Rassegna stampa - Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti

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Rassegna stampa - Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti
BresciaOggi 20/04/2012
Daverio fustiga gli urbanisti: «Salvare le città»
L'INCONTRO. Alla Camera di commercio, invitato dagli architetti. Bisogna ritornare al principio
del «fare per sempre e non per il domani mattina». Ma la colpa, secondo il popolare critico, «è
anche della normativa vigente»
Philippe Daverio è nato in Alsazia, a Mulhouse, 62 anni fa
«Il futuro di una città sta in chi ne disegna il profilo, ne traccia la linea d'orizzonte e ne
determina il paesaggio. Un paesaggio non si restaura, ma lo si reinventa, metabolizzando
quello attuale, ridandogli ordine con buon senso». Questo è il «Daverio-pensiero» con il quale,
ieri pomeriggio, gli urbanisti si sono confrontati nella Camera di commercio, nell'ambito del
seminario a loro dedicato e organizzato dall'Ordine degli architetti, dal titolo «L'idea di città».
PER IL CELEBRE conduttore televisivo, giornalista ed esperto di design, «è necessario
ridisegnare la forma della città che è caratterizzante come la lingua e l'alimentazione e che
quindi, come questi, rappresenta la stratificazione semantica di una comunità. Un uomo senza
stratificazione semantica è un uomo disperato». La mentalità e il modo di costruire degli ultimi
cinquant'anni, insomma, devono cambiare e tornare nell'ottica di una volta, quando il principio
era quello del «fare per sempre e non per il domani mattina». Daverio ha dunque bacchettato
la categoria dei moderni urbanisti, che hanno comunque secondo lui una scusante: la
normativa vigente. «Il crollo della palazzina di Agrigento ne 1967 - ha ricordato Daverio - ha
fatto sì che fosse approvata una legge che imponesse di staccare gli edifici di 7 metri gli uni
dagli altri. Questa norma ha ucciso la vecchia concezione delle strade degli antichi borghi
italiani che ci hanno fatto conoscere nel mondo come il Belpaese». TUTTO IL MODO DI
concepire l'urbanizzazione e l'edificazione stessa delle città dagli anni '60 in poi andrebbe
cambiata. Un esempio su tutti è la scelta fra i parametri urbanistici degli infissi, passati dalle
ante alle tapparelle, definiti da Daverio come «frutto dell'opera del Diavolo». Non solo, nel
mirino c'è anche il materiale utilizzato oggi per costruire, più scadente e facilmente deperibile.
UN'ALTRA CROCIATA condotta da Daverio è quella contro la parola e quindi il concetto
moderno di «verde». «Amo i parchi, i campi e anche le aiuole, ma quella del verde è la
categoria urbanistica che ha generato le peggiori mostruosità». Quello che Daverio definisce il
«verde inutile» non permette di creare quella vicinanza fra le case che permette ai cittadini di
sentirsi comunità, spezzando le strade e le piazze. Mentre è sulla densità abitativa che si deve
creare la cittadinanza, una densità anche in questo caso intelligente, che nulla ha a che
vedere con i palazzoni-alveare realizzati nelle periferie. L'esempio è quello di Parigi, la cui
densità è 1,8 rispetto a quella di Milano, eppure è una città di ben altro livello rispetto al
capoluogo lombardo. Per far capire cosa è la linea d'orizzonte di una città Daverio ha
rispolverato un vecchio filmato girato da Pasolini negli anni '70 nella città di Orte, in provincia
di Viterbo. Uno splendido borgo arroccato su una collina, deturpato secondo il regista da una
palazzina di sei piani che ne «sporca» la linea. Le immagini saltano nel tempo di quarant'anni
e si scopre che oggi la palazzina non si trova più a occhio nudo, perchè è stata affiancata da
altre decine di costruzioni simili: «Il povero Pasolini sarebbe trasalito a vedere oggi la città».
Non tutto è perduto, però, si può rimediare a quanto fatto finora cercando di ridisegnare le
città e cambiando le norme vigenti. UN'ALTRA PROVOCAZIONE è per i Comuni, in particolare
«quei sindaci e quegli assessori che si nascondono dietro la legge Bassanini, non prendendosi
la responsabilità delle scelte fatte». Un esempio su tutti è il nuovo quartiere Fiera di Milano,
«che dovrebbe essere chiamato Albertini, per ricordare a tutti chi sia il responsabile di questo
scempio».
Fabrizio Vertua
Giornale di Brescia 20/04/2012
Ripensare le nostre città come opere d'arte
Come si fa a parlare di forma della città, e di idea della città,
«se non si immagina come fosse il mondo prima di ciò che
viviamo oggi? Sappiamo che gran parte delle città sono brutte,
senza avere una nozione precisa di cosa sia la bellezza».
