130306 Camus - Centro Culturale di Milano
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130306 Camus - Centro Culturale di Milano
per il ciclo Quello che può la letteratura Testimoni nel ‘900 per la città contemporanea Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus interpretato da Massimo Popolizio a seguire dialogo con: Massimo Borghesi, filosofo Luca Doninelli, scrittore Introduce: Giancorrado Peluso, docente di letteratura Teatro Dal Verme, Milano Mercoledì 6 marzo 2013 Via Zebedia, 2 20123 Milano tel. 0286455162-68 fax 0286455169 Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” CAMILLO FORNASIERI: Albert Camus è un autore che è andato oltre tanti schemi, in un periodo che va dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale fino alla Guerra Fredda. Muore molto prematuramente nel 1960 ed è uno dei più giovani premi Nobel della Letteratura. Abbiamo qui con noi Massimo Popolizio, grande attore italiano e amico di questo ciclo, cui partecipa sempre. Poi ne parleranno insieme il filosofo Massimo Borghesi e Luca Doninelli, scrittore, amante di Camus e particolarmente interessato a indagare le esperienze umane che questo autore ci mostra. Saranno presentati e coordinati dal professor Giancorrado Peluso, della redazione del Centro Culturale di Milano. L’ATTORE MASSIMO POPOLIZIO INTERPRETA L’ANTOLOGIA DI BRANI DI ALBERT CAMUS: 1) Lo sguardo Meridiano “La bellezza isolata finisce col far le grinze, la giustizia solitaria finisce con l’opprimere” (da Nozze, 1939) …dall’altra parte della città, l’estate già ci porge in contrasto le altre sue ricchezze: voglio dire i suoi silenzi e la sua noia. Questi silenzi non hanno tutti la stessa natura, secondo che nascano dall’ombra o dal sole. C’è il silenzio del mezzogiorno sulla piazza del Governo. All’ombra degli alberi che l’attorniano, degli Arabi vendono per cinque soldi bicchieri di limonata ghiacciata, profumata al fiore d’arancio. Il loro richiamo: “Fresca, fresca” attraversa la piazza deserta. Dopo il loro grido, il silenzio ricade sotto il sole: nella brocca del venditore, il ghiaccio si capovolge e io ne sento il rumore leggero. C’è il silenzio della siesta. Nelle vie della Marina, davanti alle sudicie botteghe dei barbieri, lo si può misurare dal melodioso ronzio delle mosche dietro le tende di canne. Altrove, nei caffè moreschi della Kasbah, è il corpo, silenzioso, che non può strapparsi da questi luoghi, lasciare il bicchiere di tè e ritrovare il tempo con i mormorii del suo sangue. Ma c’è soprattutto il silenzio delle sere d’estate. È necessario che quei brevi istanti in cui il giorno piomba nella notte siano popolati di segnali e di richiami segreti perché, in me, Algeri sia talmente legata ad essi? Quando Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” resto per qualche tempo lontano da quel paese, immagino i suoi crepuscoli come promesse di felicità. (Da Il primo uomo, 1960) Oh, sì, era così, così era stata la vita del ragazzo, così era stata la vita nell’isola povera del quartiere, determinata dalla nuda necessità, in una famiglia inferma e ignorante, col suo giovane sangue bollente, un’insaziabile voglia di vivere, un’intelligenza ingorda e selvaggia, e un continuo delirio di gioia interrotto dai bruschi colpi d’arresto che gli infliggeva un mondo sconosciuto, lasciandolo sconcertato, ma pronto a riprendersi, a cercar di capire, di sapere, di assimilare quel mondo che non conosceva, e assimilandolo di fatto perché lo affrontava con avidità ma senza cercare d’intrufolarsi, con buona volontà ma senza bassezza, e senza mai perdere la sua tranquilla certezza, sì, la sua sicurezza, poiché era convinto che sarebbe arrivato a tutto ciò che voleva e che niente gli sarebbe mai stato impossibile di ciò che è di questo mondo, e di questo mondo soltanto, preparandosi (e preparato a questo anche dalla nudità dell’infanzia) a trovarsi ovunque al proprio posto, perché non desiderava nessun posto, ma solo la gioia, le persone libere, la forza e tutto ciò che la vita ha di buono, di misterioso, e che non si compra né si potrà mai comprare. (…) Sì, così era vissuto tra i giochi del mare, del vento, della strada, sotto il peso dell’estate e delle piogge intense del breve inverno, senza padre, senza una tradizione che gli fosse stata trasmessa, ma trovando un padre per un anno, proprio nel momento in cui ne aveva avuto bisogno, e procedendo attraverso le persone e le cose delle [ ],1 e le conoscenze che gli si aprivano per costruirsi qualcosa che assomigliasse a un comportamento (sufficiente per il momento per le circostanze che gli si presentavano, insufficiente in seguito davanti al cancro del mondo) e per crearsi una propria tradizione. “Per rivivere ci vuole una grazia, l’oblio di sé o una patria” (da L’Estate, 1953) Crollavano gli imperi, uomini e nazioni si azzannavano; ci eravamo insozzati. Prima eravamo innocenti senza saperlo, adesso eravamo colpevoli senza volerlo: insieme alla nostra scienza cresceva il mistero. Per questo, che derisione! Ci occupavamo di morale. