, dunque, forse anche una atmosfera culturale alternativa al pensiero epicureo e stoico e in generale a tutta la cultura greca. Pirrone, poi, non lascia nulla di scritto e questo complica ulteriormente le cose. Quanto conosciamo del suo pensiero lo dobbiamo alla folta schiera di suoi ammiratori, tra cui il più famoso è sicuramente Timone, di cui ci parla i più grande biografo dei filosofi greci, Diogene Laerzio: colui che vuole essere felice deve guardare a queste tre cose: 1) in primo luogo, come sono per natura le cose; 2) in secondo luogo quale deve essere la nostra disposizione verso di esse; 3) infine, che sa ce ne verrà comportandoci così. Fin qui nulla di nuovo: si tratta in fondo delle linee guida di tutta la filosofia greca. Più importanti le risposte di Pirrone/Timone: 1) le cose sono egualmente senza differenza, senza stabilità, indiscriminate; perciò né le nostre sensazioni né le nostre opinioni sono vere o false; 2) non bisogna quindi dare alle cose alcuna fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse su ogni cosa, dicendo “è non più che non è” oppure “è e non è” oppure “né è né non è”; 3) a coloro che si troveranno in questa disposizione, deriverà per prima cosa l’apatia, poi l’imperturbabilità. Primo punto: Pirrone (o Timone) sostiene un radicale relativismo, affermando che le cose non sono “stabili” e dunque le nostre sensazioni e le nostre opinioni possono essere sia vere si false. Ne consegue che, secondo punto, non è possibile affermare alcunché su quanto ci circonda. E allora? Non resta, punto terzo, che l’apatia. Che il miele sia dolce, mi rifiuto di affermarlo, ma che a me sembri dolce, lo posso garantire In questa affermazione sta tutta la modernità dello Scetticismo, il quale distingue – come farà la filosofia moderna ma non prima del XVII-XVIII secolo – tra qualità primarie e qualità secondarie dell’oggetto o meglio ancora tra qualità proprie dell’oggetto e sensazioni. Le prime non sono conoscibili, secondo Timone, mentre le seconde sì, ma non corrispondono necessariamente alle prime. La qualità oggettiva del miele non è quella di essere dolce – o quanto meno non possiamo saperlo – mentre la mia sensazione nei riguardi del miele è che sia dolce. Ma non è detto che sia dolce per tutti gli uomini. Insomma, né i sensi né la ragione sono in grado di conoscere la realtà, di pervenire ad una conoscenza certa. Si dice che Pirrone si facesse investire dai carri e mordere dai cani di sua spontanea volontà esclamando: “chi mi dice che sia un male? I sensi, ma essi così come mi ingannano con il remo immerso in acqua, così possono ingannarmi sempre”. Il remo, immerso in acqua, sembra spezzarsi. I sensi, dunque, ingannano. Lo scetticismo di Pirrone è talmente radicale che nega valore anche alla morte: “non so se è un bene o un male”. Se, dunque, della realtà non possiamo avere alcuna conoscenza certa, non resta ancora una volta che l’apatia, la quale in PIrrone assume un significato ben più radicale che nelle altre scuole ellenistiche, quello cioè di un vero e proprio silenzio. Ecco spiegato perché Pirrone non scrive nulla. Dopo Timone – che sostanzialmente riprende le idee del maestro – dello Scetticismo si perdono le tracce, fino a quando nel II secolo d.C. non compare SESTO EMPIRICO, la cui biografia è ancora oggi piuttosto misteriosa. Si sa tuttavia che compone numerose opere, tra cui Contro i dogmatici. Sesto Empirico porta alle estreme conseguenze il discorso già avviato da Pirrone e Timone. Se, infatti, si afferma con forza l’assoluta inconoscibilità delle cose, non si fa altro che riproporre un dogma, esattamente come coloro che affermano il contrario. Il dogma è per definizione qualcosa che bisogna accettare, che non si può discutere, un atto di fede insomma. E allora, quale sarà il giusto atteggiamento scettico? Secondo Sesto Empirico quello della epoché, vale a dire della “sospensione del giudizio”, l’unico possibile atteggiamento antidogmatico. Dunque, di fronte alle cose non bisogna dire né che sono né che non sono né formulare