olivi e cicale
Transcript
olivi e cicale
PROLOGO: ESTATE 2008 Nella memoria, buchi come tane sotterranee. E poi, sprazzi di luce che irrompono nell’oscurità dei pensieri. Un susseguirsi di domande e risposte inutili. E rabbiosi, Così, mi ritrovo in un mattino d’estate davanti a pini e a lecci, ad aspettare di ritornare a casa. Vacanze brevi, quest’anno. Per necessità e per scelta. Mio marito mi ha lasciata per noia e insofferenza. E dopo una primavera passata tra faccende legali e trasloco, eccomi qui, al termine di una breve ma intensa pausa nella campagna toscana. Ho vissuto per una settimana nel silenzio e nel fruscio del vento. Con davanti piatti di buon fritto di pesce e zuppetta di cozze. Le spiagge non sono lontane, e a pochi chilometri abita un’amica carissima, che rivedo sempre volentieri. Le estati più belle della mia vita le ho passate con lei qui, tra Livorno e Cecina, tra mare e collina. Distese di blu e verde grigio degli ulivi, alberi che adoro. Il profumo e il sapore dell’olio extravergine spremuto a freddo è una delle cose per cui ritengo valga la pena vivere (Woody Allen certamente non lo conosce). Nelle narici, gli aromi di salmastro, di resina, di selvatico e di terra riarsa. Quella terra sempre così argillosa e magra, solo a stento ornata di qualche cespuglio spinoso. E nelle orecchie, il frinire delle cicale, caratteristiche abitatrici degli alberi di questa campagna, il cui intenso stridore copre quasi ogni altro elemento sonoro. In pratica, la colonna sonora dell'estate. In questo momento, mi sembra anche il leit motiv della vita umana, che in fondo è solo fatta da brevi stagioni di canto intenso. 1 L’unico suono che riesce a non essere sovrastato da questo stridulìo è lo stormire delle fronde. Il vento è come una forza sconosciuta che pare dar loro vita come fa con le onde che sbattono sugli scogli. I “pungenti”, li chiamano qui. Perché se ti ci siedi sopra, ti scortichi. Allora, cerchi di dare al tuo corpo una forma tale che si modelli sugli anfratti e sulle zone meno scabre. Ma è un bell’impegno contorcerti tra gli spunzoni e alla fine ti arrendi e soffri. A vent’anni comunque, non mi importava niente. Come non mi importava pranzare con uno schiaccino o dormire in sette in un appartamento per quattro. Erano le prime vacanze “da sola” con gli amici, le prime libertà guadagnate con pazienza e fatica e non ci si lamentava certo se erano all’insegna della semplicità. Oggi i ragazzi non si accontentano tanto facilmente. Guai se mancano certe futili comodità, se l’albergo è distante dalla spiaggia o se il cibo non è lo standard di mammà. Sempre col cellulare in mano, il look straganzo e il disinteresse per tutto il resto. Questa noia continua, che li affligge fin da piccoli, che si stufano subito di tutto e “non sanno mai cosa fare”. Io da fare ce ne avevo sempre tanto. Oltre agli studi (piuttosto impegnativi), tanto volontariato coi bambini e i poveri, tanto amore per l’arte, i libri e i viaggi e tanti amici con cui divertirsi e condividere le tipiche fasi dell’età. Ossia gli innamoramenti, gli scazzi coi genitori, i problemi scolastici, le fisse coi big della musica e del cinema e i progetti per il futuro. E chi ci pensava al computer o al telefonino o ai giochi elettronici…mica esistevano. In compenso, avevamo tanta voglia di parlare, di ridere ma 2 anche di riflettere e confrontarci. Ci piaceva scoprire e capire e conoscere, Non è giusto criticare i giovani del trentesimo secolo. Li trovo molto svegli, sensibili e profondi. Ma, ahimè, estremamente repressi e racchiusi in un universo microscopicamente limitato a dispetto delle grandi possibilità che sono messe a loro disposizione. Forse le troppe opzioni li fanno andare in tilt. E’ tutto allettante, una vetrina continua di Natale: e come si fa a scegliere? Come un bambino che si ritrova la cameretta stracolma di giochi. Dapprima è entusiasta e sovraeccitato, prova il robot poi la macchinina telecomandata e infine il Nintendo di Spiderman…poi si stanca e molla tutto. Il troppo stroppia, dice il mio papà. Poi viene la nausea e il rifiuto. E il vuoto, un temibile vuoto che non è facilmente colmabile. Perché è un vuoto interiore, di pensieri e domande. Vien da dire: meno beni e più valori per i nostri ragazzi. Ma è così rassicurante aprire il portafoglio e vederli tranquilli e soddisfatti…fino alla prossima richiesta. Proporre valori è massacrante perché bisogna viverli tutti i giorni. Non si può davvero più predicare bene e razzolare male. I miei genitori né predicavano né razzolavano. Ma qualche insegnamento utile almeno sono riusciti a trasmettermelo. Il diritto alla libertà, quella vera, che è scelta morale prima di tutto. L’attenzione e il rispetto per il prossimo chiunque esso sia. L’importanza del lavoro onesto. E la bellezza della cultura e della natura che aiuta a guardare la realtà con occhi ripuliti dalle meschinerie del mondo calcolatore. A loro, alle mie due splendide bambine, Micol e Miriam e a tutti i ragazzi dedico questi miei ricordi semiveri estivi. 3 Che ne traggano un sorriso lieve e magari una considerazione seria sulla bellezza della vita. In tutte le sue stagioni. 4 ZII E PROZII Natale non era Natale senza gli zii di Milano. E nemmeno Pasqua. La loro compagnia chiassosa e affettuosa riempiva la nostra casa del senso della Festa, quella vera. Zia, sorella di mamma, piccolina e paffutella, arrivava carica di pacchetti, con una bella risata sonora, urlando “naniiii” che in dialetto milanese significa “piccolo/a”. Anche adesso che ho superato la quarantina, mi chiama così e devo dire che mi piace tantissimo. Zia è sempre dolce e sa conservare nonostante tutto uno spirito bonario anche nei momenti più difficili. Cerca di guardare sempre al meglio anche quando sembra non esserci proprio niente di buono. Zio, che ancora adesso è un omone con due manacce (mi chiedevo se quando lavorava come panettiere ci infornasse le michette), ci stritolava di abbracci. Veniva da una famiglia di contadini. La mamma, un donnone sdentato che sapeva solo parlare il dialetto santangiolino (di S Angelo Lodigiano ndr) viveva in una casupola tipo sette nani tutta di legno. Quando ci si recava da lei era come andare a trovare una attempata fata nostrana le cui meraviglie consistevano nel comunicare una sfrenata gioia di vivere. La sola vista di questi zii metteva sempre allegria. Anche da donne belle cresciute. Con le cugine era sempre un incontro felice anche se poi si concludeva in un match di lotta a corpo libero. Con la grande, nostra coetanea, si giocava a più non posso mentre la piccola veniva un po’ esclusa dalla nostra comunella e ne soffriva. Credo che davvero sia stata sempre un po’ trattata male da noi tre streghe. La 5 prendevamo sempre in giri perché era un po’ viziatella e la escludevamo dalle nostre confidenze e segretucci. Abitando in un paese e vivendo in una grande casa circondata da giardino e orto per lo più incolti e perciò interessantissimi per dei bambini con l’argento vivo addosso, era naturale che zii e cugine cittadini appena potevano si catapultavano da noi soprattutto nella bella stagione. Mollando le figlie a mia madre che le accoglieva con affetto e poi finiva sempre per pentirsene amaramente. Vivevamo allo stato brado, scalze e sporche di terra, arrampicandoci sugli alberi e costruendo rifugi con scatoloni e stracci. La nostra tenda indiana era ingegnosissima realizzata unicamente con pali di legno sottratti ai pomodori dell’orto, mollette della biancheria, spago, coperte vecchie e antichi nastri sottratti ai cassetti della nonna che immancabilmente imputava alla sua ormai debole memoria il mancato rinvenimento di biancheria varia. Una nostra specialità era allestire un mercato in cui i prodotti alimentari erano costituiti da bastoni, sassi, carta, acqua e terra. Il tutto disposto in bella vista su di una vecchia carriola di legno. Oppure inscenavamo storie d’amore impossibili con gelosie e tradimenti. Io facevo sempre la parte maschile. Poi, quando la stanchezza prendeva il sopravvento, ci scatenavamo in furibonde azzuffate perché ognuna di noi voleva a tutti i costi guidare i giochi, essere la regina piuttosto che il principe e finivano a cazzotti e calci che solo mia madre riusciva a bloccare. Salvo poi telefonare alla sorella intimandogli di venire a riprendersi le figlie perchè non ne poteva più. Con la coda tra le gambe e gli 6 occhi pieni di astio, le due se ne andavano dopo aver ricevuto una bella sgridata da tutti e con la minaccia di non ritornare mai più. Il divieto durava poco e dopo qualche tempo le due serpi ritornavano e tutto ricominciava. Con sospiri e lamenti continui della mamma che era stanca di rincorrerci con la ciabatta in mano. Mia sorella era la più tremenda e la più prepotente ed era anche quella che menava di più. Ma era lei che proponeva i giochi più originali. E pericolosi. Come quello che ci fece prendere una gran paura e ci costò una bella punizione. Ricordo che avevamo all’incirca 8 o 10 anni e faceva un caldo disumano. In casa, una grande casa della fine ‘700 coi muri spessi mezzo metro si resisteva a tapparelle chiuse e col ventilatore a manetta. In giardino, si poteva solo ripararsi sotto il magnifico cedro del Libano. Era talmente grande che sotto avevamo allestito una specie di salottino con tavoli e sedie. Dopo aver torturato una povera cavalletta, raccolto aghi e accumulato sassi, non sapevamo più cosa fare. Il caldo insopportabile ci toglieva voglia e forza. La vecchia fontanella di marmo purtroppo non funzionava più e quindi non potevamo ricorrere al refrigerio dei suoi zampilli. E il rubinetto del vecchio lavandino in pietra era troppo lontano. Una soluzione poteva essere attaccarvi la lunga canna di gomma che serviva per innaffiare o andare nell’orto alla vecchia tromba…ma eravamo talmente instupidite dalla calura da non aver nessuna voglia di muoverci nemmeno di pochi passi dalla seppur relativa frescura che le fronde dell’albero ci elargivano. Sdraiate seminude per terra su rozzi teli rammendati, ognuna di 7 noi pensava sicuramente a come passare il resto del pomeriggio. Di entrare in casa non se ne parlava, la televisione trasmetteva solo in certi orari e pochissime trasmissioni per bambini. E sopportare mia mamma e mia nonna che continuavano a farci raccomandazioni, eh no…Fu allora che a mia sorella dovette balenare quel colpo di genio di cui tutte avremmo poi pagato le conseguenze. Si alzò di scatto e :”E se giocassimo alla resistenza sotterranea?”. “E cos’è” la guardai un po’ basita. “Allora: scaviamo insieme una bella buca qui sotto, con le palette e lo zappino. Poi, una di noi si sdraia dentro e le altre la ricoprono di terra. Vince chi resiste di più”. Io la riguardai questa volta con molta perplessità. Ma la cuginetta piccolina che , poveretta, ce la metteva tutta per farsi accettare nella nostra gang se ne sortì giuliva :”Dai, dai, che così vediamo chi è la più forte!”. E siccome la maggioranza vince(mannaggia) , anch’io, seppur riluttante, accettai la sfida. Con fatica scavammo la fossa piuttosto profonda tra l’altro. E decidemmo che si procedesse in ordine d’età. Ora, io fin da piccola ho sofferto di claustrofobia. E avevo ed ho una paura folle del buio totale. Quindi, dopo che mi distesi nella buca e mi ricoprirono di terra, resistetti forse qualche secondo e attaccai a gridare : “tiratemi fuooori! Voglio uscire! Soffoooco!” Mia cugina resistette un poco di più, ma anche lei venne presto presa dal panico e dovemmo farla uscire. Fu il turno di mia sorella che resistette abbastanza, ma anche lei si spaventò mica male. E toccò alla cuginetta che era terrorizzata dalle nostre urla, ma decisa ad affrontare quella sfida “da grandi” che forse le avrebbe 8 guadagnato ola nostra considerazione. Titubante, si sistemò nella buca, chiuse gli occhi, piegò le braccine sul petto e noi iniziammo a ricoprirla di terra. Aspettammo. Niente. Io avevo un orologino, regalo della nonna alla Ia Comunione. Il tempo passava e la bambina rimaneva muta. Iniziai ad avere paura. “Secondo me, c’è qualcosa che non va. Possibile che resista così tanto? Lei che è una fifona?”. Non mandavo giù la vergogna per la figuraccia che avevo fatto arrendendomi subito, io che ero ola più grande, la più saccente e la più saggia. Sua sorella mi guardò con occhi inorriditi: “Tiriamola fuori, mica sarà morta?”. Mia sorella, la più spavalda e coraggiosa, siccome la maggioranza vince (finalmente) fu d’accordo. In fretta, rimuovemmo la terra e trascinammo fuori la piccola, bianca comne un cadavere. La chiamammo, non rispondeva. “Oddio, ma è morta davvero. Vado a chiamare la mamma!”. La mia coscienza e il senso di responsabilità (io ero la maggiore) ebbero la meglio e corsi come una matta in casa, urlando .”Mammaaa! Mammaaa! Vieni presto, è successa una disgrazia!”. Mia madre, allarmata dalle mie grida, corse fuori con me, sotto il cedro e vide la piccina con gli occhi chiusi, cerea in viso e sporca di terra. “ Ma cosa avete combinato, cos’è successo?” e intanto si prese la bimba tra le braccia, chiamandola ad alta voce , toccandola. “Oddio, ma ha perso conoscenza! Portatemi dell’acqua!” La spruzzammo tutta, io muta dallo spavento, mia sorella che corse via e la sua che piangeva a dirotto. Fortunatamente la piccola si riebbe e aprendo gli occhietti disse con una vocina sottile: “Ho vinto?”. Con tutta 9 probabilità era svenuta dalla paura. Sospirammo di sollievo e la portammo in casa. Mia mamma la teneva in braccio accarezzandola “Siete pazze, pazze! Ma cosa vi è venuto in mente? Per poco non muoio di spavento!”. Io raccontai per filo e per segno tutta la vicenda con mia sorella che mi guardava in cagnesco. Fummo messe tutte in castigo, dopo una severa ramanzina di mia madre e di mia nonna, che per poco non svenne pure lei. Alla sera, ci sorbimmo la predica (molto più dura) di mio padre. Capimmo che certe azioni che compiamo, al momento allettanti, possono avere conseguenze estremamente disastrose. Che prima di agire bisogna pensare a quello che ne può seguire e quindi fare molta attenzione. Mia madre telefonò alla sorella con i nervi a fior di pelle e come di consueto la zia il giorno dopo venne a riprendersi le pargole. Furibonda, le punì pure lei. Dopo quell’esperienza, nessuna di noi propose passatempi troppo avventati. E di quella macabra prova neppure più se ne parlò. Riprendemmo a giocare al mercato, a nascondino, agli indiani e alle principesse. più se ne parlò. Ma la cuginetta ebbe il suo momento di gloria. E secondo me, ogni tanto lei se lo ricordava e, in cuor suo, era tutta orgogliosa. Fu l’unica volta che vinse. Con i prozii, naturalmente la faccenda era diversa. Eravamo solo noi due bambine con un nugolo di vecchierelli. Niente spazi all’aperto nella loro casa. Ma che casa! Era lì che liberavamo tutta la nostra creatività e la nostra energia. I prozii non si erano mai sposati e abitavano insieme in una vecchia casa in un simpatico paesotto dell’Oltrepò pavese. Erano i fratelli e le sorelle 10 di nonna e almeno una volta al mese andavamo a trovarli. L’occasione più bella era la vendemmia. Il tranquillo borgo si animava e si vestiva a festa. Gli uomini, a capannelli, parlavano fitto fitto di cosa non so. Era un continuo incontro di gente tutta contenta che si salutava e si sorrideva con contadina affabilità. La piazza si riempiva di bancarelle,si sentiva l’odore delle salamelle e dello zucchero bruciato del croccante di mandorle. E uva dappertutto. Certo, per noi bambine erano molto più divertenti le giostre dove salivamo e non volevamo più scendere. E a papà toccava urlare. Ma il fulcro del nostro interesse era sempre la grande vecchia casa delle meraviglie. Era la casa dei luoghi segreti e dei nascondigli sicuri. E noi ci perdevamo le ore. La buia cucina con la stufa a legna e l’acquaio di pietra ci sembrava quasi l’ antro di una strega e ci incuteva davvero un po’ di timore. Quando la zia apriva lo sportello della stufa per ravvivare il fuoco, le scintille sprizzavano ovunque e noi arretravamo tra il meravigliato e il terrore mitico. Quasi fosse la fucina del dio Vulcano che forgia le saette per Giove. Quell’angolo ci attirava ma non ci metteva s nostro agio. Nemmeno la sala, coi suoi mobili pesanti e puzzolenti di vecchio ci piaceva troppo. Ma la ripida scala in pietra grezza da cui capitombolammo più volte, quella già iniziava ad affascinarci. Sì, perché portava al piano superiore e alla soffitta, la mitica soffitta piena di tesori nascosti. Era il nostro mondo fatato, con i letti altissimi dalla testiera tutta lavorata e l’armadio pieno dei vestiti e delle gioie della zia sartina. Questa zia aveva lavorato presso una 11 prestigiosa famiglia di Milano come sarta. Aveva così acquisito, a sentir lei, quella raffinatezza e quel buon gusto che la distingueva dalle sorelle contadine. Aveva modi bruschi e nervosi e un linguaggio se non volgare, perlomeno molto colorito. Era autoritaria e si arrabbiava per niente. Ma era di indole buona e stravedeva per noi bambine. Ci confezionava abitini graziosi anche se semplici e a Carnevale ci preparava sempre un costumino nuovo. Pescando tra ritagli di sete, trine e rasi, antiche glorie dei bei tempi, riusciva a realizzare veri piccoli capolavori. Ci sgridava sempre perché le buttavamo per aria la camera ma poi ci lasciava fare. Secondo me non si è mai sposata perché aveva un carattere terribile e aveva gusti troppo nobili. Chi sarebbe stato degno di imparmarla, lei così aristocratica e distinta? Lei che si metteva le piume di struzzo sul cappello (gliele distruggemmo noi) e i visoni attorno al collo (due povere bestiole attaccate per la testa che ci arrecarono sempre disgusto e pietà). Morì investita da un camion quando avevo 15 anni. Stava attraversando lo stradone per andare a buttare un mucchietto di spazzatura. Mi dispiacque molto. La zia maggiore l’ho conosciuta poco, me la ricordo già malata e a letto, molto grassa e sofferente. Nonna me la descriveva come una grande e forte lavoratrice, molto alla buona. Anche lei, un carattere forte e impulsivo. Il fidanzato le morì a 19 anni. Da allora non ne volle più sapere di uomini. Poi c’era la zia buona come un angelo, quella che assistette tutti, madre e fratelli, fino alla fine e a tale scopo dedicò l’intera vita. In parrocchia si offriva sempre per i servizi più umili. Era quella che si 12 alzava prima di tutti, che lavorava di più e sopportava le stranezze degli altri con cristiana rassegnazione. Era la zia più amata, ci viziava tanto, riservandoci sempre piccole sorprese. Lo zio era vecchio e malandato, quasi cieco e se ne stava sempre seduto alla finestra della sua cameretta. Era taciturno e sempre molto arrabbiato, perché soffriva tanto ed era costretto a starsene sempre chiuso in casa davanti alla finestra. Ma quando ci raccontava le gesta dei paladini di Francia e di Gano di Maganza, il traditore, si trasformava in un leggendario cantastorie. Le storie, che sicuramente aveva conosciuto al teatro dei burattini o delle marionette, un tempo lo spettacolo più atteso e seguito nei piccoli centri, erano sempre le stesse. Ma noi gliele facevamo ripetere all’infinito e lui, eccitato, scandiva con voce ferma e commossa, le ultime parole di Orlando morente che soffia nel corno. Credo fossero gli unici momenti in cui lo zio si riscuoteva dal suo triste torpore e, chissà, ricordava i momenti più belli della sua giovinezza. Noi lo seguivamo col fiato sorpreso, sedute sulle sue ginocchia, immobili. Ma l’emozione maggiore era al piano di sopra, la soffitta. Vi si accedeva da una pericolosa scala in legno tutta traballante. Se guardavi in giù, ti venivano altro che capogiri. Era una prova di coraggio che affrontavamo con risolutezza. La soffitta era un’ ampia stanza con il soffitto di travi e il pavimento di pietra. Alle pareti, due stampe che raffiguravano scene della Turandot. Nel mezzo, due letti giganti e a una parete, un armadio strapieno dei cimeli delle zie. Cioè, abiti e scarpe d’epoca, che noi ci infilavamo in abbinamenti impossibili pavoneggiandoci 13 come attrici da opera buffa. Era davvero la nostra stanza preferita, soprattutto in estate quando il caldo era così forte da impedirci di stare all’aperto. La frescura e la penombra erano talmente invitanti che passavamo tutta la giornata lì, a rovistare in cassetti e angoli, alla ricerca di qualche nuovo trastullo. Finivamo addirittura per addormentarci sui lettoni. I grandi si dimenticavano della nostra esistenza. Chiudevamo la porta a chiave e ci isolavamo dal resto del mondo. Annessa alla soffitta c’era una terrazzina piena di fiori, di legname, di cesti e di cianfrusaglie. Era nascosta tra i tetti ed era la propaggine naturale della nostra stanza incantata. Nel silenzio del meriggio, nella calma immota e sonnolenta, ci perdevamo per ore a fantasticare tra le rose e i rampicanti. Lontane dalla realtà, parlavamo un linguaggio che era solo nostro e inventavamo storie avventurose e fantastiche. Ma un giorno successe che chiudendo, come di consueto, la porta a chiave, questa si ruppe dentro. Era una vecchia chiave arrugginita e sdentata che girava in una serratura contorta. Prima o poi sarebbe successo. La prima sensazione fu elettrizzante: ci sentivamo separate anche fisicamente dal mondo reale. Potevamo stare nel nostro meraviglioso solaio per sempre. Festeggiammo con una danza indiavolata e urla schiamazzanti. Poi, ci rimettemmo a frugare tra i vecchi cimeli delle zie: le scarpette della sartina, il ventaglio cinese, la collana di granate lunga fino alla cintura. Ci rivestimmo da capo a piedi con quei preziosi cimeli e giocammo per un tempo infinito alle signore ricche dei tempi antichi, alle modelle che sfilavano sulla passerella e alle fate-principesse di 14 un regno dal nome impronunciabile. Ballammo fino a sfinirci su melodie inventate al momento continuando a cadere sui tacchetti delle scarpe troppo larghe. Sudate ed eccitate, godemmo quel tempo tutto nostro, con l’entusiasmo e l’energia della nostra bella infanzia. Infine, crollammo addormentate sui soffici altissimi letti dalle spalliere scolpite. Avevamo assolutamente perso la percezione del tempo e sinceramente non ricordo quanto ne passò. Sicuramente l’intero pomeriggio. C’era ancora il sole quando ci svegliammo. Sazie di giochi e lazzi, avevamo fame e sete e solo allora ci rendemmo conto che eravamo chiuse dentro. La nostra soffitta fatata si rivelò una prigione dorata e iniziammo a chiamare a gran voce per attirare l’attenzione di mamma e papà. Ma nessuno ci sentiva. Probabilmente erano tutti riuniti giù in sala a bersi una bibita fresca e a chiacchierare amabilmente. Picchiammo i pugni contro la solida porta di legno tarlato. Niente. Mia sorella iniziò a piangere. Era stanca di starsene lì, si era divertita abbastanza ed ora voleva solo uscire e scendere dagli altri. A me mancava l’aria, sentivo un caldo soffocante e la gola riarsa. Aprii le finestre. Per strada, nessuno. Faceva ancora troppo caldo. La soffitta ci apparve per quello che era: una stanza polverosa piena di vecchie cose. I fiori finti e i vasetti di peltro erano poveri resti ammuffiti di pessimo gusto. Le ragnatele penzolavano dalle travi crepate. E i lettoni non erano più il giaciglio della bella addormentata. L’incantesimo si era dissolto. Riprendemmo a urlare, scuotendo la vecchia maniglia con tutte le nostre forze col terrore di rimanere confinate per sempre in quella soffitta 15 buia dall’aria di naftalina. Ci arrendemmo disperate, con la testa tra le mani in un pianto inconsolabile. Sentivamo quanto fosse brutto essere separate da coloro che più amavamo. Eravamo sole e spaventate. Fortunatamente, qualcuno salì per andare in bagno e sentì le nostre grida. La nostra buona zia corse di sopra e, saputo l’accaduto, cercò di tranquillizzarci. Avevamo anche molta paura di essere punite per aver rotto la chiave. Mandarono subito a chiamare un amico fabbro che ci liberò dopo aver trafficato un poco con la serratura corrosa. La zia e la mamma videro sicuramente due faccine pallide e spaventate, bagnate di pianto e non poterono fare altro che stringerci tra le braccia ridendo non poco della nostra bella marachella. Di sotto, gli altri ci accolsero con un bell’applauso e tutto si risolse in una piccola ramanzina. Soprattutto da parte della zia sarta che di sopra si ritrovò i suoi due armadi e i cassettoni svuotati e il prezioso contenuto sparso ovunque. Non ritrovò più le scarpette e il ventaglio. Chissà dove finirono. Ritornammo a casa, davvero contente di essere ancora con la nostra famiglia. Nel nostro lettino, chiudemmo gli occhi serene. Nella soffitta tornammo ancora, a giocare, ad inventare storie e a sognare ad occhi aperti. Ma con la porta sempre spalancata. Per non dimenticare il mondo reale, quello in cui vivevamo ogni giorno. 