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” Infermo, sognavo la virtù. Ai tempi dell’innocenza ignoravo che esistesse la morale. Adesso lo sapevo e non ero capace di vivere alla sua altezza. Sul promontorio che un tempo amavo, fra le colonne bagnate del tempio distrutto, mi sembrava di camminare dietro a qualcuno di cui sentivo ancora i passi sulle pietre e i mosaici, ma che non raggiungerò mai più. Tornai a Parigi e rimasi alcuni anni prima di tornare dalle mie parti. Tuttavia, in tutti quegli anni, mi mancava oscuramente qualcosa. Quando ha avuto una volta la fortuna di amare intensamente passa la vita a cercare di nuovo quell’ardore e quella luce. La rinuncia alla bellezza e alla felicità sensuale che ad essa è legata, il servire esclusivamente l’infelicità, richiede una grandezza che mi manca. Ma, in fin dei conti, niente di ciò che costringe a escludere è vero. La bellezza isolata finisce col far le grinze, la giustizia solitaria finisce con l’opprimere. Chi vuole seguire una escludendo l’altra non serve nessuno, né se stesso e, alla fine, serve doppiamente l’ingiustizia. A forza di inflessibilità viene un giorno in cui non c’è più nulla che meravigli, è tutto noto, si passa la vita a ricominciare. È il tempo dell’esilio, della vita arida, delle anime morte. Per rivivere ci vuole una grazia, l’oblio di sé o una patria. Certe mattine, all’angolo d’una strada, cade sul cuore una deliziosa rugiada, poi evapora. Ma quel fresco rimane, e il cuore lo esige sempre. Dovetti di nuovo partire 2) L’Invasione dell’assurdo “… hanno voluto cancellare la gioia dalla scena del mondo, e rimandarla a più tardi” (da L’uomo in rivolta, 1951) …la rivolta, senza pretendere di risolvere tutto, può almeno fronteggiare. Da quell’istante il meriggio zampilla e scorre sul movimento stesso della storia. Intorno al braciere divorante, battaglie d’ombre s’agitano un attimo, poi scompaiono; e alcuni ciechi, toccandosi le palpebre, gridano che questa è la storia. Gli uomini d’Europa, abbandonati alle ombre, si sono distolti dal punto fisso e irraggiante. Scordano il presente per l’avvenire, la preda degli esseri per il fumo della potenza, la miseria dei sobborghi per una città radiosa, la giustizia quotidiana per una vana terra promessa. Disperano della libertà delle persone e vanno fantasticando di una strana libertà della specie; rifiutano la Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” morte solitaria e chiamano libertà una prodigiosa agonia collettiva. Non credono più a ciò che è, al mondo e all’uomo vivo; l’Europa non ama più la vita, questo è il suo segreto. I suoi ciechi hanno creduto puerilmente che amare un solo giorno di vita equivalesse a giustificare i secoli d’oppressione. Per questo hanno voluto cancellare la gioia dalla scena del mondo, e rimandarla a più tardi. L’impazienza dei limiti, il rifiuto del loro duplice essere, la disperazione d’essere uomini li hanno gettati infine in una dismisura inumana. Negando la giusta grandezza della vita, hanno dovuto puntare tutto sulla propria eccellenza. In mancanza di meglio, hanno divinizzato se stessi e la loro sciagura ha avuto inizio: questi dèi hanno gli occhi squarciati. (da La commedia dei filosofi, 1947) SIGNOR VIGNA – Cos’è questo libro? SIGNOR NULLA – Il nuovo vangelo, di cui sono il buon apostolo. VIGNA – Sono molto sorpreso, signore: non avevo mai sentito dire che il mondo era stato visitato da un nuovo Messia. NULLA – Però è così. E per nostra concessione generale, parecchi Messia si sono ora installati da noi, a Parigi. VIGNA – Parecchi? Non sono un po’ troppi? NULLA – Per l’epoca che viviamo, signore, i Messia non sono mai troppi. VIGNA – Senza dubbio, proprio così, avete ragione. Ma confesso che faccio un po’ fatica a credere che la religione in cui sono vissuto finora… NULLA – Quella religione, in ogni caso, non è più del tutto attuale a Parigi tra la gente alla moda. VIGNA – Ah, cosa dite mai! le persone di Parigi sono fin troppo ragionevoli per nutrire quei pensieri invano. Ma questa conversazione mi spalanca tali orizzonti che voglio rispondere subito alla vostra seconda domanda. NULLA – Voi credete, signore, che al mondo tutto abbia una causa? Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” VIGNA – È quel che ho imparato nel collegio dove ho studiato. NULLA – Molto bene: ciò rafforza la mia opinione che bisognerebbe, che so, spellare vive due o tre dozzine di professori, appurato che i vostri vi hanno fatto vivere fino ad oggi nella menzogna. VIGNA – Ohilà, come siete severo! E che vorreste dire? NULLA – Voglio dire, signore, che nulla ha causa e che tutto è a caso. VIGNA – Dunque io sarei qui davanti a voi, sindaco di questo comune, farmacista di mestiere, padre di una bella giovane, e tutto ciò senza alcuna ragione? E allora come accadono tutte le cose? NULLA – Il fatto è che questo mondo è assurdo. VIGNA – E perché questo mondo è assurdo? NULLA – Perché non ha alcuna spiegazione. VIGNA – E perché non ha alcuna spiegazione? NULLA – Perché è assurdo. VIGNA – Adesso signore vedo chiaro, e mi spiego assai bene che il mondo non spiega affatto. NULLA – Tutto merito della vostra intelligenza. VIGNA – Mio Dio, che soddisfazione mi dà questa filosofia! Sento anche che devo abbracciarla, senza perdere altro tempo. NULLA – E farete bene. Perché non è solo una filosofia alla moda. È anche assolutamente eroica. VIGNA – Eroica? Accipicchia, non vi lascerò andare prima di averne colto la ragione. NULLA – La ragione è che bisogna accettare il fatto che questo mondo non ha alcuna spiegazione. VIGNA – Ma dove sta l’eroismo se si accetta ciò che non si può rifiutare? Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” NULLA – Precisamente. VIGNA – Precisamente? NULLA – Precisamente, è qui che sta tutta l’utilità della nuova filosofia. Perché prima, per essere eroici, bisognava aver fatto qualcosa; oggi invece, grazie a questi magnifici pensieri, si è pienamente eroi senza fare nulla. VIGNA – Signor mio, ve lo dico chiaro: vi seguirò ciecamente. Se un po’ mi conosco, ho infatti sempre desiderato fare qualcosa di eroico e soltanto le circostanze me l’hanno finora impedito. NULLA – Da questo momento la cosa è fatta, et voilà, da oggi siete un eroe. (Da intervista ad A. Camus su I demoni, riscrittura del 1959) STAVROGIN: “Non ho mai potuto detestare nulla. Dunque, non potrò mai amare. Sono capace soltanto di negazione, di meschina negazione. Se finalmente credessi in qualcosa forse potrei uccidermi. Ma io non posso credere.” ALBERT CAMUS: La frase, dal momento che l’ho ripresa per metterla nel testo teatrale – infatti esiste già nel romanzo – ha per me un senso nella psicologia di Stavrogin. Ciò che Stavrogin vuole dire è che fino a quel momento ha vissuto in assenza d’amore. Ha vissuto nell’impossibilità di aderire a qualche cosa, di credere in qualche cosa. Significa che ha vissuto nell’equivalenza delle azioni. Era la stessa cosa per lui sedurre Lisa o sposarsi con un’inferma zoppa e un po’ deforme, oltraggiare una ragazzina o dare prova di un grande sacrificio – tutto questo è nel romanzo. Nello spirito di Stavrogin – e questo mi sembrava di una logica rispettabile e esatta – uccidersi vuol dire scegliere. Ebbene, la psicologia di colui che non ama e vive nell’equivalenza proprio perché non sceglie, è di vivere in maniera vaga ciò che gli si presenta come istinto. Nel romanzo di Dostoevskij, Stavrogin è un uomo di fin troppo… è un intellettuale di statura fin troppo grande perché possa ignorare per un solo secondo che scegliere di interrompere una vita con un atto di soppressione personale, sia dare allo stesso tempo, attraverso questo atto, un senso X alla propria vita. In un certo senso ciò che vuol dire è che suicidarsi è credere. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” 3) La ricerca della felicità “..non sono mai stato così ragionevole come ora, semplicemente mi son sentito all’improvviso un bisogno di impossibile” (da Caligola, 1942) Avessi avuto la luna, o Drusilla, il mondo, la felicità, sarebbe stato tutto diverso. Tu lo sai, Caligola, che potrei essere tenero. La tenerezza! Ma dove trovarne tanta da soddisfare la mia sete? Dove trovare un cuore profondo come un lago? (comincia a piangere lentamente) Non c’è niente che mi vada bene, né in questo mondo, né in quell’altro. Eppure sono certo, ed anche tu lo sei (tende le mani verso lo specchio piangendo) che mi basterebbe l’impossibile. L’impossibile! L’ho cercato ai confini del mondo e di me stesso. Ho teso le mani. (urlando) Tendo le mani e non incontro che te, sempre te come uno sputo sul mio viso… Te che odio – te che sei per me come una ferita che vorrei strapparmi di dosso con le unghie perché il sangue infetto possa sgorgare con la vita a fiumi. (da Caligola, 1942, atto I, scena IV) [Caligola, l’imperatore romano, torna dopo essere sparito da tanto tempo. E dialoga con un suo confidente, Elicone.] Elicone. Buon giorno, Gaio. Caligola. Buon giorno, Elicone. Elicone. Sembri affaticato. Caligola. Ho camminato molto. Elicone. Sì, la tua assenza è durata a lungo. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” Caligola. Era difficile da trovare. Elicone. Che cosa? Caligola. Quello che volevo. Elicone. E cosa volevi? Caligola. La luna. Elicone. Cosa? Caligola. Sì, volevo la luna. Elicone. Ah... per far che? Caligola. Ebbene, è una delle cose che non ho. Elicone. Eh, certamente, e ora è tutto a posto? Caligola. No, non ho potuto averla. Elicone. E’ seccante. Caligola. Sì, è per questo che sono affaticato... Elicone... Elicone. Sì, Gaio? Caligola. Tu pensi che io sia folle... Elicone. Sai bene che io non penso mai. Sono troppo intelligente per pensare. Caligola. Sì. Ma io non sono folle e non sono mai stato così ragionevole come ora, semplicemente mi son sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti. Elicone. E’ un’opinione abbastanza diffusa. Caligola. E’ vero, ma prima non lo sapevo. Ora so. Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, insomma di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” Elicone. E’ un ragionamento che sta in piedi, ma generalmente non lo si può sostenere fino in fondo. Caligola. Tu, Elicone, non ne sai nulla, è perché non si sostiene mai fino in fondo che nulla è mai ottenuto. Ma forse basta restare logici fino alla fine, e so anche quello che tu pensi. Quante storie, tu pensi, per la morte di una di cui ero innamorato. No, no, non è questo; credo di ricordarmi che una donna che amavo qualche giorno fa è morta, ma cos’è l’amore? Poca cosa. Questa morte non è nulla, te lo giuro, è solamente il segno di una verità che mi rende la luna necessaria, è una verità molto semplice, molto chiara, un po’ stupida per te, ma difficile da scoprire e pesante da portare. Elicone. E qual è questa verità, mio imperatore? Caligola. Gli uomini muoiono e non sono felici. Elicone. Andiamo Gaio, è una verità con cui ci si può benissimo arrangiare; guardati intorno, non è questo che impedisce agli uomini da mangiare e di ballare. Caligola. Allora è che tutto intorno a me è menzogna, e io, io voglio che si viva nella verità e io ho appunto i mezzi per farli vivere nella verità, perché io so ciò che manca loro. Elicone, essi sono privi della conoscenza e manca loro un maestro che sappia ciò di cui si parla. Elicone. Non ti offendere, Gaio, di quello che sto per dirti, tu dovresti innanzitutto riposarti, sei stanco. Caligola. Questo non è possibile, Elicone, questo non sarà mai più possibile. Elicone. E perché dunque? Caligola. Se dormo, chi mi darà la luna? Elicone. Questo è vero. Caligola. Ascolta Elicone, sento dei passi e dei rumori di voci. Mantieni il silenzio e dimentica di avermi visto. Elicone. Ho capito. Caligola. E per favore, d’ora innanzi, aiutami. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” Elicone. Non ho ragioni per non farlo, Gaio, ma so molte cose, e poche cose mi interessano, in cosa posso dunque aiutarti? Caligola. Nell’impossibile. Elicone. Farò del mio meglio. 4) L’impegno, l’arte, la responsabilità “…a mezza strada fra la bellezza di cui può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare” (da Il primo uomo, 1959) [La pagina che segue è tratta da Il primo uomo, romanzo ultimo e incompiuto – oltre che autobiografico - di Albert Camus. Il protagonista, Jacques Cormery, nato e vissuto nel Nord Africa, decide, diventato grande, di recarsi in Francia alla tomba del padre, morto in guerra prima della nascita del figlio. Il primo uomo è una metafora grandiosa e struggente della ricerca del padre e, ultimamente, della sua origine. La pagina sotto riportata bene esprime il grido che si leva dal cuore dell’uomo moderno, stanco delle sue maschere, della suo illusorio self made man. Stanco soprattutto della confusione che ha dentro di sé e nella quale si trova a vivere e che.] Poiché il suo vecchio maestro si era ritirato a Saint-Brieuc e quella era un'occasione per rivederlo, aveva deciso di visitare la tomba di quello sconosciuto, e aveva voluto farlo prima di recarsi dal suo vecchio amico per sentirsi poi del tutto libero. “E’ qui,” disse il custode. Erano arrivati a un settore circondato da piccoli cippi di pietra grigia, uniti da una grossa catena dipinta di nero. Le lapidi, numerose. erano tutte uguali, semplici rettangoli incisi e disposti, a intervalli regolari, in file successive. Ognuna era ornata da un mazzolino di fiori freschi. “E’ il Souvenir français che da quarant'anni si occupa della manutenzione. Oh, eccola”. Indicò