Philippe Daverio entra subito nel merito dell'argomento
proposto, «Identità della città», nel convegno promosso
dall'Ordine degli Architetti di Brescia (con il sostegno di
Tassullo Spa) in un affollato auditorium della Camera di
commercio.
Il noto critico d'arte, autore di fortunati programmi televisivi, è
stato introdotto nell'incontro, moderato da Paolo Bolpagni, dal
presidente degli Architetti, Paolo Ventura, che ha osservato:
«Affrontiamo un tema ampio, che si apre a mille sollecitazioni.
L'urbanistica è una disciplina ormai negletta in Italia, ma se
Foto 1 Philippe Daverio nell'incontro
guardiamo alle applicazioni, la città appare sempre meno
alla Camera di commercio (ph.
prodotto di un'intenzione e sempre più aggregazione di
Putelli/New Eden Group)
contributi eterogenei».
Un «pasticcio estetico» è quel che si percepisce entrando a
Brescia, ha detto Daverio: «Un pezzo di architettura fascista che "dialoga" male con un'antica
fattoria, poi le industrie, più in là una costruzione post-popolare che sta cadendo, e un edificio
neo classico...». E il nostro non è che un esempio.
In pratica, le strutture architettoniche parlano tra di loro una «lingua incomprensibile». Una
babilonia domina nell'urbanistica degli ultimi quaranta-cinquant'anni, da quando cioè abbiamo
deciso di «abbandonare il passato e di concentrarci sulle nuove realtà, senza una progettualità
vera e propria».
Eppure non è stato sempre così. In una cavalcata virtuale nella storia, il critico d'arte narra le
sensazioni, anzi la «sorpresa» dei francesi giunti in Italia, durante le campagne napoleoniche.
Siamo nel 1796: Milano si staglia all'orizzonte con la splendida sagoma del Duomo, ed è una
città moderna, dove tutto è stato costruito «sotto l'ordine di una serie di architetti
brillantissimi». Ai giorni nostri, invece, se percorriamo l'autostrada Lodi-Milano, notiamo una
serie di vecchie cascine che «stanno quasi crollando»; le periferie sono luoghi identici l'uno
all'altro, si distinguono «solo se siamo esperti annusatori di odori».
Philippe Daverio cita Pasolini, che già nel filmato «La forma della città» del 1973, analizzando il
caso di Orte, sostiene con largo anticipo due argomenti fondamentali: gli interventi
«disturbano l'estetica perfetta del passato ed esaltano la mediocrità» e «cambiano dopo secoli i
parametri stilistici».
Ora che «il Paese ideale si sovrappone al paesone della modernità obbligatoria» e che l'Italia
«sembra unita solo dalla catastrofe estetica dell'architettura», il quesito si pone: siamo ancora
in grado di immaginare un mondo alternativo? Oppure siamo vittime del «misoneismo», il
nuovo «ci ha fatto talmente male che ormai lo temiamo?».
«In questo momento ci interessa molto - osserva Daverio - riscoprire la lingua del passato. Di
fronte ad ogni demolizione, l'italiano soffre, perché l'architettura è figlia dell'eternità. Il
problema è che le eredità passate sono bloccate, non abbiamo più il diritto di intervenirvi, e la
modernità la costruiamo fuori dal centro storico, nelle periferie esterne».
Lo studioso torna sul fronte delle «catastrofi» compiute nell'ultimo mezzo secolo: «Si è
lavorato ad una serie di parametri normativi che, se visti oggi, sono frutto del diavolo». E
aggiunge che, contro la parola «verde», vorrebbe «fare una crociata»: «La trovo deprimente.
Amo la natura, i giardini, la campagna, ma questa è una categoria urbanistica che ha generato
mostruosità. Il verde è solo un colore; nelle città dobbiamo ragionare su quegli elementi
naturali che sono eterogenei e ci possono arricchire la vita».
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se tutto sia perduto, se l'uomo contemporaneo sia
sottoposto, nella dimensione della convivenza civile e collettiva, alla «damnatio» della perdita
del bello, e se l'armonia sia oramai solo un sogno vagheggiato negli spartiti dei grandi
compositori.
«Forse siamo ancora in tempo a progettare, riflettere e costruire architettura - sostiene il prof.
Daverio -. La mutazione in corso non può lasciarci indifferenti». Un segnale di speranza, che
però è subordinato ad una condizione. «Avere coraggio», esorta il critico d'arte. «Far saltare gli
standard, rimescolare il tutto». «Dare una sveglia» ai legislatori e agli amministratori pubblici.
«Reinventare» può essere la chiave del domani. «Il futuro della città sta in chi ne disegna il
profilo - sottolinea Daverio -. Dobbiamo immaginare rapporti diversi con l'ambiente, nuovi
modi dell'abitare, batterci contro la normativa esistente, che è a sua volta contro il buon senso.
Allora forse si potrà ricominciare a pensare la città come un'opera d'arte».
Anita Loriana Ronchi