olivi e cicale

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olivi e cicale
PROLOGO: ESTATE 2008
Nella memoria, buchi come tane sotterranee. E poi,
sprazzi di luce che irrompono nell’oscurità dei pensieri.
Un susseguirsi di domande e risposte inutili. E rabbiosi,
Così, mi ritrovo in un mattino d’estate davanti a pini e a
lecci, ad aspettare di ritornare a casa. Vacanze brevi,
quest’anno. Per necessità e per scelta. Mio marito mi ha
lasciata per noia e insofferenza. E dopo una primavera
passata tra faccende legali e trasloco, eccomi qui, al
termine di una breve ma intensa pausa nella campagna
toscana. Ho vissuto per una settimana nel silenzio e nel
fruscio del vento. Con davanti piatti di buon fritto di
pesce e zuppetta di cozze. Le spiagge non sono lontane, e
a pochi chilometri abita un’amica carissima, che rivedo
sempre volentieri. Le estati più belle della mia vita le ho
passate con lei qui, tra Livorno e Cecina, tra mare e
collina. Distese di blu e verde grigio degli ulivi, alberi
che adoro. Il profumo e il sapore dell’olio extravergine
spremuto a freddo è una delle cose per cui ritengo valga
la pena vivere (Woody Allen certamente non lo conosce).
Nelle narici, gli aromi di salmastro, di resina, di selvatico
e di terra riarsa. Quella terra sempre così argillosa e
magra, solo a stento ornata di qualche cespuglio spinoso.
E nelle orecchie, il frinire delle cicale, caratteristiche
abitatrici degli alberi di questa campagna, il cui intenso
stridore copre quasi ogni altro elemento sonoro. In
pratica, la colonna sonora dell'estate. In questo momento,
mi sembra anche il leit motiv della vita umana, che in
fondo è solo fatta da brevi stagioni di canto intenso.
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L’unico suono che riesce a non essere sovrastato da
questo stridulìo è lo stormire delle fronde. Il vento è
come una forza sconosciuta che pare dar loro vita come
fa con le onde che sbattono sugli scogli. I “pungenti”, li
chiamano qui. Perché se ti ci siedi sopra, ti scortichi.
Allora, cerchi di dare al tuo corpo una forma tale che si
modelli sugli anfratti e sulle zone meno scabre. Ma è un
bell’impegno contorcerti tra gli spunzoni e alla fine ti
arrendi e soffri. A vent’anni comunque, non mi importava
niente. Come non mi importava pranzare con uno
schiaccino o dormire in sette in un appartamento per
quattro. Erano le prime vacanze “da sola” con gli amici,
le prime libertà guadagnate con pazienza e fatica e non ci
si lamentava certo se erano all’insegna della semplicità.
Oggi i ragazzi non si accontentano tanto facilmente. Guai
se mancano certe futili comodità, se l’albergo è distante
dalla spiaggia o se il cibo non è lo standard di mammà.
Sempre col cellulare in mano, il look straganzo e il
disinteresse per tutto il resto. Questa noia continua, che li
affligge fin da piccoli, che si stufano subito di tutto e
“non sanno mai cosa fare”. Io da fare ce ne avevo sempre
tanto. Oltre agli studi (piuttosto impegnativi), tanto
volontariato coi bambini e i poveri, tanto amore per l’arte,
i libri e i viaggi e tanti amici con cui divertirsi e
condividere le tipiche fasi dell’età. Ossia gli
innamoramenti, gli scazzi coi genitori, i problemi
scolastici, le fisse coi big della musica e del cinema e i
progetti per il futuro. E chi ci pensava al computer o al
telefonino o ai giochi elettronici…mica esistevano. In
compenso, avevamo tanta voglia di parlare, di ridere ma
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anche di riflettere e confrontarci. Ci piaceva scoprire e
capire e conoscere, Non è giusto criticare i giovani del
trentesimo secolo. Li trovo molto svegli, sensibili e
profondi. Ma, ahimè, estremamente repressi e racchiusi in
un universo microscopicamente limitato a dispetto delle
grandi possibilità che sono messe a loro disposizione.
Forse le troppe opzioni li fanno andare in tilt. E’ tutto
allettante, una vetrina continua di Natale: e come si fa a
scegliere? Come un bambino che si ritrova la cameretta
stracolma di giochi. Dapprima è entusiasta e
sovraeccitato, prova il robot poi la macchinina
telecomandata e infine il Nintendo di Spiderman…poi si
stanca e molla tutto. Il troppo stroppia, dice il mio papà.
Poi viene la nausea e il rifiuto. E il vuoto, un temibile
vuoto che non è facilmente colmabile. Perché è un vuoto
interiore, di pensieri e domande. Vien da dire: meno beni
e più valori per i nostri ragazzi. Ma è così rassicurante
aprire il portafoglio e vederli tranquilli e soddisfatti…fino
alla prossima richiesta. Proporre valori è massacrante
perché bisogna viverli tutti i giorni. Non si può davvero
più predicare bene e razzolare male. I miei genitori né
predicavano né razzolavano. Ma qualche insegnamento
utile almeno sono riusciti a trasmettermelo. Il diritto alla
libertà, quella vera, che è scelta morale prima di tutto.
L’attenzione e il rispetto per il prossimo chiunque esso
sia. L’importanza del lavoro onesto. E la bellezza della
cultura e della natura che aiuta a guardare la realtà con
occhi ripuliti dalle meschinerie del mondo calcolatore. A
loro, alle mie due splendide bambine, Micol e Miriam e a
tutti i ragazzi dedico questi miei ricordi semiveri estivi.
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Che ne traggano un sorriso lieve e magari una
considerazione seria sulla bellezza della vita. In tutte le
sue stagioni.
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ZII E PROZII
Natale non era Natale senza gli zii di Milano. E nemmeno
Pasqua. La loro compagnia chiassosa e affettuosa
riempiva la nostra casa del senso della Festa, quella vera.
Zia, sorella di mamma, piccolina e paffutella, arrivava
carica di pacchetti, con una bella risata sonora, urlando
“naniiii” che in dialetto milanese significa “piccolo/a”.
Anche adesso che ho superato la quarantina, mi chiama
così e devo dire che mi piace tantissimo. Zia è sempre
dolce e sa conservare nonostante tutto uno spirito bonario
anche nei momenti più difficili. Cerca di guardare sempre
al meglio anche quando sembra non esserci proprio
niente di buono. Zio, che ancora adesso è un omone con
due manacce (mi chiedevo se quando lavorava come
panettiere ci infornasse le michette), ci stritolava di
abbracci. Veniva da una famiglia di contadini. La
mamma, un donnone sdentato che sapeva solo parlare il
dialetto santangiolino (di S Angelo Lodigiano ndr) viveva
in una casupola tipo sette nani tutta di legno. Quando ci si
recava da lei era come andare a trovare una attempata fata
nostrana le cui meraviglie consistevano nel comunicare
una sfrenata gioia di vivere. La sola vista di questi zii
metteva sempre allegria. Anche da donne belle cresciute.
Con le cugine era sempre un incontro felice anche se poi
si concludeva in un match di lotta a corpo libero. Con la
grande, nostra coetanea, si giocava a più non posso
mentre la piccola veniva un po’ esclusa dalla nostra
comunella e ne soffriva. Credo che davvero sia stata
sempre un po’ trattata male da noi tre streghe. La
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prendevamo sempre in giri perché era un po’ viziatella e
la escludevamo dalle nostre confidenze e segretucci.
Abitando in un paese e vivendo in una grande casa
circondata da giardino e orto per lo più incolti e perciò
interessantissimi per dei bambini con l’argento vivo
addosso, era naturale che zii e cugine cittadini appena
potevano si catapultavano da noi soprattutto nella bella
stagione. Mollando le figlie a mia madre che le
accoglieva con affetto e poi finiva sempre per pentirsene
amaramente. Vivevamo allo stato brado, scalze e sporche
di terra, arrampicandoci sugli alberi e costruendo rifugi
con scatoloni e stracci. La nostra tenda indiana era
ingegnosissima realizzata unicamente con pali di legno
sottratti ai pomodori dell’orto, mollette della biancheria,
spago, coperte vecchie e antichi nastri sottratti ai cassetti
della nonna che immancabilmente imputava alla sua
ormai debole memoria il mancato rinvenimento di
biancheria varia. Una nostra specialità era allestire un
mercato in cui i prodotti alimentari erano costituiti da
bastoni, sassi, carta, acqua e terra. Il tutto disposto in
bella vista su di una vecchia carriola di legno. Oppure
inscenavamo storie d’amore impossibili con gelosie e
tradimenti. Io facevo sempre la parte maschile. Poi,
quando la stanchezza prendeva il sopravvento, ci
scatenavamo in furibonde azzuffate perché ognuna di noi
voleva a tutti i costi guidare i giochi, essere la regina
piuttosto che il principe e finivano a cazzotti e calci che
solo mia madre riusciva a bloccare. Salvo poi telefonare
alla sorella intimandogli di venire a riprendersi le figlie
perchè non ne poteva più. Con la coda tra le gambe e gli
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occhi pieni di astio, le due se ne andavano dopo aver
ricevuto una bella sgridata da tutti e con la minaccia di
non ritornare mai più. Il divieto durava poco e dopo
qualche tempo le due serpi ritornavano e tutto
ricominciava. Con sospiri e lamenti continui della
mamma che era stanca di rincorrerci con la ciabatta in
mano. Mia sorella era la più tremenda e la più prepotente
ed era anche quella che menava di più. Ma era lei che
proponeva i giochi più originali. E pericolosi. Come
quello che ci fece prendere una gran paura e ci costò una
bella punizione. Ricordo che avevamo all’incirca 8 o 10
anni e faceva un caldo disumano. In casa, una grande casa
della fine ‘700 coi muri spessi mezzo metro si resisteva a
tapparelle chiuse e col ventilatore a manetta. In giardino,
si poteva solo ripararsi sotto il magnifico cedro del
Libano. Era talmente grande che sotto avevamo allestito
una specie di salottino con tavoli e sedie. Dopo aver
torturato una povera cavalletta, raccolto aghi e
accumulato sassi, non sapevamo più cosa fare. Il caldo
insopportabile ci toglieva voglia e forza. La vecchia
fontanella di marmo purtroppo non funzionava più e
quindi non potevamo ricorrere al refrigerio dei suoi
zampilli. E il rubinetto del vecchio lavandino in pietra era
troppo lontano. Una soluzione poteva essere attaccarvi la
lunga canna di gomma che serviva per innaffiare o andare
nell’orto alla vecchia tromba…ma eravamo talmente
instupidite dalla calura da non aver nessuna voglia di
muoverci nemmeno di pochi passi dalla seppur relativa
frescura che le fronde dell’albero ci elargivano. Sdraiate
seminude per terra su rozzi teli rammendati, ognuna di
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noi pensava sicuramente a come passare il resto del
pomeriggio. Di entrare in casa non se ne parlava, la
televisione trasmetteva solo in certi orari e pochissime
trasmissioni per bambini. E sopportare mia mamma e mia
nonna che continuavano a farci raccomandazioni, eh
no…Fu allora che a mia sorella dovette balenare quel
colpo di genio di cui tutte avremmo poi pagato le
conseguenze. Si alzò di scatto e :”E se giocassimo alla
resistenza sotterranea?”. “E cos’è” la guardai un po’
basita. “Allora: scaviamo insieme una bella buca qui
sotto, con le palette e lo zappino. Poi, una di noi si sdraia
dentro e le altre la ricoprono di terra. Vince chi resiste di
più”. Io la riguardai questa volta con molta perplessità.
Ma la cuginetta piccolina che , poveretta, ce la metteva
tutta per farsi accettare nella nostra gang se ne sortì
giuliva :”Dai, dai, che così vediamo chi è la più forte!”. E
siccome la maggioranza vince(mannaggia) , anch’io,
seppur riluttante, accettai la sfida. Con fatica scavammo
la fossa piuttosto profonda tra l’altro. E decidemmo che si
procedesse in ordine d’età. Ora, io fin da piccola ho
sofferto di claustrofobia. E avevo ed ho una paura folle
del buio totale. Quindi, dopo che mi distesi nella buca e
mi ricoprirono di terra, resistetti forse qualche secondo e
attaccai a gridare : “tiratemi fuooori! Voglio uscire!
Soffoooco!” Mia cugina resistette un poco di più, ma
anche lei venne presto presa dal panico e dovemmo farla
uscire. Fu il turno di mia sorella che resistette abbastanza,
ma anche lei si spaventò mica male. E toccò alla
cuginetta che era terrorizzata dalle nostre urla, ma decisa
ad affrontare quella sfida “da grandi” che forse le avrebbe
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guadagnato ola nostra considerazione. Titubante, si
sistemò nella buca, chiuse gli occhi, piegò le braccine sul
petto e noi iniziammo a ricoprirla di terra. Aspettammo.
Niente. Io avevo un orologino, regalo della nonna alla Ia
Comunione. Il tempo passava e la bambina rimaneva
muta. Iniziai ad avere paura. “Secondo me, c’è qualcosa
che non va. Possibile che resista così tanto? Lei che è una
fifona?”. Non mandavo giù la vergogna per la figuraccia
che avevo fatto arrendendomi subito, io che ero ola più
grande, la più saccente e la più saggia. Sua sorella mi
guardò con occhi inorriditi: “Tiriamola fuori, mica sarà
morta?”. Mia sorella, la più spavalda e coraggiosa,
siccome la maggioranza vince (finalmente) fu d’accordo.
In fretta, rimuovemmo la terra e trascinammo fuori la
piccola, bianca comne un cadavere. La chiamammo, non
rispondeva. “Oddio, ma è morta davvero. Vado a
chiamare la mamma!”. La mia coscienza e il senso di
responsabilità (io ero la maggiore) ebbero la meglio e
corsi come una matta in casa, urlando .”Mammaaa!
Mammaaa! Vieni presto, è successa una disgrazia!”. Mia
madre, allarmata dalle mie grida, corse fuori con me,
sotto il cedro e vide la piccina con gli occhi chiusi, cerea
in viso e sporca di terra. “ Ma cosa avete combinato,
cos’è successo?” e intanto si prese la bimba tra le braccia,
chiamandola ad alta voce , toccandola. “Oddio, ma ha
perso
conoscenza!
Portatemi
dell’acqua!”
La
spruzzammo tutta, io muta dallo spavento, mia sorella
che corse via e la sua che piangeva a dirotto.
Fortunatamente la piccola si riebbe e aprendo gli occhietti
disse con una vocina sottile: “Ho vinto?”. Con tutta
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probabilità era svenuta dalla paura. Sospirammo di
sollievo e la portammo in casa. Mia mamma la teneva in
braccio accarezzandola “Siete pazze, pazze! Ma cosa vi è
venuto in mente? Per poco non muoio di spavento!”. Io
raccontai per filo e per segno tutta la vicenda con mia
sorella che mi guardava in cagnesco. Fummo messe tutte
in castigo, dopo una severa ramanzina di mia madre e di
mia nonna, che per poco non svenne pure lei. Alla sera, ci
sorbimmo la predica (molto più dura) di mio padre.
Capimmo che certe azioni che compiamo, al momento
allettanti, possono avere conseguenze estremamente
disastrose. Che prima di agire bisogna pensare a quello
che ne può seguire e quindi fare molta attenzione.
Mia madre telefonò alla sorella con i nervi a fior di pelle
e come di consueto la zia il giorno dopo venne a
riprendersi le pargole. Furibonda, le punì pure lei. Dopo
quell’esperienza, nessuna di noi propose passatempi
troppo avventati. E di quella macabra prova neppure più
se ne parlò. Riprendemmo a giocare al mercato, a
nascondino, agli indiani e alle principesse. più se ne
parlò. Ma la cuginetta ebbe il suo momento di gloria. E
secondo me, ogni tanto lei se lo ricordava e, in cuor suo,
era tutta orgogliosa. Fu l’unica volta che vinse.
Con i prozii, naturalmente la faccenda era diversa.
Eravamo solo noi due bambine con un nugolo di
vecchierelli. Niente spazi all’aperto nella loro casa. Ma
che casa! Era lì che liberavamo tutta la nostra creatività e
la nostra energia. I prozii non si erano mai sposati e
abitavano insieme in una vecchia casa in un simpatico
paesotto dell’Oltrepò pavese. Erano i fratelli e le sorelle
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di nonna e almeno una volta al mese andavamo a
trovarli. L’occasione più bella era la vendemmia. Il
tranquillo borgo si animava e si vestiva a festa. Gli
uomini, a capannelli, parlavano fitto fitto di cosa non so.
Era un continuo incontro di gente tutta contenta che si
salutava e si sorrideva con contadina affabilità. La piazza
si riempiva di bancarelle,si sentiva l’odore delle salamelle
e dello zucchero bruciato del croccante di mandorle. E
uva dappertutto. Certo, per noi bambine erano molto più
divertenti le giostre dove salivamo e non volevamo più
scendere. E a papà toccava urlare. Ma il fulcro del nostro
interesse era sempre la grande vecchia casa delle
meraviglie. Era la casa dei luoghi segreti e dei
nascondigli sicuri. E noi ci perdevamo le ore. La buia
cucina con la stufa a legna e l’acquaio di pietra ci
sembrava quasi l’ antro di una strega e ci incuteva
davvero un po’ di timore. Quando la zia apriva lo
sportello della stufa per ravvivare il fuoco, le scintille
sprizzavano ovunque e noi arretravamo tra il meravigliato
e il terrore mitico. Quasi fosse la fucina del dio Vulcano
che forgia le saette per Giove. Quell’angolo ci attirava ma
non ci metteva s nostro agio. Nemmeno la sala, coi suoi
mobili pesanti e puzzolenti di vecchio ci piaceva troppo.
Ma la ripida scala in pietra grezza da cui
capitombolammo più volte, quella già iniziava ad
affascinarci. Sì, perché portava al piano superiore e alla
soffitta, la mitica soffitta piena di tesori nascosti. Era il
nostro mondo fatato, con i letti altissimi dalla testiera
tutta lavorata e l’armadio pieno dei vestiti e delle gioie
della zia sartina. Questa zia aveva lavorato presso una
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prestigiosa famiglia di Milano come sarta. Aveva così
acquisito, a sentir lei, quella raffinatezza e quel buon
gusto che la distingueva dalle sorelle contadine. Aveva
modi bruschi e nervosi e un linguaggio se non volgare,
perlomeno molto colorito. Era autoritaria e si arrabbiava
per niente. Ma era di indole buona e stravedeva per noi
bambine. Ci confezionava abitini graziosi anche se
semplici e a Carnevale ci preparava sempre un costumino
nuovo. Pescando tra ritagli di sete, trine e rasi, antiche
glorie dei bei tempi, riusciva a realizzare veri piccoli
capolavori. Ci sgridava sempre perché le buttavamo per
aria la camera ma poi ci lasciava fare. Secondo me non si
è mai sposata perché aveva un carattere terribile e aveva
gusti troppo nobili. Chi sarebbe stato degno di
imparmarla, lei così aristocratica e distinta? Lei che si
metteva le piume di struzzo sul cappello (gliele
distruggemmo noi) e i visoni attorno al collo (due povere
bestiole attaccate per la testa che ci arrecarono sempre
disgusto e pietà). Morì investita da un camion quando
avevo 15 anni. Stava attraversando lo stradone per andare
a buttare un mucchietto di spazzatura. Mi dispiacque
molto. La zia maggiore l’ho conosciuta poco, me la
ricordo già malata e a letto, molto grassa e sofferente.
Nonna me la descriveva come una grande e forte
lavoratrice, molto alla buona. Anche lei, un carattere forte
e impulsivo. Il fidanzato le morì a 19 anni. Da allora non
ne volle più sapere di uomini. Poi c’era la zia buona come
un angelo, quella che assistette tutti, madre e fratelli, fino
alla fine e a tale scopo dedicò l’intera vita. In parrocchia
si offriva sempre per i servizi più umili. Era quella che si
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alzava prima di tutti, che lavorava di più e sopportava le
stranezze degli altri con cristiana rassegnazione. Era la
zia più amata, ci viziava tanto, riservandoci sempre
piccole sorprese. Lo zio era vecchio e malandato, quasi
cieco e se ne stava sempre seduto alla finestra della sua
cameretta. Era taciturno e sempre molto arrabbiato,
perché soffriva tanto ed era costretto a starsene sempre
chiuso in casa davanti alla finestra. Ma quando ci
raccontava le gesta dei paladini di Francia e di Gano di
Maganza, il traditore, si trasformava in un leggendario
cantastorie. Le storie, che sicuramente aveva conosciuto
al teatro dei burattini o delle marionette, un tempo lo
spettacolo più atteso e seguito nei piccoli centri, erano
sempre le stesse. Ma noi gliele facevamo ripetere
all’infinito e lui, eccitato, scandiva con voce ferma e
commossa, le ultime parole di Orlando morente che soffia
nel corno. Credo fossero gli unici momenti in cui lo zio si
riscuoteva dal suo triste torpore e, chissà, ricordava i
momenti più belli della sua giovinezza. Noi lo seguivamo
col fiato sorpreso, sedute sulle sue ginocchia, immobili.
Ma l’emozione maggiore era al piano di sopra, la soffitta.
Vi si accedeva da una pericolosa scala in legno tutta
traballante. Se guardavi in giù, ti venivano altro che
capogiri. Era una prova di coraggio che affrontavamo con
risolutezza. La soffitta era un’ ampia stanza con il soffitto
di travi e il pavimento di pietra. Alle pareti, due stampe
che raffiguravano scene della Turandot. Nel mezzo, due
letti giganti e a una parete, un armadio strapieno dei
cimeli delle zie. Cioè, abiti e scarpe d’epoca, che noi ci
infilavamo in abbinamenti impossibili pavoneggiandoci
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come attrici da opera buffa. Era davvero la nostra stanza
preferita, soprattutto in estate quando il caldo era così
forte da impedirci di stare all’aperto. La frescura e la
penombra erano talmente invitanti che passavamo tutta la
giornata lì, a rovistare in cassetti e angoli, alla ricerca di
qualche nuovo trastullo. Finivamo addirittura per
addormentarci sui lettoni. I grandi si dimenticavano della
nostra esistenza. Chiudevamo la porta a chiave e ci
isolavamo dal resto del mondo. Annessa alla soffitta c’era
una terrazzina piena di fiori, di legname, di cesti e di
cianfrusaglie. Era nascosta tra i tetti ed era la propaggine
naturale della nostra stanza incantata. Nel silenzio del
meriggio, nella calma immota e sonnolenta, ci perdevamo
per ore a fantasticare tra le rose e i rampicanti. Lontane
dalla realtà, parlavamo un linguaggio che era solo nostro
e inventavamo storie avventurose e fantastiche. Ma un
giorno successe che chiudendo, come di consueto, la
porta a chiave, questa si ruppe dentro. Era una vecchia
chiave arrugginita e sdentata che girava in una serratura
contorta. Prima o poi sarebbe successo. La prima
sensazione fu elettrizzante: ci sentivamo separate anche
fisicamente dal mondo reale. Potevamo stare nel nostro
meraviglioso solaio per sempre. Festeggiammo con una
danza indiavolata e urla schiamazzanti. Poi, ci
rimettemmo a frugare tra i vecchi cimeli delle zie: le
scarpette della sartina, il ventaglio cinese, la collana di
granate lunga fino alla cintura. Ci rivestimmo da capo a
piedi con quei preziosi cimeli e giocammo per un tempo
infinito alle signore ricche dei tempi antichi, alle modelle
che sfilavano sulla passerella e alle fate-principesse di
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un regno dal nome impronunciabile. Ballammo fino a
sfinirci su melodie inventate al momento continuando a
cadere sui tacchetti delle scarpe troppo larghe. Sudate ed
eccitate, godemmo quel tempo tutto nostro, con
l’entusiasmo e l’energia della nostra bella infanzia.
Infine, crollammo addormentate sui soffici altissimi letti
dalle spalliere scolpite. Avevamo assolutamente perso la
percezione del tempo e sinceramente non ricordo quanto
ne passò. Sicuramente l’intero pomeriggio. C’era ancora
il sole quando ci svegliammo. Sazie di giochi e lazzi,
avevamo fame e sete e solo allora ci rendemmo conto che
eravamo chiuse dentro. La nostra soffitta fatata si rivelò
una prigione dorata e iniziammo a chiamare a gran voce
per attirare l’attenzione di mamma e papà. Ma nessuno ci
sentiva. Probabilmente erano tutti riuniti giù in sala a
bersi una bibita fresca e a chiacchierare amabilmente.