16 AL MARE, ATTO PRIMO La notte prima della partenza era la più drammatica dell’anno. Insonnia garantita. Risvegli continui. E, sin dalla tarda sera, una nausea insopportabile. La mattina poi era molto più angosciante: si doveva salire in macchina ed affrontare un viaggio di minimo sei ore per arrivare a destinazione. Piombino in provincia di Livorno, noto perché punto di partenza dei traghetti per l’Isola d’Elba. Ma noi all’Elba non ci andavamo, rimanevamo a Piombino che non era località balneare ma la cittadina da dove i miei bisnonni paterni erano partiti per cercare lavoro. Allora vi abitavano ancora parecchi cugini di papà a cui era molto affezionato. E ogni anno si ritornava lì, in albergo poi in appartamento a trascorrere il mese di agosto. Ora, a parte la mancanza di attrattive per due ragazzine (la città di bello ha solo una vecchia cittadella con porticciolo e una caratteristica piazza-promontorio che si allunga verso il canale), il vero problema era il viaggio. L’autostrada della Cisa non era ancora stata costruita e ci toccava la Firenze –mare. E anche quando finalmente ci fu la Cisa, si usciva a Livorno e mancava ancora minimo un paio d’ore di Aurelia tra paesi trafficati e costa a tornanti. Io soffrivo viaggiare in macchina (tutt’ora non ci viaggio volentieri e mi rendo conto che forse ciò risale al trauma infantile del mio viaggio estivo). Ai tempi non esisteva l’aria condizionata e si partiva per forza il primo agosto. Papà non sopportava i finestrini abbassati. Papà è veterinario e la sua macchina sapeva (e sa tutt’ora) di fieno, di latte e di vacca. Anche se mamma 17 la puliva a fondo, quell’odore caratteristico (che in altre circostanze mi piace moltissimo) impregnava ( e impregna tutt’ora) tutto l’abitacolo. Quindi riepilogando: caldo, finestrini chiusi e lezzo di cascina. Per una persona che già soffre la macchina, non è la condizione migliore per viaggiare. Poi, il primo di agosto, il rischio che le ore previste per il viaggio raddoppiassero non era poi da sottovalutare. Un anno, infatti, impiegammo 12 ore. Con nonna, davanti, che a Cecina vide il camion davanti tutto d’argento. E noi, dietro con mamma, a rimettere tutti gli ultimi succhi gastrici rimasti nel povero stomaco. Ma la parte peggiore erano i tornanti di Castiglioncello: quel meraviglioso saliscendi tra i pini marittimi a picco sul blu del mare si trasformava in un viaggio allucinante in un girone infernale. Solo rifacendolo anni dopo, mi sono resa conto di quanto fosse bello. Allora, era il punto dove le contrazioni gastriche si facevano insopportabili. Gli stomaci erano prosciugati, credo non ci rimanesse più nemmeno una goccia d’acqua. Papà non si fermava mai, voleva arrivare alla meta. Ci aspettava Maggiorina, la moglie del cugino di papà, una deliziosa signora di mezza età che ci preparava sempre delle leccornie a base di pesce. Noi, stravolte, con mamma ridotta ad uno straccio puzzolente la vedevamo come una cara fata che ci ritemprava il morale con un abbraccio e un sorriso dolcissimo. Quanto a sistemare lo stomaco, ci volevano almeno un paio di giorni. Comunque , l’aria frizzante e i bagni ci rimettevano presto in sesto. La meta che io amavo di più era il Golfo di Baratti, quella piccola splendida mezzaluna di sabbia ferrosa sovrastata dalla 18 rocca di Populonia. Da lassù si vedeva la macchia mediterranea dal forte odore di finocchio selvatico gettarci ripida nel mare della Buca delle Fate. Qualche volta sentimmo i …dei cinghiali maschi in amore, immaginammo le loro lotte per la femmina e avvistammo una mamma seguita dai suoi piccini striati. Salivamo sulle mura antiche e aspiravamo la brezza marina e l’umido delle pietre. Vicini, gli scavi delle tombe etrusche. Un anno, con mia grande gioia, papà ci portò a visitarle in mezza Toscana. Mi documentai minuziosamente e mi appassionai a questa antica civiltà nostrana. Mia sorella invece si ruppe totalmente le scatole e rognò per giorni. Quello è il mare della mia infanzia e ancora oggi, quando mi capita di andarci, mi ci sento bene. Sarà che nel mio DNA c’è un pezzettino di quei posti …il richiamo a quei colori e a quell’azzurro intenso è sempre forte. La Padana non mi è congeniale con i suoi ritmi frenetici, troppo concreta e poco fantasiosa. Trovo i suoi sapori scialbi. Manca di aromi resinosi e secchi. E raramente, le sue tinte assumono tonalità spiccate e contrastanti. Io amo la mia pianura, la amo profondamente, la campagna quieta con i fossi e i pioppi raggruppati. E la sua gente onesta e laboriosa anche se un po’ restìa. Ma dentro ho un angolo di mare e colline aspre che fatico a trattenere. E una giocosità un po’ irriverente e una espansività un po’ saccente che non sono propriamente lombarde. E troppa passione per l’olio, il pomodoro e il pesce. Però papà vinse la condotta qui…e qui ci stabilimmo. Ogni tanto tira fuori la storia che avrebbe potuto vincerla a Suvereto, in collina vicino a 19 Piombino. Baratti, insomma, era il mio mare preferito anche se per raggiungerlo ci toccavano venti minuti di macchina. Allora la spiaggia era tutta libera e poco frequentata. Piantavamo l’ombrellone, stendevamo gli asciugamani (per nonna la sedia pieghevole) e iniziavamo la tiritera di suppliche per poter fare il bagno. Era un vero supplizio aspettare anche più di un’ora per entrare in acqua. Le mie figlie stressano nello stesso identico modo sia al mare che in piscina. Ma adesso sono io quella che le tiene a freno. Mi distraevo un po’ giocando con Paolo piccolo (perché il grande era suo nonno), un bel ragazzone adolescente che ricordo con piacere, perché era “uno già grande” (e pure molto carino) che perdeva tempo dietro a me ancora piccolina e rompiscatole. Ricordo che si divertiva facendo mi un sacco di scherzi e prendendomi i giro e io (che invero, ero un po’ innamorata di lui) ne soffrivo in pochino e mi arrabbiavo molto. Quando finalmente ottenevamo il permesso ci buttavamo in acqua e ci saremmo state per l’intera giornata. Io ho imparato a nuotare a 8 anni e mi godevo un mondo quel bagno così desiderato. Con pinne e maschera perlustravo i rari scoglietti. Ancora oggi ho una vera passione per l’acqua e i suoi abitanti. Non ho mai temuto l’elemento liquido e i suoi abitanti e a torto, perché mi costò qualche disagio. Quel giorno non andammo a Baratti, ma sotto Piazza Bovio. Non era granchè come mare, anche perché ci si arrivava con una scalinata ripida e scomoda che non finiva più, Ma c’erano tanti scogli e tutto un mondo subacqueo da esplorare, Munite di pinne e maschera, io e 20 mia sorella ci cimentammo in quello che adesso viene chiamato “snorkling”. Cioè, osservare la natura sott’acqua. L’acqua era piuttosto bassa e pulita. Bella giornata. Gli scogli che volevamo perlustrare erano vicinissimi alla riva. Io davanti, dietro mia sorella. Battendo vigorosamente le pinne, mi avvicinai a uno stretto passaggio tra due scogli letteralmente ricoperti dai ricci. Nonostante mia sorella mi sconsigliasse, volli passare attraverso il pertugio per osservare meglio gli aguzzi echinodermi. Mia sorella mi seguì suo malgrado. Purtroppo il passaggio era davvero molto stretto e l’acqua bassa e io per uscirne al più presto (iniziai a temere di farmi male) battevo sempre più velocemente i piedi non accorgendomi di picchiare le pinne sulla faccia della mia malcapitata congiunta. Che, non vedendo più niente, andò a sbattere contro i ricci e si riempì le gambe di aculei. Uscimmo più in fretta che potemmo e solo allora mi accorsi di avere i polpacci pieni di spine. Piangendo disperatamente e litigando (in fondo la colpa era mia), fummo soccorse da papà e mamma che ci estrassero le dolorose punte e ce le medicarono. Alcune (erano davvero tante) non si poterono togliere e uscirono dopo qualche giorno. Io, che ero una bambina prudente, mi resi conto che avevo sottovalutato il pericolo. Per la mia curiosità, avevo causato un disagio anche a mia sorella. Tutte le volte poi che, successivamente, mi lanciai nelle mie perlustrazioni sottomarine, mi ricordai di questo piccolo incidente. Sorridendone. Sempre a quella povera tapina, e questa volta a Baratti, feci prendere un bello spavento. Papà ci aveva preso un canottino di quelli 21 gonfiabili con due minuscole pagaie. Avrò avuto otto dieci anni al massimo e mia sorella due in meno. Tutte eccitate al pensiero di una bella crocierina, entrammo nell’acqua calma e iniziammo a remare. O meglio a tentare di remare, visto che una voltava il remo in una direzione e l’altra in quella opposta. Il tempo era meraviglioso ed era un vero piacere trovarsi in mezzo al mare liscio sotto un bel sole. La corrente però, senza che ce ne accorgessimo, prese come eravamo da questa nuova impresa, ci portava lentamente sempre più lontane da riva. Me ne accorsi io, allorchè guardando verso la spiaggia vidi ombrelloni e persone piccolissimi. Iniziai a chiamare aiuto e a remare. Come mi veniva. Insomma, mi prese il panico. La minuscola imbarcazione non si spostava di una virgola. Mia sorella si rese conto che la situazione era disperata. E iniziò a piangere. Io urlavo che mi volevo buttare in acqua. Ma la piccola non sapeva nuotare. Io in quel momento me ne fregavo. Pensavo di spingere il canotto nuotando fino a riva. La sorellina era terrorizzata, aveva paura che la lasciassi lì sola in mezzo al mare. Forse le nostre grida giunsero fino alle orecchie di papà, forse lui si accorse che non ci vedeva più tanto bene…sta di fatto che guardando verso la spiaggia, intravidi la sagoma di una persona che mi pareva lui. Agitava le braccia e noi allora urlammo più forte. La sagoma si gettò in acqua (erano anni che non lo faceva) e con poche vigorose bracciate, ci raggiunse,. Dopo averci dato più volte delle somare, ci trascinò a riva. In salvo. Mia sorella tremava come una foglia. Ancora una volta, la mia imprudenza ci aveva giocato un brutto scherzo. 22 Ricordammo questo episodio per anni. Come anche quello dei ricci. E mia sorella ripeteva in continuazione che erano state,forse, le uniche volte che le avevo combinato un guaio. Di solito, infatti, quella che ne faceva di tutti i colori era lei. AL MARE, ATTO SECONDO 23 A CASTIGLIONCELLO Stufa di seguire i miei nelle solite noiosissime vacanze a Piombino (ormai ero in piena adolescenza e ne avevo abbastanza di spiaggia libera, giretto pomeridiano in Cittadella e a sera a letto alle 22), iniziai a insistere per la vacanza con gli amici. Primo esperimento: al mare a Viserba nell’alberghetto del papà di un compagno di classe con mamma e sorella a seguito, ma molto defilate. Giusto per una supervisione. E per la tranquillità dei genitori. Ma potevo fare un po’ quello che volevo, naturalmente nei giusti limiti. Discoteca, passeggiata per la “vasca” (la via principale), bagno notturno ecc…andò benissimo, anche mamma era felice (pure lei si faceva una vacanza un po’ diversa, tra balere e piadine). Meno,per la sorella che più giovane di me, veniva trattata malissimo da tutti perché troppo “piccola”. Io non la volevo mai tra i piedi. Così l’anno dopo, ormai quasi maggiorenne, me ne andai da sola (sempre a Viserba nel solito albergo) con gli altri della compagnia. E ci divertimmo da matti. Ma la vera Vacanza estiva al mare per me fu sempre (e rimane) Castiglioncello e dintorni. Conobbi Grazia in montagna l’estate della maturità (a S Cristina vicino a Selva di val Gardena : ma questa è un’altra storia che racconterò). Arrivò in ritardo, tutta sudata dopo ore di treno e con un valigione spaventoso. Io ero al balcone di Villa Capriolo, la casa vacanze dei gesuiti che avrebbe ospitato le vacanze più intensamente spirituali della mia vita. Con me, altre ragazze appena conosciute. Tutte eccitate perché stavamo per fare 24 un’esperienza unica. La guardammo, tutta sudata, urlare qualcosa con uno spiccato accento toscano (livornese). La invitammo subito a salire da noi. Iniziò così una delle amicizie più importanti che continua tutt’ora nonostante gli anni, i figli e le preoccupazioni. La primavera dopo (un 25 aprile, credo) ero già da lei a Castiglioncello. La casa in via dei Macchiaioli, dove un secolo fa passeggiavano i pittori ogni giorno fino a Rosignano Marittimo, è ancora lì con il giardinetto e il cancellino sempre aperto. Scesa alla stazioncina, respirai l’aria piena di pino e di salmastro. E la pineta verde appena fuori mi spalancò gli occhi e il cuore. La Fiat 1 di grazia polverosa e col freno difettoso mi portò su è giù per le viuzze strette fino alla sua casa. Il sorriso di mamma Fausta e gli occhi azzurri di babbo Aldo furono le cose che più mi colpirono. Iniziò così una storia d’amore e di tenerezza destinata a dilagare e a comprendere tanti ragazzi e ragazze che con la scusa delle vacanze, andavano in casa Cantini per respirare un’atmosfera di gioia, affetto e bellezza. Per sentirsi accolti e ascoltati. Per riposarsi dall’ansia e dalla paura di crescere e trovare una pausa di serenità e dolcezza. Per rilassarsi con i piatti meravigliosi di Fausta, vere trasfusioni di gusto e attenzione. E per ridere, ridere, ridere con Aldo, la cui somiglianza con Alberto Sordi era un pretesto per ridere ancora di più. Fausta è umbra e si è portata da Assisi quell’atteggiamento nei confronti della vita sempre pacato e soave anche nei momenti peggiori. Aldo è morto tragicamente quattro anni fa schiacciato dal piccolo trattore che guidava su alla terra. Deve essere caduto 25 chissà come dal veicolo in movimento e se l’è ritrovato addosso. Grazia mi ha chiamato una sera di luglio piangendo e io ho sentito tanto freddo addosso. Al suo funerale c’era tutto il paese e anche più . Se ne era andato un uomo buono e onesto, cordiale e generoso. E se ne era andato il mio babbo Aldo. Che mi aspettava ogni estate con i suoi begli occhi chiari e trasparenti e mi prendeva in giro quando, sconsolata, me ne ripartivo. “ Pè tutto quello ‘e ti sei mangiato, ti metto fori il conto!”. E rideva. E io mi sentivo meno triste a lasciare quella casa meravigliosa e quella famiglia così bella che era un po’ anche la mia. Che era quella di tutti noi amici di Grazia. Solo la scorsa estate sono riuscita ad andare a trovare Aldo al cimitero. A Ferragosto, con vento e nuvoloni, un Ferragosto da schifo, tutto il giorno in casa con i bambini. Saltato il pranzo al mare e le bancarelle su a ...Ma da Aldo ci si poteva andare. Su per una stradina in mezzo al bosco, in un piccolo cimitero, quasi un giardino isolato dal mondo, ho ritrovato il suo sguardo limpido dietro una profusione di fiori colorati. Una scritta “Babbo Aldo”. Con me c’era Miriam, la mia piccola. Le ho detto : “Per te, è Nonno Aldo”. Da quel giorno, nelle preghiere della sera, abbiamo voluto aggiungere quello per nonno Aldo che ci protegge dal Cielo. Mia sorella ha rivisto Grazia quest’anno, dopo la tragedia. L’ultima volta che era andata a trovarla, l’ho chiamata per dirle che la nonna era in coma. Quando l’ha incontrata, ha pianto tutta una sera. Non era riuscita nemmeno a scriverle una lettera per la morte del nostro Babbo Aldo. Fausta ora è una fatina dai capelli candidi. Sembra piccina piccina, esile esile. Un 26 soffio di vento parrebbe strapparla via. Ma il viso, pur solcato da nuove rughe e velato dalla malinconia, è sempre lo stesso di quella giovane graziosa signora che mi diede un bacio sulla porta di casa più di vent’anni fa. E la sua voce bassa e dolce, impastata solo un poco di toscano, mi accarezza ancora come allora. Ci sistemava ovunque, in camera con le figlie, nella cameretta attigua o sui divani. Alla mattina in bagno, una processione. E sebbene fossimo maschi e femmine nessuno faceva troppo caso all’abbigliamento spesso succinto di chi incontrava in corridoio. Dormivamo tutti insieme (dormivamo…e basta) il che farebbe davvero sbellicare i ragazzi d’oggi o meglio commentare volgarmente per le occasioni di sesso che ci perdevamo. Ma a noi, non interessava mica solo quello. Ciò che sperimentammo sia a Selva che in quella casa fu soprattutto la bellezza di amicizie sincere e profonde (che poi magari finirono anche..in altro modo) che ci accompagnarono per lunghi anni. La spontaneità negli affetti la imparammo in queste modeste scuole. Non ci vergognavamo di regalarci vicendevolmente effusioni e attenzioni innocenti. Apprezzammo la genuinità terapeutica degli abbracci, delle carezze e delle parole buone. Come pure il mangiare bene insieme. La colazione, a turno quando eravamo tanti, si faceva in cucina con la marmellata di more fatta in casa e il pane toscano a fette, che per me è sempre una golosità, oppure la torta casalinga coi pinoli. Fausta era sempre intorno, discreta e taciturna. Ma la sua presenza era manna, sempre. Al mare, andavamo a piedi 27 (la discesa era circa mezzo chilometro), tutto uno zigzagare tra le viette dietro la ferrovia oltre la quale c’era la famigerata Aurelia. I “pungenti” ci aspettavano, belli puntuti e scabri. E noi, con solo un salviettone di spugna strausato, avevamo un bel coraggio a sdraiarci là, adattando le forme tra un pungente e un altro, sotto il sole a picco. Lì mi presi le scottature peggiori della mia vita: schiena (terribile, ne porto i segni anche ora!), pancia, piedi, petto e perfino orecchi e occhio (ancora peggio!). Anche buttarsi in mare era una bella impresa: camminare fino al mare tra i sassi aguzzi anche con le ciabattine era un bel fastidio! Ma, peggio, era risalire sulla scogliera soprattutto col mare un po’ mosso. Alle 12.30 era irrinunciabile la schiacciatina al baretto poco distante. E poi ancora sotto il sole fino alle 19 circa. Nel frattempo si giocava a carte (briscola a chiamata, “el ciamìn” che suscitava furiose litigate perché non si capiva mai chi era il compagno di gioco) o con la palla. Ogni tanto ci faceva visita il Robi (Roberto Gazzaniga, un nostro amico gesuita di Selva) che da sempre si fa le vacanze a Castiglioncello (beato lui!) e vci faceva compagnia col suo sorriso bonario e l’immancabile pipa. Lo adoravamo perché per noi era u prete di quelli “giusti”, uomo di mondo (è entrato tardi in seminario) e sgamato quanto basta per capire e interpretare le irrequietudini dei giovani. Di fatto, dietro il suo aspetto simpatico di ometto cicciottello si presenta un uomo con un carisma eccezionale, esperto di pastorale famigliare e giovanile. La sua voce carezzevole rimane per me un caro ricordo di consigli illuminanti e assolutamente veritieri che mi 28 sostennero non poco in quegli anni. La sera si rientrava stravolti (troppo sole e bagni? Mah!) e non si faceva gran vita notturna. Ma ci divertivamo un mondo. Come quella volta che Grazia, sempre fervida di idee, si inventò l”’indianata” con tanto di falò in spiaggia ai Bagni Roma. L’”indianata” non è altro che un gioco di gruppo durante il quale bisogna fare dei giochi e chi perde beve. Vino. E chi inizia a perdere e non regge molto l’alcool è destinato a continuare a bere, perché diventa sempre meno vigile a causa del graduale aumento di ebbrezza. Chi conduceva il gioco era il nostro amico Andrea (detto anche ”Proietti” a causa dell’evidente somiglianza con il noto attore). A noi ragazze era molto simpatico (un vero istrione) e piaceva pure parecchio per il fisico da giocatore di basket. Ora, questo disgraziato quella sera si era fissato con me e aveva iniziato a fare giochi per me piuttosto difficoltosi (sono sempre stata imbranata nelle prove di velocità o di destrezza). Quindi, avevo attaccato a bere. E a bere sempre più. Poi, fu la volta di Grazia. E pure lei, giù a bere. Alla fine, eravamo tutti allegrotti, ma io e la mia amica un po’ di più, anche perché non eravamo avvezze al vino. Spento il falò, tutti bei contenti e ridanciani, dovevamo però tornare a casa. E Grazia era in motorino, il “Ciao”. Cosa ci prese, non lo so. Sarebbe stato prudente lasciare il motorino da qualche parte (ma dove? Era già tardi!) e farsi accompagnare a casa. E invece, cosa fecero le due sventate? In due sul motorino, mezze ciucche, sull’Aurelia e poi sulle stradine su è giù, piene di buche su fin dopo la ferrovia dove c’è casa Cantini. E