un qualsivoglia giudizio. Occorre invece sospendere tale giudizio. E tuttavia, essendo lo scettico “uomo tra gli uomini”, egli sospenderà sì il giudizio, ma darà il proprio assenso alle “rappresentazioni naturali”, come la fame, la sete e via dicendo; l’uomo non ha maestri, questo è vero, ma impara come tutti gli altri uomini a leggere e a scrivere. Dunque, secondo Sesto Empirico, lo scettico si adatta alle condizioni comuni, vive seguendo i fenomeni, ma si rifiuta di dar loro un valore. Come già sostenuto da Timone, lo scettico non dice che il miele è dolce, ma che sembra dolce. Un altro noto filosofo scettico è CARNEADE, forse il più temibile avversario dello Stoicismo e in parte anche dell’Epicureismo. D’altro canto, come già per Sesto Empirico, l’obiettivo è quello di demolire tutte le forme di dogmatismo. Il discorso di Carneade si incentra sul piano logico, la base filosofica sia dell’Epicureismo sia dello Stoicismo. Carneade afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di essere in accordo con i fatti. Che essa sia vera è possibile, ma non è possibile accertare che essa sia vera. Le rappresentazioni stoico-epicuree, dunque, possono essere vere come non vere, come dimostrano d’altro canto i sogni o gli stati di allucinazione. È forse possibile distinguere tra due uova o tra due gemelli identici, si chiede (anzi ci chiede) Carneade? Nelle parole dell’autore si odono gli echi della sofistica dei secoli precedenti, in modo particolare del pensiero di Gorgia. E infatti, mentre nega la validità alle rappresentazioni, Carneade afferma il potere della persuasione, del cosiddetto pithanòn. Ma la persuasione non ha nulla a che fare con l’oggetto. Esso si rapporta interamente con il soggetto. Siamo dunque noi a fornire di veridicità la realtà delle cose e non le cose a presentarsi come vere. Il discorso di Carneade dunque volge decisamente verso una visione meno scettica dei suoi predecessori, cioè verso quel probabilismo che è poi l’elemento più moderno di tutta la sua speculazione. È vero che non si può conoscere la realtà, ma si possono comunque tracciare dei gradi di conoscibilità. Esisteranno cioè cose più vere delle altre ma sempre sulla base di un nostro giudizio. Secoli dopo, nel pieno della temperie culturale dell’Illuminismo, il filosofo scozzese David Hume denuncerà il “mito” del rapporto tra causa ed effetto, da sempre creduto oggettivo e che invece è soggettivo. Noi siamo soliti dire che “il Sole nasce a Est e tramonta ad Ovest” perché da sempre lo abbiamo visto agire in questo modo. Ma è possibile che, un giorno, per qualsiasi (catastrofica) ragione quello che crediamo un dato di fatto possa non più accadere? Certo, poiché il Sole una stella in divenire e, di conseguenza, come è nata dovrà anche morirà. Come in divenire è la stessa Terra, che una volta defunta non avrà più la possibilità di vedere il Sole sorgere. È possibile d’altro canto anche che un grosso planetoide possa impattare con il nostro pianeta invertendone lo spin e di conseguenza facendo sorgere il Sole ad Ovest invece che ad Est. Il nesso necessario, oggettivo, tra causa ed effetto è dunque puramente convenzionale, dettato dalle abitudini. Dunque, si tratta di una nostra costruzione mentale. Si tratta cioè di una “semplificazione” della realtà. Sappiamo che il fuoco brucia perché lo abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita (o ci è stato raccontato e pure questa è un’esperienza). Nel nostro cervello è avvenuta cioè la saldatura tra due idee che nella realtà appaiono divise: il fuoco e il dolore. La qualità del fuoco non è certo quella di dare dolore né quella del dolore di essere rappresentata dal fuoco. Lo scetticismo, grazie soprattutto a Carneade, si avvia così a rappresentare una sorta di anima critica della filosofia, un vero e proprio atteggiamento mentale contro le derive dogmatiche. Derive sempre più presenti in una filosofia che ormai va stringendo fortissimi legami con la religione cristiana. Ed è per questo motivo che gli Scettici verranno perseguitati.