Picchiammo i pugni contro la solida porta di legno
tarlato. Niente. Mia sorella iniziò a piangere. Era stanca
di starsene lì, si era divertita abbastanza ed ora voleva
solo uscire e scendere dagli altri. A me mancava l’aria,
sentivo un caldo soffocante e la gola riarsa. Aprii le
finestre. Per strada, nessuno. Faceva ancora troppo caldo.
La soffitta ci apparve per quello che era: una stanza
polverosa piena di vecchie cose. I fiori finti e i vasetti di
peltro erano poveri resti ammuffiti di pessimo gusto. Le
ragnatele penzolavano dalle travi crepate. E i lettoni non
erano più il giaciglio della bella addormentata.
L’incantesimo si era dissolto. Riprendemmo a urlare,
scuotendo la vecchia maniglia con tutte le nostre forze col
terrore di rimanere confinate per sempre in quella soffitta
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buia dall’aria di naftalina. Ci arrendemmo disperate, con
la testa tra le mani in un pianto inconsolabile. Sentivamo
quanto fosse brutto essere separate da coloro che più
amavamo. Eravamo sole e spaventate. Fortunatamente,
qualcuno salì per andare in bagno e sentì le nostre grida.
La nostra buona zia corse di sopra e, saputo l’accaduto,
cercò di tranquillizzarci. Avevamo anche molta paura di
essere punite per aver rotto la chiave. Mandarono subito a
chiamare un amico fabbro che ci liberò dopo aver
trafficato un poco con la serratura corrosa. La zia e la
mamma videro sicuramente due faccine pallide e
spaventate, bagnate di pianto e non poterono fare altro
che stringerci tra le braccia ridendo non poco della nostra
bella marachella. Di sotto, gli altri ci accolsero con un
bell’applauso e tutto si risolse in una piccola ramanzina.
Soprattutto da parte della zia sarta che di sopra si ritrovò i
suoi due armadi e i cassettoni svuotati e il prezioso
contenuto sparso ovunque. Non ritrovò più le scarpette e
il ventaglio. Chissà dove finirono. Ritornammo a casa,
davvero contente di essere ancora con la nostra famiglia.
Nel nostro lettino, chiudemmo gli occhi serene. Nella
soffitta tornammo ancora, a giocare, ad inventare storie e
a sognare ad occhi aperti. Ma con la porta sempre
spalancata. Per non dimenticare il mondo reale, quello in
cui vivevamo ogni giorno.
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AL MARE, ATTO PRIMO
La notte prima della partenza era la più drammatica
dell’anno. Insonnia garantita. Risvegli continui. E, sin
dalla tarda sera, una nausea insopportabile. La mattina
poi era molto più angosciante: si doveva salire in
macchina ed affrontare un viaggio di minimo sei ore per
arrivare a destinazione. Piombino in provincia di Livorno,
noto perché punto di partenza dei traghetti per l’Isola
d’Elba. Ma noi all’Elba non ci andavamo, rimanevamo a
Piombino che non era località balneare ma la cittadina da
dove i miei bisnonni paterni erano partiti per cercare
lavoro. Allora vi abitavano ancora parecchi cugini di papà
a cui era molto affezionato. E ogni anno si ritornava lì, in
albergo poi in appartamento a trascorrere il mese di
agosto. Ora, a parte la mancanza di attrattive per due
ragazzine (la città di bello ha solo una vecchia cittadella
con porticciolo e una caratteristica piazza-promontorio
che si allunga verso il canale), il vero problema era il
viaggio. L’autostrada della Cisa non era ancora stata
costruita e ci toccava la Firenze –mare. E anche quando
finalmente ci fu la Cisa, si usciva a Livorno e mancava
ancora minimo un paio d’ore di Aurelia tra paesi trafficati
e costa a tornanti. Io soffrivo viaggiare in macchina
(tutt’ora non ci viaggio volentieri e mi rendo conto che
forse ciò risale al trauma infantile del mio viaggio estivo).
Ai tempi non esisteva l’aria condizionata e si partiva per
forza il primo agosto. Papà non sopportava i finestrini
abbassati. Papà è veterinario e la sua macchina sapeva (e
sa tutt’ora) di fieno, di latte e di vacca. Anche se mamma
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la puliva a fondo, quell’odore caratteristico (che in altre
circostanze mi piace moltissimo) impregnava ( e
impregna tutt’ora) tutto l’abitacolo. Quindi riepilogando:
caldo, finestrini chiusi e lezzo di cascina. Per una persona
che già soffre la macchina, non è la condizione migliore
per viaggiare. Poi, il primo di agosto, il rischio che le ore
previste per il viaggio raddoppiassero non era poi da
sottovalutare. Un anno, infatti, impiegammo 12 ore. Con
nonna, davanti, che a Cecina vide il camion davanti tutto
d’argento. E noi, dietro con mamma, a rimettere tutti gli
ultimi succhi gastrici rimasti nel povero stomaco. Ma la
parte peggiore erano i tornanti di Castiglioncello: quel
meraviglioso saliscendi tra i pini marittimi a picco sul blu
del mare si trasformava in un viaggio allucinante in un
girone infernale. Solo rifacendolo anni dopo, mi sono
resa conto di quanto fosse bello. Allora, era il punto dove
le contrazioni gastriche si facevano insopportabili. Gli
stomaci erano prosciugati, credo non ci rimanesse più
nemmeno una goccia d’acqua. Papà non si fermava mai,
voleva arrivare alla meta. Ci aspettava Maggiorina, la
moglie del cugino di papà, una deliziosa signora di
mezza età che ci preparava sempre delle leccornie a base
di pesce. Noi, stravolte, con mamma ridotta ad uno
straccio puzzolente la vedevamo come una cara fata che
ci ritemprava il morale con un abbraccio e un sorriso
dolcissimo. Quanto a sistemare lo stomaco, ci volevano
almeno un paio di giorni. Comunque , l’aria frizzante e i
bagni ci rimettevano presto in sesto. La meta che io
amavo di più era il Golfo di Baratti, quella piccola
splendida mezzaluna di sabbia ferrosa sovrastata dalla
18
rocca di Populonia. Da lassù si vedeva la macchia
mediterranea dal forte odore di finocchio selvatico
gettarci ripida nel mare della Buca delle Fate. Qualche
volta sentimmo i …dei cinghiali maschi in amore,
immaginammo le loro lotte per la femmina e avvistammo
una mamma seguita dai suoi piccini striati. Salivamo
sulle mura antiche e aspiravamo la brezza marina e
l’umido delle pietre. Vicini, gli scavi delle tombe
etrusche. Un anno, con mia grande gioia, papà ci portò a
visitarle in mezza Toscana. Mi documentai
minuziosamente e mi appassionai a questa antica civiltà
nostrana. Mia sorella invece si ruppe totalmente le scatole
e rognò per giorni. Quello è il mare della mia infanzia e
ancora oggi, quando mi capita di andarci, mi ci sento
bene. Sarà che nel mio DNA c’è un pezzettino di quei
posti …il richiamo a quei colori e a quell’azzurro intenso
è sempre forte. La Padana non mi è congeniale con i suoi
ritmi frenetici, troppo concreta e poco fantasiosa. Trovo i
suoi sapori scialbi. Manca di aromi resinosi e secchi. E
raramente, le sue tinte assumono tonalità spiccate e
contrastanti. Io amo la mia pianura, la amo
profondamente, la campagna quieta con i fossi e i pioppi
raggruppati. E la sua gente onesta e laboriosa anche se un
po’ restìa. Ma dentro ho un angolo di mare e colline aspre
che fatico a trattenere. E una giocosità un po’ irriverente e
una espansività un po’ saccente che non sono
propriamente lombarde. E troppa passione per l’olio, il
pomodoro e il pesce. Però papà vinse la condotta qui…e
qui ci stabilimmo. Ogni tanto tira fuori la storia che
avrebbe potuto vincerla a Suvereto, in collina vicino a
19
Piombino.
Baratti, insomma, era il mio mare preferito anche se per
raggiungerlo ci toccavano venti minuti di macchina.
Allora la spiaggia era tutta libera e poco frequentata.
Piantavamo l’ombrellone, stendevamo gli asciugamani
(per nonna la sedia pieghevole) e iniziavamo la tiritera di
suppliche per poter fare il bagno. Era un vero supplizio
aspettare anche più di un’ora per entrare in acqua. Le mie
figlie stressano nello stesso identico modo sia al mare che
in piscina. Ma adesso sono io quella che le tiene a freno.
Mi distraevo un po’ giocando con Paolo piccolo (perché
il grande era suo nonno), un bel ragazzone adolescente
che ricordo con piacere, perché era “uno già grande” (e
pure molto carino) che perdeva tempo dietro a me ancora
piccolina e rompiscatole. Ricordo che si divertiva
facendo mi un sacco di scherzi e prendendomi i giro e io
(che invero, ero un po’ innamorata di lui) ne soffrivo in
pochino e mi arrabbiavo molto. Quando finalmente
ottenevamo il permesso ci buttavamo in acqua e ci
saremmo state per l’intera giornata. Io ho imparato a
nuotare a 8 anni e mi godevo un mondo quel bagno così
desiderato. Con pinne e maschera perlustravo i rari
scoglietti. Ancora oggi ho una vera passione per l’acqua e
i suoi abitanti. Non ho mai temuto l’elemento liquido e i
suoi abitanti e a torto, perché mi costò qualche disagio.
Quel giorno non andammo a Baratti, ma sotto Piazza
Bovio. Non era granchè come mare, anche perché ci si
arrivava con una scalinata ripida e scomoda che non
finiva più, Ma c’erano tanti scogli e tutto un mondo
subacqueo da esplorare, Munite di pinne e maschera, io e
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mia sorella ci cimentammo in quello che adesso viene
chiamato “snorkling”. Cioè, osservare la natura
sott’acqua. L’acqua era piuttosto bassa e pulita. Bella
giornata. Gli scogli che volevamo perlustrare erano
vicinissimi alla riva. Io davanti, dietro mia sorella.
Battendo vigorosamente le pinne, mi avvicinai a uno
stretto passaggio tra due scogli letteralmente ricoperti dai
ricci. Nonostante mia sorella mi sconsigliasse, volli
passare attraverso il pertugio per osservare meglio gli
aguzzi echinodermi. Mia sorella mi seguì suo malgrado.
Purtroppo il passaggio era davvero molto stretto e l’acqua
bassa e io per uscirne al più presto (iniziai a temere di
farmi male) battevo sempre più velocemente i piedi non
accorgendomi di picchiare le pinne sulla faccia della mia
malcapitata congiunta. Che, non vedendo più niente, andò
a sbattere contro i ricci e si riempì le gambe di aculei.
Uscimmo più in fretta che potemmo e solo allora mi
accorsi di avere i polpacci pieni di spine. Piangendo
disperatamente e litigando (in fondo la colpa era mia),
fummo soccorse da papà e mamma che ci estrassero le
dolorose punte e ce le medicarono. Alcune (erano
davvero tante) non si poterono togliere e uscirono dopo
qualche giorno. Io, che ero una bambina prudente, mi resi
conto che avevo sottovalutato il pericolo. Per la mia
curiosità, avevo causato un disagio anche a mia sorella.
Tutte le volte poi che, successivamente, mi lanciai nelle
mie perlustrazioni sottomarine, mi ricordai di questo
piccolo incidente. Sorridendone. Sempre a quella povera
tapina, e questa volta a Baratti, feci prendere un bello
spavento. Papà ci aveva preso un canottino di quelli
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gonfiabili con due minuscole pagaie. Avrò avuto otto
dieci anni al massimo e mia sorella due in meno. Tutte
eccitate al pensiero di una bella crocierina, entrammo
nell’acqua calma e iniziammo a remare. O meglio a
tentare di remare, visto che una voltava il remo in una
direzione e l’altra in quella opposta. Il tempo era
meraviglioso ed era un vero piacere trovarsi in mezzo al
mare liscio sotto un bel sole. La corrente però, senza che
ce ne accorgessimo, prese come eravamo da questa nuova
impresa, ci portava lentamente sempre più lontane da
riva. Me ne accorsi io, allorchè guardando verso la
spiaggia vidi ombrelloni e persone piccolissimi. Iniziai a
chiamare aiuto e a remare. Come mi veniva. Insomma,
mi prese il panico. La minuscola imbarcazione non si
spostava di una virgola. Mia sorella si rese conto che la
situazione era disperata. E iniziò a piangere. Io urlavo
che mi volevo buttare in acqua. Ma la piccola non sapeva
nuotare. Io in quel momento me ne fregavo. Pensavo di
spingere il canotto nuotando fino a riva. La sorellina era
terrorizzata, aveva paura che la lasciassi lì sola in mezzo
al mare. Forse le nostre grida giunsero fino alle orecchie
di papà, forse lui si accorse che non ci vedeva più tanto
bene…sta di fatto che guardando verso la spiaggia,
intravidi la sagoma di una persona che mi pareva lui.
Agitava le braccia e noi allora urlammo più forte. La
sagoma si gettò in acqua (erano anni che non lo faceva) e
con poche vigorose bracciate, ci raggiunse,. Dopo averci
dato più volte delle somare, ci trascinò a riva. In salvo.
Mia sorella tremava come una foglia. Ancora una volta,
la mia imprudenza ci aveva giocato un brutto scherzo.
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Ricordammo questo episodio per anni. Come anche
quello dei ricci. E mia sorella ripeteva in continuazione
che erano state,forse, le uniche volte che le avevo
combinato un guaio. Di solito, infatti, quella che ne
faceva di tutti i colori era lei.
AL MARE, ATTO SECONDO
23
A CASTIGLIONCELLO
Stufa di seguire i miei nelle solite noiosissime vacanze a
Piombino (ormai ero in piena adolescenza e ne avevo
abbastanza di spiaggia libera, giretto pomeridiano in
Cittadella e a sera a letto alle 22), iniziai a insistere per la
vacanza con gli amici. Primo esperimento: al mare a
Viserba nell’alberghetto del papà di un compagno di
classe con mamma e sorella a seguito, ma molto defilate.
Giusto per una supervisione. E per la tranquillità dei
genitori. Ma potevo fare un po’ quello che volevo,
naturalmente nei giusti limiti. Discoteca, passeggiata per
la “vasca” (la via principale), bagno notturno ecc…andò
benissimo, anche mamma era felice (pure lei si faceva
una vacanza un po’ diversa, tra balere e piadine).
Meno,per la sorella che più giovane di me, veniva trattata
malissimo da tutti perché troppo “piccola”. Io non la
volevo mai tra i piedi. Così l’anno dopo, ormai quasi
maggiorenne, me ne andai da sola (sempre a Viserba nel
solito albergo) con gli altri della compagnia. E ci
divertimmo da matti. Ma la vera Vacanza estiva al mare
per me fu sempre (e rimane) Castiglioncello e dintorni.
Conobbi Grazia in montagna l’estate della maturità (a S
Cristina vicino a Selva di val Gardena : ma questa è
un’altra storia che racconterò). Arrivò in ritardo, tutta
sudata dopo ore di treno e con un valigione spaventoso.
Io ero al balcone di Villa Capriolo, la casa vacanze dei
gesuiti che avrebbe ospitato le vacanze più intensamente
spirituali della mia vita. Con me, altre ragazze appena
conosciute. Tutte eccitate perché stavamo per fare
24
un’esperienza unica. La guardammo, tutta sudata, urlare
qualcosa con uno spiccato accento toscano (livornese). La
invitammo subito a salire da noi. Iniziò così una delle
amicizie più importanti che continua tutt’ora nonostante
gli anni, i figli e le preoccupazioni. La primavera dopo
(un 25 aprile, credo) ero già da lei a Castiglioncello. La
casa in via dei Macchiaioli, dove un secolo fa
passeggiavano i pittori ogni giorno fino a Rosignano
Marittimo, è ancora lì con il giardinetto e il cancellino
sempre aperto. Scesa alla stazioncina, respirai l’aria
piena di pino e di salmastro. E la pineta verde appena
fuori mi spalancò gli occhi e il cuore. La Fiat 1 di grazia
polverosa e col freno difettoso mi portò su è giù per le
viuzze strette fino alla sua casa. Il sorriso di mamma
Fausta e gli occhi azzurri di babbo Aldo furono le cose
che più mi colpirono. Iniziò così una storia d’amore e di
tenerezza destinata a dilagare e a comprendere tanti
ragazzi e ragazze che con la scusa delle vacanze,
andavano in casa Cantini per respirare un’atmosfera di
gioia, affetto e bellezza. Per sentirsi accolti e ascoltati.
Per riposarsi dall’ansia e dalla paura di crescere e trovare
una pausa di serenità e dolcezza. Per rilassarsi con i piatti
meravigliosi di Fausta, vere trasfusioni di gusto e
attenzione. E per ridere, ridere, ridere con Aldo, la cui
somiglianza con Alberto Sordi era un pretesto per ridere
ancora di più. Fausta è umbra e si è portata da Assisi
quell’atteggiamento nei confronti della vita sempre
pacato e soave anche nei momenti peggiori. Aldo è morto
tragicamente quattro anni fa schiacciato dal piccolo
trattore che guidava su alla terra. Deve essere caduto
25
chissà come dal veicolo in movimento e se l’è ritrovato
addosso. Grazia mi ha chiamato una sera di luglio
piangendo e io ho sentito tanto freddo addosso. Al suo
funerale c’era tutto il paese e anche più . Se ne era andato
un uomo buono e onesto, cordiale e generoso. E se ne era
andato il mio babbo Aldo. Che mi aspettava ogni estate
con i suoi begli occhi chiari e trasparenti e mi prendeva in
giro quando, sconsolata, me ne ripartivo. “ Pè tutto quello
‘e ti sei mangiato, ti metto fori il conto!”. E rideva. E io
mi sentivo meno triste a lasciare quella casa meravigliosa
e quella famiglia così bella che era un po’ anche la mia.
Che era quella di tutti noi amici di Grazia. Solo la scorsa
estate sono riuscita ad andare a trovare Aldo al cimitero.
A Ferragosto, con vento e nuvoloni, un Ferragosto da
schifo, tutto il giorno in casa con i bambini. Saltato il
pranzo al mare e le bancarelle su a ...Ma da Aldo ci si
poteva andare. Su per una stradina in mezzo al bosco, in
un piccolo cimitero, quasi un giardino isolato dal mondo,
ho ritrovato il suo sguardo limpido dietro una profusione
di fiori colorati. Una scritta “Babbo Aldo”. Con me c’era
Miriam, la mia piccola. Le ho detto : “Per te, è Nonno
Aldo”. Da quel giorno, nelle preghiere della sera,
abbiamo voluto aggiungere quello per nonno Aldo che ci
protegge dal Cielo. Mia sorella ha rivisto Grazia
quest’anno, dopo la tragedia. L’ultima volta che era
andata a trovarla, l’ho chiamata per dirle che la nonna era
in coma. Quando l’ha incontrata, ha pianto tutta una sera.
Non era riuscita nemmeno a scriverle una lettera per la
morte del nostro Babbo Aldo. Fausta ora è una fatina dai
capelli candidi. Sembra piccina piccina, esile esile. Un
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soffio di vento parrebbe strapparla via. Ma il viso, pur
solcato da nuove rughe e velato dalla malinconia, è
sempre lo stesso di quella giovane graziosa signora che
mi diede un bacio sulla porta di casa più di vent’anni fa.
E la sua voce bassa e dolce, impastata solo un poco di
toscano, mi accarezza ancora come allora.
Ci sistemava ovunque, in camera con le figlie, nella
cameretta attigua o sui divani. Alla mattina in bagno, una
processione. E sebbene fossimo maschi e femmine
nessuno faceva troppo caso all’abbigliamento spesso
succinto di chi incontrava in corridoio. Dormivamo tutti
insieme (dormivamo…e basta) il che farebbe davvero
sbellicare i ragazzi d’oggi o meglio commentare
volgarmente per le occasioni di sesso che ci perdevamo.
Ma a noi, non interessava mica solo quello. Ciò che
sperimentammo sia a Selva che in quella casa fu
soprattutto la bellezza di amicizie sincere e profonde (che
poi magari finirono anche..in altro modo) che ci
accompagnarono per lunghi anni. La spontaneità negli
affetti la imparammo in queste modeste scuole. Non ci
vergognavamo di regalarci vicendevolmente effusioni e
attenzioni innocenti. Apprezzammo la genuinità
terapeutica degli abbracci, delle carezze e delle parole
buone. Come pure il mangiare bene insieme.
La colazione, a turno quando eravamo tanti, si faceva in
cucina con la marmellata di more fatta in casa e il pane
toscano a fette, che per me è sempre una golosità, oppure
la torta casalinga coi pinoli.
Fausta era sempre intorno, discreta e taciturna. Ma la sua
presenza era manna, sempre. Al mare, andavamo a piedi
27
(la discesa era circa mezzo chilometro), tutto uno
zigzagare tra le viette dietro la ferrovia oltre la quale c’era
la famigerata Aurelia. I “pungenti” ci aspettavano, belli
puntuti e scabri. E noi, con solo un salviettone di spugna
strausato, avevamo un bel coraggio a sdraiarci là,
adattando le forme tra un pungente e un altro, sotto il sole
a picco. Lì mi presi le scottature peggiori della mia vita:
schiena (terribile, ne porto i segni anche ora!), pancia,
piedi, petto e perfino orecchi e occhio (ancora peggio!).
Anche buttarsi in mare era una bella impresa: camminare
fino al mare tra i sassi aguzzi anche con le ciabattine era
un bel fastidio! Ma, peggio, era risalire sulla scogliera
soprattutto col mare un po’ mosso. Alle 12.30 era
irrinunciabile la schiacciatina al baretto poco distante. E
poi ancora sotto il sole fino alle 19 circa. Nel frattempo si
giocava a carte (briscola a chiamata, “el ciamìn” che
suscitava furiose litigate perché non si capiva mai chi era
il compagno di gioco) o con la palla. Ogni tanto ci faceva
visita il Robi (Roberto Gazzaniga, un nostro amico
gesuita di Selva) che da sempre si fa le vacanze a
Castiglioncello (beato lui!) e vci faceva compagnia col
suo sorriso bonario e l’immancabile pipa. Lo adoravamo
perché per noi era u prete di quelli “giusti”, uomo di
mondo (è entrato tardi in seminario) e sgamato quanto
basta per capire e interpretare le irrequietudini dei
giovani. Di fatto, dietro il suo aspetto simpatico di ometto
cicciottello si presenta un uomo con un carisma
eccezionale, esperto di pastorale famigliare e giovanile.
La sua voce carezzevole rimane per me un caro ricordo di
consigli illuminanti e assolutamente veritieri che mi
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sostennero non poco in quegli anni. La sera si rientrava
stravolti (troppo sole e bagni? Mah!) e non si faceva gran
vita notturna. Ma ci divertivamo un mondo. Come quella
volta che Grazia, sempre fervida di idee, si inventò
l”’indianata” con tanto di falò in spiaggia ai Bagni Roma.
L’”indianata” non è altro che un gioco di gruppo durante
il quale bisogna fare dei giochi e chi perde beve. Vino. E
chi inizia a perdere e non regge molto l’alcool è destinato
a continuare a bere, perché diventa sempre meno vigile a
causa del graduale aumento di ebbrezza. Chi conduceva il
gioco era il nostro amico Andrea (detto anche ”Proietti” a
causa dell’evidente somiglianza con il noto attore). A noi
ragazze era molto simpatico (un vero istrione) e piaceva
pure parecchio per il fisico da giocatore di basket. Ora,
questo disgraziato quella sera si era fissato con me e
aveva iniziato a fare giochi per me piuttosto difficoltosi
(sono sempre stata imbranata nelle prove di velocità o di
destrezza). Quindi, avevo attaccato a bere. E a bere
sempre più. Poi, fu la volta di Grazia. E pure lei, giù a
bere. Alla fine, eravamo tutti allegrotti, ma io e la mia
amica un po’ di più, anche perché non eravamo avvezze
al vino. Spento il falò, tutti bei contenti e ridanciani,
dovevamo però tornare a casa. E Grazia era in motorino,
il “Ciao”. Cosa ci prese, non lo so. Sarebbe stato prudente
lasciare il motorino da qualche parte (ma dove? Era già
tardi!) e farsi accompagnare a casa. E invece, cosa fecero
le due sventate? In due sul motorino, mezze ciucche,
sull’Aurelia e poi sulle stradine su è giù, piene di buche
su fin dopo la ferrovia dove c’è casa Cantini. E non
eravamo più tanto ragazzine, ma ultraventenni. Alla
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faccia delle prediche che adesso faccio ai miei studenti su
quanto sia stupido e dannoso bere alcol. Ribevvi ancora
qualche anno dopo, a casa di Andrea (perché c’era
sempre lui di mezzo?), sempre durante un’”indianata”,
condotta sempre da lui, ma lì mi prese male, Grazia mi
fece bere caffè salato (che schifezza!) e non arrivai al
water.
