Il Corpo alchemico - Religioni e Società

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Il Corpo alchemico - Religioni e Società
Ezio Albrile
IL CORPO ALCHEMICO
Pensiamo un parallelo tra pensiero magico-religioso ed esperienza estetica, perché solo in
questo modo potremo comprendere appieno il nesso tra concretezza e universo mentale, noetico, tra
cultura e ritualità. È un’idea dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss sull’arte sia primitiva
che moderna, formulata nel tentativo di cogliere i processi profondi della creazione artistica e del
godimento estetico. Secondo il noto antropologo francese l’arte è a metà strada tra la conoscenza
scientifica e il pensiero mitico o magico, ed associa l’artista allo scienziato e al bricoleur. Il
bricoleur, è colui che crea strutture per mezzo di eventi, inoltre egli assimila il bricolage alla
scienza cosiddetta primitiva, quale è depositata nelle credenze e pratiche magico-religiose delle
diverse culture.
Ma cos’è realmente il bricolage ? Si tratta di una forma specifica di attività che mira alla
produzione di oggetti, utilizzando tutti i materiali a disposizione, i quali constano di frammenti,
residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti, o ancora di residui e frammenti di eventi,
testimoni fossili della storia di un individuo o di una società.
Senza entrar troppo nel dettaglio della trattazione di Lévi-Strauss, si può affermare che in
sostanza il pensiero mitico o magico-religioso si distingue da quello scientifico in quanto non
impiega concetti, bensì utilizza segni. Cioè quei residui e frammenti ripresi dalla vita quotidiana,
carichi di determinate esperienze culturali, i quali sono impiegati per creare strutture, ossia insiemi
di relazioni ordinate e coerenti tra i loro componenti. In definitiva, analogamente all’arte, il pensiero
magico-religioso crea strutture e lo fa a partire dai segni, i quali, come le immagini, sono concreti,
ma al contempo sono separabili dal loro contesto e perciò hanno un potere referenziale come i
concetti.
E questa capacità di mantenere unita la concretezza del segno, nel senso del legame di
questo a determinati contesti, e la capacità di superare tali contesti stabilendo grazie al segno
relazioni intelligibili, spiega perché Lévi-Strauss associ il pensiero mitico e magico-religioso
all’arte. Un procedimento analogo a quello – secoli addietro – escogitato dagli alchimisti
alessandrini per celare e manifestare, in un gioioso paradosso, il segreto della prima materia, nella
quale è racchiusa la sostanza trasmutativa universale, la «sostanza liquida» anche chiamata
«magnesio» o «magnete». Un termine dai molteplici significati, che in senso traslato designa un
peculiare stato di «attrazione» di forze divine. Dice un alchimista, citando il sublime maestro
dell’arte ermetica Zosimo di Panopoli: «Abbandonati e quieta le passioni; facendo così attirerai a te
l’essere divino e l’essere divino che si trova ovunque verrà a te. Quando conoscerai te stesso, allora
conoscerai anche il solo Dio esistente; così facendo arriverai alla verità e alla natura, allontanandoti
con disprezzo dalla materia».
E ancora, da un punto di vista linguistico, il prefisso mag- è relato ad un’altra cruciale parola
greca, cioè mageia, intesa quale arte di manipolazione del divenire. Tradizionalmente ed
etimologicamente la mageia è ascritta alla sapienza dei Magi zoroastriani, anche se non è ancora
chiarito quando e in che modo la parola passi nel mondo greco; a loro volta i Magi zoroastriani
trarrebbero la gnosi, la conoscenza ultima, e il proprio nome da una condizione peculiare di
esistenza, una sorta di transe attiva chiamata maga durante la quale si avrebbe una separazione dei
due principî di realtà, la Luce e la Tenebra, posti uno di fronte all’altro. L’idea iranica del maga
implica una conoscenza, una «gnosi» di quello stato dell’essere in cui si ha la separazione tra i due
ahu, i due livelli di esistenza dell’uomo, il mentale e invisibile mênôg e il corporeo e visibile gêtîg:
colui che partecipa al maga acquisisce infatti un potere magico tramite il quale ottiene una
«illuminazione», cioè una percezione fuori dall’ordinario, una visione e una conoscenza non
mediate e non trasmesse dagli organi corporei e di senso. Chi prende parte al maga diventa
partecipe di una visione interiore: egli vede con gli «occhi della mente» o della «sapienza», gli
stessi strumenti metafisici che permetteranno al Redentore iranico, il Saoshyant, di trasfigurare e
rendere immortale il mondo visibile.
Un gioco tra parole e immagini – quello della dottrina alchemica – che ricorda molto da
vicino i giochi di parole di Marcel Duchamp e dei Surrealisti francesi.