una lapide nella prima fila. Jacques Cormery si fermò. “La lascio solo”, disse il custode. Cormery s'avvicinò alla lapide e la guardò Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” distrattamente. Sì, il nome era quello. Alzò gli occhi. Nel cielo, più scialbo, passavano lente nuvolette bianche e grigie, e dal cielo scendeva una luce, prima fioca poi offuscata. Intorno, nel vasto campo dei morti, regnava il silenzio. Solo un rumore sordo giungeva dalla città di là dagli alti muri. Ogni tanto una figura nera passava fra le tombe più lontane. Jacques Cormery, con gli occhi levati verso la lenta navigazione delle nubi nel cielo, tentava di cogliere, oltre il profumo dei fiori bagnati, l'odore di sale che veniva in quel momento dal mare distante e immobile, quando il tintinnio di un secchiello contro il marmo di una tomba lo scosse dal suo fantasticare. Fu in quell'istante che lesse sulla lapide la data di nascita del padre, scoprendo nello stesso tempo di averla sempre ignorata. Poi notò le due date - “1885-1914” - e fece un rapido calcolo: ventinove anni. Un pensiero lo colpi all'improvviso e lo scosse. Lui di anni ne aveva quaranta. L'uomo che giaceva sepolto sotto quella pietra, e che era stato suo padre, era più giovane di lui. E l'ondata di tenerezza e di pietà che d'un tratto gli riempì il cuore non era quello slancio dell'anima che spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma la compassione e il turbamento di un uomo fatto davanti a un ragazzo ingiustamente assassinato - era una cosa fuori dell'ordine naturale, e in effetti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre. Intorno a lui, immobile, fra queste tombe che. aveva smesso di vedere, si spezzava persino la successione del tempo e gli anni avevano cessato di tuffarsi in un grande fiume che scorre verso la foce. Non erano ormai che fragore, risacca e risucchio, ed era qui che si dibatteva Jacques Cormery, alle prese con l'angoscia e la pietà. Guardò le altre lapidi del settore e capì dalle date che quel terreno era costellato di ragazzi che erano stati i padri degli uomini brizzolati convinti di vivere in quel momento. Lui pure era convinto di vivere, si era fatto da solo, conosceva la propria forza, la propria energia, sapeva affrontare la vita, tener duro. Ma, nella strana vertigine che lo aveva colto in quel momento, quella statua che ogni uomo finisce per erigere e indurire al fuoco degli anni, insinuandosi in essa per attendervi lo sgretolamento finale, si stava screpolando in fretta, stava già per andare in pezzi.. Non restava ormai che quel cuore angosciato, avido di vita, ribelle all’ordine mortale del mondo, che lo aveva accompagnato per quarant’anni e continuava a battere con la stessa forza contro il muro che lo separava dal segreto di ogni vita, con la volontà di andare più in là, di andare oltre, e di sapere, sapere prima di morire, sapere finalmente per essere, una sola volta, un solo secondo, ma per sempre. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” (dalle Lettere a Grenier e a Carnet) Quello che mi ha fermato per molto tempo, e che credo fermi molti altri uomini, è il senso religioso che manca al comunismo. È la pretesa dei marxisti di edificare una morale che basti all’uomo. […] Nell’esperienza leale che tenterò, mi rifiuterò sempre di mettere un volume de Il capitale tra la vita e l’uomo. Qualsiasi dottrina può e deve evolvere. Questo mi sembra sufficiente per sottoscrivere delle idee che mi riportano alle mie origini, ai miei compagni d’infanzia, a tutto ciò che costituisce la mia sensibilità. […] Mi sembra che prima ancora che le idee, sia la vita a portare spesso al comunismo. Ciò che la sinistra collaborazionista approva, passa sotto silenzio o considera inevitabile, alla rinfusa: La deportazione di decine di migliaia di bambini greci. La distruzione fisica della classe contadina russa. I milioni di prigionieri nei campi di concentramento. I rapimenti politici. Le esecuzioni politiche quasi quotidiane oltre la cortina di ferro. L’antisemitismo. La stupidità. La crudeltà. L’elenco rimane aperto. Ma a me basta. (da Discorso del Nobel , 1957) Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al livello di tutti. L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo essere diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare. […] Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua vita, ignorato e provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà. Poiché la sua vocazione è quella di riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della menzogna e della schiavitù che, là dove regnano, fanno proliferare