non eravamo più tanto ragazzine, ma ultraventenni. Alla 29 faccia delle prediche che adesso faccio ai miei studenti su quanto sia stupido e dannoso bere alcol. Ribevvi ancora qualche anno dopo, a casa di Andrea (perché c’era sempre lui di mezzo?), sempre durante un’”indianata”, condotta sempre da lui, ma lì mi prese male, Grazia mi fece bere caffè salato (che schifezza!) e non arrivai al water. Furono le uniche sbornie degne di nota, a me piace il vino e la birra, ma solo finché mettono una sana allegria. Anche quando andavamo in discoteca, soprattutto all’aperto (alle “Spianate” o al “Ciucheba”, la disco “in” di Castiglioncello), niente drinks alcolici, al massimo il frate con la crema e il cappuccio alle cinque mentre rincasavamo. Ritorai per il matrimonio di Grazia che fu un’orgia dello stomaco, e per il battesimo di Leonardo, il primo figlio. Poi, con marito e figlie. L’accoglienza non era cambiata, Grazia, la Fausta, Aldo, Alessandra e Massimo erano ancora gli stessi, con qualche ruga e un sorriso in più, l’amore di quella meravigliosa famiglia è uno dei regali più preziosi che la vita mi ha fatto e continua a farmi. VILLA CAPRIOLO 30 Eravamo finalmente “maturi” dopo cinque anni di galera al liceo ginnasio. Vero che un po’ ci dispiaceva, nella nostra classe si erano creati legami unici di amicizia e solidarietà. Anche qualche amoretto finito poi senza tanti patemi, solo una scottatura che strinò non poco, ma poi col tempo passò. La fatica di quegli anni fu davvero tanta, i sabati e le domeniche a studiare e pure di sera. Svaghi non molti, qualche festa e un po’ all’oratorio ma nemmeno troppo. Sport, e chi lo faceva allora? Col prof di italiano che il sabato per il lunedì ti sbatteva lì 2000 versi dell’Orlando Furioso o un canto della Divina Commedia praticamente a memoria o con quello di matematica che ti spaventava a morte e se avevi fatto colazione e ce l’avevi alla prima ora correvi in bagno a star male? Non si scherzava mica, nemmeno con la disciplina. Il preside ti urlava dietro mica male se sgarravi. E capitava nei bagni a sorpresa. Fumare, fumavano. E non solo tabacco. Ma quando ti sgamavano eri davvero nei guai, i genitori mica perdonavano o giustificavano. Sulla moto, in cortile, non si entrava. Il preside dalla finestra ti richiamava a squarciagola. Io vissi la scuola superiore a pane e studio oltre che all’affetto dei miei compagni. E se mi rammarico di non essermi divertita abbastanza quando ne avevo l’età, sono però grata delle lezioni che ho assimilato e che ancora oggi mi servono. A ricordare che la vita non è profumi e balocchi, che solo il sacrificio e il lavoro duro portano alla realizzazione di qualcosa di importante e bello. E ad apprezzare lo svago divertente ma fruttuoso. Il perdere tempo fine a sé stesso non lo sopporto. Piuttosto dormo e 31 ritempro fisico e mente. Ma ciondolare senza combinare niente, no. Se proprio posso permettermi un po’ di ozio, leggo, disegno, scrivo, vado a fare acquisti, telefono a qualcuno, mi vedo un bel film. Il nulla proprio no. E anche per l’estate della maturità, bisognava escogitare qualcosa di carino, ma anche utile. Perché è un’estate speciale. Durante la quale riposarsi ma fare anche magari qualche bella esperienza, un bel viaggio, studiare l’ inglese, un corso di sub…le possibilità sono infinite. E io con Bea e Lucia, due mie compagne, optai per Selva. Loro c’erano già state ed erano entusiaste. Una vacanza “diversa” durante la quale si conosceva gente che veniva da tutta Italia e si stava insieme con grande semplicità, allegria e affabilità. Insieme si rigovernava la casa, si serviva a tavola, si pulivano i bagni e le scale. E una signora in pensione, volontaria, ci cucinava. Si faceva esperienza di comunità. Ma soprattutto si ascoltava e si era ascoltati. E si pregava. Mattina, pomeriggio e sera. Ora, io ero credente ma mica tanto praticante. Fino alla terza media sono andata a catechismo dalle suore la domenica. Poi avevo frequentato un po’ l’oratorio con l’Azione Cattolica ma perché mi ci invitavano gli amici, io facevo un po’ il soprammobile, non partecipavo attivamente, me ne stavo li quieta. E mica capivo troppo quello che dicevano. Ma, forse perché avevo finito con l’impegno scolastico duro e mi si apriva davanti la prospettiva liberante dell’università a Milano (ambiente nuovo, gente nuova e soprattutto le materie che più amavo), o la curiosità per questa esperienza che sembrava così coinvolgente…ebbene, accettai la proposta, e con lo 32 zaino e gli scarponi nuovi di pacca che mamma mi aveva regalato per la maturità, mi imbarcai in questa avventura di cui ancora oggi, dopo quasi 25 anni porto i segni profondi. Descriverla a parole, non è possibile. Non le trovi. Bisogna esserci e provare. Allora ti rendi conto, almeno un po’, in che faccenda ti sei infilato. E se la prendi sul serio, non te ne liberi più, anche se a Selva non ci ritorni. Sono vent’anni che non rivedo Villa Capriolo, ma è come se fosse ieri. Mi si è scolpita dentro. Rivedo la salitona del Maciacconi (il negozio di articoli sportivi), il sentierino che portava attraverso il prato verde alle due belle costruzioni. Villa Capriolo. Donata ai Gesuiti da un benefattore che desiderava un rifugio sereno per i piccoli e i grandi alla ricerca della pace per l’anima e il corpo. Le camerate spartane coi letti a castello in legno grezzo e il bagno in corridoio. Mica tanti i bagni. Ma nessuno si lamentava. La zona bar, gestita anche quella da noi ragazzi, inesperti nel preparare caffè e cappucci (toccò pure a me, una volta, col mio mitico amico Galli) ma pronti a servire un sorriso caldo. Ma soprattutto, ricordo la cappellina bassa dalla luce soffusa col piccolo altare ricavato da Pietro, un fratello gesuita, da un tronco di legno col crocifisso sovrastante. Lì per me si riassume l’essenza di Selva, le lodi recitate col Robi Gazzaniga dalla voce carezzevole e suadente e le messe tutti seduti in cerchio, le preghiere spontanee e la comunione passandoci particole e vino di mano in mano. Lì ho conosciuto Qualcuno che ha cambiato profondamente la mia vita. Gesù di Nazareth non è stato più per me solo un grande personaggio storico. Ma un uomo con dentro un 33 mistero grande d’Amore. E che dopo 2000 annoi ha ancora qualcosa di bello , estremamente bello da dire. Perché la nostra vita sia più buona. E gli amici che hanno condiviso con me quell’esperienza sono sempre nel mio cuore. La mia Grazia ruspante dal cuore d’oro, la mia dolcissima Bea, la Daniela così simpatica, il trio Galli, Andrea (il Proietti) e Uzzimen (Fabio, tenero Fabio). E Padre Filippo, che ora purtroppo non è più tra noi, se l’è preso la montagna in una piovosa giornata di aprile di quest’anno. Filippo, così bello e così pieno di luce, che mi ha tenuto per mano lungo quella nuova strada che senza volerlo mi ero trovata a percorrere. Che mi ha preso per mano tante volte in montagna, che mi incoraggiava a proseguire la salita quando non ne potevo più, che mi faceva vedere con occhi nuovi il buono che c’era in me e intorno a me. Silvano Fausti l’ho scoperto là. Lui, il teologo che aveva studiato in Germania, dalla strana accentata di bergamasco, che leggeva direttamente il vangelo dal greco. Uomo di poche parole, molto timido e riservato. Ma quando quelle parole uscivano, non esisteva nient’altro intorno. Tutti si concentravano su quel viso da montanaro con la barba brizzolata che iniziava a raccontare. E’ stato lui l’ultimo a vedere Filippo rotolare giù dalla montagna. Fino alla fine, compagni e fratelli. Così diversi. Un pacato filosofo e un austero tenace teologo. Capaci insieme di grandi cose. La loro grande risorsa era il silenzio. Uno dei più profondi che io abbia mai conosciuto, perché non era solo assenza di rumore. Era pienezza di senso. Anche quando col Robi si facevano i 34 sogni guidati e gli psicodrammi, dove si era chiamati a esternare paure, stati d’animo, ferite e dolori e a riviverli col pretesto di una messinscena, il silenzio era denso di significati. E le parole erano scelte con cura, dosate con attenzione. Com’è brutto sprecare le parole, fare discorsi sciocchi e insensati! Quando scopri quanto sia importante quello che dici e come lo dici, diventi insofferente ai discorsi futili, ai pettegolezzi e alle maldicenze. La parola dovrebbe servire ad altro, a comunicare qualcosa di giusto e bello. O a denunciare e condannare ciò che non lo è. O a portare conforto o allegria. Ma le insulsaggini dovrebbero essere bandite dalla bocca come dal cuore. A Selva non c’è proprio posto per le stupidaggini. Anche se il clima è disteso e gioioso, capisci subito che sei lì per qualcosa di serio. E decisivo per la tua vita. E senti che è giusto così, quel momento deve essere così. La gente che arriva lì da tutta l’Italia e di tutti i tipi lo sa. Le milanesi Stefi rasta e la Paola da centro sociale come il gruppo semipastorizio dei sardi e il trio colto dei lecchesi (i mitici Galli, Andrea e Uzzi) avevano in comune con tutti questo impegno a vivere insieme l’esperienza di Selva. Poi, magari, tornati a casa, hanno ripreso la vita di sempre senza particolari sconvolgimenti. Ma io credo che non puoi tornare ed essere sempre lo stesso di prima. Magari solo poco poco ma sei cambiato. Anche i momenti di svago e divertimento (e non erano pochi) erano diversi. Durante le gite in montagna (memorabile e faticosissima, ma memorabile, il mega gitone dell’alba, partenza all’1 di notte per arrivare alle 7 in cima a fare colazione con pane e nutella cantando i canoni di Taizè di Filippo mentre 35 spuntava l’alba) tutti aiutavano tutti e ci si aspettava, nessuno tirava avanti se l’ ultimo della fila si fermava. Si dividevano i panini mezzi sfatti e le mele. Chi era più robusto portava gli zaini delle vettovaglie. E chi era senza fiato veniva preso per mano e accompagnato. E mi ricordo ancora quel canalone tremendo io per mano ad Andrea e Bea con Fabio, Grazia col Galli a correre giù coi sassi che ti entravano ovunque e a ridere come scemi e a scivolare, a rialzarsi e a cadere di nuovo… Sono ritornata con gli occhi pieni di lacrime e di gioia. La mia casa non mi sembrava più la stessa. Ero io che e non ero più la stessa. E tutto incominciò. Spole tra Paullo e Milano, tra Milano e Lodi, Castiglioncello e Lecco. Per ritrovare amici, per incontrare i Padri, per ricordare e stare insieme. Ho vissuto come una nomade per qualche anno. Sempre con la valigia in ballo. E tante tante belle occasioni di crescita personale da sfruttare. A Selva ci tornai ancora, una volta in estate e 4 volte in inverno. Ma non fu più come la prima volta. Non ero più la ragazzina secchiona, dagli orizzonti un po’ limitati, che per la prima volta si apriva a un nuovo modo di essere. Con l’università a Milano e tutta questa nuova gente accanto a me, mi allontanavo sempre più dalla vita paesana paullese che mi andava ormai decisamente stretta e iniziavo a camminare da sola alla ricerca di me stessa. Comunque, Selva rimase sempre per me un punto fisso di riferimento costante per confrontarmi man mano sulle scelte che mi trovavo a fare. Ritornarci era come ritornare a casa. 36 MAGNA GRECIA UNO E DUE Col periodo universitario, avvennero non pochi cambiamenti. Prima di tutto, l’incontro con la metropoli, 37 Milano. Affascinante, ricca di chiese e musei, mostre d’arte e rappresentazioni teatrali. I miei luoghi preferiti erano (e sono) Palazzo Reale e il Museo di Storia Naturale. E la Cà Granda, l’antico ”Spedale dei poveri” progettato dal Filarete, ora sede dell’Università. Le stradone sovraffollate, la gente perennemente agitata e i negozi sfavillanti non mi hanno mai conquistata granchè. Non amo la confusione e la folla né la mercanzia di lusso. La vasca in Corso Vittorio Emanuele, quella sì. Locali in mai frequentati, né discoteche. Solo qualche volta a spasso sui Navigli. Ma Milano per me era soprattutto cultura, apertura mentale e nuove conoscenze. E Padre Filippo, dal quale mi recavo regolarmente per parlare e per pregare. All’università conobbi un sacco di gente (soprattutto ragazze, e per forza a scienze biologiche di maschi ce n’erano pochini). Lì incontrai Laura e Elena, due genialone che pigliavano tutti 30 senza studiare granchè (ma io non ci ho mai creduto!). Erano due ragazze piene di vita e di entusiasmo. Anche loro, come me, reduci da anni sacrificati sui libri, avevano voglia di divertirsi e muoversi. Io continuavo le mie spole tra Lombardia e Toscana. Loro programmarono un’estate in Grecia con la tenda. Io accettai subito. Le reticenze dei genitori furono vinte dalla presenza di un amico più anziano di noi che ci avrebbe “protetto”. In realtà, eravamo capacissime di difenderci da sole. Programmammo un itinerario nel Peloponneso, nella Grecia classica, con una puntata a Creta, con soggiorno al mare. Un viaggio di quasi un mese. E con lo zaino regalato da mamma l’anno prima e 38 tanta voglia d’avventura, mi imbarcai a Bari per Patrasso. Eravamo così felici di quella libertà che finalmente ci era concessa, quelle vacanze un po’ randagie e insolite ci facevano sentire capaci di tutto. Dormivamo in campeggio, ma anche in spiaggia o alla stazione. Mangiavamo dove capitava, a volte anche bene (amo la cucina greca, le verdure, il pesce, l’agnello e lo yogurt) a volte frutta o un po’ di pane. Ma andava bene così, un paio di pantaloncini e una canotta, sandali di cuoio e un cappellino in testa. Adesso, non potrei fare a meno di una bella camera con bagno e l’aria condizionata. Ma a 19 anni a me importava solo vedere, conoscere, girare e divertirmi. Ci spostavamo in autobus, con l’autostop o con il traghetto. Atene fu una gran delusione, Acropoli a parte, il resto era un caos bisunto e fastidioso. Olimpia, Corinto e Micene, invece, piene di aromi di resine e di suggestioni antichissime. Quasi mistiche. Soprattutto Olimpia, così verde e fresca, dove camminai nello stadio che vide le prime Olimpiadi. A Corinto predicò San Paolo e mi soffermai davanti al luogo dove proclamò le sue parole ai Corinti. Micene è indubbiamente la più antica, rovine ovunque,disseminate sui pendìì erbosi dove si abbarbicano miriadi di capre. Lì riconobbi la tomba di Agamennone, illustrata in tutti i libri di storia dell’arte. Emozioni senza fine. All’antico teatro di Epidauro assistemmo alla rappresentazione delle Troiane di Euripide. Uno spettacolo un po’ troppo “da turisti”, molto appariscente e sfarzoso. Certo, non capendoci niente (il greco poi quello antico e chi lo sa? Io l’avevo studiato per anni, ma sentirlo parlare e capirlo… è ben 39 altra cosa) dovevano puntare sulla messinscena, sulle coreografie e sui costumi. Fu comunque bellissimo. Ma Creta, Creta le superò tutte. Percorremmo con lo zaino in spalla le gole di Samaria, 18 KM nel letto asciutto di un fiume che in inverno scorre impetuoso. Immersi nel bosco selvatico, ecco spuntare un antico villaggio di legno, una chiesetta ortodossa, un ruscello ghiacciato e trasparente. Ogni angolo, una sorpresa. E quando passammo attraverso le strettissime gole, avemmo l’impressione di superare un ostacolo mitico. Sembrava che le pareti ripidissime ti rovinassero addosso. Il paesaggio, divenuto irreale, poteva essere solo una dimora degli dei. Dei misteriosi e abituati al sole quasi africano, al biancore delle pietre arse e alle enormi pale dei fichi d’India. Dei che al termine della lunga vallata, potevano gettarsi in un mare azzurrissimo e pieno di pesci variopinti e trovare refrigerio sulle tiepide spiaggette chiare, ancora deserte e quasi incontaminate. Gli dei che abitavano ancora il palazzo di Minosse con le sue colonne tozze e rosse e i delfini (rifatti) dipinti sulle pareti. E si godevano il profumo di pesce alla griglia e il vino resinoso e freddo. E noi ci sentivamo un po’ come loro, liberi e senza una meta precisa, pronti a godere di tutte le meraviglie della natura e dell’arte. Felici della brezza profumata di finocchio, mirto e rosmarino. E di tutte quelle antiche vestigia di civiltà che hanno generato cultura e bellezza. Era un vero incantesimo. E chissenefregava se i piedi erano scuri e pieni di vesciche e le spalle scottate, se non si riusciva a dormire bene nel sacco a pelo sul suolo sassoso o cementato. Eravamo 40 sempre sotto un cielo purissimo, in mezzo al mare e alle scogliere rocciose. Questo contava. Era tutto così nuovo. Non parlavamo molto, anzi parlavamo poco, perché i nostri sensi erano tutti impegnati a osservare, assaporare, annusare, ascoltare… e a immagazzinare nella memoria. Che mi tornò utile quando in Grecia, ci ritornai, quattro anni dopo con gli amici del liceo. Eravamo in tanti, 8-9 credo, e c’era sempre la mia Bea, la Paola e lo Stefano, i compagni di tanti momenti belli. Ad Atene arrivammo in aereo, per me la prima volta, con una fifa spaventosa. Io mi sentivo a mio agio. Avevo preparato l’itinerario, cartine e guida alla mano. Questa volta, però, le isole: oltre a Creta, che mi aveva stregato e volevo rivedere, Santorini che mi affascinava per l’eruzione del vulcano che l’aveva distrutta, e poi Nassos, l’isola di Bacco, Paros e Antiparos. Queste ultime famose per le spiagge, le case tipiche e la buona cucina. Santorini è un po’ troppo turistica, anche se le case bianchissime, sfavillanti sotto il sole, abbarbicate sulla strettissima scogliera, hanno sempre un certo fascino. Nasso, nell’interno, è molto arida, un su e giù scuro e polveroso che percorremmo in jeep. Un paesaggio suggestivo, ma monotono. Il sole era davvero impietoso e a quasi tutti venne la febbre. Marco, che soffriva la macchina, stette male da morire e dovemmo fermarci nel primo bar che trovammo. Una specie di oasi nel deserto. Paros, invece, fu più simpatica. I paesini sono pieni di straduzze con i tavolini in legno fuori dai bar e i vecchietti seduti su sedie impagliate sfilacciate. Basta alzare la testa per vedere a stesi ordinatamente sui fili come panni lavati moltitudini 41 di polpi. Il campeggio era molto bello, pieno di verde e un po’ isolato. La strada per arrivarvi costeggiava la spiaggia e , orrore, era piena di enormi ratti morti. Io ho da sempre il terrore dei topi, soprattutto se grandi e grossi. Nemmeno anni di ricerca in laboratorio (prima sui topini, poi sui rattoni) ha estinto questa paura irrazionale. E da quando un ratto, poi, mi ha morso, la fobìa è pure peggiorata. Quando ci tuffammo nelle acque limpide, io mi trovai un topone che mi nuotava accanto. Il giorno dopo, qualcuno di noi aveva una leggera febbre. Io chiamai papà, veterinario, perché temevo che avessimo contratto la leptospirosi, malattia comunemente trasmessa dai topi. Naturalmente mi tranquillizzò. Io, in realtà, rimasi nel dubbio fino a quando non ci imbarcammo sul traghetto per lasciare l’isola tutti completamente guariti. Eravamo bruciati dal sole, asciugati dal sale e davvero un po’ stravolti. E mentre io, Bea e Paola eravamo davvero entusiaste di quest’avventura continua, nonostante i piccoli inconvenienti, Grazia giurò che non sarebbe mai più venuta in vacanza con noi a strapazzarsi così. A camminare per ore sotto il sole, con lo zaino sulle spalle, a imbarcarsi in continuazione (pure col mare grosso, con tutti che stavano male), a vestirsi come barboni. Tornare a casa distrutta e ricominciare il lavoro senza essersi concessa una reale pausa di sano e totale relax era per lei un dramma. Gli unici quindici giorni di vacanza dell’anno trasformati in un incubo. Ma gli altri erano belli soddisfatti e quindi Grazia, a un certo punto, in netta minoranza, si rassegnò, tanto la vacanza era quasi finita. Tornammo conciati da sbattere via, con i fuseaux bucati e 42 le espadrilles rotte e con la pelle scura forse per il, sole forse per la sporcizia. Ma quella vacanza fu oggetto di racconti memorabili e quasi epici per anni. Tranne per Grazia, che, credo, l’abbia cancellata dalla memoria. Ma io, ancora adesso, quando riguardo le foto, ridacchio dentro di me. E penso a come eravamo ancora giovani, spensierati e felici per ogni piccola cosa. LA CITTA’ ETERNA Ho visto Roma per la prima volta a quasi ventiquattro anni. Tardi, ma meglio così. Prima, da ragazzina, l’avrei 43 guardata con occhi ingiusti. Mi avrebbe forse anche stancato e un po’ deluso. Non mi avrebbe sedotto, sarei stata troppo acerba e impreparata a gustarne le meraviglie. E poi, magari non ci sarei andata con la compagnia giusta. Mia sorella, che in realtà ha rotto un po’, Ange, che conosco da quasi 30 anni e la cugina Ornella, infaticabile camminatrice. Un agosto caldo, ma non troppo e noi in pantaloncini, canotta e cappello di paglia (roba da turiste americane), cartina in mano, ci sentivamo padrone della Città Eterna. Arrivo in treno, Roma Termini affollatissima. Dovevamo arrivare a Monte del Gallo, dove avevamo prenotato mezza pensione in un albergo gestito da religiose (insomma, ragazze da sole sì, ma con un po’ di sicurezza…già, peccato che il quartiere fosse frequentato da strani individui e alla sera piuttosto deserto. Dopo esserci avventurate col taxi per le vie di Roma, esserci perse (non ci eravamo capite, problemi di romanesco?), tornate indietro, sbagliato direzione…finalmente in albergo. Carino, pulito, stanze spaziose con terrazzina. Il primo impatto con Roma davvero buono. Anche perché durante il tragitto in taxi avevamo già avuto un assaggio delle bellezze della città. Ci immergemmo subito per strade e piazze, a piedi e in autobus, cercando o imbattendoci per caso negli angoli più straordinari. Oltre ai luoghi “obbligati (S Pietro, S Giovanni in Laterano e le altre grandi basiliche, il Campidoglio, le piazze più belle del mondo e i musei vaticani) ci ritrovammo in vicoli e piazzette sperdute. A rimirare una fontanella o un cornicione. O un negozietto di merci deliziosamente 44 inutili. Per mezza giornata cercammo la casa di Anna Magnani. E non la trovammo. E arrivammo in bus fino al santuario del Divino Amore pur di percorrere tutta la Via Appia. Ci perdemmo nel ghetto ebraico. Andammo a vedere i gatti che vivono a Piazza Argentina tra le rovine. Passeggiammo nei Fori, ammirandone l’eleganza senza tempo. Nelle catacombe di S Callisto e nelle tombe dei papi mi sentii un po’ male, non ho ben capito se fosse la claustrofobia o l’emozione. Comunque, a parte questi piccoli inconvenienti e qualche vescica ai piedi, ci divertimmo tantissimo. Mangiavamo dove capitava, anche sedute per terra. E non eravamo mai stanche di guardare e tentare di imprimere nella nostra memoria la moltitudine di meraviglie che in fretta attraversava i nostri occhi. Gustavamo pienamente tutta la bellezza dirompente delle mura, delle vie, dei colori al tramonto (a Roma chissà perché, ha una luce tutta particolare che indora qualsiasi cosa e stende ovunque un velo di soave quiete), del ponentino serotino e delle piante odorose e umide delle Ville. A Tivoli oltre alla magnificenza della Villa e delle sue fontane, trovammo anche la cucina semplice e saporita di un’osteriaccia dall’aspetto malfamato, ma che dentro celava un localino delizioso con terrazza ricoperta da un pergolato di vite. Riuscii a fatica a convincere le mie compagne ad entrare ma la fame ebbe la meglio e poi, comunque, fummo tutte contente. Ci ritornai col fidanzato qualche anno appresso suscitando le medesime reazioni. Ridevamo quasi sguaiate sentendo i romani calcare il loro accento sempre esagerato e a volte un po’ smorfioso. Simpatici coattoni. 