Non a caso, e lo ricordano due alchimisti contemporanei quali Fulcanelli e Canseliet, esiste
un carattere originariamente rituale della poesia e dei fatti estetici in generale. Carattere rituale e
magico, derivato da formule efficaci, affidate a una classe sacerdotale, a uno sciamano, a un
vaticinante, a un pazzo, o ad un vecchio della tribù a ciò predestinato. In questa ritualità originaria,
la parola ha un suo posto accanto alla musica, ai gesti, agli abiti, ai luoghi, ai tempi particolari e così
via. Anche nella fase religiosa – non più magica – la parola e la musica rimangono riconoscibili
come sacre, collegate a una specifica cerimonia rituale. In una messa, l’elemento magico è ancora
fortissimo: la transustanziazione non è un fatto religioso; è un fatto magico, una cerimonia i cui
caratteri si possono ritrovare, ad esempio, nei riti di una tribù africana. Ora, man mano che il
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processo di secolarizzazione avanza, queste radici rituali vengono in qualche modo parodizzate, non
necessariamente nel senso dello sbeffeggiamento, ma in generale, semplicemente, a fini laici. Se si
assiste a un dramma di Pirandello, ci si trova ancora di fronte a un rituale: la sala, il palcoscenico,
la gente seduta. Questo rituale potrà venire violato, dall’assenza del sipario o dalla discesa dei
personaggi in platea, e via dicendo. Ma tutte queste violazioni hanno senso poiché esiste una norma
a cui devono rispondere, una consuetudine che tendono a non rispettare.
Quanto più magica è la forza della norma, quanto più arcaica è la sua posizione, tanto più
efficace ne è la violazione. L’antitesi è messa in azione dalla negatività: la musica, il suono si
trovano così messi alla prova dall’impossibile e liberano in sé il senso della poesia, volgendosi nel
loro contrario, il senso dell’odio verso la poesia. L’atto della contestazione rifiuta la «bella» poesia
e si volge contro il linguaggio, esaltando il mondo dei corpi per ritrovare il senso della poesia
autentica. È il caso di un cortometraggio di Luca Pastore, concepito quale corollario visivo ad un
brano musicale dei torinesi Subsonica, Corpo a Corpo, nel quale si riproducono inconsapevolmente
arcaici modelli alchemici. La complicità tra suono e immagine continua in un altro recentissimo
video-clip (questa volta la regia è de «Il Posto delle Fragole»): si tratta di Nessuno interpretata da
Robertina & Gatto Ciliegia. In un mare latteo, spermatico, affiorano corpi femminili che si
fondono e si confondono in una sorta di alchemica leukôsis. L’iniziazione alchemica si fonda su un
dualismo, una dicotomia fra Nero e Bianco, Tenebre e Luce, Morte e Vita: il primo momento
dell’Opera alchemica è la nigredo o melanôsis, in cui la privazione di colore rimanda allo stato
oscuro e indifferenziato della prima materia, che subirà numerosi trattamenti purificatori. La tappa
iniziale di questo processo è la dissoluzione o «uccisione» di tale amalgama confuso. La seconda
fase del magistero è l’albedo o leukôsis, che nell’unione di tutti i colori riflette l’uscita dal buio
primordiale e indistinto: come in tutti gli itinerari spirituali a carattere iniziatico, anche
nell’alchimia il punto cruciale è rappresentato da una soglia, da un limite che segna il passaggio
netto fra un prima e un dopo ontologicamente diversi. Questo limite non sta certo tra albedo e
rubedo, tra bianco e rosso, ma piuttosto tra le prime due fasi dell’Opera, la nigredo e l’albedo, cioè
là dove si verifica la trasformazione radicale della materia. Il vero mutamento è rappresentato dal
biancore dell’alba, dal ritorno della Luce, dal cadere della rugiada, dal volo della colomba, che
annunciano la risurrezione dopo la fase nera della morte, della putrefazione e della calcinazione.
Ciò che segue, la rubedo o iôsis, è soltanto un ulteriore perfezionamento, ma non più qualcosa di
radicalmente nuovo e diverso, come era avvenuto per l’albedo. Alchimisticamente, dunque, la
creazione non sarebbe altro che un passaggio dalla materia caotica alla Luce, cioè dall’oscurità
plumbea allo splendore dell’Oro. Tale il fondamento della evocata leukôsis.
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Da un punto di vista iconologico il video di Nessuno sembra il compimento del capolavoro
di Luca Pastore: è un’altra fase di quella mutazione alchemica che coinvolge i corpi, li disgrega e li
trasfigura (come in Zosimo alchimista). Nel suo insieme ancora il disco di Robertina & Gatto
Ciliegia (Cuore, Casasonica
2006) è «alchemico» in quanto frutto di una forza chaotica e
assemblante che in un divenire cinetico accosta materiali sonori di dissonante provenienza.