Furono le uniche sbornie degne di nota, a me piace il vino
e la birra, ma solo finché mettono una sana allegria.
Anche quando andavamo in discoteca, soprattutto
all’aperto (alle “Spianate” o al “Ciucheba”, la disco “in”
di Castiglioncello), niente drinks alcolici, al massimo il
frate con la crema e il cappuccio alle cinque mentre
rincasavamo.
Ritorai per il matrimonio di Grazia che fu un’orgia dello
stomaco, e per il battesimo di Leonardo, il primo figlio.
Poi, con marito e figlie. L’accoglienza non era cambiata,
Grazia, la Fausta, Aldo, Alessandra e Massimo erano
ancora gli stessi, con qualche ruga e un sorriso in più,
l’amore di quella meravigliosa famiglia è uno dei regali
più preziosi che la vita mi ha fatto e continua a farmi.
VILLA CAPRIOLO
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Eravamo finalmente “maturi” dopo cinque anni di galera
al liceo ginnasio. Vero che un po’ ci dispiaceva, nella
nostra classe si erano creati legami unici di amicizia e
solidarietà. Anche qualche amoretto finito poi senza tanti
patemi, solo una scottatura che strinò non poco, ma poi
col tempo passò. La fatica di quegli anni fu davvero tanta,
i sabati e le domeniche a studiare e pure di sera. Svaghi
non molti, qualche festa e un po’ all’oratorio ma
nemmeno troppo. Sport, e chi lo faceva allora? Col prof
di italiano che il sabato per il lunedì ti sbatteva lì 2000
versi dell’Orlando Furioso o un canto della Divina
Commedia praticamente a memoria o con quello di
matematica che ti spaventava a morte e se avevi fatto
colazione e ce l’avevi alla prima ora correvi in bagno a
star male? Non si scherzava mica, nemmeno con la
disciplina. Il preside ti urlava dietro mica male se
sgarravi. E capitava nei bagni a sorpresa. Fumare,
fumavano. E non solo tabacco. Ma quando ti sgamavano
eri davvero nei guai, i genitori mica perdonavano o
giustificavano. Sulla moto, in cortile, non si entrava. Il
preside dalla finestra ti richiamava a squarciagola. Io vissi
la scuola superiore a pane e studio oltre che all’affetto dei
miei compagni. E se mi rammarico di non essermi
divertita abbastanza quando ne avevo l’età, sono però
grata delle lezioni che ho assimilato e che ancora oggi mi
servono. A ricordare che la vita non è profumi e balocchi,
che solo il sacrificio e il lavoro duro portano alla
realizzazione di qualcosa di importante e bello. E ad
apprezzare lo svago divertente ma fruttuoso. Il perdere
tempo fine a sé stesso non lo sopporto. Piuttosto dormo e
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ritempro fisico e mente. Ma ciondolare senza combinare
niente, no. Se proprio posso permettermi un po’ di ozio,
leggo, disegno, scrivo, vado a fare acquisti, telefono a
qualcuno, mi vedo un bel film. Il nulla proprio no. E
anche per l’estate della maturità, bisognava escogitare
qualcosa di carino, ma anche utile. Perché è un’estate
speciale. Durante la quale riposarsi ma fare anche magari
qualche bella esperienza, un bel viaggio, studiare l’
inglese, un corso di sub…le possibilità sono infinite. E io
con Bea e Lucia, due mie compagne, optai per Selva.
Loro c’erano già state ed erano entusiaste. Una vacanza
“diversa” durante la quale si conosceva gente che veniva
da tutta Italia e si stava insieme con grande semplicità,
allegria e affabilità. Insieme si rigovernava la casa, si
serviva a tavola, si pulivano i bagni e le scale. E una
signora in pensione, volontaria, ci cucinava. Si faceva
esperienza di comunità. Ma soprattutto si ascoltava e si
era ascoltati. E si pregava. Mattina, pomeriggio e sera.
Ora, io ero credente ma mica tanto praticante. Fino alla
terza media sono andata a catechismo dalle suore la
domenica. Poi avevo frequentato un po’ l’oratorio con
l’Azione Cattolica ma perché mi ci invitavano gli amici,
io facevo un po’ il soprammobile, non partecipavo
attivamente, me ne stavo li quieta. E mica capivo troppo
quello che dicevano. Ma, forse perché avevo finito con
l’impegno scolastico duro e mi si apriva davanti la
prospettiva liberante dell’università a Milano (ambiente
nuovo, gente nuova e soprattutto le materie che più
amavo), o la curiosità per questa esperienza che sembrava
così coinvolgente…ebbene, accettai la proposta, e con lo
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zaino e gli scarponi nuovi di pacca che mamma mi aveva
regalato per la maturità, mi imbarcai in questa avventura
di cui ancora oggi, dopo quasi 25 anni porto i segni
profondi. Descriverla a parole, non è possibile. Non le
trovi. Bisogna esserci e provare. Allora ti rendi conto,
almeno un po’, in che faccenda ti sei infilato. E se la
prendi sul serio, non te ne liberi più, anche se a Selva non
ci ritorni. Sono vent’anni che non rivedo Villa Capriolo,
ma è come se fosse ieri. Mi si è scolpita dentro. Rivedo la
salitona del Maciacconi (il negozio di articoli sportivi), il
sentierino che portava attraverso il prato verde alle due
belle costruzioni. Villa Capriolo. Donata ai Gesuiti da un
benefattore che desiderava un rifugio sereno per i piccoli
e i grandi alla ricerca della pace per l’anima e il corpo. Le
camerate spartane coi letti a castello in legno grezzo e il
bagno in corridoio. Mica tanti i bagni. Ma nessuno si
lamentava. La zona bar, gestita anche quella da noi
ragazzi, inesperti nel preparare caffè e cappucci (toccò
pure a me, una volta, col mio mitico amico Galli) ma
pronti a servire un sorriso caldo. Ma soprattutto, ricordo
la cappellina bassa dalla luce soffusa col piccolo altare
ricavato da Pietro, un fratello gesuita, da un tronco di
legno col crocifisso sovrastante. Lì per me si riassume
l’essenza di Selva, le lodi recitate col Robi Gazzaniga
dalla voce carezzevole e suadente e le messe tutti seduti
in cerchio, le preghiere spontanee e la comunione
passandoci particole e vino di mano in mano. Lì ho
conosciuto Qualcuno che ha cambiato profondamente la
mia vita. Gesù di Nazareth non è stato più per me solo un
grande personaggio storico. Ma un uomo con dentro un
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mistero grande d’Amore. E che dopo 2000 annoi ha
ancora qualcosa di bello , estremamente bello da dire.
Perché la nostra vita sia più buona. E gli amici che hanno
condiviso con me quell’esperienza sono sempre nel mio
cuore. La mia Grazia ruspante dal cuore d’oro, la mia
dolcissima Bea, la Daniela così simpatica, il trio Galli,
Andrea (il Proietti) e Uzzimen (Fabio, tenero Fabio). E
Padre Filippo, che ora purtroppo non è più tra noi, se l’è
preso la montagna in una piovosa giornata di aprile di
quest’anno. Filippo, così bello e così pieno di luce, che
mi ha tenuto per mano lungo quella nuova strada che
senza volerlo mi ero trovata a percorrere. Che mi ha preso
per mano tante volte in montagna, che mi incoraggiava a
proseguire la salita quando non ne potevo più, che mi
faceva vedere con occhi nuovi il buono che c’era in me e
intorno a me. Silvano Fausti l’ho scoperto là. Lui, il
teologo che aveva studiato in Germania, dalla strana
accentata di bergamasco, che leggeva direttamente il
vangelo dal greco. Uomo di poche parole, molto timido e
riservato. Ma quando quelle parole uscivano, non esisteva
nient’altro intorno. Tutti si concentravano su quel viso da
montanaro con la barba brizzolata che iniziava a
raccontare. E’ stato lui l’ultimo a vedere Filippo rotolare
giù dalla montagna. Fino alla fine, compagni e fratelli.
Così diversi. Un pacato filosofo e un austero tenace
teologo. Capaci insieme di grandi cose. La loro grande
risorsa
era il silenzio. Uno dei più profondi che io abbia mai
conosciuto, perché non era solo assenza di rumore. Era
pienezza di senso. Anche quando col Robi si facevano i
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sogni guidati e gli psicodrammi, dove si era chiamati a
esternare paure, stati d’animo, ferite e dolori e a riviverli
col pretesto di una messinscena, il silenzio era denso di
significati. E le parole erano scelte con cura, dosate con
attenzione. Com’è brutto sprecare le parole, fare discorsi
sciocchi e insensati! Quando scopri quanto sia importante
quello che dici e come lo dici, diventi insofferente ai
discorsi futili, ai pettegolezzi e alle maldicenze. La parola
dovrebbe servire ad altro, a comunicare qualcosa di
giusto e bello. O a denunciare e condannare ciò che non
lo è. O a portare conforto o allegria. Ma le insulsaggini
dovrebbero essere bandite dalla bocca come dal cuore. A
Selva non c’è proprio posto per le stupidaggini. Anche se
il clima è disteso e gioioso, capisci subito che sei lì per
qualcosa di serio. E decisivo per la tua vita. E senti che è
giusto così, quel momento deve essere così. La gente che
arriva lì da tutta l’Italia e di tutti i tipi lo sa. Le milanesi
Stefi rasta e la Paola da centro sociale come il gruppo
semipastorizio dei sardi e il trio colto dei lecchesi (i
mitici Galli, Andrea e Uzzi) avevano in comune con tutti
questo impegno a vivere insieme l’esperienza di Selva.
Poi, magari, tornati a casa, hanno ripreso la vita di sempre
senza particolari sconvolgimenti. Ma io credo che non
puoi tornare ed essere sempre lo stesso di prima. Magari
solo poco poco ma sei cambiato. Anche i momenti di
svago e divertimento (e non erano pochi) erano diversi.
Durante le gite in montagna (memorabile e faticosissima,
ma memorabile, il mega gitone dell’alba, partenza all’1 di
notte per arrivare alle 7 in cima a fare colazione con pane
e nutella cantando i canoni di Taizè di Filippo mentre
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spuntava l’alba) tutti aiutavano tutti e ci si aspettava,
nessuno tirava avanti se l’ ultimo della fila si fermava. Si
dividevano i panini mezzi sfatti e le mele. Chi era più
robusto portava gli zaini delle vettovaglie. E chi era senza
fiato veniva preso per mano e accompagnato. E mi
ricordo ancora quel canalone tremendo io per mano ad
Andrea e Bea con Fabio, Grazia col Galli a correre giù
coi sassi che ti entravano ovunque e a ridere come scemi
e a scivolare, a rialzarsi e a cadere di nuovo…
Sono ritornata con gli occhi pieni di lacrime e di gioia. La
mia casa non mi sembrava più la stessa. Ero io che e non
ero più la stessa. E tutto incominciò. Spole tra Paullo e
Milano, tra Milano e Lodi, Castiglioncello e Lecco. Per
ritrovare amici, per incontrare i Padri, per ricordare e
stare insieme. Ho vissuto come una nomade per qualche
anno. Sempre con la valigia in ballo. E tante tante belle
occasioni di crescita personale da sfruttare. A Selva ci
tornai ancora, una volta in estate e 4 volte in inverno. Ma
non fu più come la prima volta. Non ero più la ragazzina
secchiona, dagli orizzonti un po’ limitati, che per la prima
volta si apriva a un nuovo modo di essere. Con
l’università a Milano e tutta questa nuova gente accanto a
me, mi allontanavo sempre più dalla vita paesana paullese
che mi andava ormai decisamente stretta e iniziavo a
camminare da sola alla ricerca di me stessa. Comunque,
Selva rimase sempre per me un punto fisso di riferimento
costante per confrontarmi man mano sulle scelte che mi
trovavo a fare. Ritornarci era come ritornare a casa.
36
MAGNA GRECIA UNO E DUE
Col periodo universitario, avvennero non pochi
cambiamenti. Prima di tutto, l’incontro con la metropoli,
37
Milano. Affascinante, ricca di chiese e musei, mostre
d’arte e rappresentazioni teatrali. I miei luoghi preferiti
erano (e sono) Palazzo Reale e il Museo di Storia
Naturale. E la Cà Granda, l’antico ”Spedale dei poveri”
progettato dal Filarete, ora sede dell’Università. Le
stradone sovraffollate, la
gente perennemente agitata e i negozi sfavillanti non mi
hanno mai conquistata granchè. Non amo la confusione e
la folla né la mercanzia di lusso. La vasca in Corso
Vittorio Emanuele, quella sì. Locali in mai frequentati, né
discoteche. Solo qualche volta a spasso sui Navigli. Ma
Milano per me era soprattutto cultura, apertura mentale e
nuove conoscenze. E Padre Filippo, dal quale mi recavo
regolarmente per parlare e per pregare. All’università
conobbi un sacco di gente (soprattutto ragazze, e per
forza a scienze biologiche di maschi ce n’erano pochini).
Lì incontrai Laura e Elena, due genialone che pigliavano
tutti 30 senza studiare granchè (ma io non ci ho mai
creduto!). Erano due ragazze piene di vita e di
entusiasmo. Anche loro, come me, reduci da anni
sacrificati sui libri, avevano voglia di divertirsi e
muoversi. Io continuavo le mie spole tra Lombardia e
Toscana. Loro programmarono un’estate in Grecia con la
tenda. Io accettai subito. Le reticenze dei genitori furono
vinte dalla presenza di un amico più anziano di noi che ci
avrebbe “protetto”. In realtà, eravamo capacissime di
difenderci da sole. Programmammo un itinerario nel
Peloponneso, nella Grecia classica, con una puntata a
Creta, con soggiorno al mare. Un viaggio di quasi un
mese. E con lo zaino regalato da mamma l’anno prima e
38
tanta voglia d’avventura, mi imbarcai a Bari per Patrasso.
Eravamo così felici di quella libertà che finalmente ci era
concessa, quelle vacanze un po’ randagie e insolite ci
facevano sentire capaci di tutto. Dormivamo in
campeggio, ma anche in spiaggia o alla stazione.
Mangiavamo dove capitava, a volte anche bene (amo la
cucina greca, le verdure, il pesce, l’agnello e lo yogurt) a
volte frutta o un po’ di pane. Ma andava bene così, un
paio di pantaloncini e una canotta, sandali di cuoio e un
cappellino in testa. Adesso, non potrei fare a meno di una
bella camera con bagno e l’aria condizionata. Ma a 19
anni a me importava solo vedere, conoscere, girare e
divertirmi. Ci spostavamo in autobus, con l’autostop o
con il traghetto. Atene fu una gran delusione, Acropoli a
parte, il resto era un caos bisunto e fastidioso. Olimpia,
Corinto e Micene, invece, piene di aromi di resine e di
suggestioni antichissime. Quasi mistiche. Soprattutto
Olimpia, così verde e fresca, dove camminai nello stadio
che vide le prime Olimpiadi. A Corinto predicò San
Paolo e mi soffermai davanti al luogo dove proclamò le
sue parole ai Corinti. Micene è indubbiamente la più
antica, rovine ovunque,disseminate sui pendìì erbosi
dove si abbarbicano miriadi di capre. Lì riconobbi la
tomba di Agamennone, illustrata in tutti i libri di storia
dell’arte. Emozioni senza fine. All’antico teatro di
Epidauro assistemmo alla rappresentazione delle Troiane
di Euripide. Uno spettacolo un po’ troppo “da turisti”,
molto appariscente e sfarzoso. Certo, non capendoci
niente (il greco poi quello antico e chi lo sa? Io l’avevo
studiato per anni, ma sentirlo parlare e capirlo… è ben
39
altra cosa) dovevano puntare sulla messinscena, sulle
coreografie e sui costumi. Fu comunque bellissimo. Ma
Creta, Creta le superò tutte. Percorremmo con lo zaino in
spalla le gole di Samaria, 18 KM nel letto asciutto di un
fiume che in inverno scorre impetuoso. Immersi nel
bosco selvatico, ecco spuntare un antico villaggio di
legno, una chiesetta ortodossa, un ruscello ghiacciato e
trasparente. Ogni angolo, una sorpresa. E quando
passammo attraverso le strettissime gole, avemmo
l’impressione di superare un ostacolo mitico. Sembrava
che le pareti ripidissime ti rovinassero addosso. Il
paesaggio, divenuto irreale, poteva essere solo una
dimora degli dei. Dei misteriosi e abituati al sole quasi
africano, al biancore delle pietre arse e alle enormi pale
dei fichi d’India. Dei che al termine della lunga vallata,
potevano gettarsi in un mare azzurrissimo e pieno di pesci
variopinti e trovare refrigerio sulle tiepide spiaggette
chiare, ancora deserte e quasi incontaminate. Gli dei che
abitavano ancora il palazzo di Minosse con le sue colonne
tozze e rosse e i delfini (rifatti) dipinti sulle pareti. E si
godevano il profumo di pesce alla griglia e il vino
resinoso e freddo. E noi ci sentivamo un po’ come loro,
liberi e senza una meta precisa, pronti a godere di tutte le
meraviglie della natura e dell’arte. Felici della brezza
profumata di finocchio, mirto e rosmarino. E di tutte
quelle antiche vestigia di civiltà che hanno generato
cultura e bellezza. Era un vero incantesimo. E
chissenefregava se i piedi erano scuri e pieni di vesciche e
le spalle scottate, se non si riusciva a dormire bene nel
sacco a pelo sul suolo sassoso o cementato. Eravamo
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sempre sotto un cielo purissimo, in mezzo al mare e alle
scogliere rocciose. Questo contava. Era tutto così nuovo.
Non parlavamo molto, anzi parlavamo poco, perché i
nostri sensi erano tutti impegnati a osservare, assaporare,
annusare, ascoltare… e a immagazzinare nella memoria.
Che mi tornò utile quando in Grecia, ci ritornai, quattro
anni dopo con gli amici del liceo. Eravamo in tanti, 8-9
credo, e c’era sempre la mia Bea, la Paola e lo Stefano, i
compagni di tanti momenti belli. Ad Atene arrivammo in
aereo, per me la prima volta, con una fifa spaventosa. Io
mi sentivo a mio agio. Avevo preparato l’itinerario,
cartine e guida alla mano. Questa volta, però, le isole:
oltre a Creta, che mi aveva stregato e volevo rivedere,
Santorini che mi affascinava per l’eruzione del vulcano
che l’aveva distrutta, e poi Nassos, l’isola di Bacco, Paros
e Antiparos. Queste ultime famose per le spiagge, le case
tipiche e la buona cucina. Santorini è un po’ troppo
turistica, anche se le case bianchissime, sfavillanti sotto il
sole, abbarbicate sulla strettissima scogliera, hanno
sempre un certo fascino. Nasso, nell’interno, è molto
arida, un su e giù scuro e polveroso che percorremmo in
jeep. Un paesaggio suggestivo, ma monotono. Il sole era
davvero impietoso e a quasi tutti venne la febbre. Marco,
che soffriva la macchina, stette male da morire e
dovemmo fermarci nel primo bar che trovammo. Una
specie di oasi nel deserto. Paros, invece, fu più
simpatica. I paesini sono pieni di straduzze con i tavolini
in legno fuori dai bar e i vecchietti seduti su sedie
impagliate sfilacciate. Basta alzare la testa per vedere a
stesi ordinatamente sui fili come panni lavati moltitudini
41
di polpi. Il campeggio era molto bello, pieno di verde e
un po’ isolato. La strada per arrivarvi costeggiava la
spiaggia e , orrore, era piena di enormi ratti morti. Io ho
da sempre il terrore dei topi, soprattutto se grandi e
grossi. Nemmeno anni di ricerca in laboratorio (prima sui
topini, poi sui rattoni) ha estinto questa paura irrazionale.
E da quando un ratto, poi, mi ha morso, la fobìa è pure
peggiorata. Quando ci tuffammo nelle acque limpide, io
mi trovai un topone che mi nuotava accanto. Il giorno
dopo, qualcuno di noi aveva una leggera febbre. Io
chiamai papà, veterinario, perché temevo che avessimo
contratto la leptospirosi, malattia comunemente trasmessa
dai topi. Naturalmente mi tranquillizzò. Io, in realtà,
rimasi nel dubbio fino a quando non ci imbarcammo sul
traghetto per lasciare l’isola tutti completamente guariti.
Eravamo bruciati dal sole, asciugati dal sale e davvero un
po’ stravolti. E mentre io, Bea e Paola eravamo davvero
entusiaste di quest’avventura continua, nonostante i
piccoli inconvenienti, Grazia giurò che non sarebbe mai
più venuta in vacanza con noi a strapazzarsi così. A
camminare per ore sotto il sole, con lo zaino sulle spalle,
a imbarcarsi in continuazione (pure col mare grosso, con
tutti che stavano male), a vestirsi come barboni. Tornare
a casa distrutta e ricominciare il lavoro senza essersi
concessa una reale pausa di sano e totale relax era per lei
un dramma. Gli unici quindici giorni di vacanza dell’anno
trasformati in un incubo. Ma gli altri erano belli
soddisfatti e quindi Grazia, a un certo punto, in netta
minoranza, si rassegnò, tanto la vacanza era quasi finita.
Tornammo conciati da sbattere via, con i fuseaux bucati e
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le espadrilles rotte e con la pelle scura forse per il, sole
forse per la sporcizia. Ma quella vacanza fu oggetto di
racconti memorabili e quasi epici per anni. Tranne per
Grazia, che, credo, l’abbia cancellata dalla memoria. Ma
io, ancora adesso, quando riguardo le foto, ridacchio
dentro di me. E penso a come eravamo ancora giovani,
spensierati e felici per ogni piccola cosa.
LA CITTA’ ETERNA
Ho visto Roma per la prima volta a quasi ventiquattro
anni. Tardi, ma meglio così. Prima, da ragazzina, l’avrei
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guardata con occhi ingiusti. Mi avrebbe forse anche
stancato e un po’ deluso. Non mi avrebbe sedotto, sarei
stata troppo acerba e impreparata a gustarne le
meraviglie. E poi, magari non ci sarei andata con la
compagnia giusta. Mia sorella, che in realtà ha rotto un
po’, Ange, che conosco da quasi 30 anni e la cugina
Ornella, infaticabile camminatrice. Un agosto caldo, ma
non troppo e noi in pantaloncini, canotta e cappello di
paglia (roba da turiste americane), cartina in mano, ci
sentivamo padrone della Città Eterna. Arrivo in treno,
Roma Termini affollatissima. Dovevamo arrivare a
Monte del Gallo, dove avevamo prenotato mezza
pensione in un albergo gestito da religiose (insomma,
ragazze da sole sì, ma con un po’ di sicurezza…già,
peccato che il quartiere fosse frequentato da strani
individui e alla sera piuttosto deserto. Dopo esserci
avventurate col taxi per le vie di Roma, esserci perse (non
ci eravamo capite, problemi di romanesco?), tornate
indietro, sbagliato direzione…finalmente in albergo.
Carino, pulito, stanze spaziose con terrazzina. Il primo
impatto con Roma davvero buono. Anche perché durante
il tragitto in taxi avevamo già avuto un assaggio delle
bellezze della città. Ci immergemmo subito per strade e
piazze, a piedi e in autobus, cercando o imbattendoci per
caso negli angoli più straordinari. Oltre ai luoghi
“obbligati (S Pietro, S Giovanni in Laterano e le altre
grandi basiliche, il Campidoglio, le piazze più belle del
mondo e i musei vaticani) ci ritrovammo in vicoli e
piazzette sperdute. A rimirare una fontanella o un
cornicione. O un negozietto di merci deliziosamente
44
inutili. Per mezza giornata cercammo la casa di Anna
Magnani. E non la trovammo. E arrivammo in bus fino al
santuario del Divino Amore pur di percorrere tutta la Via
Appia. Ci perdemmo nel ghetto ebraico. Andammo a
vedere i gatti che vivono a Piazza Argentina tra le rovine.