45 Che personaggi. Come quella signora sulla metropolitana che si chiamava Ercolina. O come il matto di Piazza Barberini, uno strano individuo che ritrovai anche le altre volte che capitai a Roma. Salutava tutti con un paio di antenne in testa. Era sempre lì, accanto alla fontana del Tritone. Sempre allegro e sorridente. A Roma ci tornai per l’udienza col Santo Padre. Karol Woytila, il Papa della mia giovinezza e maturità. L’uomo che ha contribuito ad abbattere i muri e che ha incontrato tutto il mondo. Un santo mass mediatico che ha sperimentato la guerra, la solitudine e la sofferenza. Ci ha lasciato un’eredità ricchissima di speranza. “ Non abbiate paura” me lo ricordo come fosse adesso, il vocione emozionato e prorompente. Un vero uragano di fede. Il resto non mi ha mai interessato. L’emozione di trovarsi a qualche metro da quel vecchietto ricurvo con uno sguardo immenso fu indescrivibile. Nella meraviglia ieratica della sala Nervi, un uomo già toccato dalla vecchiaia e dalla sofferenza suscitava una corrente di entusiasmo che si propagava come un’onda. A Roma ci tornai col fidanzato, ma per una vacanza all’insegna dell’allegria e dell’originalità. Sì, perché il nostro compagno di viaggio era un amico vietnamita che sfruttò l’occasione per andare a trovare il fratello che abitava Villa Adriana presso Tivoli. Non visitammo Roma, la percorremmo di corsa, ma perché sinceramente pigliammo quella vacanza alla leggera. Dormivamo ai Parioli, ospiti nella casa di un amico del vietnamita, artista, che era assente per lavoro. Mangiammo nei posti più impensati, in modo orribile (per forza, non mi 46 facevano scegliere i posti giusti!) e soffrimmo un gran caldo. Col fratello, ci divertimmo un sacco, parlava benissimo il romanesco e sembrava un comico alla Benigni. Un po’ ci rimasi male, non ero riuscita a godermi la mia città preferita. Però risi molto. L’ultima volta a Roma fu nel 1995, in ottobre, l’ultima vacanza con la mia Ange. Strano, la prima e l’ultima (per ora) volta a Roma sempre con lei. Nell’aprile 1996 mi sarei sposata, fu una sorta di viaggio “di addio al nubilato”. Un ottobre splendido, giravamo in mezze maniche. Stavamo all’EUR dagli amici di Ange che ci offrirono un’ospitalità davvero calda e generosa. Ripercorremmo le “nostre” piazze, le “nostre” vie, i “nostri” luoghi. Senza tanti discorsi, tranquille, senza la smania di vedere della prima volta. Roma la conoscevamo già, era un’amica. Sapevamo quali mezzi prendere, in quali negozi comprare e in quali posti mangiare. Camminavamo senza pensare a dove andavamo, perché lo sapevamo. Godemmo il sole, la brezza serotina, la luce del tramonto, la sera frizzante del centro. Era il nostro saluto e l’augurio per una nuova vita felice. IN EUROPA CON LA PARROCCHIA Oltre ai soliti pellegrinaggi, da Lourdes a Padre Pio e Loreto, le parrocchie organizzano anche gite amene in 47 luoghi di interesse artistico e culturale con lo scopo di incentivare la socializzazione e l’amicizia. Visto che Ange continuava a propormi di andarci con lei, accettai di seguirla ad Amsterdam. Fortunatamente, nonostante l’età media dei partecipanti fosse sulla sessantina, si era iscritto anche un piccolo gruppo di gente più giovane. Così, in una fresca mattina di fine agosto, caricate le valigione sul pullman di Spini, la premiata ditta di autotrasporti paullese, adesso definitivamente chiusa, partimmo tutti eccitati alla volta della città più trasgressiva dell’Europa. Viaggio lunghissimo, a tappe, rallegrato dal continuo scherzare, cantare e chiacchierare. Sosta in Germania e poi via ancora verso Nord. Il paesaggio olandese non è esaltante sotto la pioggerellina fina e il cielo plumbeo: piatto, verde e punteggiato da villaggi di casette dalle finestrelle con le tendine di pizzo. Ma la città, un intrico di ponti e case strette coloratissime, fu una vera rivelazione. Sono nella città di Anna Frank, del museo di Van Gogh e del quartiere Rossebuurt (quello delle donnine in vetrina), mi ripetevo, affascinata da questa Venezia moderna. In giro per strade e piazze, un’umanità variopinta e stramba. Allora in Italia se ne vedevano ancora pochi di stranieri. Lì, erano l’elemento dominante. Rasta, indiani, cinesi, giovanissimi o decrepiti, mezzi stracciati, con le gonne lunghe o i calzettoni e il cappello in testa. Biciclette ovunque, signore dai capelli color grano con le sporte della spesa, mamme e bambini, ragazzi sbrindellati, tutti in giro su due ruote sulla pista ciclabile che attraversa tutta la città. L’atmosfera aveva un che di nebuloso, sarà stato il tempo 48 piovoso o il fumo delle canne, ma l’aria non mi sembrava tanto trasparente. Come una cortina lattiginosa che velava tutto. E conferiva alle cose e alle persone un certo fascino. Anche Bruxelles mi piacque molto, ma, insomma, un’altra città, più seriosa, raccolta e distinta. Anche se di ampio respiro europeo. Ma la gita non consisteva solo di visite alle città: i momenti conviviali erano il momento più atteso. Come la sfilata in biancheria da notte a cui, ahimè, partecipai con tanto di cuffietta in testa e camicia a trine e balze. Naturalmente, rigorosamente al buio con bugia d’epoca in mano. Per prepararla, le signore svuotarono i recessi più nascosti dei loro armadi per riportare alla luce preziosi lini e pizzi della nonna o della mamma. Sfilammo trattenendo le risate. Riscuotemmo un enorme successo. L’anno dopo, entusiasta dell’esperienza, la ritentai sempre con la mia Ange. Meta: Praga e Polonia. Mi attirava molto l’idea di visitare Praga, rinomata per la sua atmosfera decadente. Ma la vera sorpresa fu Cracovia e Auschwitz. Certo Praga ha un fascino particolare e un po’ demodè, con le sue piazze, il castello, il ponte e i tetti puntuti, un po’ da castello di Dracula. Artisti di strada ad ogni angolo che suonano e ballano ritmi un po’ tzigani e perfino un incantatore di serpenti. Però il campo di sterminio, con la sua desolazione, l’odore di morte ancora aleggiante su una distesa di baracche in legno e lo stormo di corvi gracchianti sotto il cielo plumbeo…di sicuro le condizioni metereologiche contribuirono non poco ad appesantire un sentimento già opprimente e tristissimo, soprattutto nei forni e nelle 49 camere a gas. Piansi tutto il giorno, non riuscii nemmeno a scattare una foto. Solo nella chiesa dei cappuccini costruita proprio all’ingresso del campo ritrovai un po’ di serenità. Strano trovare una chiesa in un luogo dove si è consumato un mare d’odio e di violenza. Ma forse, può diventare presenza di riconciliazione. Nonché di riflessione su quanto è devastante il male. Proprio come il santuario di Cestochowa, dove di trova la statua della Madonna Nera, per decenni simbolo di unità e speranza per tutti i polacchi. Ogni sera, dal santuario si leva una struggente melodia, la preghiera alla Madonna che i polacchi, ovunque si trovino, intonano alla loro Madre sfregiata. L’icona è inquietante, lo sguardo che lacera la materia, come quei due segni che una mano iniqua ha inciso nell’enigmatico volto nero in dispregio alla sacralità della libertà. In netto contrasto con l’austera sacralità bizantina dell’icona, i cori e i balli festosi all’esterno, tanti giovani in festa sventolanti fazzoletti. Oltre alla collina del santuario di Jasna Gora, niente più di interessante, la cittadina è anonima, piuttosto incolore. E’ incredibile come in Polonia, appena fuori dai luoghi di interesse, la realtà sia incredibilmente disadorna. Come anche la campagna, così trascurata, intorno a Wadowice, il paese natale di Giovanni Paolo II, così ridente, con la bella casa-museo del grande papa dove si possono ammirare le sue lettere e le sue foro da giovane e i suoi sci. O come il Wavel a Cracovia, la basilica e il mercato, che pullulano di storia e follklore e solo qualche via dopo le strade sono vuote, spoglie, case vecchie e scrostate dai vetri rotti. Emozionante il cimitero ebraico, pietra su 50 pietra e pietre per fiori e lapidi a ricordare la triste epopea. Una pietra su una tomba sconosciuta l’ho messa anch’io. Un gesto che lego idealmente alla preghiera che ho inserito nel muro del pianto a Gerusalemme nel 1997. Il dramma degli ebrei lo sento vicino, non so perché. Forse perché li considero fratelli maggiori nella fede. E forse anche perché per me è un po’ il paradigma degli eccidi contemporanei che si sono consumati e si consumano in tutto il mondo a spese di innocenti per gli interessi di pochi tiranni. Un viaggio impegnativo, questo. Una riflessione lunga una settimana sui drammi degli uomini che uccidono altri uomini. Mentre di puro sollazzo quello dell’anno successivo in Provenza, Camargue e Costa Azzurra. E lì, natura, mare, la Croisette, Il Principato. Ma chissà come, il mio interesse per le gite parrocchiali iniziava a scemare. La compagnia era simpatica, l’organizzazione e gli alloggi soddisfacenti,gli itinerari comunque interessanti. Ma a me il turismo puro non basta. Ho bisogno di storie, di ricordi e di emozioni intense che vengono dal tempo. La vacanza non deve essere un tempo inerte, deve produrmi conoscenze, sensazioni e ricchezza interiore. Così che io possa tornare a casa con un bagaglio in più. Altrimenti, se devo proprio riposare, vado al mare e mi piazzo sotto l’ombrellone con i miei libri. Poi mi butto in acqua per un’ora e dopo pranzo mi appisolo. MISSIONE INDIA Tra una gita e un’altra, mi buttai in una avventura che segnò non poco la mia vita. Con Giovanni, ho condiviso 51 tantissimo della mia vita, ma la cosa più straordinaria è stato e rimane tutt’ora l’impegno a favore delle missioni, in particolare in India. Tutto iniziò da un viaggio che lui fece nel 1988, in mano un biglietto aereo e un indirizzo. Partì perché aveva bisogno di lasciarsi alle spalle per un po’ la sua solita vita tranquilla e scontata. Paullo è un bel paese, ma è estremamente noioso. Non ci manca nulla, eppure ci si sente immersi in un’atmosfera vuota, senza stimoli né fermenti. Brava gente, laboriosa, ma piuttosto chiusa e sulla difensiva. Impicciona a sproposito. Di idee ce ne sono tante e anche di gente che si sforza d realizzarle, ma fanno fatica a decollare perché le persone non aderiscono o si stancano o preferiscono andarsene fuori. Milano, Lodi e Crema sono alle porte e offrono molti diversivi. Qui sono tutti abituati a cercare altrove svaghi e impegni. E le amicizie. Si fatica molto a creare una forza coesiva, tranne che per occasioni di un certo rilievo. Le manifestazioni in piazza, tipo mercatini, sono affollatissime. Così pure le esibizioni di giocolieri, falconieri e band. Quando però si tratta di impiegare tempo e impegno per realizzare qualcosa insieme…ci si ritrova con i soliti quattro gatti che appartengono a più gruppi e associazioni e corrono a destra e a sinistra fionde irrimediabilmente per realizzare metà di quello che si erano proposti. Non so se fu solo questo il motivo a spingere Giovanni a partire, forse era un momento di svolta nella sua vita, aveva maturato una scelta di servizio…sta di fatto che se ne andò in uno dei più grandi lebbrosari dell’india meridionale, a Nalgonda, 2 ore da Hyderabad , noto polo informatico. E lì, successe. 52 Giovanni imbiancava, giocava coi bambini, trasportava i lebbrosi in braccio. Dormiva nel convento delle suore francescane dell’Immacolata, condivideva con loro il riso e le banane. Bevevo la stessa acqua che gli causò 6 mesi di malessere che si rivelò poi causato da un fungo nel sangue. Ritornò sconvolto, incapace di accettare le contraddizioni di questo nostro strano mondo, chi troppo, chi niente. Si chiuse in casa per mesi, rifiutando gli svaghi, cercando di trovare un senso al dolore che aveva visto e sentito nella sua anima. Il passare dei giorni lenisce sempre le emozioni e pian piano riuscì a trasformare il suo sentimento di impotenza in gesti di servizio e premure. Andava a servire i barboni di Fratel Ettore con un amico con cui aveva condiviso l’esperienza indiana. Lo conobbi così e mi attirò il suo sguardo visionario, la sua smania di donarsi e i suoi sogni in terre lontane. Lo seguii. Avevo voglia di nuovo, il paesello dove abito a me sta da sempre stretto e appena mi si prospetta la possibilità di conoscere persone diverse e lanciarmi in qualche impresa che mi stuzzica non ci penso su due volte: vado! Così iniziò un’avventura che si impresse nel mio cuore, allargò notevolmente i miei orizzonti e mi portò a conoscere ed ad amare quella straordinaria gente che vive e lavora in India. Il primo incontro con il grande subcontinente avvenne appena fuori dall’aereo a Mumbai (allora si chiamava ancora Bombay). Una cappa opprimente di umidità calda e di spezie sgradevoli mi incollò gli abiti addosso. I monsoni erano in ritardo quell’anno, il cielo era piombo pesante e l’aria intrisa di sporcizia, acqua putride e curry era 53 irrespirabile. Rimasi stomacata. All’uscita dell’aereoporto, stormi di mendicanti vestiti di stracci sporchi erano incollati alle vetrate, pronti, come avvoltoi, a calare sui viaggiatori per allungare le mani nella richiesta disperata e incalzante di elemosina. Prendemmo un taxi per giungere alla missione delle suore del PIME dove ci saremmo fermati fino a quando non avremmo trovato un volo per Hyderabad. Le strade erano asfalto fuso che esalava una caligine cattramosa e acre, quasi un nodo intorno alla gola. Ai lati, capanne in lamiera, plastica e quant’altro quei poveracci di abitanti avevano potuto rimediare per costruirsi quell’alloggio di fortuna. Dietro, grattacieli superbi, sfavillanti. A ogni semaforo rosso, mani e braccia di bambini che si intrufolavano nell’abitacolo, sempre alla ricerca affannosa di qualche rupia. Sdraiati sui marciapiedi, donne e anziani paralitici o semplicemente miserabili, con le piaghe avvolte in cenci luridi, quasi incapaci anche solo di tendere una mano, gli occhi socchiusi e sfiniti. L’angoscia quasi mi offuscava la vista, quante volte mi ero immaginata quel viaggio, mi ero documentata, avevo visto film, diapositive e foto…ma un conto è sapere che l’inferno esiste, un altro è entrarci. Le strade rotte, piene di buche erano intasate di risciò, biciclette, macchine ambassador e mucche anche nelle zone centrali della città. Mi sentivo come in un immenso formicaio inquinato, frastornato dai clacson e dalle voci dei venditori che popolavano le miriadi di negoziucci stipati di merce di ogni tipo. I colori accesi e sfacciati, in netto contrasto col nastro della strada e il cielo praticamente dello stesso grigiore 54 incandescente, mi stordivano. I sensi erano parecchi frastornati quando finalmente arrivammo in un lasso di tempo che mi parve eterno alla missione. Perlomeno lì c’erano ordine, pulizia e quiete. Una sorta di oasi nell’immane caos della città. Ma le puzze …ancora l’odore di panni non asciugati da giorni, di fogna, di smog e un altro olezzo, diverso sì, ma comunque insopportabile: il fetore della lebbra. Carne umana marcia. Ovunque era penetrato il miasmo, fin nelle mura del convento e nei meravigliosi alberi del giardino tropicale. Lo sentivo perfino nell’acqua che bevevo, preventivamente bollita per disinfettarla. Pure nei buoni cibi che le suore ci preparavano con cura. E mi sentivo persa. In quell’aria così greve, così tetra, tra quei fantasmi di uomini e donne devastati dal male, con tutti quei corvi neri che gracchiavano lugubri e le zanzare che nonostante la zanzariere mi entravano nel letto. Me ne volevo andare, via da tutta quella tristezza, quel buio, quella desolazione. Purtroppo, il successivo volo per Hyderabad era dopo 2 giorni. Mi veniva da piangere. Nella missione si trovavano anche due giovani volontarie, da giorni insidiate da vomito e diarrea. Ecco, mi dicevo, ora starò male pure io…e non toccavo verdura cruda, latte e burro nel timore di contrarre qualche bacillo. Mi sentivo come in un incubo…pure i ratti che correvano in giardino…ma…mentre bighellonavo tra gli alloggi dei malati e mi chiedevo perché mai mi fossi imbarcata in quella brutta faccenda, il sorriso bonario di un’anziana suora, Suor Rosa, mi calmò. Capì che ero piuttosto inquieta e cercò di consolarmi un poco. Raccontandomi la 55 sua odissea indiana di 40 anni prima. Molto peggio della mia. Appena 23enne, assolutamente ignara, ma decisa ed entusiasta, si era imbarcata alla volta dell’India con qualche consorella. Il viaggio era stato terribile: tempeste, carenza di cibo e di nomali condizioni igieniche . Allora non esisteva ancora il canale di Suez e quindi la rotta prevedeva di doppiare il Capo di Buona Speranza. Tre mesi di attesa, paura e speranza. Qualche suora si ammalò e successivamente morì. Fortunatamente, l’equipaggio fu molto assiduo e generoso con le impavide giovani che affrontavano un viaggio così duro per la vocazione di aiutare i poveri più poveri. Al termine del lungo viaggio, erano tutti diventati fratelli e sorelle e fu triste salutarsi. Ma il peggio doveva venire. Il clima e le malattie misero a dura prova il gruppo delle missionarie. In un alloggio di fortuna, esposte alla calura opprimente e al lezzo carico di bacilli, estremamente affaticate nel lavoro senza tregua con i lebbrosi, nutrite di poche verdure malsane, solo poche, quelle più robuste, resistettero. La tentazione di soccombere e mollare tutto divenne estremamente allettante. Ma suor Rosa, no, lei rimase, testarda e certa che lì era il posto dove il Signore l’aveva destinata. Per anni non mise piede sul suolo italiano. Combattè strenuamente contro la fame, la stanchezza, lo sconforto e la malattia dei suoi fratelli sfortunati. E rimase. Io volevo scappare dopo un giorno. Iniziai a ripensarci. Anche la visita a una casa di accoglienza per disabili gravi, che si trovava vicino alla missione, mi fece comprendere come anche nelle situazioni difficili si poteva reagire e costruire un’esperienza importante di vita. Quando mi imbarcai per 56 Hyderabad, quasi mi dispiacque. Ma avevo anche bisogno di aria più fresca e di spazi aperti. L’impatto con il piccolo aeroporto ancora quasi in costruzione fu un po’ particolare per la massiccia presenza di uomini e donne musulmani che gridavano e facevano una grande confusione all’arrivo di parenti o amici. I pesanti veli e le voci gutturali mi stordirono non poco. A fatica riuscimmo a districarci in quella massa informe e avvistammo l’autista di Padre Luigi, Balaswami, col cartello “Welcome, Giouanni and Piera”. Rassicurante, col suo largo sorriso che scintillava sul viso nero, l’indiano caricò i nostri bagagli e partimmo per Nalgonda. Sospiro di sollievo. Per due ore, attraversammo villaggi brulicanti di vita, mercati variopinti ai lati della strada, i soliti miscugli pazzeschi di spezie che però avevano un odore sano, quasi stuzzicante. Animali tranquilli e noncuranti delle macchine, attraversavano indolenti. Musichine insopportabili come campanellini striduli facevano da colonna sonora a tutto quell’ andirivieni che però almeno era vivace e ciarliero. Lontano dall’angosciante nube ammorbante dell’immensa città, anche la povertà era più sopportabile. La missione di Padre Luigi aveva un ingresso degno del ranch di JR : un’enorme cancellata con le iniziali del centro (LHC, Leprosy Health Centre) e guardie all’entrata. All’interno, un grande giardino con piante rigogliose e fiori dal profumo inebriante, una grande armonia composta e elegante dove la natura accoglieva con ordine gli edifici dell’ospedale, del collegio, del convento e delle officine. L’aria quasi ferma, ma pura. I 57 bambini che giocavano festosi ci corsero incontro, volevano una foto. I malati, quelli che potevano camminare, ci salutarono con discrezione. Il chiaro accento lombardo di Luigi ci accolse con il suo solito brio. La lunga barba bianca e il sigaro tra i denti, sembrava Fidel Castro anziano. Lì, lui, boss della carità integrale, era nel suo regno. Padrone del telegu, il dialetto dell’Andhra Pradesh, salutava, richiamava, domandava. Alcuni gli correvano incontro, poi velocemente si allontanavano. Sbrigavano commissioni, facevano consegne e impartivano ordini. Altri, semplicemente, lo guardavano, chinavano il capo con qualche parola appena biascicata. Il tono del missionario era sempre sostenuto e autorevole. Ci fece fare il giro del centro, uno dei più grandi dell’India per la cura della lebbra. Trenta anni di sacrifici e di dedizioni erano tutti lì, nelle pietre di quegli edifici e nel lavoro che quotidianamente vi veniva svolto. Dagli ambulatori al lebbrosario, dalla fisioterapia ai laboratori per le protesi e le carrozzine, dalla casa per gli ospiti a quella di Luigi, tutto era lentamente fiorito dall’impegno incessante di quel ruvido prete che era arrivato in quel luogo desolato e arido e lo aveva trasformato in un villaggio fiorito dove erano di casa l’accoglienza e la solidarietà. Quasi tutti indù, la presenza di cristiani decisamente scarsa come anche le conversioni. Ma non era questo un cruccio per il padre. Arrivato poco più che trentenne, sconvolto e impotente dinanzi al flagello della fame e della malattia, aveva fatto i bagagli per tornare in patria. Ma un lebbroso che lo aveva implorato: “Non vogliamo il tuo lavoro, vogliamo te!” gli 58 era parso un segno della Provvidenza che lo chiamava a restare. E meno male. In tutti quegli anni a venire, di miracoli ne sarebbero avvenuti parecchi. Aiuti in denaro e materiali piovvero da tutto il mondo. Come pure il riconoscimento ufficiale del governo indiano dell’attività educativa e medica del centro. In più di quarant’anni, migliaia e migliaia di lebbrosi curati e guariti, altrettanti bambini accolti, nutriti e istruiti, posti di lavoro per sorveglianti, cuochi, medici e paramedici, fabbri e falegnami. E continue gare di solidarietà in varie parti del mondo, con l’invio di denaro raccolto nei modi più disparati e volontari. Avremmo fatto parte anche noi per quasi 20 anni della coorte dei sostenitori del centro col progetto “Adozioni a distanza” e con i proventi di lotterie e vendite di beneficenza. L’incontro con le suore fu simpaticissimo, Giovanni ritrovò le sue vecchie amiche spagnole, Montserrat e Emilia, che ci coccolarono con tè e pasticcini al cocco. Donne semplici, forti e generose dall’abbraccio tenace a dal sorriso mai spento. La vita delc entro era scandita dalle visite in ospedale, dalle lezioni a scuola e dai momenti di incontro e preghiera tra i quali il famoso rosario sul tetto della guest house guidato dal Luigi che camminava in tondo e noi dietro come un serpente devoto. Qualche escursione alla diga, al lago (che nome aveva?), a qualche tempio e villaggio costruito dal padre. Un po’ di immersione nella vita quotidiana anche nei giri (a piedi e coi risciò trainato dalle biciclette) al mercato e nei negozietti di Nalgonda, sempre caotici e rumorosissimi. Quasi impossibile beccare la linea telefonica per l’Italia nei botteghini. 