Appare inoltre la dualità orfica tra sôma e sêma. L’uomo nell’orfismo è scisso tra l’anima
ed un corpo = sôma derivante dai Titani, che è anche sêma = tomba in cui è incarcerata l’essenza
dionisiaca; Dioniso è un dio «selvaggio», la sua vicenda mitica è rivissuta ritualmente nello
sparagmos e nell’omofagia, lo smembramento della vittima che viene subito divorata cruda. La
posterità di questa estetica somatica riemerge – per citare altri materiali contemporanei – in
Carne, l’opera visuale e sonora degli ancora torinesi Officine Aurora. Officine Aurora come
officina magica, manipolazioni fatali che trasmigrano nelle lande di un guru beat – ma anche
italico –, e forse di Ganesha. È assioma della gnosi manichea, che le particelle di Luce racchiuse nel
seme si «trasfondono» attraverso il coito, di corpo in corpo, perpetuando l’intrappolamento
nell’universo materiale. L’Inviato della Luce, per ultimare il riassorbimento della sostanza luminosa
al regno originario, escogita uno stratagemma: si manifesta nudo nel firmamento assumendo le
fattezze di una virgo lucis, una bellissima fanciulla nuda che risveglia la brama dei demoni; gli
Archonti dellla Tenebra, sopraffatti dal desiderio, eiaculando liberano nel loro sperma anche la
Luce imprigionata nei loro mostruosi corpi. Una strategia «carnale» per ritornare in un mondo
immacolato.
Secondo Enesidemo di Cnosso, filosofo scettico del I sec. a.C., il tempo è corpo, è identico
all’esistente: ne consegue che dissolto il corpo è dissolto il tempo. Non solo, l’«istante» (in greco
to nun) soglia dischiusa sull’eternità (cioè su Aiôn), può essere corporificato. Ciò equivale a dire
che il flusso del tempo può essere coagulato, «fissato», in un eterno presente, in un «paradiso»,
secondo l’etimologia originaria iranica della parola, che deriva da pairi.daêza = «luogo circoscritto,
delimitato», una bolla di eternità analoga alle sfere seminali del «Giardino delle Delizie», il
Regno escatologico di Hieronymus Bosch. Le sequenze di istanti, come i corpi, possono essere
modificate, rovesciate, mutando lo scorrere di passato, presente e futuro: è la chiave della
celebrazione alessandrina di Aiôn, il Saeculum che da vecchio canuto e rincoglionito ritorna
palingeneticamente fanciullo. I Magi iranico-cristiani, celebrano nella loro triadicità questo mistero
di rinascita: loro, che nelle versioni aramaiche del mito evangelico sono in numero di dodici:
dodici personaggi zodiacali in cerca di un polo metafisico.
Ma questo paradiso è un espediente esiziale che non sopprime la morte, la dilata e la
differisce. Appare come la metempsicosi fallita di Octave in Avatar, la novella di Théophile
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Gautier; fissazione di una atonia profonda, smarrita in una vana fuga dal divenire. Sono ancora le
trasformazioni alchemiche, plasticamente effigiate nel «Vortex» di un cult-movie quale è Zardoz,
che tendono a produrre nell’istante un’implosione, un’illusorietà che è il preludio alla
frantumazione del tempo, contratto in un eterno presente, «avvelenato» di nuda immortalità. È la
regione in cui il tempo si autotrascende nella sua dimensione infinita ed eterna, è un luogo di
beatitudine transitoria simile all’isola della ninfa Kalypso, la «dea luminosa» che nell’Odissea
omerica tiene prigioniero Ulisse in una condizione di effimera immortalità. È il luogo esistentivo in
cui il piacere alberga in una dimensione inerte e cristallizzata; qualcosa di analogo al Château
Merveil, il «Castello delle Meraviglie» in cui si imbatte Sir Gawain nei romanzi del Graal. Il
maniero che si innalza maestoso su di un’isola al centro di un lago. Su di esso regnano tre regine di
età differente, rispettivamente la nonna, la madre e la sorella di Sir Gawain: versioni femminili dei
Magi aionici. Tale luogo rappresenta la dimora perenne della vita inesauribile, l’abisso di morte dal
quale la vita sgorga in eterna rinascita. Qui il cavaliere, il puer aeternus, trova l’anelato riposo
paradisiaco: qui l’oracolo della femminilità materna, la saggezza muta ed intuitiva della forza vitale
gli renderà intellegibile il mistero ciclico della morte e della rinascita attraverso le generazioni
transitorie.
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