Passeggiammo nei Fori, ammirandone l’eleganza senza
tempo. Nelle catacombe di S Callisto e nelle tombe dei
papi mi sentii un po’ male, non ho ben capito se fosse la
claustrofobia o l’emozione. Comunque, a parte questi
piccoli inconvenienti e qualche vescica ai piedi, ci
divertimmo tantissimo. Mangiavamo dove capitava,
anche sedute per terra. E non eravamo mai stanche di
guardare e tentare di imprimere nella nostra memoria la
moltitudine di meraviglie che in fretta attraversava i
nostri occhi. Gustavamo pienamente tutta la bellezza
dirompente delle mura, delle vie, dei colori al tramonto (a
Roma chissà perché, ha una luce tutta particolare che
indora qualsiasi cosa e stende ovunque un velo di soave
quiete), del ponentino serotino e delle piante odorose e
umide delle Ville. A Tivoli oltre alla magnificenza della
Villa e delle sue fontane, trovammo anche la cucina
semplice e saporita di un’osteriaccia dall’aspetto
malfamato, ma che dentro celava un localino delizioso
con terrazza ricoperta da un pergolato di vite. Riuscii a
fatica a convincere le mie compagne ad entrare ma la
fame ebbe la meglio e poi, comunque, fummo tutte
contente. Ci ritornai col fidanzato qualche anno appresso
suscitando le medesime reazioni.
Ridevamo quasi
sguaiate sentendo i romani calcare il loro accento sempre
esagerato e a volte un po’ smorfioso. Simpatici coattoni.
45
Che personaggi. Come quella signora sulla metropolitana
che si chiamava Ercolina. O come il matto di Piazza
Barberini, uno strano individuo che ritrovai anche le altre
volte che capitai a Roma. Salutava tutti con un paio di
antenne in testa. Era sempre lì, accanto alla fontana del
Tritone. Sempre allegro e sorridente.
A Roma ci tornai per l’udienza col Santo Padre. Karol
Woytila, il Papa della mia giovinezza e maturità. L’uomo
che ha contribuito ad abbattere i muri e che ha incontrato
tutto il mondo. Un santo mass mediatico che ha
sperimentato la guerra, la solitudine e la sofferenza. Ci
ha lasciato un’eredità ricchissima di speranza. “ Non
abbiate paura” me lo ricordo come fosse adesso, il
vocione emozionato e prorompente. Un vero uragano di
fede. Il resto non mi ha mai interessato. L’emozione di
trovarsi a qualche metro da quel vecchietto ricurvo con
uno sguardo immenso fu indescrivibile. Nella meraviglia
ieratica della sala Nervi, un uomo già toccato dalla
vecchiaia e dalla sofferenza suscitava una corrente di
entusiasmo che si propagava come un’onda.
A Roma ci tornai col fidanzato, ma per una vacanza
all’insegna dell’allegria e dell’originalità. Sì, perché il
nostro compagno di viaggio era un amico vietnamita che
sfruttò l’occasione per andare a trovare il fratello che
abitava Villa Adriana presso Tivoli. Non visitammo
Roma, la percorremmo di corsa, ma perché sinceramente
pigliammo quella vacanza alla leggera. Dormivamo ai
Parioli, ospiti nella casa di un amico del vietnamita,
artista, che era assente per lavoro. Mangiammo nei posti
più impensati, in modo orribile (per forza, non mi
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facevano scegliere i posti giusti!) e soffrimmo un gran
caldo. Col fratello, ci divertimmo un sacco, parlava
benissimo il romanesco e sembrava un comico alla
Benigni. Un po’ ci rimasi male, non ero riuscita a
godermi la mia città preferita. Però risi molto. L’ultima
volta a Roma fu nel 1995, in ottobre, l’ultima vacanza
con la mia Ange. Strano, la prima e l’ultima (per ora)
volta a Roma sempre con lei. Nell’aprile 1996 mi sarei
sposata, fu una sorta di viaggio “di addio al nubilato”.
Un ottobre splendido, giravamo in mezze maniche.
Stavamo all’EUR dagli amici di Ange che ci offrirono
un’ospitalità davvero calda e generosa. Ripercorremmo le
“nostre” piazze, le “nostre” vie, i “nostri” luoghi. Senza
tanti discorsi, tranquille, senza la smania di vedere della
prima volta. Roma la conoscevamo già, era un’amica.
Sapevamo quali mezzi prendere, in quali negozi
comprare e in quali posti mangiare. Camminavamo senza
pensare a dove andavamo, perché lo sapevamo.
Godemmo il sole, la brezza serotina, la luce del tramonto,
la sera frizzante del centro. Era il nostro saluto e l’augurio
per una nuova vita felice.
IN EUROPA CON LA PARROCCHIA
Oltre ai soliti pellegrinaggi, da Lourdes a Padre Pio e
Loreto, le parrocchie organizzano anche gite amene in
47
luoghi di interesse artistico e culturale con lo scopo di
incentivare la socializzazione e l’amicizia. Visto che
Ange continuava a propormi di andarci con lei, accettai di
seguirla ad Amsterdam. Fortunatamente, nonostante l’età
media dei partecipanti fosse sulla sessantina, si era
iscritto anche un piccolo gruppo di gente più giovane.
Così, in una fresca mattina di fine agosto, caricate le
valigione sul pullman di Spini, la premiata ditta di
autotrasporti paullese, adesso definitivamente chiusa,
partimmo tutti eccitati alla volta della città più
trasgressiva dell’Europa. Viaggio lunghissimo, a tappe,
rallegrato dal continuo scherzare, cantare e chiacchierare.
Sosta in Germania e poi via ancora verso Nord. Il
paesaggio olandese non è esaltante sotto la pioggerellina
fina e il cielo plumbeo: piatto, verde e punteggiato da
villaggi di casette dalle finestrelle con le tendine di pizzo.
Ma la città, un intrico di ponti e case strette coloratissime,
fu una vera rivelazione. Sono nella città di Anna Frank,
del museo di Van Gogh e del quartiere Rossebuurt
(quello delle donnine in vetrina), mi ripetevo, affascinata
da questa Venezia moderna. In giro per strade e piazze,
un’umanità variopinta e stramba. Allora in Italia se ne
vedevano ancora pochi di stranieri. Lì, erano l’elemento
dominante. Rasta, indiani, cinesi, giovanissimi o
decrepiti, mezzi stracciati, con le gonne lunghe o i
calzettoni e il cappello in testa. Biciclette ovunque,
signore dai capelli color grano con le sporte della spesa,
mamme e bambini, ragazzi sbrindellati, tutti in giro su
due ruote sulla pista ciclabile che attraversa tutta la città.
L’atmosfera aveva un che di nebuloso, sarà stato il tempo
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piovoso o il fumo delle canne, ma l’aria non mi sembrava
tanto trasparente. Come una cortina lattiginosa che
velava tutto. E conferiva alle cose e alle persone un certo
fascino. Anche Bruxelles mi piacque molto, ma,
insomma, un’altra città, più seriosa, raccolta e distinta.
Anche se di ampio respiro europeo.
Ma la gita non consisteva solo di visite alle città: i
momenti conviviali erano il momento più atteso. Come la
sfilata in biancheria da notte a cui, ahimè, partecipai con
tanto di cuffietta in testa e camicia a trine e balze.
Naturalmente, rigorosamente al buio con bugia d’epoca
in mano. Per prepararla, le signore svuotarono i recessi
più nascosti dei loro armadi per riportare alla luce
preziosi lini e pizzi della nonna o della mamma.
Sfilammo trattenendo le risate. Riscuotemmo un enorme
successo. L’anno dopo, entusiasta dell’esperienza, la
ritentai sempre con la mia Ange. Meta: Praga e Polonia.
Mi attirava molto l’idea di visitare Praga, rinomata per la
sua atmosfera decadente. Ma la vera sorpresa fu
Cracovia e Auschwitz. Certo Praga ha un fascino
particolare e un po’ demodè, con le sue piazze, il castello,
il ponte e i tetti puntuti, un po’ da castello di Dracula.
Artisti di strada ad ogni angolo che suonano e ballano
ritmi un po’ tzigani e perfino un incantatore di serpenti.
Però il campo di sterminio, con la sua desolazione,
l’odore di morte ancora aleggiante su una distesa di
baracche in legno e lo stormo di corvi gracchianti sotto il
cielo plumbeo…di sicuro le condizioni metereologiche
contribuirono non poco ad appesantire un sentimento già
opprimente e tristissimo, soprattutto nei forni e nelle
49
camere a gas. Piansi tutto il giorno, non riuscii nemmeno
a scattare una foto. Solo nella chiesa dei cappuccini
costruita proprio all’ingresso del campo ritrovai un po’ di
serenità. Strano trovare una chiesa in un luogo dove si è
consumato un mare d’odio e di violenza. Ma forse, può
diventare presenza di riconciliazione. Nonché di
riflessione su quanto è devastante il male. Proprio come il
santuario di Cestochowa, dove di trova la statua della
Madonna Nera, per decenni simbolo di unità e speranza
per tutti i polacchi. Ogni sera, dal santuario si leva una
struggente melodia, la preghiera alla Madonna che i
polacchi, ovunque si trovino, intonano alla loro Madre
sfregiata. L’icona è inquietante, lo sguardo che lacera la
materia, come quei due segni che una mano iniqua ha
inciso nell’enigmatico volto nero in dispregio alla
sacralità della libertà. In netto contrasto con l’austera
sacralità bizantina dell’icona, i cori e i balli festosi
all’esterno, tanti giovani in festa sventolanti fazzoletti.
Oltre alla collina del santuario di Jasna Gora, niente più
di interessante, la cittadina è anonima, piuttosto incolore.
E’ incredibile come in Polonia, appena fuori dai luoghi di
interesse, la realtà sia incredibilmente disadorna. Come
anche la campagna, così trascurata, intorno a Wadowice,
il paese natale di Giovanni Paolo II, così ridente, con la
bella casa-museo del grande papa dove si possono
ammirare le sue lettere e le sue foro da giovane e i suoi
sci. O come il Wavel a Cracovia, la basilica e il mercato,
che pullulano di storia e follklore e solo qualche via dopo
le strade sono vuote, spoglie, case vecchie e scrostate dai
vetri rotti. Emozionante il cimitero ebraico, pietra su
50
pietra e pietre per fiori e lapidi a ricordare la triste
epopea. Una pietra su una tomba sconosciuta l’ho messa
anch’io. Un gesto che lego idealmente alla preghiera che
ho inserito nel muro del pianto a Gerusalemme nel 1997.
Il dramma degli ebrei lo sento vicino, non so perché.
Forse perché li considero fratelli maggiori nella fede. E
forse anche perché per me è un po’ il paradigma degli
eccidi contemporanei che si sono consumati e si
consumano in tutto il mondo a spese di innocenti per gli
interessi di pochi tiranni. Un viaggio impegnativo,
questo. Una riflessione lunga una settimana sui drammi
degli uomini che uccidono altri uomini. Mentre di puro
sollazzo quello dell’anno successivo in Provenza,
Camargue e Costa Azzurra. E lì, natura, mare, la
Croisette, Il Principato. Ma chissà come, il mio interesse
per le gite parrocchiali iniziava a scemare. La compagnia
era simpatica, l’organizzazione e gli alloggi
soddisfacenti,gli itinerari comunque interessanti. Ma a
me il turismo puro non basta. Ho bisogno di storie, di
ricordi e di emozioni intense che vengono dal tempo. La
vacanza non deve essere un tempo inerte, deve produrmi
conoscenze, sensazioni e ricchezza interiore. Così che io
possa tornare a casa con un bagaglio in più. Altrimenti, se
devo proprio riposare, vado al mare e mi piazzo sotto
l’ombrellone con i miei libri. Poi mi butto in acqua per
un’ora e dopo pranzo mi appisolo.
MISSIONE INDIA
Tra una gita e un’altra, mi buttai in una avventura che
segnò non poco la mia vita. Con Giovanni, ho condiviso
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tantissimo della mia vita, ma la cosa più straordinaria è
stato e rimane tutt’ora l’impegno a favore delle missioni,
in particolare in India. Tutto iniziò da un viaggio che lui
fece nel 1988, in mano un biglietto aereo e un indirizzo.
Partì perché aveva bisogno di lasciarsi alle spalle per un
po’ la sua solita vita tranquilla e scontata. Paullo è un bel
paese, ma è estremamente noioso. Non ci manca nulla,
eppure ci si sente immersi in un’atmosfera vuota, senza
stimoli né fermenti. Brava gente, laboriosa, ma piuttosto
chiusa e sulla difensiva. Impicciona a sproposito. Di idee
ce ne sono tante e anche di gente che si sforza d
realizzarle, ma fanno fatica a decollare perché le persone
non aderiscono o si stancano o preferiscono andarsene
fuori. Milano, Lodi e Crema sono alle porte e offrono
molti diversivi. Qui sono tutti abituati a cercare altrove
svaghi e impegni. E le amicizie. Si fatica molto a creare
una forza coesiva, tranne che per occasioni di un certo
rilievo. Le manifestazioni in piazza, tipo mercatini, sono
affollatissime. Così pure le esibizioni di giocolieri,
falconieri e band. Quando però si tratta di impiegare
tempo e impegno per realizzare qualcosa insieme…ci si
ritrova con i soliti quattro gatti che appartengono a più
gruppi e associazioni e corrono a destra e a sinistra fionde
irrimediabilmente per realizzare metà di quello che si
erano proposti. Non so se fu solo questo il motivo a
spingere Giovanni a partire, forse era un momento di
svolta nella sua vita, aveva maturato una scelta di
servizio…sta di fatto che se ne andò in uno dei più grandi
lebbrosari dell’india meridionale, a Nalgonda, 2 ore da
Hyderabad , noto polo informatico. E lì, successe.
52
Giovanni imbiancava, giocava coi bambini, trasportava i
lebbrosi in braccio. Dormiva nel convento delle suore
francescane dell’Immacolata, condivideva con loro il riso
e le banane. Bevevo la stessa acqua che gli causò 6 mesi
di malessere che si rivelò poi causato da un fungo nel
sangue. Ritornò sconvolto, incapace di accettare le
contraddizioni di questo nostro strano mondo, chi troppo,
chi niente. Si chiuse in casa per mesi, rifiutando gli
svaghi, cercando di trovare un senso al dolore che aveva
visto e sentito nella sua anima. Il passare dei giorni
lenisce sempre le emozioni e pian piano riuscì a
trasformare il suo sentimento di impotenza in gesti di
servizio e premure. Andava a servire i barboni di Fratel
Ettore con un amico con cui aveva condiviso l’esperienza
indiana. Lo conobbi così e mi attirò il suo sguardo
visionario, la sua smania di donarsi e i suoi sogni in terre
lontane. Lo seguii. Avevo voglia di nuovo, il paesello
dove abito a me sta da sempre stretto e appena mi si
prospetta la possibilità di conoscere persone diverse e
lanciarmi in qualche impresa che mi stuzzica non ci
penso su due volte: vado! Così iniziò un’avventura che si
impresse nel mio cuore, allargò notevolmente i miei
orizzonti e mi portò a conoscere ed ad amare quella
straordinaria gente che vive e lavora in India. Il primo
incontro con il grande subcontinente avvenne appena
fuori dall’aereo a Mumbai (allora si chiamava ancora
Bombay). Una cappa opprimente di umidità calda e di
spezie sgradevoli mi incollò gli abiti addosso. I monsoni
erano in ritardo quell’anno, il cielo era piombo pesante e
l’aria intrisa di sporcizia, acqua putride e curry era
53
irrespirabile.
Rimasi
stomacata.
All’uscita
dell’aereoporto, stormi di mendicanti vestiti di stracci
sporchi erano incollati alle vetrate, pronti, come avvoltoi,
a calare sui viaggiatori per allungare le mani nella
richiesta disperata e incalzante di elemosina. Prendemmo
un taxi per giungere alla missione delle suore del PIME
dove ci saremmo fermati fino a quando non avremmo
trovato un volo per Hyderabad. Le strade erano asfalto
fuso che esalava una caligine cattramosa e acre, quasi un
nodo intorno alla gola. Ai lati, capanne in lamiera,
plastica e quant’altro quei poveracci di abitanti avevano
potuto rimediare per costruirsi quell’alloggio di fortuna.
Dietro, grattacieli superbi, sfavillanti. A ogni semaforo
rosso, mani e braccia di bambini che si intrufolavano
nell’abitacolo, sempre alla ricerca affannosa di qualche
rupia. Sdraiati sui marciapiedi, donne e anziani paralitici
o semplicemente miserabili, con le piaghe avvolte in
cenci luridi, quasi incapaci anche solo di tendere una
mano, gli occhi socchiusi e sfiniti. L’angoscia quasi mi
offuscava la vista, quante volte mi ero immaginata quel
viaggio, mi ero documentata, avevo visto film,
diapositive e foto…ma un conto è sapere che l’inferno
esiste, un altro è entrarci. Le strade rotte, piene di buche
erano intasate di risciò, biciclette, macchine ambassador e
mucche anche nelle zone centrali della città. Mi sentivo
come in un immenso formicaio inquinato, frastornato dai
clacson e dalle voci dei venditori che popolavano le
miriadi di negoziucci stipati di merce di ogni tipo. I
colori accesi e sfacciati, in netto contrasto col nastro della
strada e il cielo praticamente dello stesso grigiore
54
incandescente, mi stordivano. I sensi erano parecchi
frastornati quando finalmente arrivammo in un lasso di
tempo che mi parve eterno alla missione. Perlomeno lì
c’erano ordine, pulizia e quiete. Una sorta di oasi
nell’immane caos della città. Ma le puzze …ancora
l’odore di panni non asciugati da giorni, di fogna, di
smog e un altro olezzo, diverso sì, ma comunque
insopportabile: il fetore della lebbra. Carne umana
marcia. Ovunque era penetrato il miasmo, fin nelle mura
del convento e nei meravigliosi alberi del giardino
tropicale. Lo sentivo perfino nell’acqua che bevevo,
preventivamente bollita per disinfettarla. Pure nei buoni
cibi che le suore ci preparavano con cura. E mi sentivo
persa. In quell’aria così greve, così tetra, tra quei fantasmi
di uomini e donne devastati dal male, con tutti quei corvi
neri che gracchiavano lugubri e le zanzare che nonostante
la zanzariere mi entravano nel letto.
Me ne volevo andare, via da tutta quella tristezza, quel
buio, quella desolazione. Purtroppo, il successivo volo
per Hyderabad era dopo 2 giorni. Mi veniva da piangere.
Nella missione si trovavano anche due giovani volontarie,
da giorni insidiate da vomito e diarrea. Ecco, mi dicevo,
ora starò male pure io…e non toccavo verdura cruda,
latte e burro nel timore di contrarre qualche bacillo. Mi
sentivo come in un incubo…pure i ratti che correvano in
giardino…ma…mentre bighellonavo tra gli alloggi dei
malati e mi chiedevo perché mai mi fossi imbarcata in
quella brutta faccenda, il sorriso bonario di un’anziana
suora, Suor Rosa, mi calmò. Capì che ero piuttosto
inquieta e cercò di consolarmi un poco. Raccontandomi la
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sua odissea indiana di 40 anni prima. Molto peggio della
mia. Appena 23enne, assolutamente ignara, ma decisa ed
entusiasta, si era imbarcata alla volta dell’India con
qualche consorella. Il viaggio era stato terribile: tempeste,
carenza di cibo e di nomali condizioni igieniche . Allora
non esisteva ancora il canale di Suez e quindi la rotta
prevedeva di doppiare il Capo di Buona Speranza. Tre
mesi di attesa, paura e speranza. Qualche suora si ammalò
e successivamente morì. Fortunatamente, l’equipaggio fu
molto assiduo e generoso con le impavide giovani che
affrontavano un viaggio così duro per la vocazione di
aiutare i poveri più poveri. Al termine del lungo viaggio,
erano tutti diventati fratelli e sorelle e fu triste salutarsi.
Ma il peggio doveva venire. Il clima e le malattie misero
a dura prova il gruppo delle missionarie. In un alloggio di
fortuna, esposte alla calura opprimente e al lezzo carico di
bacilli, estremamente affaticate nel lavoro senza tregua
con i lebbrosi, nutrite di poche verdure malsane, solo
poche, quelle più robuste, resistettero. La tentazione di
soccombere e mollare tutto divenne estremamente
allettante. Ma suor Rosa, no, lei rimase, testarda e certa
che lì era il posto dove il Signore l’aveva destinata. Per
anni non mise piede sul suolo italiano. Combattè
strenuamente contro la fame, la stanchezza, lo sconforto e
la malattia dei suoi fratelli sfortunati. E rimase. Io volevo
scappare dopo un giorno. Iniziai a ripensarci. Anche la
visita a una casa di accoglienza per disabili gravi, che si
trovava vicino alla missione, mi fece comprendere come
anche nelle situazioni difficili si poteva reagire e costruire
un’esperienza importante di vita. Quando mi imbarcai per
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Hyderabad, quasi mi dispiacque. Ma avevo anche
bisogno di aria più fresca e di spazi aperti. L’impatto con
il piccolo aeroporto ancora quasi in costruzione fu un po’
particolare per la massiccia presenza di uomini e donne
musulmani che gridavano e facevano una grande
confusione all’arrivo di parenti o amici. I pesanti veli e le
voci gutturali mi
stordirono non poco. A fatica
riuscimmo a districarci in quella massa informe e
avvistammo l’autista di Padre Luigi, Balaswami, col
cartello “Welcome, Giouanni and Piera”. Rassicurante,
col suo largo sorriso che scintillava sul viso nero,
l’indiano caricò i nostri bagagli e partimmo per
Nalgonda.
Sospiro di sollievo. Per due ore,
attraversammo villaggi brulicanti di vita, mercati
variopinti ai lati della strada, i soliti miscugli pazzeschi di
spezie che però avevano un odore sano, quasi stuzzicante.
Animali tranquilli e noncuranti delle macchine,
attraversavano indolenti. Musichine insopportabili come
campanellini striduli facevano da colonna sonora a tutto
quell’ andirivieni che però almeno era vivace e ciarliero.
Lontano
dall’angosciante
nube
ammorbante
dell’immensa città, anche la povertà era più sopportabile.
La missione di Padre Luigi aveva un ingresso degno del
ranch di JR : un’enorme cancellata con le iniziali del
centro (LHC, Leprosy Health Centre) e guardie
all’entrata. All’interno, un grande giardino con piante
rigogliose e fiori dal profumo inebriante, una grande
armonia composta e elegante dove la natura accoglieva
con ordine gli edifici dell’ospedale, del collegio, del
convento e delle officine. L’aria quasi ferma, ma pura. I
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bambini che giocavano festosi ci corsero incontro,
volevano una foto. I malati, quelli che potevano
camminare, ci salutarono con discrezione. Il chiaro
accento lombardo di Luigi ci accolse con il suo solito
brio. La lunga barba bianca e il sigaro tra i denti,
sembrava Fidel Castro anziano. Lì, lui, boss della carità
integrale, era nel suo regno. Padrone del telegu, il dialetto
dell’Andhra Pradesh, salutava, richiamava, domandava.
Alcuni gli correvano incontro, poi velocemente si
allontanavano. Sbrigavano commissioni, facevano
consegne e impartivano ordini. Altri, semplicemente, lo
guardavano, chinavano il capo con qualche parola appena
biascicata. Il tono del missionario era sempre sostenuto e
autorevole. Ci fece fare il giro del centro, uno dei più
grandi dell’India per la cura della lebbra. Trenta anni di
sacrifici e di dedizioni erano tutti lì, nelle pietre di quegli
edifici e nel lavoro che quotidianamente vi veniva svolto.
Dagli ambulatori al lebbrosario, dalla fisioterapia ai
laboratori per le protesi e le carrozzine, dalla casa per gli
ospiti a quella di Luigi, tutto era lentamente fiorito
dall’impegno incessante di quel ruvido prete che era
arrivato in quel luogo desolato e arido e lo aveva
trasformato in un villaggio fiorito dove erano di casa
l’accoglienza e la solidarietà. Quasi tutti indù, la presenza
di cristiani decisamente scarsa come anche le conversioni.