59 Insomma, per un po’ ci sentimmo tagliati fuori dal nostro mondo e non ce ne dispiacque. Quando lasciammo il centro per proseguire il nostro viaggio un po’ ci dispiacque. Ma sapevamo di passare dal Purgatorio al Paradiso. Bangalore è una città importante, dai grandi viali alberati, dai bei palazzi, dagli eleganti quartieri residenziali immersi nel verde e nella tranquillità. Un centro commerciale vivacissimo e strutture ospedaliere all’avanguardia. Ma anche un immenso slum dove operavano le suore. Immerso in una caligine di putredine, di olio strafritto andato a male e di infezioni purulente. Traboccante di gente sfigurata, affamata e sfinita dalla ricerca di rifiuti e carbone lungo la vicina ferrovia. Misere merci da vendere per racimolare pochi magri pugni di riso. Ma i bambini, i bambini…una contrazione dolorosa alla bocca dello stomaco, ecco, a vederli così emaciati, luridi e tutt’occhi, solo occhi enormi pieni di stanchezza, e tuttavia con un guizzo di luce intensa…l’istinto della vita, che lì è la guerriera più forte, che non si spaventa davanti a nessun nemico, manco davanti alla miseria più nera e alla malattia più devastante. Le suore nella loro elegante, quasi signorile, casa per le novizie avevano allestito una sorta di asilo con un centinaio di bambini strappati quotidianamente alla desolazione delle lamiere e dei rigagnoli di fogna. A vederli chiassosi, nudi in fila per la “doccia” sotto il rubinetto in cortile o mentre danzavano per noi con campanelli e coroncine di fiori parevano gli esseri più felici della terra. Ma alla sera ritornavano allo squallore dello slum e alle urla o alle percosse dei padri ubriachi o 60 disperati per la mancanza di un lavoro e di una casa decorosa. Una bambina in particolare aveva colpito la mia attenzione. Aveva tre anni, ma ne dimostrava a malapena uno e mezzo. Reggeva a malapena sulle bambine rachitiche un ventre gonfio. Le braccia erano scheletriche e il visetto, stranamente tondo, si concentrava in due enormi occhi scuri pieni di paura. Aveva sempre una strana febbriciattola e piangeva spesso. Di notte, raccontavano le suore, piangeva in preda agli incubi. Sui chiamava Toroncha. Che nome! Mi dicevo. L’avevano trovata abbandonata in condizioni critiche, denutrita, ammalata e con seri ritardi nello sviluppo. Non parlava, ma sembrava capire tutto. Parlavano i suoi occhi perennemente sgranati. Non si staccava un attimo dalle suore che la accudivano giorno e notte. Era lei la mascotte del convento. Mi impressionò notevolmente quell’ essere umano così piccolo e già così sofferente. E mi sentivo ancora così impotente. Ormai ne avevo vista di disperazione, sia fisica che morale. E già da tempo mi ero mobilitata nel mio piccolo per portare un minimo contributo di solidarietà. Ma adesso quello che avevo fatto e che facevo mi sembrava ridicolo. Altro che goccia nel mare delle necessità come ripeteva Madre Teresa! Io del mio non riuscivo a metterci che un atomo…e c’era un universo di dolore e di bisogni davanti a me che quasi mi inghiottiva come un buco nero. Lasciai Bangalore con qualche promessa di aiuto e molti interrogativi irrisolti. E finalmente arrivammo a Goa, un paradiso tropicale no solo naturale ma anche umano. Qui la gente sembrava aver ritrovato dignità. Poveri ce 61 n’erano, le case erano umili e gli abiti rigorosamente sintetici un po’ ridicoli (anni cinquanta rivisitati?)…ma perlomeno la maggior parte della gente era sana e la vita che conducevano aveva il sapore della normalità. In giro, donne che andavano a fare la spesa, uomini al lavoro e bambini in cammino verso la scuola, tutti in divisa e in fila …un gradevole balzo indietro di oltre 30 anni. La musica sempre a palla ovunque era tipicamente anni sessanta. La cucina un mix indo-portoghese, piuttosto pesante e aromatica, riempiva l’aria di odore grasso. Lì ci sentimmo turisti, un po’ fai da te, alloggiati in convento a fare il bucato che non asciugava mai per l’aria troppo umida e a lavarci con secchiate d’acqua…ma comunque finalmente ci rilassammo. Ci godemmo le spiagge bianche e deserte contornate di palme. L’oceano era tutto per noi. Solo qualche barca di pescatori nel blu verdastro. Giovanni si beccò il tentacolo di una medusa sul braccio e da allora non fece più il bagno troppo volentieri. Io adoravo immergermi in quell’acqua quasi dolce e torbida, calda. Acqua sopra e sotto perché ormai la stagione dei monsoni era nel pieno e pioveva di continuo. A scrosci, a cascate, il monsone ti sorprendeva ovunque e non c’era scampo. Addosso, sempre odore di fradiciume e di sudore rancido di spezie. Dopo un po’, eravamo anche un po’ stufi di tutta quell’acqua che sapeva di muffa. E quel paradiso terrestre, rigogliosissimo, dove sembrava che la vegetazione crescesse sotto gli occhi, divenne noioso. Forse era tempo di tornare a casa, in un’altra umidità, ma quella solita, ordinaria. E spiccammo il volo, carichi di ricordi ed 62 emozioni e ansiosi di raccontarli. In India ci ritornai ancora due volte sempre con Giovanni e con amici. Ma non fu più come la prima volta. L’esperienza dell’incontro mi aveva preparata ad affrontare quella realtà “a testa ingiù” (così la chiamavo, paragonandola al nostro mondo occidentale) apprezzandone i valori più profondi. Le sensazioni e i sentimenti forti e struggenti lasciarono il posto a un placido ritorno di affetti e a un godimento estatico della bellezza che ritrovai nei volti, nei templi e nella natura sempre meravigliosa. Nei colori abbaglianti dei mercati e nei profumi inebrianti dei fiori attorcigliaci nelle chiome delle donne. Oltre al tour già affrontato, visitammo la missione dove di trovava la cara amica Stella, instancabile missionaria spagnola, fondatrice di otto missioni, la veterana del suo ordine in India dove aveva iniziato la sua opera decenni prima con un pugno di compagne e tanta santa volontà. Allora era già oltre i sessanta, infaticabile, sempre di corsa, da un bambino in pianto, poi da una donna che chiedeva qualcosa da mangiare, poi in fretta nel villaggio vicino per un’altra necessità. E a me, poco più che trentenne, già pesavano le otto ore di Jeep (o pullman scassatissimo, con soste in ogni villaggio) a 30/40 all’ora su una strada sderenata che portava alla sua ultima impresa, la missione di Harapanahalli, un villaggio rurale perso nel Deccan, chiassoso tra lande desolate e silenziose. Paolo, il maratoneta del gruppo, perennemente insonne, iniziava a vagare prestissimo alla mattina alla ricerca di luoghi nascosti. Riuscì a raggiungere, tra greggi di capre e bufale 63 sdraiate, una specie di guru in meditazione in un anfratto di roccia col quale, insisteva, ebbe una sorta di colloquio (in India succedono tante cose strane, il mistero è presente ovunque). Restammo solo un paio di giorni, che furono davvero densi di curiosità. Visitammo i ruderi di un’antica città sacra indù che testimoniavano una storia di fasti e opulenza. Persa nel bassopiano, dimenticata per secoli, aveva il fascino delle rovine sacre, dove il silenzio e la luce giocano con le pietre a creare una strana pace di una senso di bellezza senza tempo. Al ritorno, rischiammo di essere investiti da una fila di camion strombazzanti ad alta velocità e ci arrampicammo su un fianco argilloso per non farci travolgere. Eravamo tutte donne e i camionisti che quasi volavano su quei titani a motore ci salutavano allegramente rincarando la dose di clacson. Ci dispiacque lasciare quella zona dimenticata dal turismo, dove il tempo pareva essersi fermato alla tranquilla ciclicità dei ritmi naturali. Ma gli incontri con la genuinità e l’innocenza non mancarono. Come il gruppo di ragazzi che chiedevano l’autografo al nostro amico Giancarlo, il sempliciotto del gruppo, cinquantenne col cuore e l’animo di un bambino. Era riuscito a spacciarsi (come? Non spiccicava manco una parola in inglese!) per qualcuno di famoso. O la famiglia di pescatori che ci invitò a consumare il pranzo da loro. Ci offrirono i pascetti appena pescati con una retina, dopo averci fatto lavare le mani con un pezzo di sapone intonso e asciugarcele con un asciugamano nuovo (l’avevano mai usato?). Noi imbarazzatissimi perché mentre eravamo a tavola tutta la famiglia ci guardava. Avrebbero mangiato 64 gli avanzi. Infine, il sacerdote indù nel tempio, boh, dedicato a chissà quale divinità (gli indù ne venerano a centinaia) che ci fece domande sul calciatore Roberto Baggio, allora parecchio in voga. Chissà ancora quanti episodi si celano nel pozzo della mia memoria. Da più di dieci anni non vado in India. Scrivo alle amiche suore e al Luigi, continuo ad aiutarli e a stare loro vicino come posso. Ieri ho sentito Stella al telefono, è a Roma, a giugno ci vedremo, dovrà subire un piccolo intervento a Crema. Il debito che ho nei loro confronti è tanto grande. Mi hanno aperto gli occhi sulla realtà essenziale della vita. Che è l’Amore senza sconti e senza limiti. Questa verità mi ha segnata indelebilmente e tutt’ora ne porto il marchio. Un distintivo segreto che non mi dà pace e che mi impedisce di disinteressarmi al prossimo bisognoso. C’è in me una continua spinta a portare aiuto, sia materiale che morale a chi è stato più sfortunato di me. E se non assecondo questo mio impulso, non mi sento bene, mi manca qualcosa di importante. SULLE ORME DI IGNIGO 65 Quell’estate del 1991 fu particolarmente strana. Di uno strano quasi onirico. Giovanni ritornò in India con sua sorella, aveva bisogno di chiarirsi la mente e il cuore su quello che voleva fare nella vita. La voce che sentiva dentro da anni e che, secondo lui, lo chiamava a diventare un missionario, non si azzittiva. Partì, con la certezza che quando sarebbe tornato avrebbe deciso. Io avrei trascorso da sola le mie vacanze. Ero triste e un po’ confusa. Anch’io necessitavo di un periodo di riflessione. Incontrando Giovanni e il suo amore, pensavo di aver risposto a parecchie domande sulla complessità della mia vita. La mia solitudine, la mia incerta situazione famigliare e scolastica avevano assunto un senso insieme a lui. Ora mi sentivo nuovamente persa. Scelsi di partecipare a un pellegrinaggio con i miei amici gesuiti sulle orme di Sant’ Ignazio di Lodola, il santo fondatore della Compagnia di Gesù. Al ritorno, camposcuola in montagna con l’Azione Cattolica, della quale ero aderente. Non sarebbe stata un’estate particolarmente entusiasmante e divertente, però avevo bisogno di scandagliarmi dentro, non di sollazzarmi. Il viaggio con i gesuiti si sarebbe snodato dai Paesi Baschi, dove Ignazio nacque, lungo la Navarra fino a Barcellona , da dove il Santo partì alla volta di Roma. Partii da Milano Centrale alla volta di Genova dove era il ritrovo. Lì conobbi Angela, Marcella e Cristina che furono le persone che vissero accanto a me più intensamente la straordinaria esperienza del pellegrinaggio. Erano più anziane di me, io appena 26enne, loro ormai ben oltre i trenta. Ma erano simpatiche, semplici e anche loro, come me, alla ricerca 66 di qualche risposta. Da Genova, in pullman, partimmo alla volta di Lourdes la prima tappa. Lourdes non è certamente un luogo ignaziano, anche perché i miracoli avvennero secoli dopo di lui. Ma è uno dei luoghi mariani più significativi e Ignazio era molto devoto a Maria. Quale inizio migliore se non l’affidamento alla Madonna? L’impatto fu meraviglioso. Giungemmo alle prime ore dell’alba. Io non dormo mai durante i viaggi, non riesco, un po’ per l’eccitazione un po’ per l’ansia, poi mi piace guardare la strada, il paesaggio e commentare quello che vedo. Pisolai a tratti e arrivai piuttosto insonnolita, ma quando proposero, a chi voleva, di recarsi alla grotta, io accettai subito. Era quello l’angolo di Lourdes che mi interessava di più. Il resto poteva anche aspettare. Ma lì, ci dovevo correre. Con una coperta in mano (era agosto ma a Lourdes pare faccia freddo tutto l’anno), insieme all’Angela, mi recai in quel luogo santo. Caddi in ginocchio nell’umile grotta, davanti alla piccola statua della Vergine. Alla debole luce delle candele di cera che fumigavano, col brontolìo sordo del fiume Gave alle spalle, a capo chino restammo in silenzio lì, al cospetto di un mistero che continua ad attirare gente da ogni parte del mondo. Potrebbe essere la curiosità, l’esperienza della sofferenza. Oppure la fede? La speranza che al di là di ogni miseria e di ogni dolore ci sia sempre lo Sguardo di un Amore che comprende e lenisce? Perdemmo la cognizione del tempo che passava, lì, assorte, con la coperta sulle spalle, ognuna persa nelle sue preghiere o nel silenzio della mente e del cuore, riempito solo da quel buio, da quelle fiammelle incerte e 67 dalla piccola Vergine che sorrideva dalla nicchia nella grotta. Il resto non lo ricordo bene, troppa gente, troppe corse, tanti malati e troppo mercato di gadget religiosi. File alle fontanelle per prendere taniche e bottiglie di acqua, fila per andare a fare il bagno nella piscina miracolosa (io l’ho saltato, non mi interessava), file per le funzioni. Mi stancai non poco e me ne uscii un po’ delusa. Per me, l’immagine più significativa di Lourdes che porto nel cuore è e rimane quella piccola Madonna alloggiata in un’umile grotta alle sei di una mattina umida, nel silenzio più totale, davanti alla quale, dopo qualche ora sarebbe sfilato un gruppo di ragazzi ammalati di AIDS. Riprendemmo il nostro pellegrinaggio alla volta dei Paesi Baschi, terra natale di S Ignazio. Una Svizzera spagnola. Fresca, ridente, verdeggiante. Le case diverse, certo, così anche la gente, molto chiusa e un po’ sdegnosa. Estremamente orgogliosa della sua identità. La casa natale del Santo è un bel castello, sobrio, ma elegante. Lì era cresciuto e da lì partito dopo la conversione avuta in seguito a un incidente di guerra (era un cavaliere) per seguire quella eccezionale strada di santità che era stata per lui preparata. Ricordo con piacere Manresa e Pamplona, dove, rispettivamente, redasse i suoi famosi Esercizi e dove cadde in estasi. Belle, nella semplicità e nel contegno. E Barcellona da dove Ignigo partì per andare a studiare a Parigi dove incontrò i primi futuri Compagni di Gesù. L’esperienza più bella fu a Montserrat, stretta tra le gole di montagne impervie, laddove davanti a una Madonna nera (ma perché c’è sempre di mezzo una Vergine scura, chissà come mai?) 68 Ignazio abbandonò per sempre le armi e divenne da condottiero degli uomini condottiero di Dio (un po’ come Pietro, ma lui diventò). Bel fegato. Ritrovai l’intimità della grotta di Lourdes e la vicinanza affettuosa della Madre. Nella città, mi impressionarono le altezze vertiginose della Sagrada Famiglia come l’estro bizzarro delle architetture bislacche del Gaudì inframmezzate tra palazzi anonimi. E la, vita, la vita turbinosa delle Ramblas e del porto. E il fascino del barrìo gotico, le sue viettine tutte a mattoncini, le case marroni e odoranti di muschio vecchio. Spiritualmente, fu un cammino in salita. Tanti momenti di riflessione, mentre gradualmente veniva alla luce l’esperienza sofferta di Ignazio mano a mano che toccavamo i luoghi del suo peregrinare alla ricerca di Dio e della sua volontà. E quando arrivai ad accostarmi agli esercizi…eh, allora, venne fuori tutto il mio dubbio, la mia insicurezza e la mia paura di un futuro incerto, senza un amore che mi accompagnasse per i meandri della mia vita che mi si prospettò in tutta la sua instabilità. Ero a un punto fermo all’università, mio padre iniziava a spazientirsi e con Giovanni, come sarebbe andata a finire? Mi prese la tristezza. Il clima era variabile, in fondo attraversammo la Spagna pirenaica e passammo dal freschino basco al caldone della costa attraverso il deserto della Navarra. Così, lo stato della mia anima mutava, quasi adeguandosi alle città e al tempo che cambiavano giorno dopo giorno. Fu un viaggio stranissimo, un po’ inquietante, per certi aspetti, pensieri, pensieri, pensieri che affollavano la mia povera testa. Scosse parecchio le mie fondamenta che credevo 69 abbastanza salde. Pregai moltissimo, parlai anche con un gesuita molto simpatico, ma parlai dell’India dove anche lui era stato. Tornai a casa per niente rasserenata, dopo un’esperienza spirituale intensissima ma col cuore colmo di incertezza. Del caposcuola con l’AC non ricordo nulla, la mia testa era da tutt’altra parte. So che mi trovai bene, ma non mi sforzai troppo né di seguire il cammino percorso né di fare nuove amicizie. Fu lì che appresi del colpo di stato nell’allora URSS e mi salì l’ansia, Giovanni stava per tornare dall’India. Cosa sarebbe successo? Fortunatamente filò tutto liscio, in India manco sapevano cosa era successo. Giovanni tornò, non proprio sano (una bella intossicazione da farmaci) ma salvo. Aveva cambiato idea, l’indisposizione lo aveva reso consapevole che fare il missionario non consisteva solo nel diventare l’eroe dei diseredati, ma anche patire fatica, malattie, delusioni e sconfitte. Ci abbracciammo con gioia, e guardando il volto smagrito e il corpo asciugato dalla febbre, piansi lacrime di felicità. L’incubo di quella lunga estate così triste era finito. SUENO ANDALUZ 70 Tra mille indecisioni e incertezze organizzative e non (come al solito causate dall’intromissione inutile del parentame che vuole sempre imporre il proprio punto di vista su qualsiasi cosa riguardi la vita di una coppia), riuscimmo ci sposammo il 25 aprile del 1996 in un pomeriggio di pioggia. Gli amici preti sull’altare: Dino missionario, Olivo sant’uomo, Socorro l’indiano e Gabriele, il celebrante, sobrio e profondo. Andammo ad abitare in un grazioso bilocale a Galgagnano, un ameno paesino del nord-lodigiano. Fuori dal paesone dormitorio, con la via principale perennemente trafficata e i bar deserti alla sera, mi sembrava di aver trovato la mia pace bucolica. Davanti al terrazzo nascosto tra i tetti un campo di girasoli. Il finestrone della cucina che fungeva anche da sala illuminava il grande locale di una tonalità ambrata che riscaldava i mobili di rovere. Ci stavo bene, nella quiete animata della campagna. Legammo subito coi vicini e con tutti gli altri, d’altronde il paese era piccolino e non era difficile conoscersi. Ebbi modo di scoprire subito come sia limitata la mentalità degli abitanti di comuni così esigui, soprattutto dei nativi originari. Allora era appena iniziato l’esodo dei giovani sposi dai centri più grandi alla ricerca di un’abitazione economica e tranquilla, non troppo lontana. I nuovi arrivati erano ancora pochi e riuscivano a integrarsi col resto della popolazione le cui famiglie vivevano lì da secoli. Il sindaco e il prete erano ancora i personaggi più autorevoli. Non dimenticherò Don Sergio, il parroco, uomo asciutto e schivo, ma con un animo generoso e attento, e una mente e un cuore liberi e aperti. Come 71 anche i ragazzi ai quali ho insegnato per qualche anno il catechismo, la Renata e il Pino, i sagrestani (lei cucinava un’anitra con le verze da leccarsi i baffi), le anziane che mi salutavano con le mani mentre andavano a messa nella piccola chiesetta. Fu un inizio felice ma anche drammatico, perché dopo pochi mesi la mamma di Giovanni rischiò la vita per un’embolia polmonare. Non eravamo partiti subito per il viaggio di nozze, per impegni di lavoro di Giovanni. Saremmo andati in India in agosto. Cambiammo i programmi, perché mia suocera non si era completamente rimessa e non sembrava opportuno andarsene così lontani. Partimmo l’ultima settimana d’agosto, stanche e affaticati, per l’Andalusia. A Siviglia noleggiammo una macchina e iniziammo finalmente il nostro agognato viaggio di nozze. Ero partita stanca e nervosa, e finalmente mi preparavo a rilassarmi totalmente. La prima impressione dall’automobile fu di terra bruciata dal sole. Chilometri di nuda scura terra. E un sole cocente di fine agosto. Quaranta gradi all’ombra alle 17 che non danno fastidio, però. La periferia del capoluogo Andaluso davvero deludente e trascurata. Dopo un bel po’ di girare a vuoto con Giovanni che come al solito in questi casi iniziava a dare di matto, trovammo un signore gentile che ci indicò chiaramente il centro dove si trovava il nostro albergo. Proprio a quattro passai dalla Giralda, il campanile moresco simbolo della città. Mi colpirono i balconi con le piastrelle tipiche di mille colori e fantasie. E gli aranci selvatici nella piazza. Quell’atmosfera colorata e aromatica mi affascinò subito. A parte la grandiosità della 72 cattedrale, mi piacquero i tanti localini che servivano tapas e sangria fino a tarda ora. E le ballerine di flamenco su un palco in piazza. Ma la sorpresa grande fu la Juderia, il vecchio quartiere ebraico (noi convinti fosse l’antica scuderia, ignoranti come eravamo di spagnolo. In effetti l’ingresso anonimo da un portone di legno lo fece, a ragione, supporre). Un profumo penetrante di mirti, ginepri e finocchio ci investì da oltre il muro di cinta che costeggiava la stradina polverosa a ridosso della costruzione grigia e anonima dalla quale eravamo entrati. Avremmo scoperto che era il giardino dell’Alcazar, l’antica dimora reale. Tutto d’un tratto ci si parò davanti una piazzetta