la solitudine. Qualunque siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all’oppressione. (da Il primo uomo - Appunti e Abbozzi) “Così come siamo, coraggiosi e orgogliosi e forti… se avessimo una fede, un Dio, niente potrebbe fermarci. Ma non avevamo nulla, abbiamo dovuto imparare tutto, e vivere soltanto per l’onore, che ha i suoi cedimenti…” … Liberarsi da qualsiasi preoccupazione d’arte e di forma. Ritrovare il contatto diretto, senza intermediari, cioè l’innocenza. Dimenticare l’arte, a questo punto, significa dimenticare se stessi. Rinunciare a sé non per virtù. Accettare, al contrario, il proprio inferno. Chi vuole essere migliore si preferisce, chi vuole godere si preferisce. Solo chi rinuncia a ciò che è, che accetta ciò che capita con le conseguenze – lui solo stabilisce veramente un contatto. … Ritrovare la grandezza dei greci o dei grandi russi attraverso questa innocenza di secondo grado. Non aver paura. Non aver paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! … La mamma. La verità è che, nonostante tutto il mio amore, non ero stato capace di vivere all’altezza di quella pazienza cieca, senza parole né progetti. Non ero stato capace di vivere della sua vita ignorante. E avevo girato il mondo, ostruito, creato, bruciato persone. Le mie giornate erano state piene sino a traboccare – ma nulla mi aveva riempito il cuore come… … E ciò che più desiderava al mondo, che sua madre leggesse tutto ciò che era la sua vitae la sua carne, era impossibile. Il suo amore, il suo unico amore, sarebbe stato per sempre muto. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” … Sua madre è Cristo … Aveva amato sua madre e suo figlio, tutto ciò la cui scelta non era dipesa da lui. E alla fine, lui che aveva contestato tutto, rimesso tutto in discussione, aveva amato soltanto la necessità. Le persone che il destino gli aveva imposto, il mondo quale gli appariva, tutto ciò che in vita sua non aveva potuto evitare, la malattia, la vocazione, la gloria o la povertà, insomma la sua stella. Per il resto, per tutto ciò che aveva dovuto scegliere, si era sforzato di amare, e non è la stessa cosa. Certo aveva conosciuto l’incanto, la passione, e anche gli attimi di tenerezza. Ma ogni momento lo aveva rimandato ad altri momenti, ogni persona ad altre persone, e di ciò che aveva scelto, per farla breve, non aveva amato nulla, se non colei che gli si era imposta a poco a poco attraverso le circostanze, ed era durata per caso quanto per volontà, e aveva finito per diventare necessità: Jessica. L’amore vero non è né scelta né libertà. Il cuore, soprattutto il cuore, non è libero. È l’inevitabile e il riconoscimento dell’inevitabile. E lui, in verità, aveva amato con tutto il cuore solo l’inevitabile. Adesso non gli restava che amare la propria morte. GIANCORRADO PELUSO. Buonasera. Dopo questa magistrale lettura sarà interessante, credo, poter ripercorrerne con i nostri ospiti i punti salienti. Chiedo al prof. Borghesi di aiutarci a fissare le tematiche e le problematiche che Camus così magistralmente ha messo a fuoco riguardo all’uomo del nostro tempo, e a percorrere quei passi in cui ci siamo sentiti descritti, iniziando dai primi momenti in cui, ancora giovane, a 20-22 anni, nella sua Algeria, guarda la realtà con questa intuizione di una promessa di felicità. Cedo la parola al prof. Borghesi. MASSIMO BORGHESI: Buonasera a tutti. Dico quello che tutti coloro che hanno letto Albert Camus conoscono: l'autore passa attraverso diverse fasi della sua vita e della sua riflessione così appassionata, così drammatica, così tenera in certi momenti, a partire da quando, giovane francese d'Algeria, comincia i primi esperimenti di scrittura e fino ai vent'anni è pienamente immerso nella natura, nel mare, nel sole, nell'ebbrezza della gioventù e con tutto ciò che questo significa; egli si definisce, a questa altezza, “un vero pagano”. Lo shock per lui è quando arriva il primo segnale della tubercolosi che allora mieteva molte vittime: voleva dire fiotti di sangue e che la vita poteva finire in breve. Questa drammaticità esplode in un pagano, in un ragazzo che era solare, e che, come dice lui, veniva da una famiglia povera e che però era molto ambizioso. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” Mi ha colpito molto leggere la lettera che gli scrive il suo maestro quando lui riceve il premio Nobel. Gli dice: «Io non mi ero mai accorto - lo chiama ancora mio piccolo Albert, piccolino mio che tu avevi una famiglia alle spalle con tante difficoltà». Infatti dalle foto che abbiamo lui è sempre vestito benissimo e questo modo di vestire molto elegante se lo porterà dietro fino alla fine. Quindi questo ragazzo molto ambizioso, questo pagano, a un certo momento è toccato dall’esperienza di una morte che potrebbe essere imminente, deve andare in sanatorio, deve curarsi, e questo introduce un elemento di drammaticità. In questa esperienza entra la letteratura, entra l'arte, perché all'inizio lui non sa come esprimere il dramma che sta vivendo tra la voglia di vita solare e la morte che arriva. E sono gli autori della sua giovinezza che certamente gli danno la modalità di esprimere questa tensione che poi diventerà il rovescio e il dritto, diventerà la polarità di tutta la sua riflessione. Innanzitutto Nietzsche che allora era un autore molto diffuso: la letteratura degli anni Trenta é impregnata di Nietszche, in Francia in maniera particolare. Uno degli scrittori che lo segnano di più, Andrè Malraux, autore de La condizione umana, è un nietzschiano. L'aspetto di Nietzsche che colpisce questo giovane è, certamente, il nichilismo, il non senso; però è un nichilismo felice, cioè è il dir di sì alla vita benché assurda, a partire dal fatto che non c'è nessun Dio, che la vita è mortale. Naturalmente Camus in quel momento sente questo, perché ha bisogno di un autore che gli permetta di non distruggere quel senso della vita che lui ha, accettando anche la possibilità della morte. Paradossalmente, è un Nietzsche non nichilista che gli interessa in quel momento. Poi ci sono anche Andrè Gide, l'autore de I nutrimenti terrestri, e soprattutto il suo professore del liceo che è Jean Grenier, a cui rimarrà affezionato fino alla fine dei suoi giorni. Perché? Perché Grenier diventa per lui il sostituto del padre. La figura della mancanza del padre è importantissima nella riflessione, nell'opera di Camus: non a caso l'ultimo romanzo incompiuto, Il primo uomo, è dedicato alla ricerca del padre che era morto a 28 anni nella battaglia della Marna, senza che lui ne sapesse niente. Ebbene, Grenier diventa autore di riferimento perché, ne Le isole, esprime questa adesione all'essere, al mondo, alla natura, in una maniera mistica, non in una maniera immediata e pagana, ma in un paganesimo religioso. Camus, nella prefazione che farà all'opera di Grenier, che è uscita qualche anno fa in un'edizione molto rara in italiano, dice: «Di questo noi avevamo bisogno: noi eravamo già pagani, ma era la morte che poi ci ha scombussolato interamente. Avevamo bisogno di amare la vita sapendo che era mortale, e questo Grenier ci ha donato. Ci ha donato la capacità di dire questo segreto della vita». E da lì la sua grande riconoscenza. Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” G. PELUSO. Io vorrei proseguire chiedendo a Luca Doninelli un approfondimento sul tema del rapporto col padre. Sono stati accennati i temi della solarità, di un mondo quasi pagano e della morte; ma riguardo alla sua letteratura, alla sua narrativa, o al teatro, quale può essere la cifra che definisce, che caratterizza la sua produzione? LUCA DONINELLI. Io mi lego a quello che stava dicendo il prof. Borghesi riguardo al tema di un’innocenza irraggiungibile; essa è irraggiungibile perché c'è un fattore che in Camus si mette di mezzo, che è la storia. Io ricordo la definizione della storia che dà Joyce nel Ulisse: «la storia è un incubo da cui cerco di liberarmi». Lui spesso diceva di non essere nichilista e ha sempre rifiutato il nichilismo come definizione del proprio pensiero. L'uomo, che presento nel romanzo forse più importante e più bello (forse l'unico vero romanzo di Camus) che è Lo straniero, rispondendo alla domanda se si fosse pentito del crimine compiuto, dice (lo traduco malamente) di provare a questo riguardo più noia che vero dispiacere. Lui è condannato perché dice il vero, perché il dire il vero è qualcosa che, nella menzogna del mondo, è insopportabile; non è condannato perché ha ucciso, ma perché risponde con parole diverse da quelle che devono essere dette, che ci si aspetta vengano dette. In un altro brano dice: «La terra è piena delle tracce dell'uomo. Non c'è posto, strada, luogo che non sia stato percorso da qualcuno, che non porti il segno del cammino di altri uomini. Però, sul mare non ci sono tracce». Sicuramente c'è l'allestimento di questo paganesimo, ma l'aspetto che, secondo me, è più acuto è il non avere un padre (è un aspetto che, nella sua opera, viene percepito come qualcosa che lo lega al corpo, alla concretezza del vivere). Io sto pensando che fra un anno avrò l’età che aveva mio papà quando è morto. Non poter togliersi di dosso questo legame è interessante perché, sia ne La peste che ne Lo straniero, tutto parte da