Ma non era questo un cruccio per il padre. Arrivato poco
più che trentenne, sconvolto e impotente dinanzi al
flagello della fame e della malattia, aveva fatto i bagagli
per tornare in patria. Ma un lebbroso che lo aveva
implorato: “Non vogliamo il tuo lavoro, vogliamo te!” gli
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era parso un segno della Provvidenza che lo chiamava a
restare. E meno male. In tutti quegli anni a venire, di
miracoli ne sarebbero avvenuti parecchi. Aiuti in denaro e
materiali piovvero da tutto il mondo. Come pure il
riconoscimento ufficiale del governo indiano dell’attività
educativa e medica del centro. In più di quarant’anni,
migliaia e migliaia di lebbrosi curati e guariti, altrettanti
bambini accolti, nutriti e istruiti, posti di lavoro per
sorveglianti, cuochi, medici e paramedici, fabbri e
falegnami. E continue gare di solidarietà in varie parti
del mondo, con l’invio di denaro raccolto nei modi più
disparati e volontari. Avremmo fatto parte anche noi per
quasi 20 anni della coorte dei sostenitori del centro col
progetto “Adozioni a distanza” e con i proventi di
lotterie e vendite di beneficenza. L’incontro con le suore
fu simpaticissimo, Giovanni ritrovò le sue vecchie
amiche spagnole, Montserrat e Emilia, che ci coccolarono
con tè e pasticcini al cocco. Donne semplici, forti e
generose dall’abbraccio tenace a dal sorriso mai spento.
La vita delc entro era scandita dalle visite in ospedale,
dalle lezioni a scuola e dai momenti di incontro e
preghiera tra i quali il famoso rosario sul tetto della guest
house guidato dal Luigi che camminava in tondo e noi
dietro come un serpente devoto. Qualche escursione alla
diga, al lago (che nome aveva?), a qualche tempio e
villaggio costruito dal padre. Un po’ di immersione nella
vita quotidiana anche nei giri (a piedi e coi risciò trainato
dalle biciclette) al mercato e nei negozietti di Nalgonda,
sempre caotici e rumorosissimi. Quasi impossibile
beccare la linea telefonica per l’Italia nei botteghini.
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Insomma, per un po’ ci sentimmo tagliati fuori dal nostro
mondo e non ce ne dispiacque. Quando lasciammo il
centro per proseguire il nostro viaggio un po’ ci
dispiacque. Ma sapevamo di passare dal Purgatorio al
Paradiso. Bangalore è una città importante, dai grandi
viali alberati, dai bei palazzi, dagli eleganti quartieri
residenziali immersi nel verde e nella tranquillità. Un
centro commerciale vivacissimo e strutture ospedaliere
all’avanguardia. Ma anche un immenso slum dove
operavano le suore.
Immerso in una caligine di
putredine, di olio strafritto andato a male e di infezioni
purulente. Traboccante di gente sfigurata, affamata e
sfinita dalla ricerca di rifiuti e carbone lungo la vicina
ferrovia. Misere merci da vendere per racimolare pochi
magri pugni di riso. Ma i bambini, i bambini…una
contrazione dolorosa alla bocca dello stomaco, ecco, a
vederli così emaciati, luridi e tutt’occhi, solo occhi
enormi pieni di stanchezza, e tuttavia con un guizzo di
luce intensa…l’istinto della vita, che lì è la guerriera più
forte, che non si spaventa davanti a nessun nemico,
manco davanti alla miseria più nera e alla malattia più
devastante. Le suore nella loro elegante, quasi signorile,
casa per le novizie avevano allestito una sorta di asilo con
un centinaio di bambini strappati quotidianamente alla
desolazione delle lamiere e dei rigagnoli di fogna. A
vederli chiassosi, nudi in fila per la “doccia” sotto il
rubinetto in cortile o mentre danzavano per noi con
campanelli e coroncine di fiori parevano gli esseri più
felici della terra. Ma alla sera ritornavano allo squallore
dello slum e alle urla o alle percosse dei padri ubriachi o
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disperati per la mancanza di un lavoro e di una casa
decorosa. Una bambina in particolare aveva colpito la
mia attenzione. Aveva tre anni, ma ne dimostrava a
malapena uno e mezzo. Reggeva a malapena sulle
bambine rachitiche un ventre gonfio. Le braccia erano
scheletriche e il visetto, stranamente tondo, si
concentrava in due enormi occhi scuri pieni di paura.
Aveva sempre una strana febbriciattola e piangeva
spesso. Di notte, raccontavano le suore, piangeva in preda
agli incubi. Sui chiamava Toroncha. Che nome! Mi
dicevo. L’avevano trovata abbandonata in condizioni
critiche, denutrita, ammalata e con seri ritardi nello
sviluppo. Non parlava, ma sembrava capire tutto.
Parlavano i suoi occhi perennemente sgranati. Non si
staccava un attimo dalle suore che la accudivano giorno e
notte. Era lei la mascotte del convento. Mi impressionò
notevolmente quell’ essere umano così piccolo e già così
sofferente. E mi sentivo ancora così impotente. Ormai ne
avevo vista di disperazione, sia fisica che morale. E già
da tempo mi ero mobilitata nel mio piccolo per portare un
minimo contributo di solidarietà. Ma adesso quello che
avevo fatto e che facevo mi sembrava ridicolo. Altro che
goccia nel mare delle necessità come ripeteva Madre
Teresa! Io del mio non riuscivo a metterci che un
atomo…e c’era un universo di dolore e di bisogni davanti
a me che quasi mi inghiottiva come un buco nero.
Lasciai Bangalore con qualche promessa di aiuto e molti
interrogativi irrisolti. E finalmente arrivammo a Goa, un
paradiso tropicale no solo naturale ma anche umano. Qui
la gente sembrava aver ritrovato dignità. Poveri ce
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n’erano, le case erano umili e gli abiti rigorosamente
sintetici un po’ ridicoli (anni cinquanta rivisitati?)…ma
perlomeno la maggior parte della gente era sana e la vita
che conducevano aveva il sapore della normalità. In giro,
donne che andavano a fare la spesa, uomini al lavoro e
bambini in cammino verso la scuola, tutti in divisa e in
fila …un gradevole balzo indietro di oltre 30 anni. La
musica sempre a palla ovunque era tipicamente anni
sessanta. La cucina un mix indo-portoghese, piuttosto
pesante e aromatica, riempiva l’aria di odore grasso. Lì
ci sentimmo turisti, un po’ fai da te, alloggiati in
convento a fare il bucato che non asciugava mai per l’aria
troppo umida e a lavarci con secchiate d’acqua…ma
comunque finalmente ci rilassammo. Ci godemmo le
spiagge bianche e deserte contornate di palme. L’oceano
era tutto per noi. Solo qualche barca di pescatori nel blu
verdastro. Giovanni si beccò il tentacolo di una medusa
sul braccio e da allora non fece più il bagno troppo
volentieri. Io adoravo immergermi in quell’acqua quasi
dolce e torbida, calda. Acqua sopra e sotto perché ormai
la stagione dei monsoni era nel pieno e pioveva di
continuo. A scrosci, a cascate, il monsone ti sorprendeva
ovunque e non c’era scampo. Addosso, sempre odore di
fradiciume e di sudore rancido di spezie. Dopo un po’,
eravamo anche un po’ stufi di tutta quell’acqua che
sapeva di muffa. E quel paradiso terrestre,
rigogliosissimo, dove sembrava che la vegetazione
crescesse sotto gli occhi, divenne noioso. Forse era tempo
di tornare a casa, in un’altra umidità, ma quella solita,
ordinaria. E spiccammo il volo, carichi di ricordi ed
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emozioni e ansiosi di raccontarli.
In India ci ritornai ancora due volte sempre con Giovanni
e con amici. Ma non fu più come la prima volta.
L’esperienza dell’incontro mi aveva preparata ad
affrontare quella realtà “a testa ingiù” (così la chiamavo,
paragonandola
al
nostro
mondo
occidentale)
apprezzandone i valori più profondi. Le sensazioni e i
sentimenti forti e struggenti lasciarono il posto a un
placido ritorno di affetti e a un godimento estatico della
bellezza che ritrovai nei volti, nei templi e nella natura
sempre meravigliosa. Nei colori abbaglianti dei mercati e
nei profumi inebrianti dei fiori attorcigliaci nelle chiome
delle donne. Oltre al tour già affrontato, visitammo la
missione dove di trovava la cara amica Stella,
instancabile missionaria spagnola, fondatrice di otto
missioni, la veterana del suo ordine in India dove aveva
iniziato la sua opera decenni prima con un pugno di
compagne e tanta santa volontà. Allora era già oltre i
sessanta, infaticabile, sempre di corsa, da un bambino in
pianto, poi da una donna che chiedeva qualcosa da
mangiare, poi in fretta nel villaggio vicino per un’altra
necessità. E a me, poco più che trentenne, già pesavano
le otto ore di Jeep (o pullman scassatissimo, con soste in
ogni villaggio) a 30/40 all’ora su una strada sderenata che
portava alla sua ultima impresa, la missione di
Harapanahalli, un villaggio rurale perso nel Deccan,
chiassoso tra lande desolate e silenziose. Paolo, il
maratoneta del gruppo, perennemente insonne, iniziava a
vagare prestissimo alla mattina alla ricerca di luoghi
nascosti. Riuscì a raggiungere, tra greggi di capre e bufale
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sdraiate, una specie di guru in meditazione in un anfratto
di roccia col quale, insisteva, ebbe una sorta di colloquio
(in India succedono tante cose strane, il mistero è
presente ovunque). Restammo solo un paio di giorni, che
furono davvero densi di curiosità. Visitammo i ruderi di
un’antica città sacra indù che testimoniavano una storia di
fasti e opulenza. Persa nel bassopiano, dimenticata per
secoli, aveva il fascino delle rovine sacre, dove il
silenzio e la luce giocano con le pietre a creare una strana
pace di una senso di bellezza senza tempo. Al ritorno,
rischiammo di essere investiti da una fila di camion
strombazzanti ad alta velocità e ci arrampicammo su un
fianco argilloso per non farci travolgere. Eravamo tutte
donne e i camionisti che quasi volavano su quei titani a
motore ci salutavano allegramente rincarando la dose di
clacson. Ci dispiacque lasciare quella zona dimenticata
dal turismo, dove il tempo pareva essersi fermato alla
tranquilla ciclicità dei ritmi naturali. Ma gli incontri con
la genuinità e l’innocenza non mancarono. Come il
gruppo di ragazzi che chiedevano l’autografo al nostro
amico Giancarlo, il sempliciotto del gruppo,
cinquantenne col cuore e l’animo di un bambino. Era
riuscito a spacciarsi (come? Non spiccicava manco una
parola in inglese!) per qualcuno di famoso. O la famiglia
di pescatori che ci invitò a consumare il pranzo da loro.
Ci offrirono i pascetti appena pescati con una retina, dopo
averci fatto lavare le mani con un pezzo di sapone intonso
e asciugarcele con un asciugamano nuovo (l’avevano mai
usato?). Noi imbarazzatissimi perché mentre eravamo a
tavola tutta la famiglia ci guardava. Avrebbero mangiato
64
gli avanzi. Infine, il sacerdote indù nel tempio, boh,
dedicato a chissà quale divinità (gli indù ne venerano a
centinaia) che ci fece domande sul calciatore Roberto
Baggio, allora parecchio in voga. Chissà ancora quanti
episodi si celano nel pozzo della mia memoria. Da più di
dieci anni non vado in India. Scrivo alle amiche suore e al
Luigi, continuo ad aiutarli e a stare loro vicino come
posso. Ieri ho sentito Stella al telefono, è a Roma, a
giugno ci vedremo, dovrà subire un piccolo intervento a
Crema. Il debito che ho nei loro confronti è tanto grande.
Mi hanno aperto gli occhi sulla realtà essenziale della
vita. Che è l’Amore senza sconti e senza limiti. Questa
verità mi ha segnata indelebilmente e tutt’ora ne porto il
marchio. Un distintivo segreto che non mi dà pace e che
mi impedisce di disinteressarmi al prossimo bisognoso.
C’è in me una continua spinta a portare aiuto, sia
materiale che morale a chi è stato più sfortunato di me. E
se non assecondo questo mio impulso, non mi sento bene,
mi manca qualcosa di importante.
SULLE ORME DI IGNIGO
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Quell’estate del 1991 fu particolarmente strana. Di uno
strano quasi onirico. Giovanni ritornò in India con sua
sorella, aveva bisogno di chiarirsi la mente e il cuore su
quello che voleva fare nella vita. La voce che sentiva
dentro da anni e che, secondo lui, lo chiamava a diventare
un missionario, non si azzittiva. Partì, con la certezza che
quando sarebbe tornato avrebbe deciso. Io avrei trascorso
da sola le mie vacanze. Ero triste e un po’ confusa.
Anch’io necessitavo di un periodo di riflessione.
Incontrando Giovanni e il suo amore, pensavo di aver
risposto a parecchie domande sulla complessità della mia
vita. La mia solitudine, la mia incerta situazione
famigliare e scolastica avevano assunto un senso insieme
a lui. Ora mi sentivo nuovamente persa. Scelsi di
partecipare a un pellegrinaggio con i miei amici gesuiti
sulle orme di Sant’ Ignazio di Lodola, il santo fondatore
della Compagnia di Gesù. Al ritorno, camposcuola in
montagna con l’Azione Cattolica, della quale ero
aderente. Non sarebbe stata un’estate particolarmente
entusiasmante e divertente, però avevo bisogno di
scandagliarmi dentro, non di sollazzarmi. Il viaggio con i
gesuiti si sarebbe snodato dai Paesi Baschi, dove Ignazio
nacque, lungo la Navarra fino a Barcellona , da dove il
Santo partì alla volta di Roma. Partii da Milano Centrale
alla volta di Genova dove era il ritrovo. Lì conobbi
Angela, Marcella e Cristina che furono le persone che
vissero accanto a me più intensamente la straordinaria
esperienza del pellegrinaggio. Erano più anziane di me, io
appena 26enne, loro ormai ben oltre i trenta. Ma erano
simpatiche, semplici e anche loro, come me, alla ricerca
66
di qualche risposta. Da Genova, in pullman, partimmo
alla volta di Lourdes la prima tappa. Lourdes non è
certamente un luogo ignaziano, anche perché i miracoli
avvennero secoli dopo di lui. Ma è uno dei luoghi mariani
più significativi e Ignazio era molto devoto a Maria.
Quale inizio migliore se non
l’affidamento alla
Madonna? L’impatto fu meraviglioso. Giungemmo alle
prime ore dell’alba. Io non dormo mai durante i viaggi,
non riesco, un po’ per l’eccitazione un po’ per l’ansia, poi
mi piace guardare la strada, il paesaggio e commentare
quello che vedo. Pisolai a tratti e arrivai piuttosto
insonnolita, ma quando proposero, a chi voleva, di recarsi
alla grotta, io accettai subito. Era quello l’angolo di
Lourdes che mi interessava di più. Il resto poteva anche
aspettare. Ma lì, ci dovevo correre. Con una coperta in
mano (era agosto ma a Lourdes pare faccia freddo tutto
l’anno), insieme all’Angela, mi recai in quel luogo santo.
Caddi in ginocchio nell’umile grotta, davanti alla piccola
statua della Vergine. Alla debole luce delle candele di
cera che fumigavano, col brontolìo sordo del fiume Gave
alle spalle, a capo chino restammo in silenzio lì, al
cospetto di un mistero che continua ad attirare gente da
ogni parte del mondo. Potrebbe essere la curiosità,
l’esperienza della sofferenza. Oppure la fede? La
speranza che al di là di ogni miseria e di ogni dolore ci sia
sempre lo Sguardo di un Amore che comprende e
lenisce? Perdemmo la cognizione del tempo che passava,
lì, assorte, con la coperta sulle spalle, ognuna persa nelle
sue preghiere o nel silenzio della mente e del cuore,
riempito solo da quel buio, da quelle fiammelle incerte e
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dalla piccola Vergine che sorrideva dalla nicchia nella
grotta. Il resto non lo ricordo bene, troppa gente, troppe
corse, tanti malati e troppo mercato di gadget religiosi.
File alle fontanelle per prendere taniche e bottiglie di
acqua, fila per andare a fare il bagno nella piscina
miracolosa (io l’ho saltato, non mi interessava), file per le
funzioni. Mi stancai non poco e me ne uscii un po’
delusa. Per me, l’immagine più significativa di Lourdes
che porto nel cuore è e rimane quella piccola Madonna
alloggiata in un’umile grotta alle sei di una mattina
umida, nel silenzio più totale, davanti alla quale, dopo
qualche ora sarebbe sfilato un gruppo di ragazzi ammalati
di AIDS. Riprendemmo il nostro pellegrinaggio alla volta
dei Paesi Baschi, terra natale di S Ignazio. Una Svizzera
spagnola. Fresca, ridente, verdeggiante. Le case diverse,
certo, così anche la gente, molto chiusa e un po’
sdegnosa. Estremamente orgogliosa della sua identità. La
casa natale del Santo è un bel castello, sobrio, ma
elegante. Lì era cresciuto e da lì partito dopo la
conversione avuta in seguito a un incidente di guerra (era
un cavaliere) per seguire quella eccezionale strada di
santità che era stata per lui preparata. Ricordo con piacere
Manresa e Pamplona, dove, rispettivamente, redasse i
suoi famosi Esercizi e dove cadde in estasi. Belle, nella
semplicità e nel contegno. E Barcellona da dove Ignigo
partì per andare a studiare a Parigi dove incontrò i primi
futuri Compagni di Gesù. L’esperienza più bella fu a
Montserrat, stretta tra le gole di montagne impervie,
laddove davanti a una Madonna nera (ma perché c’è
sempre di mezzo una Vergine scura, chissà come mai?)
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Ignazio abbandonò per sempre le armi e divenne da
condottiero degli uomini condottiero di Dio (un po’ come
Pietro, ma lui diventò). Bel fegato. Ritrovai l’intimità
della grotta di Lourdes e la vicinanza affettuosa della
Madre. Nella città, mi impressionarono le altezze
vertiginose della Sagrada Famiglia come l’estro bizzarro
delle architetture bislacche del Gaudì inframmezzate tra
palazzi anonimi. E la, vita, la vita turbinosa delle
Ramblas e del porto. E il fascino del barrìo gotico, le sue
viettine tutte a mattoncini, le case marroni e odoranti di
muschio vecchio. Spiritualmente, fu un cammino in
salita. Tanti momenti di riflessione, mentre gradualmente
veniva alla luce l’esperienza sofferta di Ignazio mano a
mano che toccavamo i luoghi del suo peregrinare alla
ricerca di Dio e della sua volontà. E quando arrivai ad
accostarmi agli esercizi…eh, allora, venne fuori tutto il
mio dubbio, la mia insicurezza e la mia paura di un futuro
incerto, senza un amore che mi accompagnasse per i
meandri della mia vita che mi si prospettò in tutta la sua
instabilità. Ero a un punto fermo all’università, mio padre
iniziava a spazientirsi e con Giovanni, come sarebbe
andata a finire? Mi prese la tristezza. Il clima era
variabile, in fondo attraversammo la Spagna pirenaica e
passammo dal freschino basco al caldone della costa
attraverso il deserto della Navarra. Così, lo stato della mia
anima mutava, quasi adeguandosi alle città e al tempo che
cambiavano giorno dopo giorno. Fu un viaggio
stranissimo, un po’ inquietante, per certi aspetti, pensieri,
pensieri, pensieri che affollavano la mia povera testa.
Scosse parecchio le mie fondamenta che credevo
69
abbastanza salde. Pregai moltissimo, parlai anche con un
gesuita molto simpatico, ma parlai dell’India dove anche
lui era stato. Tornai a casa per niente rasserenata, dopo
un’esperienza spirituale intensissima ma col cuore colmo
di incertezza. Del caposcuola con l’AC non ricordo nulla,
la mia testa era da tutt’altra parte. So che mi trovai bene,
ma non mi sforzai troppo né di seguire il cammino
percorso né di fare nuove amicizie. Fu lì che appresi del
colpo di stato nell’allora URSS e mi salì l’ansia,
Giovanni stava per tornare dall’India. Cosa sarebbe
successo? Fortunatamente filò tutto liscio, in India manco
sapevano cosa era successo. Giovanni tornò, non proprio
sano (una bella intossicazione da farmaci) ma salvo.
Aveva cambiato idea, l’indisposizione lo aveva reso
consapevole che fare il missionario non consisteva solo
nel diventare l’eroe dei diseredati, ma anche patire fatica,
malattie, delusioni e sconfitte. Ci abbracciammo con
gioia, e guardando il volto smagrito e il corpo asciugato
dalla febbre, piansi lacrime di felicità. L’incubo di quella
lunga estate così triste era finito.
SUENO ANDALUZ
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Tra mille indecisioni e incertezze organizzative e non
(come al solito causate dall’intromissione inutile del
parentame che vuole sempre imporre il proprio punto di
vista su qualsiasi cosa riguardi la vita di una coppia),
riuscimmo ci sposammo il 25 aprile del 1996 in un
pomeriggio di pioggia. Gli amici preti sull’altare: Dino
missionario, Olivo sant’uomo, Socorro l’indiano e
Gabriele, il celebrante, sobrio e profondo. Andammo ad
abitare in un grazioso bilocale a Galgagnano, un ameno
paesino del nord-lodigiano. Fuori dal paesone dormitorio,
con la via principale perennemente trafficata e i bar
deserti alla sera, mi sembrava di aver trovato la mia pace
bucolica. Davanti al terrazzo nascosto tra i tetti un campo
di girasoli. Il finestrone della cucina che fungeva anche
da sala illuminava il grande locale di una tonalità
ambrata che riscaldava i mobili di rovere. Ci stavo bene,
nella quiete animata della campagna. Legammo subito
coi vicini e con tutti gli altri, d’altronde il paese era
piccolino e non era difficile conoscersi. Ebbi modo di
scoprire subito come sia limitata la mentalità degli
abitanti di comuni così esigui, soprattutto dei nativi
originari. Allora era appena iniziato l’esodo dei giovani
sposi dai centri più grandi alla ricerca di un’abitazione
economica e tranquilla, non troppo lontana. I nuovi
arrivati erano ancora pochi e riuscivano a integrarsi col
resto della popolazione le cui famiglie vivevano lì da
secoli. Il sindaco e il prete erano ancora i personaggi più
autorevoli. Non dimenticherò Don Sergio, il parroco,
uomo asciutto e schivo, ma con un animo generoso e
attento, e una mente e un cuore liberi e aperti. Come
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anche i ragazzi ai quali ho insegnato per qualche anno il
catechismo, la Renata e il Pino, i sagrestani (lei cucinava
un’anitra con le verze da leccarsi i baffi), le anziane che
mi salutavano con le mani mentre andavano a messa nella
piccola chiesetta. Fu un inizio felice ma anche
drammatico, perché dopo pochi mesi la mamma di
Giovanni rischiò la vita per un’embolia polmonare. Non
eravamo partiti subito per il viaggio di nozze, per
impegni di lavoro di Giovanni. Saremmo andati in India
in agosto. Cambiammo i programmi, perché mia suocera
non si era completamente rimessa e non sembrava
opportuno andarsene così lontani. Partimmo l’ultima
settimana d’agosto, stanche e affaticati, per l’Andalusia.
A Siviglia noleggiammo una macchina e iniziammo
finalmente il nostro agognato viaggio di nozze. Ero
partita stanca e nervosa, e finalmente mi preparavo a
rilassarmi
totalmente.
La
prima
impressione
dall’automobile fu di terra bruciata dal sole. Chilometri di
nuda scura terra. E un sole cocente di fine agosto.
Quaranta gradi all’ombra alle 17 che non danno fastidio,
però. La periferia del capoluogo Andaluso davvero
deludente e trascurata. Dopo un bel po’ di girare a vuoto
con Giovanni che come al solito in questi casi iniziava a
dare di matto, trovammo un signore gentile che ci indicò
chiaramente il centro dove si trovava il nostro albergo.