dall’impiantito sassoso, persa tra gli aranci, con le panchine ricoperte dalle tipiche piastrelle e i tavolini e le sedie di metallo fuori da i barettini pieni di prosciutti crudi appesi. A bocca aperta, ci avventurammo per il dedalo di viuzze strette che conducevano immancabilmente a piazzette tutte simili tra loro. A quell’ora ancora semi-deserte e immote nell’aria calda e densa di odori mediterranei. Capimmo che la scuderia non c’entrava niente. Ci perdemmo per un tempo indeterminato nel quartiere, godendo di quella bellezza piena di vita. Visitammo anche l’Alcazar sostando a lungo nel meraviglioso giardino dove si possono ammirare le statue del re Ferdinando e della regina Isabella che approvano la missione di Cristoforo Colombo prostrato innanzi a loro. La sera ci inoltrammo per le stradine più movimentate a bere Sangria fredda e a cercare di renderci conto se stavamo sognando tutta quell’allegria e quella spensieratezza. Alla mattina 73 colazione non prima delle 9.30 e poi guida in mano e sandali ai piedi alla conquista della città. Ancora adesso ricordo con un pizzico di nostalgia quelle giornate così spensierate e gioiose all’inizio della nostra vita insieme. La mia anima mediterranea mal si addice all’umidità malsana e alla frenesia del basso milanese, alle relazioni formali e convulse per mancanza di tempio e spazio. Non sono propriamente una caciarona festaiola, ma amo la compagnia degli amici, le belle mangiate in riva al mare, il sole a più non posso e la sera dopo il tramonto è il mio momento preferito (mentre adoro la mattina indugiare sotto le lenzuola a godermi la luce che penetra dalle imposte). L’allegria e l’ospitalità del popolo spagnolo sono ineguagliabili e ci facemmo coccolare accondiscendenti ad ogni cortesia e attenzione. La mia guida riportava anche un itinerario gastronomico e ci lanciammo alla ricerca della coda di toro a Cordoba, la perdiz en escabeze (pernice in agrodolce) a Jaen, i riňones (rognoni) al Jerez e i boquerones (le acciughe fritte) a Malaga. Furono soprattutto le piccole trattorie frequentate dai camionisti (che di buon cibo e di buoni prezzi se ne intendono) nonché il mio impareggiabile fiuto che ci guidarono alla scoperta delle prelibatezze della cucina Andalusa. Non cercai né il gazpacho (l’idea di una zuppa gelata non mi attirava) né la paella che è valenciana e quindi fuori zona. Ci tuffammo con piacere nelle meravigliose insalate ricche di ortaggi freschi, tonno impareggiabile e olive succulente. Dopo Siviglia, che lascia non senza rimpianto, c i dirigemmo a Cordoba, il cuore dell’Andalusia moresca per la presenza della 74 grandiosa moschea nel centro storico. Alloggiammo in una piccola graziosa pensioncina proprio di fronte alla maestosa costruzione che racchiude nell’interno (bhè, non mi dispiacque…anche se mi parve un po’…contrastante?) una chiesa seicentesca. La moschea (Mezquita) di Cordoba è la terza per dimensioni al mondo dopo quella del Cairo e della Mecca. Mi colpirono le arcate e le ogive altissime in cotto al suo interno. Un’architettura ricca e allo stesso tempo leggera ma solida. L’apparizione improvvisa della chiesa mi stordì un attimo (il barocco non va d’accordo con l’arabo, a parer mio…) ma pensare alla coesistenza delle due fedi nello stesso spazio mi diede un piacere sottile. In fondo, nonostante la diversità, siamo tutti uguali, uomini sotto lo stesso cielo. Anche qui la Juderia (meno intrigante di quella sivigliana, ma molto graziosa con tanti negozietti e una piccola sinagoga e tanto tanto verde) e l’Alcazar. Quello che più mi colpì, però, di questa straordinaria città mezza araba furono gli immensi viali alberati. Camminammo incessantemente e Giovanni che non è mai stato un amante del passeggio, accusò le prime vesciche. Io allungavo appositamente il tragitto per cercare i luoghi più nascosti tipo la piazzetta del potro (ricordo di Don Chisciotte), i magazzini e la casa di Pilato (che poi non vedemmo perchè era chiusa). Sono sempre stata avida di percorrere a piedi le città per cercarne gli angoli più bizzarri e suggestivi. Non mi sento tanto turista quanto viaggiatore e l’idea del viaggio implica la scoperta continua e inattesa. Non sento stanchezza se so che mi aspetta la sorpresa di una via, di una fontana o di una chiesa che pochi inseriscono nel loro 75 programma di viaggio. E io voglio essere sempre tra quei pochi. Non amo molto i viaggi organizzati, anche se ne ho fatti e mi sono anche piaciuto perché non ammettono l’imprevisto. A me piace compiere deviazioni, ritardare un ingresso o prolungare una visita. Il viaggio me lo devo godere per come piace a me attimo dopo attimo. Sono una buona organizzatrice, non lascio niente al caso ma poi devo trasgredire le mie stesse regole. Se no, non ci prendo gusto. E viaggiare per me significa questo, preparare un itinerario che però posso continuamente adattare alle esigenze mie e di chi è con me. E siccome la vita è un viaggio, adotto la stessa regola. Finora, non ho mai avuto motivo di pentirmene. E fu proprio a questo punto che, a proposito di itinerario, invece di proseguire per Jerez e Gibilterra, come fanno tutti, scelsi la provincia di Jaen. E non me ne pentii, anzi. Le distese di uliveti a vista d’occhio sulle colline dolci e riarse mi fecero sentire quasi a casa (bhè, centro-sud Italia…). Come pure i centri di Baeza e Ubeda, veri gioielli dell’arte rinascimentale dichiarate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Angoli sconosciuti al turismo commerciale, ma vere perle di bellezza storica e culturale. Cittadine tranquille e accoglienti, dove è un piacere sottile anche sostare nel cortile della piccola università. Per me, amante dell’arte cinquecentesca, della sua eleganza ed armonia, fu un sogno ad occhi aperti. Non riuscivo nemmeno a spiccicare parola, io che di parole ne ho sempre in bocca troppe. Anche un’ altra meraviglia mi lasciò muta trasportandomi lontano al Topkapi di Istambul, l’Alhambra di Granada, la vera bellezza della 76 città. Granada è decisamente caotica e inquinata dove il mercato arabo e l’Albaicin, il quartiere moresco, stridono per la lentezza e l’allegria del vivere. All’Alhambra si sale per una comoda strada alberata dalla quale si vede la città frenetica staccarsi sempre più. Il mondo lassù cambia, il tempo si ferma nei giardini immensi e odorosi, nelle stanze a mosaico e nei cortili con le vasche e le sculture immote che raccontano di vite rinchiuse in questa splendida prigione dorata, degli intrighi e delle congiure di corte (in una stanza c’è ancora il segno del sangue versato durante un omicidio). Rapiti da questo incantesimo di arabeschi cesellati, profumi penetranti e labirinti verdi, camminavamo senza un percorso prestabilito, erranti e incoscienti, per quella residenza principesca racchiusa sopra la città, proibita e isolata al mondo esterno che viveva la sua esistenza tra le vicende quotidiane della storia. La meraviglia Andalusa finì lì perchè il soggiorno che avrebbe dovuto chiudere in bellezza la nostra vacanza , mare a Malaga, si rivelò una delusione: palazzi sulle spiagge strette, cittadine sporche e moderne, ma dozzinali. Sarebbe stato meglio andare a Jerez, accidenti, perlomeno avremmo bevuto cherry e visto gli allevamenti di cavalli. Passammo gli ultimi pochi giorni nervosi ormai risvegliati bruscamente dal nostro sogno Andaluso. E partimmo sollevati, con nel cuore il ricordo di quella calda e odorosa terra, dove la vita pulsa in ogni cosa. Ci risparmiammo solo l’inutile crudeltà della corrida che anche nel paese più piccolo era continuamente proposta come l’attrazione più importante. Entrammo in un’arena, ma solo guardando la testa 77 imbalsamata di un enorme eroico toro, ci rattristammo profondamente e uscimmo subito. Vedere infilare spade in un animale non mi diverte né mi eccita. Non è una vittoria massacrare una bestia con un cerimoniale spettacolare e assurdo. Non ci rammaricammo certo di esserci risparmiati quel genere di spettacolo, durante il quale, ne sono certa, avremmo tifato per il toro. In fondo, lui viene spinto a forza nella sfida, il torero invece la affronta di propria volontà. E’ un gioco perverso, che ripete il rituale di un macabro combattimento all’ultimo sangue che fin dai tempi antichi ha caratterizzato la sete di violenza dell’uomo. La folla urlante, ebbra di morte è senza tempo, dagli albori dell’umanità chiede il tributo di orrore per l’eccitazione malsana che ne proviene. Che siano i sacrifici umani dei popoli antichi, le carneficine nel Colosseo, la ghigliottina o la forca, i genocidi degli ebrei o in Africa poco importa. E in fondo la corrida ne è solo una minima, pallida emulazione. Ma comunque spregevole. Perché permette agli istinti peggiori dell’uomo di scatenarsi senza proporre loro un’alternativa. OSTERREICH E BAYERN 78 Non so come dirlo…ma sono una donna che ama gli opposti. Mi sono congeniali i cibi e le atmosfere calienti del sud, il mare e i ritmi mediterranei. Fanno esprimere tutta la mia anima un po’ passionale e istintiva, che la mia mente razionale tiene con le briglie quando tenta di scalpitare. Ma non disdegno l’aria tagliente della montagna, la polenta carica di sugo e le salite impervie tra le rocce. Sperimento una libertà diversa, quella del contatto con la natura selvatica e aspra, che rivelano il mio desiderio di vincere me stessa e le mie paure. Salire mi è sempre sembrato un impresa difficoltosa, non solo fisicamente ma anche per lo spirito. Il suore e il fiato grosso mi scoraggiano subito, le gambe sono abbastanza buone e reggono un po’ di più la stanchezza ma anche loro poi si fanno sentire e vado in crisi. E chi ce la fa ad arrivare su? Ma poi, la mano o la voce di qualcuno ti esorta a non fermarti e via, si riparte, magari un po’ più lentamente. Così è un po’ anche la vita. Ecco perché mi piace camminare in montagna. Il cammino è un po’ la metafora dell’esistenza umana, in particolare, la salita, per la fatica e lo scoraggiamento che anche i più bravi montanari avvertono nell’arrampicarsi per raggiungere a tutti i costi la cima. Misurarsi con la montagna e i suoi pendii è un po’ come cercare di affrontare la vita con coraggio e determinazione tutti i giorni. Avevo sempre desiderato un viaggio in Austria. Per la montagna, ma anche per i fasti di Vienna e Salisburgo, per i laghi della Carinzia e per le casette e i fienili del Tirolo. Preparai l’itinerario accuratamente e partimmo con i miei cognati. Avevo scelto per il pernottamento 79 degli agriturismi, appena fuori dai centri abitati, che ci consentissero un soggiorno tranquillo e simpatico nonché economico. Durante la prima tappa, nella Corinzia occidentale, soggiornammo in un paesino arrampicato su un cocuzzolo, Zwickemberg, in una fattoria che pareva tanto e per la dislocazione e per la costruzione, la baita di Heidi e del nonno. Lassù, nel giardino a picco sul pendio ricoperto di erba alta, ci sentimmo isolati dal mondo trafficato e rumoroso e ci ripulimmo orecchie, polmoni e spirito nelle serate fresche in compagnia della famigliona dei nostri ospiti (genitori, 5 figli e nonni) che ci offriva brindisi alla grappa, salumi affumicati prodotti in loco e grandi sorrisi (loro parlavano solo tedesco che ahimè nessuno di noi itendeva). Da quel posto ameno ci muovevano ogni giorno per destinazioni sempre nuove e accattivanti. Godemmo della vista mozzafiato del ghiacciaio Pastersze, una meraviglia di roccia e ghiaccio che lambisce il Grossglockner. Bellissimi i paesini e le distese verdi racchiuse nella cerchia dei monti. L’aria frizzante e il sole fulgido sono una combinazione estremamente gradevole che mi rinvigorisce e mi riempie di forza. Camminammo per sentieri ombrosi costeggiati di more fino ad arrivare attraverso un boschetto intricato a una piccola baita con il terrazzino in legno e una fontanella ghiacciata. Ci sdraiammo sulle panche di legno a sgranocchiare i panini e a farci toccare dal sole ad occhi chiusi. Davanti a noi, un pendio scosceso si allungava parecchio verso valle. I laghetti, a miriadi, piccole pozze circondate da verdi boschi, sono una delizia e danno la sensazione di freschezza e pulizia. Sempre zeppi di 80 bagnanti, anche quando il clima non è proprio caldo, e popolati di barchette e di uccelli candidi. Lasciata la Corinzia, iniziammo l’itinerario più culturale verso Vienna attraverso la Stiria, ancora dolcemente montuosa e la piana stepposa del Jugerland. Elegante la città, con i begli edifici barocchi e il teatro, le innovazioni liberty di Otto…..(). Ovunque, nei ring stretti ad anello, sentore di bella musica e grandi orchestre. E odore di bratzel wurstel e birra chiara. Il Danubio purtroppo non era tanto blu, ma mi sarebbe piaciuto fare una bella traversata fino a Budapest. E lungo il Danubio, su un affioramento roccioso ma dalla parte opposta, verso Linz, giungemmo a visitare il monastero benedettino di Melk, attivo in modo continuo fin dalla sua fondazione. Chi non ricorda il giovane Adso da Melk che segue il maestro Guglielmo da Baskerville nell’appassionante indagine nell’abbazia del nome della rosa? Trepidante, entrai nel cuore dell’abbazia, la famosa biblioteca, nella quale sono tutt’ora conservati rari manoscritti. Solo poche sale sono visitabili, perchè le fragili e preziosissime opere ivi custodite potrebbero essere irrimediabilmente danneggiate dal continuo andirivieni di visitatori. Mi batteva forte il cuore, ero davanti a una delle raccolte di libri antichi più famose del mondo… aspiravo l’odore senza tempo di quei libri , scrutavo tra le copertine stinte e i caratteri quasi indecifrabili, mentre intorno gli stucchi dorati risplendevano quasi a portare in trionfo cotanta sapienza scritta. Quante dita irrigidite dal freddo avranno trascritto pazientemente nelle lunghe ore dell’inverno gelido quei capolavori…e quanti occhi indeboliti 81 dall’oscurità perenne tra le mura racchiuse avranno letto e riletto tutte quelle parole…faceva freddo e l’aria era pesante, la luce flebile o ero io frastornata da tutta quella meraviglia impaginata…fatto sta che dovetti uscire fuori, mi girava la testa ed ero emozionata, come mi capita davanti alle opere d’arte più importanti. Dovetti ritornare coi piedi a terra quando mi ritrovai tra le mura di Mauthausen, uno dei campi di sterminio più tristemente famosi. Meno impressionante di Auschwitz, ma altrettanto cupo. Mancava la tetraggine desolata delle baracche di legno allineate e il lugubre binario verso la fine. Qui non vidi i forni né le camere a gas né la forca dove impiccarono gli assassini nazisti. Ma vi trovai la fredda oscurità dei capanni con le foto del raccapricciante loro contenuto di un tempo, resti umani non identificabili come tali, la tristezza del monumento ai caduti italiani e la lugubre sala operatoria dove chissà quali carneficine venivano perpetrate. Un gelo mi calò dentro ancora una volta, e solo la gita alla ridente cittadina di Steyr col suo centro medioevale ricco di antiche suggestioni mi risollevò il morale. Poi, finalmente, Salisburgo. Il meglio del meglio. C’ero già stata e ci tornai ancora un paio di volte. Ma il fascino che esercita su di me questo piccolo straordinario centro non ha pari. Vi nacque e morì Mozart, il migliore musicista di tutti i tempi (secondo me). Il Duomo possiede ben cinque spettacolari organi e quando seguimmo la messa dell’Assunta a ferragosto (mi pare fosse quella di Haydn) mi tremarono le ginocchia per circa due ore. Il minuscolo cimitero di S . Peter è un gioiellino di rara soavità, con le croci quasi rozze e i fiori 82 di un giardino montano. Dal castello la vista sul centro, quasi strizzato in un abbraccio di monti, con le cupole colorate delle chiese, è un capolavoro di cesello architettonico, non a caso è “patrimonio dell’umanità” dall’UNESCO. E poi i sontuosi giardini del municipio, dove venne girata una famosa sequenza dello storico film “Tutti insieme appassionatamente” con Julie Andrews (nel film sono girate diverse scene nella città). Quando lo rivedo con le bambine, ritorno là, e mi ritrovo nella piazza, lungo la camminata verso la fortezza, vicino alla fontana e sul ponte sopra il Salzach. Nella stretta via principale, le insegne secolari degli antichi negozi sono sopravvissute all’ammodernamento degli esercizi commerciali. Stonano il McDonald’s e le boutique di moda. Per questo io guardavo sempre in alto, naso all’insù. Lo riabbassavo solo quando mi imbattevo nei negozietti di addobbi e soprattutto in quello di uova decorate. Migliaia di uova dipinte in migliaia di modi per rallegrare l’albero di Natale. Ho ancora le foto. E poi, le bancarelle nella piazza dell’università e presso il Duomo, il caffè italiano e i baci di Mozart. L’unica pecca è la solita monotona e grassa cucina austriaca che dopo qualche giorno mi nausea non poco. Troppa carne, troppo affumicato, troppe patate. E qui riemerge la mia anima mediterranea. Fortunatamente non mancano i ristoranti italiane e le pizzerie. Dopo un po’, proprio non reggo. La mia Italia inizia a mancarmi quando non sopporto più il cibo locale. Perché per il resto, mi adatto. Al clima, all’alloggio, al fuso orario… ma al cibo…Mangio di tutto, ma proprio di tutto, solo che dopo qualche giorno 83 senza pasta, pomodori e olio extravergine vado in crisi di astinenza. Soprattutto se la dieta è a base di carne. Si vede che le troppe proteine scombussolano la mia natura pastaiola verace. Il carboidrato è fondamentale. E’ la mia fonte alimentare di energia e buonumore. Antidepressivo gastrico per eccellenza, meglio della cioccolata. Peccato che faccia ingrassare. Comunque ormai la pasta si trova dappertutto anche se la commestibilità a volte lascia desiderare. Non parliamo del grado di cottura. Ma insomma non si può sempre avere tutto (così si dice). Il castello di Helbrunn coi giochi d’acqua fu un divertimento unico, coi getti e gli spruzzi che se ne uscivano dai posti più impensati e ti coglievano di sorpresa e non avevi modo di ripararti se non di correre via come un matto. Ne uscimmo bagnatissimi e col fiatone, ma io avrei rifatto volentieri il giro. Come per le miniere di sale di Hallein, a pochi chilometri da Salisburgo. Vestiti di tute bianche, in fila su una specie di trenino, entrammo nelle viscere della terra, in un tunnel un po’ opprimente per decine di metri. Scivolando lungo scivoli di legno, quelli originali usati dai minatori, giungemmo in un intrico di gallerie che si diramavano per chilometri. Arrivammo al confine tedesco sottoterra percorrendo un lago sotterraneo al ritmo di musiche celtiche e giochi di luce sul soffitto basso e cementato. Io sono un po’ claustrofoba e non mi sentivo proprio a mio agio, lì, trecento metri sottoterra con la luce fioca, circondata dalla roccia. Eppure la meraviglia superò la paura. E resistetti fino all’uscita. 84 Certo, non avrei mai scelto come professione il minatore. La luce e l’aria per me sono vitali. Anche una giornata freddissima mi allieta se è luminosa. Il cielo plumbeo mi scoraggia. Inizio la giornata sconsolata. Non ho voglia di niente, solo di stare chiusa in casa. Mi faccio venire il mal di testa, il mal di ossa, il mal di gambe. Mi dolgono gli occhi e i denti. Praticamente, mi “ammalo”. Sono per così dire metereopatica. Dovrei vivere in un posto dove c’è sempre il sole. Il buio lo amo di notte. Perché porta calma e silenzio, ritrovo la solitudine giusta per leggere, pregare, scrivere…la notte stoppa la corsa perpetua del vivere quotidiano, obbliga a fermarsi. A volte, ciò significa far affiorare le paure e la notte alimenta irrazionalmente l’ansia e la preoccupazione del domani che appare in un incubo angosciante. L’oscurità può evocare i nostri demoni interiori e scatenarceli contro. Non per niente le creature mostruose della fantasia popolare vivono e compiono le loro azioni malvagie nell’oscurità…streghe, vampiri, licantropi e spettri prendono vita dal buio e non hanno ragione di sopravvivere quando viene a mancare. I predatori e i carnivori escono di notte nella corsa verso la preda, rituale crudele ma necessario alla sopravvivenza. Ma preferisco pensare alla notte come a una sosta di pace dopo la fatica del giorno, anche quando questa è proficua. Per me è il momento dell’abbandono alla verità. A tutto ciò che ho dentro di autentico e non riesco a manifestare apertamente e completamente alla luce del sole. Il buio è un velo rassicurante, nasconde e cela l’esteriorità per rivelare l’intimo. E più passa il tempo più adoro il 85 crepuscolo e tutto quello che segue il calare del disco solare: la luce che muta in un’ovatta di quiete che racchiude tutte le cose, l’aria che si placa, gli odori che si fanno più muscosi, i colori che si attenuano gradatamente per poi farsi avvolgere dall’oscuro manto. E finalmente, il silenzio, che cala inesorabile, non più rombo di auto e vocii di bambini o chiacchiericci di anziane signore. Nelle sere estive, dalle finestre aperte le voci distese delle persone a spasso e le risa dei ragazzi fermi alle panchine. E l’eco della musica di qualche festa popolare. Le televisioni accese fino a tardi, lo scalpiccio dei passi di qualcuno che fa tardi. Ma poi, quando si avvicina la mezzanotte, nel buio tagliato dalle luci di qualche lampione e delle insegne luminose, pare che la terra smetta di girare e si ferma o nell’abbraccio del sonno ristoratore o nei pensieri tetri figli di una giornata difficile. Quelli che ti shakerano il cervello per ore interminabili con l’impressione di incubi angosciosi e ti fanno rigirare senza sosta nel letto sfatto. Senza che nulla si risolvi del dilemma che affligge e che non trova risposta. E poi, nonostante tanto combattimento, la resa è inevitabile a un sonno senza sogni o al contrario animato da scene inquietanti. E la mattina diventa una salvezza perché ritorna la luce del giorno a dissipare gli spettri di una notte senza requie. Il duplice aspetto della notte, la pace e la paura, coesistono e sono inscindibili. Per questo, mi affascina e mi seduce. Io, che vivo male senza la luce del sole e il suo calore, sono irresistibilmente attratta dal fascino dell’oscurità e di tutto ciò che c’è, ma non si vede (o non c’è ma potrebbe esserci…o che non c’è ma mi 86 piacerebbe ci fosse). Purtroppo di notte si vive bene nei paesi del mediterraneo, non in Austria dove alle 18 si chiude tutto, si cena con qualche dolcetto, tutti chiusi in casa o ai concerti. Anche in Tirolo, la regione più simpatica e allegra. Ci andammo un paio di volte con le bimbe che si divertirono un mondo. Bellissimi i paesetti (St Johann in testa con le casette colorate e le piazzette sempre piene di gente), deliziosi i pendii anche se poco aspri (per me la montagna o è aspra e scabra o non è montagna) e soprattutto un sacco di attrazioni per grandi e piccini, dalla pista per bob in legno alle cascate ai canyon alle amene passeggiate nei boschi e ai laghetti minuscoli in alta montagna. Visitammo l’allevamento degli Haflinger, i cavallini altoatesini a Ebbs, ammirammo l’eclisse a Kufstein, alla fortezza. E poi, a spasso nel parco con gli animali selvatici in libertà a Kitzbuel e l’elegante piccolo centro di Lienz, gremito di localetti coi tavolini i piazza. Ci portammo in vacanza anche la nostra amica indiana Sr Luisa, che dichiarò di aver esaudito così uno dei suoi sogni più belli. Furono vacanze davvero complete, riposo, relax , escursioni e visite interessanti. Sicuramente fu dalla nostra il clima che si mantenne davvero bello per l’intera durata della vacanza. Cosa che ahimè non successe quando andammo nel Voralberg, la parte più occidentale dell’Austria al confine con la Svizzera, racchiusa da superbe corone di monti. Passammo la quasi totalità del tempo chiusi in casa (un magnifico enorme chalet in legno con giardino) a guardare la pioggia scrosciare e a inventare giochi o a vedere film. Sapendo che là fuori c’era un paradiso 87 naturale da esplorare io mi spazientii non poco. Le rare uscite ci diedero brevi assaggi della bellezza del posto. Cime superbe, laghi e dighe, parchi naturali erano a pochi chilometri da noi. E non potevamo gustarceli. Non ammetto di dover passare le mie vacanze sempre al chiuso. Fu da quell’anno che non ne volli più sapere di vacanze in montagna e mi riavvicinarmi al mare, quello stesso mare che era stato il protagonista assoluto delle mie estati da ragazza. Ho ricominciato a desiderare l’aria salmastra, la risacca che arrotola i ciottolini sulla battigia, ad apprezzare la pelle nuda lambita dal sole e dall’acqua salata e fresca, il profumo oleoso dei solari (protezione totale ovviamente per la mia pelle nordica a continuo rischio ustione!) e la vita oziosa e molle della spiaggia e della pineta, sempre in costume e ciabatte, sdraiata accanto ai libri e alle figlie che giocano scavando nella sabbia. Ma la sfida della vetta rimane viva dentro di me. Reduci dall’entusiasmo dell’esperienza austriaca, ci facemmo tentare anche dalla Germania, da Monaco e dai castelli. La Baviera con le ridenti colline e i dolci declivi che paiono giardini che fanno tanto scenario di Sissy mette subito a proprio agio, rilassa profondamente. Il tempo non fu magnifico quell’agosto del 1999, pioveva quasi sempre, ma a noi non interessava, avevamo bisogno di riposo, tranquillità e di bei posti da visitare. Soprattutto io, reduce da un periodo di lavoro intenso in università. La mattina si rivelò il momento migliore per le nostre escursioni, il pomeriggio riposavamo e ci appagavamo dello stare insieme. Fu una vacanza di relax superbo… che portò al concepimento della mia Micol. 88 Ma questa è un’altra storia. Adesso mi preme ricordare i castelli che fece costruire nella graziosa Baviera re Ludwig II, il re pazzo che morì prematuramente, affogato in circostanze misteriose. Questo stravagante sovrano si fece costruire alcuni palazzi che ostentassero le sue manie di grandezza .In pullman, belli comodi, con la guida che parlava fortunatamente anche in inglese, ci avventurammo alla volta della più grande delle sue magioni da sogno, il castello di Neuschwanstein (che ispirò il castello dei film d’animazione della Bella Addormentata, di Cenerentola e di Biancaneve della Disney) una complessa fortezza che sbuca da un cocuzzolo boscoso di architettura romanica con interni bizantini e gotici, che venne costruita vicino al castello del padre, Hohenschwangau. Ci arrivammo dopo una salita abbastanza ripida. Ludwig ammirava follemente Wagner, quasi religiosamente, perciò fece realizzare parecchi affreschi delle scene delle opere del compositore tedesco, come nella Sala dei Cantori (il “Tannhäuser”) nella quale, a sorpresa, partono le note incalzante della “Cavalcata delle valchirie”o nel cortile e nel corridoio aperto (“Lohengrin”). Ci imbattemmo addirittura in una sorta di grotta con tanto di stalattiti e stalagmiti. L’insieme è davvero eclatante, fin troppo. Mi colpì l’esaltazione dello sfarzo, dei colori e delle architetture, a volte troppo ricchi, quasi esorbitanti. Ma anche la modernità, l’innovazione che abitavano quella testa tutta matta ma geniale di Ludwig. Le cucine sono enormi e attrezzatissime, dai giganteschi camini usciva aria calda che riscaldava l’intero edificio e lo riforniva di acqua 89 calda. Un sistema di carrucole consentiva il sollevamento di un tavolo imbandito al piano superiore dove il re consumava con comodo i suoi pasti nel suo appartamento. Insomma, non tutta la pazzia vien per nuocere. Tutt’altra faccenda, il castello di Linderhof, un palazzo ornato in stile neo-rococò. All'interno del palazzo l'iconografia riflette il fascino di Ludovico per l'Ancien Régime francese. Il parco, la vera meraviglia del complesso, contiene una grotta artificiale (la Grotta di Venere, dal “Tannhäuser”) dove cantanti d'opera si esibivano su un lago sotterraneo illuminato con l'elettricità, una novità per quel tempo, e una casa del boscaiolo costruita dentro un albero artificiale. Impressionante una fontana alta 25 metri, così come i tre livelli dei giardini terrazzati, coronati da un piccolo tempio circolare, il cosiddetto Tempio di Venere e dalla fontana di Nettuno, con le sue cascate a 30 livelli, che donano al parco un aspetto di incomparabile bellezza. L’ultimo castello che visitammo, Herrenchiemsee è una replica della reggia di Versailles, che nei progetti, l'avrebbe dovuta superare in dimensioni e fastosità. Ma non ci riuscì. Solo una smunta imitazione. L’unico vero pregio del castello sta nella posizione, tra boschetti ombrosi su un'isola al centro di un grande lago. E nelle deliziose fontane con statue. Buona parte del palazzo è rimasta incompiuta e Ludovico vi soggiornò solo una volta. Progettò anche un altro castello che doveva essere il più grandioso e strabiliante. Ma ancor prima dell’inizio dei lavori, il re morì. Senza realizzare i suoi sogni. Eh, capita, soprattutto a chi sogna troppo. E non si accontenta 90 mai del tanto che ha già. Non riesce nemmeno a goderselo. Insegue continuamente progetti sempre più estremi…e poi non coglie la bellezza della normalità. Che è fatta anche di cose non appariscenti, ma fondamentali. Ludwig morì solo. Regnò per pochissimo tempo perché venne deposto a causa della sua follìa. Rimangono solo i suoi castelli a testimoniare la sua manìa. Non la sua persona. LA PRIMA VACANZA DI MICOL …E POI DI MIRIAM La mia morbida batuffolina cresceva come un germoglietto dopo la prima pioggia primaverile. Dopo tanta, tanta attesa era arrivata a magnificare la mia vita (già felice) con la sua dolcezza disarmante, la sua incredibile tranquillità e il suo calore odoroso di candore. Ancora adesso che ha nove anni e inizia a sbocciare come un virgulto pieno di forza e slancio, conserva i tratti caratteriali angelici di quando era neonata. Prime piccole ribellioni a parte. Quella maternità, sin dai primi giorni della gravidanza, è stata la stagione più beata, finora, e il ricordarla mi apporta pace nei momenti un po’ bui. Il parto per contro, fu terribile, ventisei ore di attesa, tanta paura, la bambina non scendeva, io ero stravolta e spaventata. Gridai, piansi, pregai il medico di farmi il cesareo. Alla fine Micol nacque, sana e solo un po’ rossa. 91 E io parevo reduce da una vacanza alle Maldive, bella e raggiante. La brutta esperienza non aveva lasciato segni (tranne che nel ricordo) tanto che dopo appena ventisei mesi diedi alla luce Miriam. Ma soffrii qualche senso di colpa nei riguardi della mia seconda bimba, la cui nascita, ahimè, per motivi certamente non legati a lei, non fu proprio un momento di tanta grazia. Ma dare la vita rimane uno dei misteri più grandi e belli dell’universo, nella gioia e nella fatica. E così ho vissuto le due nascite, così diverse, ma entrambe fonte viva di amore unico. Il nome Micol non ha un significato certo. Di sicuro, è regale. Era il nome della prima moglie del grandissimo re David nella Bibbia. Nonché della protagonista femminile di uno dei più bei libri della mia giovinezza, “Il giardino dei Finzi Contini”, una ragazza bella, intelligente e decisamente anticonformista. Fece una brutta fine (era ebrea) ma questo non ci influenzò nella scelta del nome. La mia Micol non sembra così decisa e sicura come quella del romanzo, ma è sicuramente bella e intelligente. E un po’ diversa, perché alla sua età già si pone domande impossibili, scompare per starsene sola a pensare, ama la tranquillità e la quiete, adora i cavalli e dipingere. Scrive poesie e racconti. E vuole diventare veterinario, comprarsi una bella cascina e allevare animali con sua sorella. Sbagliavo, sembra che abbia già le idee chiare. La portammo al mare in Toscana che aveva solo tre mesi, e ci parve un’impresa caricare lettino, carrozzina, pannolini…fortunatamente allattavo, quindi non dovemmo caricare anche tutto l’armamentario di biberon. 92 Durante quella vacanza la mia frugolina che fino ad allora mangiava e dormiva (ma proprio nel senso letterale del termine: non aprì gli occhi fino a tre mesi, succhiava il latte quasi dormendo…) , iniziò a svegliarsi progressivamente, credo che i suoi sensi si siano acuiti tutto d’un botto e iniziai lì a percepirla davvero come una persona. Tutte le mattine andavamo in giro (chissà perché prima di partire si moriva di caldo e ora, al mare, si era rinfrescato tutto d’u colpo con piogge frequenti. Mah…) e visitavamo qualche angolo caratteristico della Toscana che tanto ho amato e amo. Avevo già visto quei posti (tranne Lucca), ma mi fece un piacere immenso ritornarci. E andarci come famiglia. Mangiare nelle trattorie tipiche e respirare l’essenza dei cipressi. O farmi accarezzare dalla brezza salmastra e ascoltare i suoni della macchia mediterranea. Versi di animali, crocchiare di rami e sabbia sotto i piedi, il vento leggero tra le fronde. Con un infante vicino è tutta un’altra cosa. E’ tutto amplificato e allo stesso tempo intenerito. Tutti i sensi si acuiscono perché la realtà tutta si centra nel piccolo essere e in lui assume un significato nuovo. Ogni cielo azzurro, ogni brusìo, ogni aroma scatena emozioni più profonde. Perché ogni movimento, ogni pianto e ogni profumo del neonato vengono percepiti come eventi grandiosi e densi di significato. Anche nei suoi aspetti meno idilliaci. Se il bimbo non sta bene, è una tragedia. Se non mangia, non dorme o non si scarica, desta comunque una seria preoccupazione. Ma Micol stava benone, era insaziabile (io iniziavo a non farcela più ad allattare) e dormiva sodo, e l’ospitalità della mia amica 93 Grazia calorosa, i pranzetti deliziosi, i posticini ameni e il clima fresco. E nonostante fosse l’ennesima volta che trascorrevo lì le mie vacanze, guardavo tutto con occhi nuovi e stupiti. Il concetto di vacanza cambia radicalmente quando arriva un bimbo. Non puoi più concederti agli orari e ai ritmi che il tuo corpo e la tua testa ti suggeriscono: svegliarti, mangiare, camminare, visitare un luogo, soffermarsi davanti al panorama diventa un suo diritto. Prima i suoi bisogni e poi i tuoi. Così non puoi sentirti davvero in vacanza. D’altronde, cambia la vita quando nasce un figlio, figuriamoci una vacanza. Inizi con la macchina stracarica e un sacco di preoccupazioni per la posizione della testolina nel seggiolino, per il cambio pannolino, per la sudorazione eccessiva e allora sotto con cuscinetto e federina di spugna, barattoli di salviettine umide alla mano e pacchi di pannolini sotto i piedi. Poi, pensi che l’aria condizionata gli faccia male e allora patisci il caldo, ma poi abbassi il finestrino se no soffochi (e fai soffocare anche il bambino). Ma l’aria non deve battergli addosso direttamente…poi il piccolo si sveglia, lagna, bisogna intrattenerlo con qualche giochino, forse ha fame o è sporco, ma siamo in colonna in autostrada. Insomma, già l’inizio è un’avventura che io sono contenta di non dover più ripetere. Per natura, sono già distratta, figuriamoci quando parto per le ferie, il che mi dà una sensazione di libertà mentale massima. Il che significa nella fattispecie: voglio farmi i cavoli miei e non aver pensieri. Adesso che le mie figlie sono indipendenti almeno per quanto riguarda cibo e bisogni vari, e se hanno delle richieste 94 non sono io a doverle interpretare ma loro a comunicarmele…bhè, mi sento lontana anni luce da quelle vacanze così impegnative. Perché poi c’erano le pappe da preparare e da frullare senza tutti i soliti attrezzi casalinghi, i bagnetti da fare alla bell’è meglio (e chi si portava dietro il vascone di plastica?), la carrozzina pesante da spingere il marsupio che ti sega le spalle perché il pargolo è stufo della solita posizione e vuole iniziare ad esplorare un po’ il mondo. E poi il lettino diverso, anche se corredato da giochini portati da casa di tutti i tipi e la stanza o l’appartamento diversi, un’altra atmosfera, un’altra luce, un’altra aria…insomma, un sacco di cambiamenti. Grandi per un piccolino. Ci sono adulti che fanno fatica i primi giorni ad adattarsi al letto diverso o al clima, figuriamoci un bambino. Eppure, anche tutto questo lavorone immane (che tale è, un lavorone per cercare di soddisfare il più possibile le esigenze del bebè in una situazione così nuova) aveva qualcosa di entusiasmante. Come ogni cosa che si fa per accudire un piccolino. Spesso sempre gli stessi gesti, eppure ogni volta nuovi. Perché non è mai uguale: anche il bagnetto ogni volta riserva nuove emozioni. Le prime volte l’apprensione è alle stelle. Poi, quando la mamma prende confidenza con vaschetta, temperatura dell’acqua, sapone e posizione del bimbo, diventa quasi un gioco per entrambi. Così anche il cambio pannolino e la pappa, momenti di irrinunciabile tenerezza e di incredula osservazione dei progressi del piccino che piano piano diventa più sicuro, più intraprendente e anche più vivace (fino al punto di doverlo trattenere saldamente sul 95 fasciatolo o sul seggiolone). Il cucchiaino non è più un problema ma uno strumento abilmente maneggiato e fa niente se alla fine metà pappa è finita ovunque oltre che in bocca e sulla faccia. Comunque la prima volta al mare di Micol andò benissimo. Mostrò subito una forte propensione per l’acqua, cosa che perdura tutt’ora. Sbatteva i piedini, immergeva le manine nel mare e le agitava con foga. Crema solare a protezione solare totale spalmata a piene mani e bandana in testa, era uno spettacolo vederla agitarsi tutta alla sola vista dell’azzurra distesa liquida. La prima vacanza di Miriam invece fu in montagna vicino a Ponte di Legno. Aveva solo poco più di tre settimane, era davvero un fantolino tenerissimo, bianco e rosa, avido di latte e di abbracci. Partimmo stracarichi più del solito, i piccoli ora erano due. Il paesino era carino, la casetta pure ma il tempo inclemente e la mia grande stanchezza non giocarono a favore di una vacanza distesa e serena. La cosa davvero positiva fu la sospensione del pasto notturno: Miriam si addormentava intorno alle ventitrè dopo una poppata abbondante (che rigurgitava alla grande) e parecchi pianti e si svegliava verso le otto, ancora ingorda del dolce nutrimento. Per il resto ricordo tanto vento, il mio nervosismo e la mia apprensione per la stesura della mia tesi di dottorato, la cui discussione era prevista per dicembre. Dovevo leggermi al più presto una sessantina di articoli in inglese, iniziare a scrivere. L’allattamento mi pesava tanto, e tutta la fatica nello studio e nel lavoro, che mi aveva accompagnato durante i nove mesi di attesa, adesso si faceva sentire. Poi, qualche 96 problema famigliare. La mia cara nonna era morta appena avevo scoperto di essere incinta, Micol dopo qualche mese era stata ricoverata in ospedale per una gastroenterite e all’ottavo mese mi era stata diagnosticata per un errore di laboratorio l’epatite C. E l’ultimo figlio del mio vicino di casa si era schiantato in moto a ventitrè anni. Insomma, al contrario della mia prima felice gravidanza, quest’altra fu problematica. Non per la piccola, che cresceva e non mi dava alcun problema fisico, nemmeno la nausea. Nacque velocemente e quasi non mi arrecò dolore. Ma furono altre le circostanze che si accumularono in quei mesi, che mi tolsero il sonno e la tranquillità, provocandomi uno stato di forte stress e stanchezza. Finii anche al Pronto Soccorso per gli attacchi di ansia che ahimè, iniziarono allora ad affliggermi e che mi avrebbero accompagnato per anni. Volevo prendere il dottorato, lavorare in università, avere figli, continuare ad aiutare le missioni. Nel frattempo ci eravamo trasferiti, contro il mio parere, di nuovo a Paullo nella casa dei miei suoceri. Amavo il mio paesino, la sua gente, i miei ragazzi di catechismo e i nuovi amici. Non avevo voglia di ritornare in questo paese che mi sembrava vuoto e scialbo, un grande dormitorio a confronto con la vivacità nostrana di Galgagnano. Poi, con tutto il rispetto per i genitori di mio marito, proprio non volevo andare a stare sopra di loro. Presentivo qualcosa di negativo. Che successe. Ma preferisco evitare questa storia fastidiosa, sto raccontando le estati più belle della mia vita. Di fatto, volevo fare la brava ricercatrice, la brava mamma, la brava moglie e la brava nuora. Troppo impegnativo. 97 Perché non si può essere tutto, sempre e bene. Far finta che tutto vada per il meglio, convincersi che si riesca sempre con le proprie forze a far andare bene le cose. Non concedersi mai di mostrarsi fragile, insicura o inadeguata. Anche quando dentro ci si sente incapaci o stanchi morti. Dimostrare pazienza, accondiscendenza e tolleranza anche quando si avrebbe voglia di dirne quattro sul muso a qualche soggetto molesto. Adesso me ne rendo conto. E non mi mette più a disagio manifestare la mia debolezza o la mia sofferenza. Faccio sempre un po’ di fatica, mi piace fare la parte della donna forte e risoluta. Della persona vincente, sicura e in gamba, quella che piaceva tanto a papà. La figlia brava, studiosa e giudiziosa. Ma provo sollievo a liberare la mia parte più umana. Nessuno nasce per essere un super-eroe. Siamo tutti esseri umani pieni di pregi e difetti. Soprattutto difetti. E non c’è niente di male ad ammettere questa realtà. Stà qui la nostra grandezza. Solo partendo dal riconoscimento del nostro limite possiamo costruire vite belle, ricche di coraggio e di forza, progetti ampiamente realizzati. I veri grandi della storia l’hanno capito. La mia è una storia ancora in corso, non so se sarà interessante o importante. So solo che è la mia, che è unica e che devo scriverla con attenzione, impegno e un po’ di gioia. Le mie figlie sono il fulcro di questa mia storia e molta di questa gioia. Anche nei momenti dell’estenuante fatica quotidiana nell’accompagnarle verso la scoperta di quella che sarà la loro strada, intravedo la meraviglia di essere il custode di piccole esistenze che prendono forma e che si preparano a 98 spiccare il volo verso una grande avventura. FINALMENTE AMERICA 99 Era un mio sogno da anni. Il Canada. Una mia amica e un mio collega c’erano andati per lavoro, e lei era rimasta. Sognavo l’immensità del paesaggio, la sua sterminata verdissima (o bianchissima, a seconda delle stagioni) solitudine e il San Lorenzo dove nuotano i delfini. Le cascate del Niagara, le città modernissime eppure a misura d’uomo. Non ero mai stata in America. Gli Stati Uniti non mi hanno mai attirata un granchè. Sarà che sono un’appassionata di antichità, il troppo moderno mi destabilizza e mi dà un senso di vuoto e di sottile angoscia. Troppo splendente, tecnico e perfetto. Il vecchiume, un po’ eroso dal tempo, con quella patina sbiadita addosso, mezzo rovinato o diroccato mi esalta sempre. Ha un colore e un profumo che mi rasserenano e rassicurano. Programmai il viaggio con estrema precisione, visto che ci veniva anche Micol di appena due anni. Volevo che tutto filasse liscio. Doveva essere un viaggio indimenticabile. Ci saremmo recati a visitare la cugina di Giovanni che viveva nel Quebec col marito canadese e quattro figli e la mia amica e collega Marzia che vive e lavora a Ottawa. Avremmo visto le cascate del Niagara. Convinto Giovanni, mi misi all’opera per organizzare il viaggio. Guida e internet alla mano, impiegai non poco a decidere il percorso e le cose da vedere. Saremmo partiti da Quebec con una macchina a noleggio, visita ai cugini in campagna, poi Montreal, Ottawa con sosta da Marzia e infine Toronto e le cascate. Partimmo stracarichi , oltre che delle valige (roba pesante a volontà, non si sa mai, in Canada fa sempre freddo!) di pannolini, pappe, biscotti Plasmon e termos. Fu un 100 viaggio non propriamente comodissimo: avevamo prenotato un volo di linea Air Canada, due posti più culla e ci ritrovammo su un charter di una sottolinea dell’Alitalia senza culla. Protestammo insieme ad altre famiglie con bambini piccoli, ma tanto, come si poteva fare altrimenti? Ci dovemmo accontentare di due posti stretti, la bimba in braccio e tutto l’occorrente cambio e vettovaglie sotto i piedi. Micol era sempre più stanca e nervosa, mangiò pochissimo e stentò a dormire, si svegliava in continuazione. Lo scalo a Montrèal fu anche peggio: ci fecero aprire le borse e ci perquisirono per colpa della carta argento dei biscotti Plasmon riposti nella sacca del cibo di Micol. La bambina piangeva, aveva fame e sonno, tentati di darle un po’ di pappa. Prendemmo l’aereo per Quebec city e atterrammo un’oretta dopo. Noleggiammo una bella famigliare e ci perdemmo per le immense strade deserte. Avevo in mano la cartina della città ma non rendendomi conto delle distanze enormi non mi ci raccapezzai più e dovemmo chiedere a un taxista di farci strada. La suite era deliziosa e noi eravamo stravolti. Dormimmo praticamente per quasi due giorni alzandoci solo per mangiare. Micol pareva facesse fatica ad adattarsi al fuso orario e mangiava poco, fatto assolutamente strano per lei. Non voleva camminare, si assopiva continuamente nel passeggino. Non gustai pienamente la bellezza nostalgica e