Proprio a quattro passai dalla Giralda, il campanile
moresco simbolo della città. Mi colpirono i balconi con
le piastrelle tipiche di mille colori e fantasie. E gli aranci
selvatici nella piazza. Quell’atmosfera colorata e
aromatica mi affascinò subito. A parte la grandiosità della
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cattedrale, mi piacquero i tanti localini che servivano
tapas e sangria fino a tarda ora. E le ballerine di
flamenco su un palco in piazza. Ma la sorpresa grande fu
la Juderia, il vecchio quartiere ebraico (noi convinti fosse
l’antica scuderia, ignoranti come eravamo di spagnolo. In
effetti l’ingresso anonimo da un portone di legno lo fece,
a ragione, supporre). Un profumo penetrante di mirti,
ginepri e finocchio ci investì da oltre il muro di cinta che
costeggiava la stradina polverosa a ridosso della
costruzione grigia e anonima dalla quale eravamo entrati.
Avremmo scoperto che era il giardino dell’Alcazar,
l’antica dimora reale. Tutto d’un tratto ci si parò davanti
una piazzetta dall’impiantito sassoso, persa tra gli aranci,
con le panchine ricoperte dalle tipiche piastrelle e i
tavolini e le sedie di metallo fuori da i barettini pieni di
prosciutti crudi appesi. A bocca aperta, ci avventurammo
per il dedalo di viuzze strette che conducevano
immancabilmente a piazzette tutte simili tra loro. A
quell’ora ancora semi-deserte e immote nell’aria calda e
densa di odori mediterranei. Capimmo che la scuderia
non c’entrava niente. Ci perdemmo per un tempo
indeterminato nel quartiere, godendo di quella bellezza
piena di vita. Visitammo anche l’Alcazar sostando a
lungo nel meraviglioso giardino dove si possono
ammirare le statue del re Ferdinando e della regina
Isabella che approvano la missione di Cristoforo
Colombo prostrato innanzi a loro. La sera ci inoltrammo
per le stradine più movimentate a bere Sangria fredda e a
cercare di renderci conto se stavamo sognando tutta
quell’allegria e quella spensieratezza. Alla mattina
73
colazione non prima delle 9.30 e poi guida in mano e
sandali ai piedi alla conquista della città. Ancora adesso
ricordo con un pizzico di nostalgia quelle giornate così
spensierate e gioiose all’inizio della nostra vita insieme.
La mia anima mediterranea mal si addice all’umidità
malsana e alla frenesia del basso milanese, alle relazioni
formali e convulse per mancanza di tempio e spazio. Non
sono propriamente una caciarona festaiola, ma amo la
compagnia degli amici, le belle mangiate in riva al mare,
il sole a più non posso e la sera dopo il tramonto è il mio
momento preferito (mentre adoro la mattina indugiare
sotto le lenzuola a godermi la luce che penetra dalle
imposte). L’allegria e l’ospitalità del popolo spagnolo
sono ineguagliabili e ci facemmo coccolare
accondiscendenti ad ogni cortesia e attenzione. La mia
guida riportava anche un itinerario gastronomico e ci
lanciammo alla ricerca della coda di toro a Cordoba, la
perdiz en escabeze (pernice in agrodolce) a Jaen, i
riňones (rognoni) al Jerez e i boquerones (le acciughe
fritte) a Malaga. Furono soprattutto le piccole trattorie
frequentate dai camionisti (che di buon cibo e di buoni
prezzi se ne intendono) nonché il mio impareggiabile
fiuto che ci guidarono alla scoperta delle prelibatezze
della cucina Andalusa. Non cercai né il gazpacho (l’idea
di una zuppa gelata non mi attirava) né la paella che è
valenciana e quindi fuori zona. Ci tuffammo con piacere
nelle meravigliose insalate ricche di ortaggi freschi, tonno
impareggiabile e olive succulente. Dopo Siviglia, che
lascia non senza rimpianto, c i dirigemmo a Cordoba, il
cuore dell’Andalusia moresca per la presenza della
74
grandiosa moschea nel centro storico. Alloggiammo in
una piccola graziosa pensioncina proprio di fronte alla
maestosa costruzione che racchiude nell’interno (bhè, non
mi dispiacque…anche se mi parve un po’…contrastante?)
una chiesa seicentesca. La moschea (Mezquita) di
Cordoba è la terza per dimensioni al mondo dopo quella
del Cairo e della Mecca. Mi colpirono le arcate e le ogive
altissime in cotto al suo interno. Un’architettura ricca e
allo stesso tempo leggera ma solida. L’apparizione
improvvisa della chiesa mi stordì un attimo (il barocco
non va d’accordo con l’arabo, a parer mio…) ma pensare
alla coesistenza delle due fedi nello stesso spazio mi
diede un piacere sottile. In fondo, nonostante la diversità,
siamo tutti uguali, uomini sotto lo stesso cielo. Anche
qui la Juderia (meno intrigante di quella sivigliana, ma
molto graziosa con tanti negozietti e una piccola sinagoga
e tanto tanto verde) e l’Alcazar. Quello che più mi colpì,
però, di questa straordinaria città mezza araba furono gli
immensi viali alberati. Camminammo incessantemente e
Giovanni che non è mai stato un amante del passeggio,
accusò le prime vesciche. Io allungavo appositamente il
tragitto per cercare i luoghi più nascosti tipo la piazzetta
del potro (ricordo di Don Chisciotte), i magazzini e la
casa di Pilato (che poi non vedemmo perchè era chiusa).
Sono sempre stata avida di percorrere a piedi le città per
cercarne gli angoli più bizzarri e suggestivi. Non mi sento
tanto turista quanto viaggiatore e l’idea del viaggio
implica la scoperta continua e inattesa. Non sento
stanchezza se so che mi aspetta la sorpresa di una via, di
una fontana o di una chiesa che pochi inseriscono nel loro
75
programma di viaggio. E io voglio essere sempre tra quei
pochi. Non amo molto i viaggi organizzati, anche se ne
ho fatti e mi sono anche piaciuto perché non ammettono
l’imprevisto. A me piace compiere deviazioni, ritardare
un ingresso o prolungare una visita. Il viaggio me lo devo
godere per come piace a me attimo dopo attimo. Sono
una buona organizzatrice, non lascio niente al caso ma
poi devo trasgredire le mie stesse regole. Se no, non ci
prendo gusto. E viaggiare per me significa questo,
preparare un itinerario che però posso continuamente
adattare alle esigenze mie e di chi è con me. E siccome la
vita è un viaggio, adotto la stessa regola. Finora, non ho
mai avuto motivo di pentirmene. E fu proprio a questo
punto che, a proposito di itinerario, invece di proseguire
per Jerez e Gibilterra, come fanno tutti, scelsi la provincia
di Jaen. E non me ne pentii, anzi. Le distese di uliveti a
vista d’occhio sulle colline dolci e riarse mi fecero sentire
quasi a casa (bhè, centro-sud Italia…). Come pure i
centri di Baeza e Ubeda, veri gioielli dell’arte
rinascimentale dichiarate
patrimonio dell’umanità
dall’UNESCO.
Angoli
sconosciuti
al
turismo
commerciale, ma vere perle di bellezza storica e culturale.
Cittadine tranquille e accoglienti, dove è un piacere
sottile anche sostare nel cortile della piccola università.
Per me, amante dell’arte cinquecentesca, della sua
eleganza ed armonia, fu un sogno ad occhi aperti. Non
riuscivo nemmeno a spiccicare parola, io che di parole ne
ho sempre in bocca troppe. Anche un’ altra meraviglia mi
lasciò muta trasportandomi lontano al Topkapi di
Istambul, l’Alhambra di Granada, la vera bellezza della
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città. Granada è decisamente caotica e inquinata dove il
mercato arabo e l’Albaicin, il quartiere moresco, stridono
per la lentezza e l’allegria del vivere. All’Alhambra si
sale per una comoda strada alberata dalla quale si vede la
città frenetica staccarsi sempre più. Il mondo lassù
cambia, il tempo si ferma nei giardini immensi e odorosi,
nelle stanze a mosaico e nei cortili con le vasche e le
sculture immote che raccontano di vite rinchiuse in
questa splendida prigione dorata, degli intrighi e delle
congiure di corte (in una stanza c’è ancora il segno del
sangue versato durante un omicidio). Rapiti da questo
incantesimo di arabeschi cesellati, profumi penetranti e
labirinti verdi, camminavamo senza un percorso
prestabilito, erranti e incoscienti, per quella residenza
principesca racchiusa sopra la città, proibita e isolata al
mondo esterno che viveva la sua esistenza tra le vicende
quotidiane della storia. La meraviglia Andalusa finì lì
perchè il soggiorno che avrebbe dovuto chiudere in
bellezza la nostra vacanza , mare a Malaga, si rivelò una
delusione: palazzi sulle spiagge strette, cittadine sporche
e moderne, ma dozzinali. Sarebbe stato meglio andare a
Jerez, accidenti, perlomeno avremmo bevuto cherry e
visto gli allevamenti di cavalli. Passammo gli ultimi
pochi giorni nervosi ormai risvegliati bruscamente dal
nostro sogno Andaluso. E partimmo sollevati, con nel
cuore il ricordo di quella calda e odorosa terra, dove la
vita pulsa in ogni cosa. Ci risparmiammo solo l’inutile
crudeltà della corrida che anche nel paese più piccolo era
continuamente proposta come l’attrazione più importante.
Entrammo in un’arena, ma solo guardando la testa
77
imbalsamata di un enorme eroico toro, ci rattristammo
profondamente e uscimmo subito. Vedere infilare spade
in un animale non mi diverte né mi eccita. Non è una
vittoria massacrare una bestia con un cerimoniale
spettacolare e assurdo. Non ci rammaricammo certo di
esserci risparmiati quel genere di spettacolo, durante il
quale, ne sono certa, avremmo tifato per il toro. In fondo,
lui viene spinto a forza nella sfida, il torero invece la
affronta di propria volontà. E’ un gioco perverso, che
ripete il rituale di un macabro combattimento all’ultimo
sangue che fin dai tempi antichi ha caratterizzato la sete
di violenza dell’uomo. La folla urlante, ebbra di morte è
senza tempo, dagli albori dell’umanità chiede il tributo di
orrore per l’eccitazione malsana che ne proviene. Che
siano i sacrifici umani dei popoli antichi, le carneficine
nel Colosseo, la ghigliottina o la forca, i genocidi degli
ebrei o in Africa poco importa. E in fondo la corrida ne è
solo una minima, pallida emulazione. Ma comunque
spregevole. Perché permette agli istinti peggiori
dell’uomo di scatenarsi senza proporre loro
un’alternativa.
OSTERREICH E BAYERN
78
Non so come dirlo…ma sono una donna che ama gli
opposti. Mi sono congeniali i cibi e le atmosfere calienti
del sud, il mare e i ritmi mediterranei. Fanno esprimere
tutta la mia anima un po’ passionale e istintiva, che la mia
mente razionale tiene con le briglie quando tenta di
scalpitare.
Ma non disdegno l’aria tagliente della
montagna, la polenta carica di sugo e le salite impervie
tra le rocce. Sperimento una libertà diversa, quella del
contatto con la natura selvatica e aspra, che rivelano il
mio desiderio di vincere me stessa e le mie paure. Salire
mi è sempre sembrato un impresa difficoltosa, non solo
fisicamente ma anche per lo spirito. Il suore e il fiato
grosso mi scoraggiano subito, le gambe sono abbastanza
buone e reggono un po’ di più la stanchezza ma anche
loro poi si fanno sentire e vado in crisi. E chi ce la fa ad
arrivare su? Ma poi, la mano o la voce di qualcuno ti
esorta a non fermarti e via, si riparte, magari un po’ più
lentamente. Così è un po’ anche la vita. Ecco perché mi
piace camminare in montagna. Il cammino è un po’ la
metafora dell’esistenza umana, in particolare, la salita,
per la fatica e lo scoraggiamento che anche i più bravi
montanari avvertono nell’arrampicarsi per raggiungere a
tutti i costi la cima. Misurarsi con la montagna e i suoi
pendii è un po’ come cercare di affrontare la vita con
coraggio e determinazione tutti i giorni.
Avevo sempre desiderato un viaggio in Austria. Per la
montagna, ma anche per i fasti di Vienna e Salisburgo,
per i laghi della Carinzia e per le casette e i fienili del
Tirolo. Preparai l’itinerario accuratamente e partimmo
con i miei cognati. Avevo scelto per il pernottamento
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degli agriturismi, appena fuori dai centri abitati, che ci
consentissero un soggiorno tranquillo e simpatico nonché
economico. Durante la prima tappa, nella Corinzia
occidentale, soggiornammo in un paesino arrampicato su
un cocuzzolo, Zwickemberg, in una fattoria che pareva
tanto e per la dislocazione e per la costruzione, la baita di
Heidi e del nonno. Lassù, nel giardino a picco sul pendio
ricoperto di erba alta, ci sentimmo isolati dal mondo
trafficato e rumoroso e ci ripulimmo orecchie, polmoni e
spirito nelle serate fresche in compagnia della famigliona
dei nostri ospiti (genitori, 5 figli e nonni) che ci offriva
brindisi alla grappa, salumi affumicati prodotti in loco e
grandi sorrisi (loro parlavano solo tedesco che ahimè
nessuno di noi itendeva). Da quel posto ameno ci
muovevano ogni giorno per destinazioni sempre nuove e
accattivanti. Godemmo della vista mozzafiato del
ghiacciaio Pastersze, una meraviglia di roccia e ghiaccio
che lambisce il Grossglockner. Bellissimi i paesini e le
distese verdi racchiuse nella cerchia dei monti. L’aria
frizzante e il sole fulgido sono una combinazione
estremamente gradevole che mi rinvigorisce e mi riempie
di forza. Camminammo per sentieri ombrosi costeggiati
di more fino ad arrivare attraverso un boschetto intricato
a una piccola baita con il terrazzino in legno e una
fontanella ghiacciata. Ci sdraiammo sulle panche di legno
a sgranocchiare i panini e a farci toccare dal sole ad occhi
chiusi. Davanti a noi, un pendio scosceso si allungava
parecchio verso valle. I laghetti, a miriadi, piccole pozze
circondate da verdi boschi, sono una delizia e danno la
sensazione di freschezza e pulizia. Sempre zeppi di
80
bagnanti, anche quando il clima non è proprio caldo, e
popolati di barchette e di uccelli candidi. Lasciata la
Corinzia, iniziammo l’itinerario più culturale verso
Vienna attraverso la Stiria, ancora dolcemente montuosa
e la piana stepposa del Jugerland. Elegante la città, con i
begli edifici barocchi e il teatro, le innovazioni liberty di
Otto…..(). Ovunque, nei ring stretti ad anello, sentore di
bella musica e grandi orchestre. E odore di bratzel
wurstel e birra chiara. Il Danubio purtroppo non era tanto
blu, ma mi sarebbe piaciuto fare una bella traversata fino
a Budapest. E lungo il Danubio, su un affioramento
roccioso ma dalla parte opposta, verso Linz, giungemmo
a visitare il monastero benedettino di Melk, attivo in
modo continuo fin dalla sua fondazione. Chi non ricorda
il giovane Adso da Melk che segue il maestro Guglielmo
da Baskerville nell’appassionante indagine nell’abbazia
del nome della rosa? Trepidante, entrai nel cuore
dell’abbazia, la famosa biblioteca, nella quale sono
tutt’ora conservati rari manoscritti. Solo poche sale sono
visitabili, perchè le fragili e preziosissime opere ivi
custodite
potrebbero essere irrimediabilmente
danneggiate dal continuo andirivieni di visitatori. Mi
batteva forte il cuore, ero davanti a una delle raccolte di
libri antichi più famose del mondo… aspiravo l’odore
senza tempo di quei libri , scrutavo tra le copertine stinte
e i caratteri quasi indecifrabili, mentre intorno gli stucchi
dorati risplendevano quasi a portare in trionfo cotanta
sapienza scritta. Quante dita irrigidite dal freddo avranno
trascritto pazientemente nelle lunghe ore dell’inverno
gelido quei capolavori…e quanti occhi indeboliti
81
dall’oscurità perenne tra le mura racchiuse avranno letto e
riletto tutte quelle parole…faceva freddo e l’aria era
pesante, la luce flebile o ero io frastornata da tutta quella
meraviglia impaginata…fatto sta che dovetti uscire fuori,
mi girava la testa ed ero emozionata, come mi capita
davanti alle opere d’arte più importanti. Dovetti ritornare
coi piedi a terra quando mi ritrovai tra le mura di
Mauthausen, uno dei campi di sterminio più tristemente
famosi. Meno impressionante di Auschwitz, ma
altrettanto cupo. Mancava la tetraggine desolata delle
baracche di legno allineate e il lugubre binario verso la
fine. Qui non vidi i forni né le camere a gas né la forca
dove impiccarono gli assassini nazisti. Ma vi trovai la
fredda oscurità dei capanni con le foto del raccapricciante
loro contenuto di un tempo, resti umani non identificabili
come tali, la tristezza del monumento ai caduti italiani e
la lugubre sala operatoria dove chissà quali carneficine
venivano perpetrate. Un gelo mi calò dentro ancora una
volta, e solo la gita alla ridente cittadina di Steyr col suo
centro medioevale ricco di antiche suggestioni mi
risollevò il morale. Poi, finalmente, Salisburgo. Il meglio
del meglio. C’ero già stata e ci tornai ancora un paio di
volte. Ma il fascino che esercita su di me questo piccolo
straordinario centro non ha pari. Vi nacque e morì
Mozart, il migliore musicista di tutti i tempi (secondo
me). Il Duomo possiede ben cinque spettacolari organi e
quando seguimmo la messa dell’Assunta a ferragosto (mi
pare fosse quella di Haydn) mi tremarono le ginocchia
per circa due ore. Il minuscolo cimitero di S . Peter è un
gioiellino di rara soavità, con le croci quasi rozze e i fiori
82
di un giardino montano. Dal castello la vista sul centro,
quasi strizzato in un abbraccio di monti, con le cupole
colorate delle chiese, è un capolavoro di cesello
architettonico, non a caso è “patrimonio dell’umanità”
dall’UNESCO. E poi i sontuosi giardini del municipio,
dove venne girata una famosa sequenza dello storico film
“Tutti insieme appassionatamente” con Julie Andrews
(nel film sono girate diverse scene nella città). Quando lo
rivedo con le bambine, ritorno là, e mi ritrovo nella
piazza, lungo la camminata verso la fortezza, vicino alla
fontana e sul ponte sopra il Salzach. Nella stretta via
principale, le insegne secolari degli antichi negozi sono
sopravvissute all’ammodernamento degli esercizi
commerciali. Stonano il McDonald’s e le boutique di
moda. Per questo io guardavo sempre in alto, naso
all’insù. Lo riabbassavo solo quando mi imbattevo nei
negozietti di addobbi e soprattutto in quello di uova
decorate. Migliaia di uova dipinte in migliaia di modi per
rallegrare l’albero di Natale. Ho ancora le foto. E poi, le
bancarelle nella piazza dell’università e presso il Duomo,
il caffè italiano e i baci di Mozart. L’unica pecca è la
solita monotona e grassa cucina austriaca che dopo
qualche giorno mi nausea non poco. Troppa carne, troppo
affumicato, troppe patate. E qui riemerge la mia anima
mediterranea. Fortunatamente non mancano i ristoranti
italiane e le pizzerie. Dopo un po’, proprio non reggo. La
mia Italia inizia a mancarmi quando non sopporto più il
cibo locale. Perché per il resto, mi adatto. Al clima,
all’alloggio, al fuso orario… ma al cibo…Mangio di
tutto, ma proprio di tutto, solo che dopo qualche giorno
83
senza pasta, pomodori e olio extravergine vado in crisi di
astinenza. Soprattutto se la dieta è a base di carne. Si vede
che le troppe proteine scombussolano la mia natura
pastaiola verace. Il carboidrato è fondamentale. E’ la
mia fonte alimentare di energia e buonumore.
Antidepressivo gastrico per eccellenza, meglio della
cioccolata. Peccato che faccia ingrassare. Comunque
ormai la pasta si trova dappertutto anche se la
commestibilità a volte lascia desiderare. Non parliamo
del grado di cottura. Ma insomma non si può sempre
avere tutto (così si dice). Il castello di Helbrunn coi
giochi d’acqua fu un divertimento unico, coi getti e gli
spruzzi che se ne uscivano dai posti più impensati e ti
coglievano di sorpresa e non avevi modo di ripararti se
non di correre via come un matto. Ne uscimmo
bagnatissimi e col fiatone, ma io avrei rifatto volentieri il
giro. Come per le miniere di sale di Hallein, a pochi
chilometri da Salisburgo. Vestiti di tute bianche, in fila
su una specie di trenino, entrammo nelle viscere della
terra, in un tunnel un po’ opprimente per decine di metri.
Scivolando lungo scivoli di legno, quelli originali usati
dai minatori, giungemmo in un intrico di gallerie che si
diramavano per chilometri. Arrivammo al confine tedesco
sottoterra percorrendo un lago sotterraneo al ritmo di
musiche celtiche e giochi di luce sul soffitto basso e
cementato. Io sono un po’ claustrofoba e non mi sentivo
proprio a mio agio, lì, trecento metri sottoterra con la luce
fioca, circondata dalla roccia. Eppure la meraviglia
superò la paura. E resistetti fino all’uscita.
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Certo, non avrei mai scelto come professione il minatore.
La luce e l’aria per me sono vitali. Anche una giornata
freddissima mi allieta se è luminosa. Il cielo plumbeo mi
scoraggia. Inizio la giornata sconsolata. Non ho voglia di
niente, solo di stare chiusa in casa. Mi faccio venire il mal
di testa, il mal di ossa, il mal di gambe. Mi dolgono gli
occhi e i denti. Praticamente, mi “ammalo”. Sono per così
dire metereopatica. Dovrei vivere in un posto dove c’è
sempre il sole. Il buio lo amo di notte. Perché porta calma
e silenzio, ritrovo la solitudine giusta per leggere,
pregare, scrivere…la notte stoppa la corsa perpetua del
vivere quotidiano, obbliga a fermarsi. A volte, ciò
significa far affiorare le paure e la notte alimenta
irrazionalmente l’ansia e la preoccupazione del domani
che appare in un incubo angosciante. L’oscurità può
evocare i nostri demoni interiori e scatenarceli contro.
Non per niente le creature mostruose della fantasia
popolare vivono e compiono le loro azioni malvagie
nell’oscurità…streghe, vampiri, licantropi e spettri
prendono vita dal buio e non hanno ragione di
sopravvivere quando viene a mancare. I predatori e i
carnivori escono di notte nella corsa verso la preda,
rituale crudele ma necessario alla sopravvivenza. Ma
preferisco pensare alla notte come a una sosta di pace
dopo la fatica del giorno, anche quando questa è proficua.
Per me è il momento dell’abbandono alla verità. A tutto
ciò che ho dentro di autentico e non riesco a manifestare
apertamente e completamente alla luce del sole. Il buio è
un velo rassicurante, nasconde e cela l’esteriorità per
rivelare l’intimo. E più passa il tempo più adoro il
85
crepuscolo e tutto quello che segue il calare del disco
solare: la luce che muta in un’ovatta di quiete che
racchiude tutte le cose, l’aria che si placa, gli odori che si
fanno più muscosi, i colori che si attenuano gradatamente
per poi farsi avvolgere dall’oscuro manto. E finalmente, il
silenzio, che cala inesorabile, non più rombo di auto e
vocii di bambini o chiacchiericci di anziane signore.
Nelle sere estive, dalle finestre aperte le voci distese
delle persone a spasso e le risa dei ragazzi fermi alle
panchine. E l’eco della musica di qualche festa popolare.