decisamente europea di Quebec City. Le belle case, il centro storico con le costruzioni in pietra dei coloni, il quartiere italiano e la spianata di Lincoln dove 101 avvenne lo scontro finale tra francesi e inglesi nel 1790. Tutto mi pareva un po’ sfocato e incolore guardando la mia bambina così muta e sempre appisolata nel passeggino, senza nessuna voglia. Solo la visita alla cugina Mara la scosse dal quel penoso torpore e iniziammo tutti a godere di quella splendida vacanza. Mara sposò nel 10992 un canadese, François, e si trasferì i una casa colonica del settecento in un piccolo paese Sainte Bustine Quebec a circa un’ora e mezzo di strada dalla città. La scelta di questa donna all’apparenza fragile ma con una notevole forza interiore suscitò parecchio scalpore nel parentado nostrano. Lasciò 9i genitori anziani, una vita tranquilla e un lavoro sicuro per l’incognita di un paese straniero e lontano. François non aveva ancora un’occupazione fissa. Ci piacemmo subito, appena conosciute, sentivamo di avere in comune l’amore per le cose belle e per Dio. Per un anno facemmo parte del piccolo coro polifonico che si ritrovava in biblioteca. Mara ha una voce sottile e melodiosa, un usignolo tenero ma deciso. Io, di contro, ho un vocione squillante e corposo, proprio come la mia corporatura. L’una compensava l’altra. Poi Mara se n’è andata e il coro si sciolse. Mi mancava. Iniziavo solo allora a sentire l’accordo delle voci, lo sfondo discreto ma indispensabile dei contralti, il contrasto dei bassi e la corona dei tenori alle note sovrastanti dei soprani. Solo un assaggio della bellezza struggente della musica creata dalla sola voce umana che è lo strumento più versatile e sofisticato. Chissà, un giorno potrei ricominciare a cantare. Non fu difficile raggiungere Sainte Justine, Mara ci diede 102 informazioni dettagliate, le strade erano grandiose, libere e ben segnalate. Pendìì dolci e verdissimi, punteggiati da villaggi e fattorie, tanto spazio libero. L’accoglienza fu calorosa e semplice. I tre ragazzi grandi e forti ci vennero incontro timidi e gentili. Scalzi e ancora gocciolanti dopo il bagno nel laghetto in cortile. Cortile…una campagna, e sul retro l’orto, un pollaio e un vero bosco. Nessuna recinzione, nessun cancello…boh…Micol ancora immersa nella sua apatia, guardava tutto un po’ stupita, stranita dalle dimostrazioni d’affetto dei parenti. Comparve Mara, sempre piccolina e magra, col suo sorriso enorme stampato sul volto tirato. In braccio,l’ultimo arrivato, Emanuel, di sette mesi, il piccolo di Haiti adottato da qualche mese. Nero, riccioluto e con due occhi sfavillanti. Era arrivato sottopeso, abbandonato dal padre vedovo e poverissimo in istituto. Non poteva più mantenerlo. Queste storie mi commuovono e mi intristiscono. Un padre non dovrebbe mai trovarsi nella condizione di essere costretto a rinunciare a un figlio perché non ha mezzi per allevarlo. E nemmeno una madre dovrebbe mai liberarsi della sua creatura perché non sa come crescerla e nessuno la aiuta. Deve essere un dolore lancinante separarti per sempre dalla carne della tua carne, rinunciare al tuo stesso sangue. A volte penso che siano atti d’amore supremi: non posso proprio farti crescere, allora preferisco che qualcun altro che ne ha la possibilità prenda il mio posto e ti faccia crescere felice. Al cuginetto è andata davvero bene, ha trovato due genitori meravigliosi e dei fratelli premurosi. Non sono ricchi, ma non manca nulla nella 103 grande casa colonica del settecento che François ha pazientemente sistemato. L’orto e il pollaio forniscono verdure e carne fresche e genuine. Nel bosco crescono i mirtilli. E i conigli pare superino il rigido inverno senza particolari problemi. Le camere sono arredate con semplicità, ma sono luminose e spaziose. Il soggiorno è pieno di libri e giochi. La cucina è enorme con una lavatrice che funziona a pieno ritmo ogni giorno. I ragazzi frequentano la scuola del paese che dista circa due chilometri, François lavora la terra e Mara oltre ad accudire la numerosa famiglia lavora nel campo degli integratori alimentari. La vita è semplice e faticosa, ma intrisa dell’ amore e della fede che hanno condotto questi due sposi fino a questo bel posto tra i campi all’estremità orientale del Canada. E’ stato un incontro singolare quello tra Mara e François , una sorpresa che ha cambiato le loro vite , quella serena e tranquilla di Mara, insegnante, e quella alla ricerca di senso del pellegrino François in giro per il mondo con lo zaino in spalla. L’esistenza pacata come un lago in primavera di Mara è stata smossa da quella inquieta di François, che finalmente ha trovato il suo porto, la rada dove attraccare definitivamente. Credo sia stato un grosso sacrificio per Mara lasciare una vita sicura per l’incertezza di un’avventura nuova dall’altra parte dell’oceano. Lasciare i genitori anziani e con gli acciacchi, il fratello, gli amici, una professione amata, il canto…però ce l’ha fatta e bene, direi. Circolavano tra il parentado popolano varie leggende su questi due bizzarri tipi: che campassero chissà come, che abitassero in un luogo inospitale e 104 selvaggio, che vivessero in una fantomatica comunità…il nostro viaggio servì a dissipare definitivamente tutte quelle chiacchiere insulse. Vedemmo una famiglia felice, modesta ma decorosa, in un posto incantato a contato con una natura dolce e pura. Cogliemmo insieme le verdure e raccogliemmo le uova. Micol giocò a piedi nudi nel prato con i cugini e mangiò con gusto la pasta e il pesce e io finalmente mi rilassai. Si vede che l’atmosfera così bella di quella casa ebbe un benefico effetto su di lei. Infatti, da quel momento , Micol ridiventò la bambina vivace e sorridente che era sempre stata e si comportò così per tutta la durata della vacanza. Lasciammo la bella famigliola con un po’ di rammarico, ci saremmo trattenuti volentieri. Ma Marzia, la mia collega, mi aspettava a Ottawa, e dopo qualche giorno a Montreal, trascorso soprattutto nella città sotterranea, incredibile per vastità e organizzazione (una vera città con negozi, parrucchiere, dentista, ristoranti e aree giochi per bimbi… sfruttatissima durante gli inverni impossibili a -40!) arrivammo nella deliziosa capitale, una cittadina discreta e elegante, talmente verde da sembrare un’amena località Svizzera. Nel centro al posto di grattacieli argentei svettanti nel cielo rosse casette tutte uguali si avvicendavano lungo freschissimi viali alberati. Peccato che la temperatura sfiorò i 44 gradi (erano più di cent’anni che non accadeva!) e passammo notti insonni e soffocanti. Ma trascorremmo comunque una bella settimana, coccolati da Marzia e dal marito Tristan, che ci cucinò piatti tipici e ci portò in uno steak house giapponese per un saluto speciale. Ultima tappa, Toronto 105 e le cascate del Niagara. Non ricordo molto della città sull’Ontario, se non gli infiniti viali che si tagliavano a angolo retto e il quartiere cinese, pieno di poliziotte, di scritte e di polli e calamari fritti color arancione esposti fuori dai negozi. Nemmeno le cascate mi impressionarono granchè, forse perché non riuscimmo a prendere il battello Maid of the Mysth che porta i turisti quasi sotto le cascate. Ma indimenticabile fu il parco Marineland dove accarezzammo la pinna di un’orca e ammirammo un orso bianco nuotare pesantemente nella sua piscina . Mi dispiace che Micol non ricordi niente, ma era troppo piccola. Micol adora gli animali, e le piacerebbe diventare veterinario come il nonno, mio padre, col quale si lancia in animate discussioni sulle razze di cani e cavalli. Vorrebbe fare anche l’archeologo, perché adesso ha la passione dell’Antico Egitto, si è imparata a memoria i nomi di tutti gli dei e ha scritto anche un racconto fantastico che ha lei come protagonista catapultata per magia in quel mondo lontano e affascinante. Si è vista e rivista tutti i film di Indiana Jones e il suo preferito è Il tempio maledetto. A Babbo Natale ha chiesto le costruzioni Lego di una scena del film, quello nelle miniere . Quando Micol si appassiona a qualcosa, lo fa fino in fondo. Poi magari si stanca, ma intanto ci mette tutto l’entusiasmo. Miriam invece prima di interessarsi a qualcosa, ci studia sopra per un tempo indeterminato. Considera, pondera e riflette…ma una volta iniziato, non la smette più. Possiede una tenacia e una perseveranza incredibili. Le mie figlie sono parti diverse che coesistono in me: entusiasmo e perseveranza, 106 incoscienza e prudenza. La vacanza canadese fu proprio così. E perciò la ricordo con tanto piacere. Perché fu decisa sull’onda dell’euforia, ma organizzata con cura, e nonostante fossimo tanto lontano dall’Italia, là ci sentimmo come a casa. MASHA BIELORUSSA E I CENTRI ESTIVI 107 Il primo incontro non fu certo un colpo di fulmine: un visino pallido, lunghi lacrimoni, «telefono mama». E il nostro imbarazzo. Così abbiamo conosciuto Masha, la bambina bielorussa di otto anni che abbiamo ospitato per sei settimane nell’estate del 2007. Da anni, varie associazioni organizzano soggiorni di risanamento per bambini provenienti dalle zone contaminate in seguito al disastro di Chernobyl. Tutti conosciamo le conseguenze nefaste della più grande sciagura nucleare della storia. Un’esplosione pari a 100 volte la bomba caduta su Hiroshima. Oltre alle gravi malattie (tumori e leucemie) dovute all’alta percentuale di elementi radioattivi, si registrano ancora oggi, dopo più di vent’anni, soprattutto nella popolazione infantile, salute cagionevole, affaticamento psicologico e abbassamento delle difese immunitarie. Con le nostre bambine avevamo deciso che era arrivato il momento di provare questa esperienza di accoglienza. Dopo qualche colloquio con i responsabili all’associazione che opera nel nostro paese e aver sbrigato le pratiche necessarie, abbiamo aggiunto un lettino nella cameretta e predisposto uno spazio nell’armadio per i vestitini. Non ce la immaginavamo, la aspettavamo con gioia. Arrivò tremante, con pochi abitini in una sacca logora e qualche modesto regaluccio che ci consegnò singhiozzando. Non mangiò che un po’ di frutta. Una telefonata a casa, pianto a dirotto e noi che non trovavamo né le parole né i gesti. Ci vennero in aiuto le bambine che col linguaggio internazionale del gioco sbloccarono la stasi di quella situazione : le offrirono giochi, libri e colori e le fecero scegliere i cartoni 108 animati che preferiva. Nel giro di una settimana, Masha iniziò a sorridere, a mangiare con appetito (e che appetito) e a giocare allegramente. Frequentacva con entusiasmo il Centro Estivo, poi serata e fine settimana con noi. Con il sostegno discreto ma efficace dell’accompagnatrice, la cara Hanya, superammo tranquillamente le difficoltà della lingua. Da parte nostra cercammo di rassicurare la bambina, creando un clima affettivo che la mettesse a suo agio, e di farle capire le regole di casa nostra, che anche lei era tenuta a rispettare. Sveglia e intelligente, non faticò ad adattarsi e a voler partecipare attivamente alla nostra vita. La sua curiosità era senza limiti, così pure il senso dell’humor. E poi…un vero simpatico maschiaccio, in perenne movimento, sempre alla ricerca di novità… Le andava bene tutto, purchè si agisse. Certo, qualche piccola gelosia, qualche incomprensione, soprattutto con la mia piccolina sempre un po’ critica nei confronti delle novità …ma tutti superati con serenità. Masha era una bambina speciale, siamo stati davvero fortunati. Non l’abbiamo scelta, ci è stata donata. Non tutte le esperienze con questi bambini sono felici: per alcune famiglie fu una sfida particolarmente dura, con bambini molto chiusi e tristi, che faticavano ad ambientarsi. Non è una passeggiata! E’ una bella strada in salita! Ma l’amore e l’attenzione delle famiglie verso questi piccoli rimangono a testimoniare che la solidarietà non ha confini. I giorni volarono, qualche festicciola, gite e cene insieme, ed arrivò in fretta la data della partenza. Masha riempì lo zaino di disegni, foto, giochi e Parmigiano Reggiano. Si è voluta 109 portare via un pezzo della nostra famiglia e della nostra Italia. All’aeroporto, l’ultimo commosso saluto, tanti baci e la promessa di ritornare. Ma è giusto che Masha sia ritornata a casa sua. Il suo rimarrà un posto riservato. Soprattutto, nei nostri cuori. Quell’anno, non so cosa mi passò per la testa, volli anche impegnarmi al GREST dell’oratorio dando la mia disponibilità per gestire un laboratorio coi ragazzi. Io sono così, più sono impegnata più cerco nuovi impegni. Adesso mi sono data una regolata ma la natura è la natura, non riesco a stare ferma. Sento perennemente la tentazione di mettermi in ballo con qualche nuova attività. Soprattutto se si tratta di bambini o di ragazzi. Il nostro GREST parrocchiale quell’anno ospitò in tutto quasi 400 bambini con decine di animatori adolescenti e un gruppo di 20/30 adulti più lo staff di responsabili. Una macchina organizzativa davvero importante. Per il mio laboratorio, proposi delle cornici fatte con cartone, pasta e glitter. Ma ci fu chi propose bambole di pezza, borse decorate, trenini coi tappi di sughero, aeroplanini di carta e portatovaglioli in cartone . Partimmo armate di borse stracolme di materiale e tanta buona volontà. Ci affiancavano gli animatori adolescenti che avevano il compito di sorvegliare ed aiutare i bambini a lavorare. Sotto il grande portico, sui tavoloni di legno ricoperti , una folla di bimbi trafficava con le sostanze più disparate. C’era un’ allegra confusione tra colori rovesciati e colla sulle dita e le urla che richiamavano o davano direttive. Di fatto quando si è in tanti, un po’ di sano marasma è inevitabile, e la fatica aumenta esponenzialmente col 110 passare del tempo e l’aumento delle temperature. Il che ha anche come conseguenza l’abbassamento della soglia di sopportazione e del livello di pazienza. Non solo con i più piccoli, ma soprattutto con i più grandi, quelli che ai più piccoli dovrebbero badare. Gli animatori adolescenti sono una risorsa irrinunciabile e un servizio che segna un percorso di crescita…ma sono ragazzi, con tutta la carica di entusiasmo e, ahimè, di fragilità e incertezze caratteristiche dell’età. E capita che, a volte, si facciano un po’ troppo i fatti loro, si appartino a coppiette, cerchino un momento di sballo non proprio sano… mollando la responsabilità di vigilare sui bambini e di stare con loro. Insomma, un GREST che accoglie tanti bambini e che si regge esclusivamente sul volontariato non è impresa proprio leggera. Esige una programmazione e una preparazione seria che dura mesi, la formazione degli animatori, il reperimento di personale per la cucina e le pulizie, la progettazione dei laboratori e via dicendo… per non parlare delle giornate in piscina o delle gite ai parchi acquatici ove l’allerta è massima. Quest’anno ci siamo ritrovati con un bambino in più che si era intrufolato nel pullman senza che nessuno se ne accorgesse e aveva passato un’allegra giornata tra gli scivoli da anonimo fino a che la madre non l’aveva reclamato al GREST. Fortunatamente non era successo niente, il ragazzino stava bene e probabilmente si era pure divertito di più che non se fosse rimasto in oratorio. Può succedere anche di non trovare più un bimbo o che qualcuno si faccia male correndo…insomma, la questione responsabilità è davvero importante. Quattro settimane 111 davvero snervanti e dense di preoccupazioni. Ma anche di crescita insieme, di nuove conoscenze e di condivisione di vittorie e piccoli successi. Di mamme che ringraziano, grate dell’attenzione che tante persone hanno avuto per i loro figli. Di ragazzi che rincasano sudati e impolverati con già il pensiero di ritornare a giocare. Di animatori stanchi morti e un po’ innervositi che hanno ancora la forza di un sorriso, di un saluto o di una carezza. Di chi ha reso possibile tutto questo grande incontro prepara da mesi di lavoro serio e inizia a guardarsi indietro con un po’ di soddisfazione perché tanti sforzi non sono stati vani. Il successo è il frutto del cammino volonteroso e capace di molti che hanno ritenuto importante dedicare un pezzetto di sé ai più giovani. Un piccolo miracolo che regala a sonnolenti giorni estivi un pizzico di magia e di letizia che culminano nella grande festa finale con canti, balli e giochi. Un modo semplice per dire grazie a tutti, un grazie vero, non di cortesia, ma del cuore. Perché solo insieme si può costruire un’esperienza che parla di amicizia, di dedizione, di allegria e serenità. VISERBA, 25 ANNI DOPO 112 Forse sto iniziando davvero ad invecchiare. Provo un piacere sottile nel recarmi nei luoghi della mia gioventù e ricordare i miei vent’anni. Ripensare ai volti conosciuti allora. Ai divertimenti condivisi, ai sogni futuri confidati in un soffio di voce. Ai desideri più profondi e al timore di svelarli. Agli amori sfortunati o tormentati, quelli che ti contorcono le viscere, ti surriscaldano le guance e ti fanno tremare sudando per un inconsueto misto di caldogelo nel sangue. Alle serate con la chitarra, alle partite a carte quando si urlava e si dava del cretino al compagno di gioco che non capiva le tue mosse. Le partite di briscola a chiamata col Galli, memorabili. Risento la sua voce roca e incazzata, con la erre dura. E le prese in giro degli altri. A quel languore che saliva dal di dentro alla pelle che fremeva, alla paura di non essere in grado di affrontare le sfide, all’audacia nel provarci….nei meandri della mia mente ho stanato anche il ricordo delle estati a Viserba con la mamma vigile che però usciva alla sera da sola e mi lasciava la libertà di rientrare a ore ragionevolmente piccole. Sono state le prime vacanze “da grande”, col battesimo della discoteca (che non fu un granchè, anche se era “L’altro mondo studio”), le prime birre e i primi corteggiamenti. Non sono mai stata precoce nei rapporti con i ragazzi e con i divertimenti, preferivo (e lo preferisco tutt’ora) le amicizie profonde, le buone letture e i buoni films. Mi danno più serenità e sicurezza, non so perché. Ma d’estate ( e sulla riviera romagnola, poi) è lecito lasciarsi andare un po’. E’ anche divertente. Non si può sempre mica vivere come topi da biblioteca e col naso all’insù alle mostre. Poi, diciamolo, 113 la Riviera è tentatrice. Lo svago lì è un’industria organizzatissima, ovunque si trovano feste, locali, balli e grandi mangiate. Sembra non esserci spazio per la tristezza e la solitudine. E’ quasi un obbligo uscire, divertirsi e, per un po’, lasciarsi alle spalle il grigiore della routine, la fatica del lavoro o dello studio, i pensieri che assillano la testa durante le lunghe e mute notti invernali. Lì c’è solo posto per l’allegria e la spensieratezza, lì ci si trasforma in persone libere, audaci e festaiole. Di giorno, intorpiditi al sole e a mollo nell’acqua tiepida e torbida (ahimè, la grande pecca di questo mare…), di sera docciati e rinvigoriti, pronti allo svago. Non è la mia vacanza ideale, io sono per il movimento e la scoperta continua del viaggio, ma quest’anno ci voleva proprio un tradizionale soggiorno al mare formato famiglia. Per me e le bambine. Per rigenerarci dopo un anno davvero difficile e faticoso. Per ritrovarci e prepararci a un nuovo anno di prove e sfide. Che si preannunciano positive, ma pur sempre impegnative. Sto già pensandoci. E abbozzando un programma di massima. Le cose da fare saranno moltissime, necessita una buona organizzazione e un’ottimizzazione di forze ed energie. La scuola, il lavoro, la casa, attività sportive e ludiche…ricomincia ancora una volta la vita di sempre. Ma la compagnia così affettuosa e simpatica della mia Erika, di suo marito Marco e della piccola Rebecca, di Anna e della sua bella famiglia ci hanno davvero ristorato e fatto dimenticare per un po’ le nostre angosce e le nostre solitudini. Come una grande famiglia, con i lettini tutti vicini in spiaggia, 114 sempre insieme a spasso di sera a mangiare un gelato, a curiosare nei negozi di chincaglierie o ad aspettare sulla panchina che le bambine finissero i giri sulle macchinine o sul drago. Insieme a Ferragosto, a ballare i balli di gruppo (inguardabili, secondo il parere di Marco), a guardare i fuochi artificiali sulla spiaggia, a passeggiare lungo la meravigliosa modernissima Darsena di Rimini. Le bambine passavano le ore a giocare a nuotare e qualche volta a litigare. Ma andava bene comunque. Siamo stati bene tutti insieme. Non mi sono sentita sola un attimo. E’ bello avere tanti veri amici. Ti senti parte di una grande comunità. Condividi un po’ tutto, dalle inezie ai drammi che la vita inevitabilmente ti sbatte contro. E non è necessario incontrarsi tutti i giorni. A volte sì, ma mica sempre. Basta anche un sms o una telefonata. O un pensiero o una preghiera. E ci si sente comunque uniti. EPILOGO 115 E’ passato un anno. Un anno duro, di fatiche e di malumori, di seccanti imprevisti e di scelte dolorose. Della presa di coscienza di una realtà difficile da digerire, ma comunque da affrontare. Perché si deve pur continuare a vivere e nel migliore dei modi. Almeno, ci si prova. Altrimenti è meglio gettare la spugna. Ma non è da me. Anche perché in questi mesi di prova, sono cresciuta dentro come neanche mi era successo in dieci anni. Ed è maturata in me la saggezza di chi è sopravvissuto alla tormenta e sta ricostruendo pian piano la sua casa. In modo diverso da prima, i locali non saranno più gli stessi e neppure il tetto. Non si rinasce mai uguali, e le cicatrici restano e fanno male , ogni tanto. Ma la stagione della mia vita adesso è un’estate piena di frutti che devo mietere con pazienza e dedizione. Non posso sprecare il mio raccolto, è prezioso e non solo per me. Devo investirlo nei miei progetti che sono tanti e pieni di speranza. Cerco di non pensare con angoscia a come sarò o a come saranno le mie figlie. Tento di mettere ogni giorno un mattone per continuare a ricostruire la mia nuova casa, le mie relazioni, i miei affetti, il mio lavoro, la mia anima . E mentre guardo allo specchio i capelli che iniziano a ingrigire e gli occhi che si fanno un po’ pesanti, mi dico che per me è ancora il momento del canto delle cicale, che accompagnano la stagione della pienezza e delle messi dorate. Non è ancora il tempo delle brume e delle nebbie: il mio sole splende caldo e forte, mi fa sudare e mi toglie il respiro. Ma il mio grano deve essere mietuto e riposto nel granaio. 116