Le televisioni accese fino a tardi, lo scalpiccio dei passi
di qualcuno che fa tardi. Ma poi, quando si avvicina la
mezzanotte, nel buio tagliato dalle luci di qualche
lampione e delle insegne luminose, pare che la terra
smetta di girare e si ferma o nell’abbraccio del sonno
ristoratore o nei pensieri tetri figli di una giornata
difficile. Quelli che ti shakerano il cervello per ore
interminabili con l’impressione di incubi angosciosi e ti
fanno rigirare senza sosta nel letto sfatto. Senza che nulla
si risolvi del dilemma che affligge e che non trova
risposta. E poi, nonostante tanto combattimento, la resa è
inevitabile a un sonno senza sogni o al contrario animato
da scene inquietanti. E la mattina diventa una salvezza
perché ritorna la luce del giorno a dissipare gli spettri di
una notte senza requie. Il duplice aspetto della notte, la
pace e la paura, coesistono e sono inscindibili. Per questo,
mi affascina e mi seduce. Io, che vivo male senza la luce
del sole e il suo calore, sono irresistibilmente attratta dal
fascino dell’oscurità e di tutto ciò che c’è, ma non si vede
(o non c’è ma potrebbe esserci…o che non c’è ma mi
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piacerebbe ci fosse). Purtroppo di notte si vive bene nei
paesi del mediterraneo, non in Austria dove alle 18 si
chiude tutto, si cena con qualche dolcetto, tutti chiusi in
casa o ai concerti. Anche in Tirolo, la regione più
simpatica e allegra. Ci andammo un paio di volte con le
bimbe che si divertirono un mondo. Bellissimi i paesetti
(St Johann in testa con le casette colorate e le piazzette
sempre piene di gente), deliziosi i pendii anche se poco
aspri (per me la montagna o è aspra e scabra o non è
montagna) e soprattutto un sacco di attrazioni per grandi
e piccini, dalla pista per bob in legno alle cascate ai
canyon alle amene passeggiate nei boschi e ai laghetti
minuscoli in alta montagna. Visitammo l’allevamento
degli Haflinger, i cavallini altoatesini a Ebbs,
ammirammo l’eclisse a Kufstein, alla fortezza. E poi, a
spasso nel parco con gli animali selvatici in libertà a
Kitzbuel e l’elegante piccolo centro di Lienz, gremito di
localetti coi tavolini i piazza. Ci portammo in vacanza
anche la nostra amica indiana Sr Luisa, che dichiarò di
aver esaudito così uno dei suoi sogni più belli. Furono
vacanze davvero complete, riposo, relax , escursioni e
visite interessanti. Sicuramente fu dalla nostra il clima
che si mantenne davvero bello per l’intera durata della
vacanza. Cosa che ahimè non successe quando andammo
nel Voralberg, la parte più occidentale dell’Austria al
confine con la Svizzera, racchiusa da superbe corone di
monti. Passammo la quasi totalità del tempo chiusi in
casa (un magnifico enorme chalet in legno con giardino)
a guardare la pioggia scrosciare e a inventare giochi o a
vedere film. Sapendo che là fuori c’era un paradiso
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naturale da esplorare io mi spazientii non poco. Le rare
uscite ci diedero brevi assaggi della bellezza del posto.
Cime superbe, laghi e dighe, parchi naturali erano a pochi
chilometri da noi. E non potevamo gustarceli. Non
ammetto di dover passare le mie vacanze sempre al
chiuso. Fu da quell’anno che non ne volli più sapere di
vacanze in montagna e mi riavvicinarmi al mare, quello
stesso mare che era stato il protagonista assoluto delle
mie estati da ragazza. Ho ricominciato a desiderare l’aria
salmastra, la risacca che arrotola i ciottolini sulla battigia,
ad apprezzare la pelle nuda lambita dal sole e dall’acqua
salata e fresca, il profumo oleoso dei solari (protezione
totale ovviamente per la mia pelle nordica a continuo
rischio ustione!) e la vita oziosa e molle della spiaggia e
della pineta, sempre in costume e ciabatte, sdraiata
accanto ai libri e alle figlie che giocano scavando nella
sabbia. Ma la sfida della vetta rimane viva dentro di me.
Reduci dall’entusiasmo dell’esperienza austriaca, ci
facemmo tentare anche dalla Germania, da Monaco e dai
castelli. La Baviera con le ridenti colline e i dolci declivi
che paiono giardini che fanno tanto scenario di Sissy
mette subito a proprio agio, rilassa profondamente. Il
tempo non fu magnifico quell’agosto del 1999, pioveva
quasi sempre, ma a noi non interessava, avevamo bisogno
di riposo, tranquillità e di bei posti da visitare.
Soprattutto io, reduce da un periodo di lavoro intenso in
università. La mattina si rivelò il momento migliore per le
nostre escursioni, il pomeriggio riposavamo e ci
appagavamo dello stare insieme. Fu una vacanza di relax
superbo… che portò al concepimento della mia Micol.
88
Ma questa è un’altra storia. Adesso mi preme ricordare i
castelli che fece costruire nella graziosa Baviera re
Ludwig II, il re pazzo che morì prematuramente, affogato
in circostanze misteriose. Questo stravagante sovrano si
fece costruire alcuni palazzi che ostentassero le sue
manie di grandezza .In pullman, belli comodi, con la
guida che parlava fortunatamente anche in inglese, ci
avventurammo alla volta della più grande delle sue
magioni da sogno, il castello di Neuschwanstein (che
ispirò il castello dei film d’animazione della Bella
Addormentata, di Cenerentola e di Biancaneve della
Disney) una complessa fortezza che sbuca da un
cocuzzolo boscoso di architettura romanica con interni
bizantini e gotici, che venne costruita vicino al castello
del padre, Hohenschwangau. Ci arrivammo dopo una
salita abbastanza ripida. Ludwig ammirava follemente
Wagner, quasi religiosamente, perciò fece realizzare
parecchi affreschi delle scene delle opere del compositore
tedesco, come nella Sala dei Cantori (il “Tannhäuser”)
nella quale, a sorpresa, partono le note incalzante della
“Cavalcata delle valchirie”o nel cortile e nel corridoio
aperto (“Lohengrin”). Ci imbattemmo addirittura in una
sorta di grotta con tanto di stalattiti e stalagmiti.
L’insieme è davvero eclatante, fin troppo. Mi colpì
l’esaltazione dello sfarzo, dei colori e delle architetture, a
volte troppo ricchi, quasi esorbitanti. Ma anche la
modernità, l’innovazione che abitavano quella testa tutta
matta ma geniale di Ludwig. Le cucine sono enormi e
attrezzatissime, dai giganteschi camini usciva aria calda
che riscaldava l’intero edificio e lo riforniva di acqua
89
calda. Un sistema di carrucole consentiva il sollevamento
di un tavolo imbandito al piano superiore dove il re
consumava con comodo i suoi pasti nel suo
appartamento. Insomma, non tutta la pazzia vien per
nuocere. Tutt’altra faccenda, il castello di Linderhof, un
palazzo ornato in stile neo-rococò. All'interno del palazzo
l'iconografia riflette il fascino di Ludovico per l'Ancien
Régime francese. Il parco, la vera meraviglia del
complesso, contiene una grotta artificiale (la Grotta di
Venere, dal “Tannhäuser”) dove cantanti d'opera si
esibivano su un lago sotterraneo illuminato con
l'elettricità, una novità per quel tempo, e una casa del
boscaiolo costruita dentro un albero artificiale.
Impressionante una fontana alta 25 metri, così come i tre
livelli dei giardini terrazzati, coronati da un piccolo
tempio circolare, il cosiddetto Tempio di Venere e dalla
fontana di Nettuno, con le sue cascate a 30 livelli, che
donano al parco un aspetto di incomparabile bellezza.
L’ultimo castello che visitammo, Herrenchiemsee è una
replica della reggia di Versailles, che nei progetti,
l'avrebbe dovuta superare in dimensioni e fastosità. Ma
non ci riuscì. Solo una smunta imitazione. L’unico vero
pregio del castello sta nella posizione, tra boschetti
ombrosi su un'isola al centro di un grande lago. E nelle
deliziose fontane con statue. Buona parte del palazzo è
rimasta incompiuta e Ludovico vi soggiornò solo una
volta. Progettò anche un altro castello che doveva essere
il più grandioso e strabiliante. Ma ancor prima dell’inizio
dei lavori, il re morì. Senza realizzare i suoi sogni. Eh,
capita, soprattutto a chi sogna troppo. E non si accontenta
90
mai del tanto che ha già. Non riesce nemmeno a
goderselo. Insegue continuamente progetti sempre più
estremi…e poi non coglie la bellezza della normalità. Che
è fatta anche di cose non appariscenti, ma fondamentali.
Ludwig morì solo. Regnò per pochissimo tempo perché
venne deposto a causa della sua follìa. Rimangono solo i
suoi castelli a testimoniare la sua manìa. Non la sua
persona.
LA PRIMA VACANZA DI MICOL …E POI DI
MIRIAM
La mia morbida batuffolina cresceva come un
germoglietto dopo la prima pioggia primaverile. Dopo
tanta, tanta attesa era arrivata a magnificare la mia vita
(già felice) con la sua dolcezza disarmante, la sua
incredibile tranquillità e il suo calore odoroso di candore.
Ancora adesso che ha nove anni e inizia a sbocciare come
un virgulto pieno di forza e slancio, conserva i tratti
caratteriali angelici di quando era neonata. Prime piccole
ribellioni a parte. Quella maternità, sin dai primi giorni
della gravidanza, è stata la stagione più beata, finora, e il
ricordarla mi apporta pace nei momenti un po’ bui. Il
parto per contro, fu terribile, ventisei ore di attesa, tanta
paura, la bambina non scendeva, io ero stravolta e
spaventata. Gridai, piansi, pregai il medico di farmi il
cesareo. Alla fine Micol nacque, sana e solo un po’ rossa.
91
E io parevo reduce da una vacanza alle Maldive, bella e
raggiante. La brutta esperienza non aveva lasciato segni
(tranne che nel ricordo) tanto che dopo appena ventisei
mesi diedi alla luce Miriam. Ma soffrii qualche senso di
colpa nei riguardi della mia seconda bimba, la cui nascita,
ahimè, per motivi certamente non legati a lei, non fu
proprio un momento di tanta grazia.
Ma dare la vita rimane uno dei misteri più grandi e belli
dell’universo, nella gioia e nella fatica. E così ho vissuto
le due nascite, così diverse, ma entrambe fonte viva di
amore unico. Il nome Micol non ha un significato certo.
Di sicuro, è regale. Era il nome della prima moglie del
grandissimo re David nella Bibbia. Nonché della
protagonista femminile di uno dei più bei libri della mia
giovinezza, “Il giardino dei Finzi Contini”, una ragazza
bella, intelligente e decisamente anticonformista. Fece
una brutta fine (era ebrea) ma questo non ci influenzò
nella scelta del nome. La mia Micol non sembra così
decisa e sicura come quella del romanzo, ma è
sicuramente bella e intelligente. E un po’ diversa, perché
alla sua età già si pone domande impossibili, scompare
per starsene sola a pensare, ama la tranquillità e la quiete,
adora i cavalli e dipingere. Scrive poesie e racconti. E
vuole diventare veterinario, comprarsi una bella cascina e
allevare animali con sua sorella. Sbagliavo, sembra che
abbia già le idee chiare.
La portammo al mare in Toscana che aveva solo tre mesi,
e ci parve un’impresa caricare lettino, carrozzina,
pannolini…fortunatamente
allattavo,
quindi
non
dovemmo caricare anche tutto l’armamentario di biberon.
92
Durante quella vacanza la mia frugolina che fino ad allora
mangiava e dormiva (ma proprio nel senso letterale del
termine: non aprì gli occhi fino a tre mesi, succhiava il
latte quasi dormendo…) , iniziò a svegliarsi
progressivamente, credo che i suoi sensi si siano acuiti
tutto d’un botto e iniziai lì a percepirla davvero come una
persona. Tutte le mattine andavamo in giro (chissà perché
prima di partire si moriva di caldo e ora, al mare, si era
rinfrescato tutto d’u colpo con piogge frequenti. Mah…)
e visitavamo qualche angolo caratteristico della Toscana
che tanto ho amato e amo. Avevo già visto quei posti
(tranne Lucca), ma mi fece un piacere immenso
ritornarci. E andarci come famiglia. Mangiare nelle
trattorie tipiche e respirare l’essenza dei cipressi. O farmi
accarezzare dalla brezza salmastra e ascoltare i suoni
della macchia mediterranea. Versi di animali, crocchiare
di rami e sabbia sotto i piedi, il vento leggero tra le
fronde. Con un infante vicino è tutta un’altra cosa. E’
tutto amplificato e allo stesso tempo intenerito. Tutti i
sensi si acuiscono perché la realtà tutta si centra nel
piccolo essere e in lui assume un significato nuovo. Ogni
cielo azzurro, ogni brusìo, ogni aroma scatena emozioni
più profonde. Perché ogni movimento, ogni pianto e ogni
profumo del neonato vengono percepiti come eventi
grandiosi e densi di significato. Anche nei suoi aspetti
meno idilliaci. Se il bimbo non sta bene, è una tragedia.
Se non mangia, non dorme o non si scarica, desta
comunque una seria preoccupazione. Ma Micol stava
benone, era insaziabile (io iniziavo a non farcela più ad
allattare) e dormiva sodo, e l’ospitalità della mia amica
93
Grazia calorosa, i pranzetti deliziosi, i posticini ameni e il
clima fresco. E nonostante fosse l’ennesima volta che
trascorrevo lì le mie vacanze, guardavo tutto con occhi
nuovi e stupiti.
Il concetto di vacanza cambia
radicalmente quando arriva un bimbo. Non puoi più
concederti agli orari e ai ritmi che il tuo corpo e la tua
testa ti suggeriscono: svegliarti, mangiare, camminare,
visitare un luogo, soffermarsi davanti al panorama
diventa un suo diritto. Prima i suoi bisogni e poi i tuoi.
Così non puoi sentirti davvero in vacanza. D’altronde,
cambia la vita quando nasce un figlio, figuriamoci una
vacanza. Inizi con la macchina stracarica e un sacco di
preoccupazioni per la posizione della testolina nel
seggiolino, per il cambio pannolino, per la sudorazione
eccessiva e allora sotto con cuscinetto e federina di
spugna, barattoli di salviettine umide alla mano e pacchi
di pannolini sotto i piedi. Poi, pensi che l’aria
condizionata gli faccia male e allora patisci il caldo, ma
poi abbassi il finestrino se no soffochi (e fai soffocare
anche il bambino). Ma l’aria non deve battergli addosso
direttamente…poi il piccolo si sveglia, lagna, bisogna
intrattenerlo con qualche giochino, forse ha fame o è
sporco, ma siamo in colonna in autostrada. Insomma, già
l’inizio è un’avventura che io sono contenta di non dover
più ripetere. Per natura, sono già distratta, figuriamoci
quando parto per le ferie, il che mi dà una sensazione di
libertà mentale massima. Il che significa nella fattispecie:
voglio farmi i cavoli miei e non aver pensieri. Adesso
che le mie figlie sono indipendenti almeno per quanto
riguarda cibo e bisogni vari, e se hanno delle richieste
94
non sono io a
doverle interpretare ma loro a
comunicarmele…bhè, mi sento lontana anni luce da
quelle vacanze così impegnative. Perché poi c’erano le
pappe da preparare e da frullare senza tutti i soliti attrezzi
casalinghi, i bagnetti da fare alla bell’è meglio (e chi si
portava dietro il vascone di plastica?), la carrozzina
pesante da spingere il marsupio che ti sega le spalle
perché il pargolo è stufo della solita posizione e vuole
iniziare ad esplorare un po’ il mondo. E poi il lettino
diverso, anche se corredato da giochini portati da casa di
tutti i tipi e la stanza o l’appartamento diversi, un’altra
atmosfera, un’altra luce, un’altra aria…insomma, un
sacco di cambiamenti. Grandi per un piccolino. Ci sono
adulti che fanno fatica i primi giorni ad adattarsi al letto
diverso o al clima, figuriamoci un bambino. Eppure,
anche tutto questo lavorone immane (che tale è, un
lavorone per cercare di soddisfare il più possibile le
esigenze del bebè in una situazione così nuova) aveva
qualcosa di entusiasmante. Come ogni cosa che si fa per
accudire un piccolino. Spesso sempre gli stessi gesti,
eppure ogni volta nuovi. Perché non è mai uguale: anche
il bagnetto ogni volta riserva nuove emozioni. Le prime
volte l’apprensione è alle stelle. Poi, quando la mamma
prende confidenza con vaschetta, temperatura dell’acqua,
sapone e posizione del bimbo, diventa quasi un gioco per
entrambi. Così anche il cambio pannolino e la pappa,
momenti di irrinunciabile tenerezza e di incredula
osservazione dei progressi del piccino che piano piano
diventa più sicuro, più intraprendente e anche più vivace
(fino al punto di doverlo trattenere saldamente sul
95
fasciatolo o sul seggiolone). Il cucchiaino non è più un
problema ma uno strumento abilmente maneggiato e fa
niente se alla fine metà pappa è finita ovunque oltre che
in bocca e sulla faccia.
Comunque la prima volta al mare di Micol andò
benissimo. Mostrò subito una forte propensione per
l’acqua, cosa che perdura tutt’ora. Sbatteva i piedini,
immergeva le manine nel mare e le agitava con foga.
Crema solare a protezione solare totale spalmata a piene
mani e bandana in testa, era uno spettacolo vederla
agitarsi tutta alla sola vista dell’azzurra distesa liquida.
La prima vacanza di Miriam invece fu in montagna
vicino a Ponte di Legno. Aveva solo poco più di tre
settimane, era davvero un fantolino tenerissimo, bianco e
rosa, avido di latte e di abbracci. Partimmo stracarichi più
del solito, i piccoli ora erano due. Il paesino era carino, la
casetta pure ma il tempo inclemente e la mia grande
stanchezza non giocarono a favore di una vacanza distesa
e serena. La cosa davvero positiva fu la sospensione del
pasto notturno: Miriam si addormentava intorno alle
ventitrè dopo una poppata abbondante (che rigurgitava
alla grande) e parecchi pianti e si svegliava verso le otto,
ancora ingorda del dolce nutrimento. Per il resto ricordo
tanto vento, il mio nervosismo e la mia apprensione per la
stesura della mia tesi di dottorato, la cui discussione era
prevista per dicembre. Dovevo leggermi al più presto una
sessantina di articoli in inglese, iniziare a scrivere.
L’allattamento mi pesava tanto, e tutta la fatica nello
studio e nel lavoro, che mi aveva accompagnato durante i
nove mesi di attesa, adesso si faceva sentire. Poi, qualche
96
problema famigliare. La mia cara nonna era morta appena
avevo scoperto di essere incinta, Micol dopo qualche
mese era stata ricoverata in ospedale per una
gastroenterite e all’ottavo mese mi era stata diagnosticata
per un errore di laboratorio l’epatite C. E l’ultimo figlio
del mio vicino di casa si era schiantato in moto a ventitrè
anni. Insomma, al contrario della mia prima felice
gravidanza, quest’altra fu problematica. Non per la
piccola, che cresceva e non mi dava alcun problema
fisico, nemmeno la nausea. Nacque velocemente e quasi
non mi arrecò dolore. Ma furono altre le circostanze che
si accumularono in quei mesi, che mi tolsero il sonno e la
tranquillità, provocandomi uno stato di forte stress e
stanchezza. Finii anche al Pronto Soccorso per gli
attacchi di ansia che ahimè, iniziarono allora ad
affliggermi e che mi avrebbero accompagnato per anni.
Volevo prendere il dottorato, lavorare in università, avere
figli, continuare ad aiutare le missioni. Nel frattempo ci
eravamo trasferiti, contro il mio parere, di nuovo a Paullo
nella casa dei miei suoceri. Amavo il mio paesino, la sua
gente, i miei ragazzi di catechismo e i nuovi amici. Non
avevo voglia di ritornare in questo paese che mi sembrava
vuoto e scialbo, un grande dormitorio a confronto con la
vivacità nostrana di Galgagnano. Poi, con tutto il rispetto
per i genitori di mio marito, proprio non volevo andare a
stare sopra di loro. Presentivo qualcosa di negativo. Che
successe. Ma preferisco evitare questa storia fastidiosa,
sto raccontando le estati più belle della mia vita. Di fatto,
volevo fare la brava ricercatrice, la brava mamma, la
brava moglie e la brava nuora. Troppo impegnativo.
97
Perché non si può essere tutto, sempre e bene. Far finta
che tutto vada per il meglio, convincersi che si riesca
sempre con le proprie forze a far andare bene le cose.
Non concedersi mai di mostrarsi fragile, insicura o
inadeguata. Anche quando dentro ci si sente incapaci o
stanchi morti. Dimostrare pazienza, accondiscendenza e
tolleranza anche quando si avrebbe voglia di dirne quattro
sul muso a qualche soggetto molesto. Adesso me ne
rendo conto. E non mi mette più a disagio manifestare la
mia debolezza o la mia sofferenza. Faccio sempre un po’
di fatica, mi piace fare la parte della donna forte e
risoluta. Della persona vincente, sicura e in gamba,
quella che piaceva tanto a papà. La figlia brava, studiosa
e giudiziosa. Ma provo sollievo a liberare la mia parte
più umana. Nessuno nasce per essere un super-eroe.
Siamo tutti esseri umani pieni di pregi e difetti.
Soprattutto difetti. E non c’è niente di male ad ammettere
questa realtà. Stà qui la nostra grandezza. Solo partendo
dal riconoscimento del nostro limite possiamo costruire
vite belle, ricche di coraggio e di forza, progetti
ampiamente realizzati. I veri grandi della storia l’hanno
capito. La mia è una storia ancora in corso, non so se sarà
interessante o importante. So solo che è la mia, che è
unica e che devo scriverla con attenzione, impegno e un
po’ di gioia. Le mie figlie sono il fulcro di questa mia
storia e molta di questa gioia. Anche nei momenti
dell’estenuante fatica quotidiana nell’accompagnarle
verso la scoperta di quella che sarà la loro strada,
intravedo la meraviglia di essere il custode di piccole
esistenze che prendono forma e che si preparano a
98
spiccare il volo verso una grande avventura.
FINALMENTE AMERICA
99
Era un mio sogno da anni. Il Canada. Una mia amica e un
mio collega c’erano andati per lavoro, e lei era rimasta.
Sognavo l’immensità del paesaggio, la sua sterminata
verdissima (o bianchissima, a seconda delle stagioni)
solitudine e il San Lorenzo dove nuotano i delfini. Le
cascate del Niagara, le città modernissime eppure a
misura d’uomo. Non ero mai stata in America. Gli Stati
Uniti non mi hanno mai attirata un granchè. Sarà che
sono un’appassionata di antichità, il troppo moderno mi
destabilizza e mi dà un senso di vuoto e di sottile
angoscia. Troppo splendente, tecnico e perfetto. Il
vecchiume, un po’ eroso dal tempo, con quella patina
sbiadita addosso, mezzo rovinato o diroccato mi esalta
sempre. Ha un colore e un profumo che mi rasserenano e
rassicurano. Programmai il viaggio con estrema
precisione, visto che ci veniva anche Micol di appena due
anni. Volevo che tutto filasse liscio. Doveva essere un
viaggio indimenticabile. Ci saremmo recati a visitare la
cugina di Giovanni che viveva nel Quebec col marito
canadese e quattro figli e la mia amica e collega Marzia
che vive e lavora a Ottawa. Avremmo visto le cascate del
Niagara. Convinto Giovanni, mi misi all’opera per
organizzare il viaggio. Guida e internet alla mano,
impiegai non poco a decidere il percorso e le cose da
vedere. Saremmo partiti da Quebec con una macchina a
noleggio, visita ai cugini in campagna, poi Montreal,
Ottawa con sosta da Marzia e infine Toronto e le cascate.
Partimmo stracarichi , oltre che delle valige (roba pesante
a volontà, non si sa mai, in Canada fa sempre freddo!) di
pannolini, pappe, biscotti Plasmon e termos. Fu un
100
viaggio non propriamente comodissimo: avevamo
prenotato un volo di linea Air Canada, due posti più culla
e ci ritrovammo su un charter di una sottolinea
dell’Alitalia senza culla. Protestammo insieme ad altre
famiglie con bambini piccoli, ma tanto, come si poteva
fare altrimenti? Ci dovemmo accontentare di due posti
stretti, la bimba in braccio e tutto l’occorrente cambio e
vettovaglie sotto i piedi. Micol era sempre più stanca e
nervosa, mangiò pochissimo e stentò a dormire, si
svegliava in continuazione. Lo scalo a Montrèal fu anche
peggio: ci fecero aprire le borse e ci perquisirono per
colpa della carta argento dei biscotti Plasmon riposti nella
sacca del cibo di Micol. La bambina piangeva, aveva
fame e sonno, tentati di darle un po’ di pappa.
Prendemmo l’aereo per Quebec city e atterrammo
un’oretta dopo. Noleggiammo una bella famigliare e ci
perdemmo per le immense strade deserte. Avevo in mano
la cartina della città ma non rendendomi conto delle
distanze enormi non mi ci raccapezzai più e dovemmo
chiedere a un taxista di farci strada. La suite era deliziosa
e noi eravamo stravolti. Dormimmo praticamente per
quasi due giorni alzandoci solo per mangiare. Micol
pareva facesse fatica ad adattarsi al fuso orario e
mangiava poco, fatto assolutamente strano per lei. Non
voleva camminare, si assopiva continuamente nel
passeggino.
Non gustai pienamente la bellezza nostalgica e
decisamente europea di Quebec City. Le belle case, il
centro storico con le costruzioni in pietra dei coloni, il
quartiere italiano e la spianata di Lincoln dove
101
avvenne lo scontro finale tra francesi e inglesi nel 1790.
Tutto mi pareva un po’ sfocato e incolore guardando la
mia bambina così muta e sempre appisolata nel
passeggino, senza nessuna voglia. Solo la visita alla
cugina Mara la scosse dal quel penoso torpore e
iniziammo tutti a godere di quella splendida vacanza.
Mara sposò nel 10992 un canadese, François, e si trasferì
i una casa colonica del settecento in un piccolo paese
Sainte Bustine Quebec a circa un’ora e mezzo di strada
dalla città. La scelta di questa donna all’apparenza fragile
ma con una notevole forza interiore suscitò parecchio
scalpore nel parentado nostrano. Lasciò 9i genitori
anziani, una vita tranquilla e un lavoro sicuro per
l’incognita di un paese straniero e lontano. François non
aveva ancora un’occupazione fissa. Ci piacemmo subito,
appena conosciute, sentivamo di avere in comune l’amore
per le cose belle e per Dio. Per un anno facemmo parte
del piccolo coro polifonico che si ritrovava in biblioteca.
Mara ha una voce sottile e melodiosa, un usignolo tenero
ma deciso. Io, di contro, ho un vocione squillante e
corposo, proprio come la mia corporatura. L’una
compensava l’altra. Poi Mara se n’è andata e il coro si
sciolse. Mi mancava. Iniziavo solo allora a sentire
l’accordo delle voci, lo sfondo discreto ma indispensabile
dei contralti, il contrasto dei bassi e la corona dei tenori
alle note sovrastanti dei soprani. Solo un assaggio della
bellezza struggente della musica creata dalla sola voce
umana che è lo strumento più versatile e sofisticato.
Chissà, un giorno potrei ricominciare a cantare. Non fu
difficile raggiungere Sainte Justine, Mara ci diede
102
informazioni dettagliate, le strade erano grandiose, libere
e ben segnalate. Pendìì dolci e verdissimi, punteggiati da
villaggi e fattorie, tanto spazio libero. L’accoglienza fu
calorosa e semplice. I tre ragazzi grandi e forti ci vennero
incontro timidi e gentili. Scalzi e ancora gocciolanti dopo
il bagno nel laghetto in cortile. Cortile…una campagna, e
sul retro l’orto, un pollaio e un vero bosco. Nessuna
recinzione, nessun cancello…boh…Micol ancora
immersa nella sua apatia, guardava tutto un po’ stupita,
stranita dalle dimostrazioni d’affetto dei parenti.
Comparve Mara, sempre piccolina e magra, col suo
sorriso enorme stampato sul volto tirato. In
braccio,l’ultimo arrivato, Emanuel, di sette mesi, il
piccolo di Haiti adottato da qualche mese. Nero,
riccioluto e con due occhi sfavillanti. Era arrivato
sottopeso, abbandonato dal padre vedovo e poverissimo
in istituto. Non poteva più mantenerlo. Queste storie mi
commuovono e mi intristiscono. Un padre non dovrebbe
mai trovarsi nella condizione di essere costretto a
rinunciare a un figlio perché non ha mezzi per allevarlo.
E nemmeno una madre dovrebbe mai liberarsi della sua
creatura perché non sa come crescerla e nessuno la aiuta.
Deve essere un dolore lancinante separarti per sempre
dalla carne della tua carne, rinunciare al tuo stesso
sangue. A volte penso che siano atti d’amore supremi:
non posso proprio farti crescere, allora preferisco che
qualcun altro che ne ha la possibilità prenda il mio posto
e ti faccia crescere felice. Al cuginetto è andata davvero
bene, ha trovato due genitori meravigliosi e dei fratelli
premurosi. Non sono ricchi, ma non manca nulla nella
103
grande casa colonica del settecento che François ha
pazientemente sistemato. L’orto e il pollaio forniscono
verdure e carne fresche e genuine. Nel bosco crescono i
mirtilli. E i conigli pare superino il rigido inverno senza
particolari problemi. Le camere sono arredate con
semplicità, ma sono luminose e spaziose. Il soggiorno è
pieno di libri e giochi. La cucina è enorme con una
lavatrice che funziona a pieno ritmo ogni giorno. I
ragazzi frequentano la scuola del paese che dista circa
due chilometri, François lavora la terra e Mara oltre ad
accudire la numerosa famiglia lavora nel campo degli
integratori alimentari. La vita è semplice e faticosa, ma
intrisa dell’ amore e della fede che hanno condotto questi
due sposi fino a questo bel posto tra i campi all’estremità
orientale del Canada. E’ stato un incontro singolare
quello tra Mara e François , una sorpresa che ha cambiato
le loro vite , quella serena e tranquilla di Mara,
insegnante, e quella alla ricerca di senso del pellegrino
François in giro per il mondo con lo zaino in spalla.
L’esistenza pacata come un lago in primavera di Mara è
stata
smossa da quella inquieta di François, che
finalmente ha trovato il suo porto, la rada dove attraccare
definitivamente. Credo sia stato un grosso sacrificio per
Mara lasciare una vita sicura per l’incertezza di
un’avventura nuova dall’altra parte dell’oceano. Lasciare
i genitori anziani e con gli acciacchi, il fratello, gli amici,
una professione amata, il canto…però ce l’ha fatta e bene,
direi. Circolavano tra il parentado popolano varie
leggende su questi due bizzarri tipi: che campassero
chissà come, che abitassero in un luogo inospitale e
104
selvaggio, che vivessero in una fantomatica comunità…il
nostro viaggio servì a dissipare definitivamente tutte
quelle chiacchiere insulse. Vedemmo una famiglia felice,
modesta ma decorosa, in un posto incantato a contato con
una natura dolce e pura. Cogliemmo insieme le verdure e
raccogliemmo le uova. Micol giocò a piedi nudi nel prato
con i cugini e mangiò con gusto la pasta e il pesce e io
finalmente mi rilassai. Si vede che l’atmosfera così bella
di quella casa ebbe un benefico effetto su di lei. Infatti, da
quel momento , Micol ridiventò la bambina vivace e
sorridente che era sempre stata e si comportò così per
tutta la durata della vacanza. Lasciammo la bella
famigliola con un po’ di rammarico, ci saremmo trattenuti
volentieri. Ma Marzia, la mia collega, mi aspettava a
Ottawa, e dopo qualche giorno a Montreal, trascorso
soprattutto nella città sotterranea, incredibile per vastità e
organizzazione (una vera città con negozi, parrucchiere,
dentista, ristoranti e aree giochi per bimbi…
sfruttatissima durante gli inverni impossibili a -40!)
arrivammo nella deliziosa capitale, una cittadina discreta
e elegante, talmente verde da sembrare un’amena località
Svizzera. Nel centro al posto di grattacieli argentei
svettanti nel cielo rosse casette tutte uguali si
avvicendavano lungo freschissimi viali alberati. Peccato
che la temperatura sfiorò i 44 gradi (erano più di
cent’anni che non accadeva!) e passammo notti insonni e
soffocanti. Ma trascorremmo comunque una bella
settimana, coccolati da Marzia e dal marito Tristan, che ci
cucinò piatti tipici e ci portò in uno steak house
giapponese per un saluto speciale. Ultima tappa, Toronto
105
e le cascate del Niagara. Non ricordo molto della città
sull’Ontario, se non gli infiniti viali che si tagliavano a
angolo retto e il quartiere cinese, pieno di poliziotte, di
scritte e di polli e calamari fritti color arancione esposti
fuori dai negozi. Nemmeno le cascate mi
impressionarono granchè, forse perché non riuscimmo a
prendere il battello Maid of the Mysth che porta i turisti
quasi sotto le cascate. Ma indimenticabile fu il parco
Marineland dove accarezzammo la pinna di un’orca e
ammirammo un orso bianco nuotare pesantemente nella
sua piscina . Mi dispiace che Micol non ricordi niente, ma
era troppo piccola. Micol adora gli animali, e le
piacerebbe diventare veterinario come il nonno, mio
padre, col quale si lancia in animate discussioni sulle
razze di cani e cavalli. Vorrebbe fare anche l’archeologo,
perché adesso ha la passione dell’Antico Egitto, si è
imparata a memoria i nomi di tutti gli dei e ha scritto
anche un racconto fantastico che ha lei come protagonista
catapultata per magia in quel mondo lontano e
affascinante. Si è vista e rivista tutti i film di Indiana
Jones e il suo preferito è Il tempio maledetto. A Babbo
Natale ha chiesto le costruzioni Lego di una scena del
film, quello nelle miniere . Quando Micol si appassiona a
qualcosa, lo fa fino in fondo. Poi magari si stanca, ma
intanto ci mette tutto l’entusiasmo. Miriam invece prima
di interessarsi a qualcosa, ci studia sopra per un tempo
indeterminato. Considera, pondera e riflette…ma una
volta iniziato, non la smette più. Possiede una tenacia e
una perseveranza incredibili. Le mie figlie sono parti
diverse che coesistono in me: entusiasmo e perseveranza,
106
incoscienza e prudenza.
La vacanza canadese fu proprio così. E perciò la ricordo
con tanto piacere. Perché fu decisa sull’onda dell’euforia,
ma organizzata con cura, e nonostante fossimo tanto
lontano dall’Italia, là ci sentimmo come a casa.
MASHA BIELORUSSA E I CENTRI ESTIVI
107
Il primo incontro non fu certo un colpo di fulmine: un
visino pallido, lunghi lacrimoni, «telefono mama». E il
nostro imbarazzo. Così abbiamo conosciuto Masha, la
bambina bielorussa di otto anni che abbiamo ospitato per
sei settimane nell’estate del 2007. Da anni, varie
associazioni organizzano soggiorni di risanamento per
bambini provenienti dalle zone contaminate in seguito al
disastro di Chernobyl. Tutti conosciamo le conseguenze
nefaste della più grande sciagura nucleare della storia.
Un’esplosione pari a 100 volte la bomba caduta su
Hiroshima. Oltre alle gravi malattie (tumori e leucemie)
dovute all’alta percentuale di elementi radioattivi, si
registrano ancora oggi, dopo più di vent’anni, soprattutto
nella popolazione infantile, salute cagionevole,
affaticamento psicologico e abbassamento delle difese
immunitarie. Con le nostre bambine avevamo deciso che
era arrivato il momento di provare questa esperienza di
accoglienza. Dopo qualche colloquio con i responsabili
all’associazione che opera nel nostro paese e aver
sbrigato le pratiche necessarie, abbiamo aggiunto un
lettino nella cameretta e predisposto uno spazio
nell’armadio per i vestitini. Non ce la immaginavamo, la
aspettavamo con gioia. Arrivò tremante, con pochi abitini
in una sacca logora e qualche modesto regaluccio che ci
consegnò singhiozzando. Non mangiò che un po’ di
frutta. Una telefonata a casa, pianto a dirotto e noi che
non trovavamo né le parole né i gesti. Ci vennero in aiuto
le bambine che col linguaggio internazionale del gioco
sbloccarono la stasi di quella situazione : le offrirono
giochi, libri e colori e le fecero scegliere i cartoni
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animati che preferiva. Nel giro di una settimana, Masha
iniziò a sorridere, a mangiare con appetito (e che
appetito) e a giocare allegramente. Frequentacva con
entusiasmo il Centro Estivo, poi serata e fine settimana
con noi. Con il sostegno discreto ma efficace
dell’accompagnatrice, la cara Hanya, superammo
tranquillamente le difficoltà della lingua. Da parte nostra
cercammo di rassicurare la bambina, creando un clima
affettivo che la mettesse a suo agio, e di farle capire le
regole di casa nostra, che anche lei era tenuta a rispettare.
Sveglia e intelligente, non faticò ad adattarsi e a voler
partecipare attivamente alla nostra vita. La sua curiosità
era senza limiti, così pure il senso dell’humor. E poi…un
vero simpatico maschiaccio, in perenne movimento,
sempre alla ricerca di novità… Le andava bene tutto,
purchè si agisse. Certo, qualche piccola gelosia, qualche
incomprensione, soprattutto con la mia piccolina sempre
un po’ critica nei confronti delle novità …ma tutti
superati con serenità. Masha era una bambina speciale,
siamo stati davvero fortunati. Non l’abbiamo scelta, ci è
stata donata. Non tutte le esperienze con questi bambini
sono felici: per alcune famiglie fu una sfida
particolarmente dura, con bambini molto chiusi e tristi,
che faticavano ad ambientarsi. Non è una passeggiata! E’
una bella strada in salita! Ma l’amore e l’attenzione delle
famiglie verso questi piccoli rimangono a testimoniare
che la solidarietà non ha confini. I giorni volarono,
qualche festicciola, gite e cene insieme, ed arrivò in
fretta la data della partenza. Masha riempì lo zaino di
disegni, foto, giochi e Parmigiano Reggiano. Si è voluta
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portare via un pezzo della nostra famiglia e della nostra
Italia. All’aeroporto, l’ultimo commosso saluto, tanti baci
e la promessa di ritornare. Ma è giusto che Masha sia
ritornata a casa sua. Il suo rimarrà un posto riservato.
Soprattutto, nei nostri cuori.
Quell’anno, non so cosa mi passò per la testa, volli anche
impegnarmi al GREST dell’oratorio dando la mia
disponibilità per gestire un laboratorio coi ragazzi. Io
sono così, più sono impegnata più cerco nuovi impegni.
Adesso mi sono data una regolata ma la natura è la
natura, non riesco a stare ferma. Sento perennemente la
tentazione di mettermi in ballo con qualche nuova
attività. Soprattutto se si tratta di bambini o di ragazzi. Il
nostro GREST parrocchiale quell’anno ospitò in tutto
quasi 400 bambini con decine di animatori adolescenti e
un gruppo di 20/30 adulti più lo staff di responsabili. Una
macchina organizzativa davvero importante. Per il mio
laboratorio, proposi delle cornici fatte con cartone, pasta
e glitter. Ma ci fu chi propose bambole di pezza, borse
decorate, trenini coi tappi di sughero, aeroplanini di carta
e portatovaglioli in cartone . Partimmo armate di borse
stracolme di materiale e tanta buona volontà. Ci
affiancavano gli animatori adolescenti che avevano il
compito di sorvegliare ed aiutare i bambini a lavorare.
Sotto il grande portico, sui tavoloni di legno ricoperti ,
una folla di bimbi trafficava con le sostanze più disparate.
C’era un’ allegra confusione tra colori rovesciati e colla
sulle dita e le urla che richiamavano o davano direttive.
Di fatto quando si è in tanti, un po’ di sano marasma è
inevitabile, e la fatica aumenta esponenzialmente col
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passare del tempo e l’aumento delle temperature. Il che
ha anche come conseguenza l’abbassamento della soglia
di sopportazione e del livello di pazienza. Non solo con i
più piccoli, ma soprattutto con i più grandi, quelli che ai
più piccoli dovrebbero badare. Gli animatori adolescenti
sono una risorsa irrinunciabile e un servizio che segna un
percorso di crescita…ma sono ragazzi, con tutta la carica
di entusiasmo e, ahimè, di fragilità e incertezze
caratteristiche dell’età. E capita che, a volte, si facciano
un po’ troppo i fatti loro, si appartino a coppiette,
cerchino un momento di sballo non proprio sano…
mollando la responsabilità di vigilare sui bambini e di
stare con loro. Insomma, un GREST che accoglie tanti
bambini e che si regge esclusivamente sul volontariato
non è impresa proprio leggera. Esige una
programmazione e una preparazione seria che dura mesi,
la formazione degli animatori, il reperimento di personale
per la cucina e le pulizie, la progettazione dei laboratori e
via dicendo… per non parlare delle giornate in piscina o
delle gite ai parchi acquatici ove l’allerta è massima.
Quest’anno ci siamo ritrovati con un bambino in più che
si era intrufolato nel pullman senza che nessuno se ne
accorgesse e aveva passato un’allegra giornata tra gli
scivoli da anonimo fino a che la madre non l’aveva
reclamato al GREST. Fortunatamente non era successo
niente, il ragazzino stava bene e probabilmente si era pure
divertito di più che non se fosse rimasto in oratorio. Può
succedere anche di non trovare più un bimbo o che
qualcuno si faccia male correndo…insomma, la questione
responsabilità è davvero importante. Quattro settimane
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davvero snervanti e dense di preoccupazioni. Ma anche di
crescita insieme, di nuove conoscenze e di condivisione
di vittorie e piccoli successi. Di mamme che ringraziano,
grate dell’attenzione che tante persone hanno avuto per i
loro figli. Di ragazzi che rincasano sudati e impolverati
con già il pensiero di ritornare a giocare. Di animatori
stanchi morti e un po’ innervositi che hanno ancora la
forza di un sorriso, di un saluto o di una carezza. Di chi
ha reso possibile tutto questo grande incontro prepara da
mesi di lavoro serio e inizia a guardarsi indietro con un
po’ di soddisfazione perché tanti sforzi non sono stati
vani. Il successo è il frutto del cammino volonteroso e
capace di molti che hanno ritenuto importante dedicare
un pezzetto di sé ai più giovani. Un piccolo miracolo che
regala a sonnolenti giorni estivi un pizzico di magia e di
letizia che culminano nella grande festa finale con canti,
balli e giochi. Un modo semplice per dire grazie a tutti,
un grazie vero, non di cortesia, ma del cuore. Perché solo
insieme si può costruire un’esperienza che parla di
amicizia, di dedizione, di allegria e serenità.
VISERBA, 25 ANNI DOPO
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Forse sto iniziando davvero ad invecchiare. Provo un
piacere sottile nel recarmi nei luoghi della mia gioventù e
ricordare i miei vent’anni. Ripensare ai volti conosciuti
allora. Ai divertimenti condivisi, ai sogni futuri confidati
in un soffio di voce. Ai desideri più profondi e al timore
di svelarli. Agli amori sfortunati o tormentati, quelli che ti
contorcono le viscere, ti surriscaldano le guance e ti
fanno tremare sudando per un inconsueto misto di caldogelo nel sangue. Alle serate con la chitarra, alle partite a
carte quando si urlava e si dava del cretino al compagno
di gioco che non capiva le tue mosse. Le partite di
briscola a chiamata col Galli, memorabili. Risento la sua
voce roca e incazzata, con la erre dura. E le prese in giro
degli altri. A quel languore che saliva dal di dentro alla
pelle che fremeva, alla paura di non essere in grado di
affrontare le sfide, all’audacia nel provarci….nei meandri
della mia mente ho stanato anche il ricordo delle estati a
Viserba con la mamma vigile che però usciva alla sera da
sola e mi lasciava la libertà di rientrare a ore
ragionevolmente piccole. Sono state le prime vacanze “da
grande”, col battesimo della discoteca (che non fu un
granchè, anche se era “L’altro mondo studio”), le prime
birre e i primi corteggiamenti. Non sono mai stata
precoce nei rapporti con i ragazzi e con i divertimenti,
preferivo (e lo preferisco tutt’ora) le amicizie profonde, le
buone letture e i buoni films. Mi danno più serenità e
sicurezza, non so perché. Ma d’estate ( e sulla riviera
romagnola, poi) è lecito lasciarsi andare un po’. E’ anche
divertente. Non si può sempre mica vivere come topi da
biblioteca e col naso all’insù alle mostre. Poi, diciamolo,
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la Riviera è tentatrice. Lo svago lì è un’industria
organizzatissima, ovunque si trovano feste, locali, balli e
grandi mangiate. Sembra non esserci spazio per la
tristezza e la solitudine. E’ quasi un obbligo uscire,
divertirsi e, per un po’, lasciarsi alle spalle il grigiore
della routine, la fatica del lavoro o dello studio, i pensieri
che assillano la testa durante le lunghe e mute notti
invernali.
Lì c’è solo posto per l’allegria e la
spensieratezza, lì ci si trasforma in persone libere, audaci
e festaiole. Di giorno, intorpiditi al sole e a mollo
nell’acqua tiepida e torbida (ahimè, la grande pecca di
questo mare…), di sera docciati e rinvigoriti, pronti allo
svago. Non è la mia vacanza ideale, io sono per il
movimento e la scoperta continua del viaggio, ma
quest’anno ci voleva proprio un tradizionale soggiorno al
mare formato famiglia. Per me e le bambine. Per
rigenerarci dopo un anno davvero difficile e faticoso. Per
ritrovarci e prepararci a un nuovo anno di prove e sfide.
Che si preannunciano positive, ma pur sempre
impegnative. Sto già pensandoci. E abbozzando un
programma di massima. Le cose da fare saranno
moltissime, necessita una buona organizzazione e
un’ottimizzazione di forze ed energie. La scuola, il
lavoro, la casa, attività sportive e ludiche…ricomincia
ancora una volta la vita di sempre. Ma la compagnia così
affettuosa e simpatica della mia Erika, di suo marito
Marco e della piccola Rebecca, di Anna e della sua bella
famiglia ci hanno davvero ristorato e fatto dimenticare
per un po’ le nostre angosce e le nostre solitudini. Come
una grande famiglia, con i lettini tutti vicini in spiaggia,
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sempre insieme a spasso di sera a mangiare un gelato, a
curiosare nei negozi di chincaglierie o ad aspettare sulla
panchina che le bambine finissero i giri sulle macchinine
o sul drago. Insieme a Ferragosto, a ballare i balli di
gruppo (inguardabili, secondo il parere di Marco), a
guardare i fuochi artificiali sulla spiaggia, a passeggiare
lungo la meravigliosa modernissima Darsena di Rimini.
Le bambine passavano le ore a giocare a nuotare e
qualche volta a litigare. Ma andava bene comunque.
Siamo stati bene tutti insieme. Non mi sono sentita sola
un attimo. E’ bello avere tanti veri amici. Ti senti parte di
una grande comunità. Condividi un po’ tutto, dalle inezie
ai drammi che la vita inevitabilmente ti sbatte contro. E
non è necessario incontrarsi tutti i giorni. A volte sì, ma
mica sempre. Basta anche un sms o una telefonata. O un
pensiero o una preghiera. E ci si sente comunque uniti.
EPILOGO
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E’ passato un anno. Un anno duro, di fatiche e di
malumori, di seccanti imprevisti e di scelte dolorose.
Della presa di coscienza di una realtà difficile da digerire,
ma comunque da affrontare. Perché si deve pur
continuare a vivere e nel migliore dei modi. Almeno, ci si
prova. Altrimenti è meglio gettare la spugna. Ma non è da
me. Anche perché in questi mesi di prova, sono cresciuta
dentro come neanche mi era successo in dieci anni. Ed è
maturata in me la saggezza di chi è sopravvissuto alla
tormenta e sta ricostruendo pian piano la sua casa. In
modo diverso da prima, i locali non saranno più gli stessi
e neppure il tetto. Non si rinasce mai uguali, e le cicatrici
restano e fanno male , ogni tanto. Ma la stagione della
mia vita adesso è un’estate piena di frutti che devo
mietere con pazienza e dedizione. Non posso sprecare il
mio raccolto, è prezioso e non solo per me. Devo
investirlo nei miei progetti che sono tanti e pieni di
speranza. Cerco di non pensare con angoscia a come sarò
o a come saranno le mie figlie. Tento di mettere ogni
giorno un mattone per continuare a ricostruire la mia
nuova casa, le mie relazioni, i miei affetti, il mio lavoro,
la mia anima . E mentre guardo allo specchio i capelli che
iniziano a ingrigire e gli occhi che si fanno un po’
pesanti, mi dico che per me è ancora il momento del
canto delle cicale, che accompagnano la stagione della
pienezza e delle messi dorate. Non è ancora il tempo delle
brume e delle nebbie: il mio sole splende caldo e forte, mi
fa sudare e mi toglie il respiro. Ma il mio grano deve
essere mietuto e riposto nel granaio.
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