un legame che sembra sciogliersi: «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so». Questo è il famoso incipit de Lo straniero. Così anche ne La peste, libro secondo me bellissimo ma che per molti aspetti può infastidire di più perché espone soltanto delle tesi, Rieux, il protagonista, prima che cominci a comparire la peste (come qualcuno di voi saprà) con un’ immagine abbastanza disgustosa di topi morti, accompagna la moglie malata via dalla città (c’è di mezzo una moglie malata che starà fuori dalla scena e quindi non nella città di Orano, teatro della peste) e resterà continuamente segnato da questo legame che definirà il suo comportamento in mezzo alla peste, anche se questa donna sarà fuori dalla città. Analogamente, il colpo di pistola che uccide la madre fa partire tutto. È un legame che viene apparentemente sciolto ma, in realtà, è quello che definisce il protagonista, tanto è vero che questo gli renderà impossibile qualsiasi collaborazione con Sartre, nonostante nella Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” prima parte della sua vita sembrasse camminare insieme a lui. C’è un bellissimo brano dei suoi diari (molte delle sue opere sono risposte a Sartre, sono concepite come risposta a una situazione di Sartre e del mondo intellettuale che si rifà a Sartre e che l’aveva emarginato. Non dimentichiamo che quando lui vince il premio Nobel viene ripescato quasi dal dimenticatoio, nessuno parlava più di lui) in cui dice: «Nessuna causa può essere così giusta da mettermi contro mia madre». Il riferimento è a tutta la battaglia degli intellettuali comunisti contro i francesi d’Algeria che sono in qualche modo la rappresentazione ancora vivente del colonialismo francese (sappiamo che poi di lì a poco ci sarà l’era dell’indipendenza algerina). I francesi d’Algeria rappresentano quel colonialismo da cui gli intellettuali engagè francesi cercano di liberare la Francia e la mentalità occidentale; tuttavia Camus dice: «Nessuna causa può essere così giusta da mettermi contro mia madre». Il tema è molto simile a quello del Antigone. G. PELUSO: Rimaniamo su questo tema; mi sembra che anche riguardo al suo impegno politico e, quindi, di fronte al male e all’ingiustizia ci sia una posizione veramente diversa nel suo tempo, come emerge anche in alcuni passi che abbiamo letto prima, perché l’intellettuale del suo tempo (pensando anche a Sartre) di fronte all’ingiustizia e al male ha un certo atteggiamento, lui invece prende un’altra posizione. M. BORGHESI: Sì, però bisogna tener conto che lui non parte da questa posizione ma ci arriva dopo. Come diceva Luca, è importante capire la diversità tra Camus e Sartre in quanto essa ci permette di capire Camus e perché lui sia attuale a noi molto più di Sartre. Perché la forza espressiva dei romanzi di Camus ci tocca? Perché Camus ci coinvolge anche emotivamente, nel senso che ci commuove, mentre Sartre ci lascia freddi? La figura che lui indicava, per esempio, della madre secondo me è una figura importantissima nella biografia e anche nella narrativa di Camus, perché il suo senso religioso passa attraverso la madre; questa è la mia ipotesi confermata da quello che lui scrive, e che in parte ci è stato letto, nei taccuini che accompagnano la prima edizione italiana del Primo uomo (come sappiamo il Primo uomo è l’ultimo romanzo incompiuto di Camus che lui si portava dietro nella cartella che stava nell’ automobile che andrà a sfasciarsi contro un albero e in cui Camus troverà tragicamente la morte). Nei taccuini che rivelavano la sua idea, la figura della madre come Cristo è l’Idiota di Dostoevskij, questa donna silenziosa che sta in fondo alla croce, non parla, è vedova, e che fa un lavoro umil, è la nonna di Camus che era una donna molto autoritaria, teneva in mano le redini della famiglia. E a lei, questa piccola donna silenziosa che però mandava sempre Camus ben vestito e si preoccupava tantissimo Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” della sua dignità, Camus (che non aveva il padre) resta legato; è lei la vera donna, perché in fondo le altre le prende e le lascia in continuazione. Le donne della sua vita che lo coinvolgono emotivamente non lo fanno uscire dalla figura del seduttore, cioè dalla figura del don Giovanni che lui mette al centro del Mito di Sisifo, e fino alla fine della vita lui si dibatte con questo problema del don Giovanni perché si rende conto che non riesce ad amare, vorrebbe amare ma non riesce, nel senso che ogni volta questi amori lo riempiono per un attimo, compreso quello con la moglie con cui comunque ha un rapporto tormentato (anche il senso di colpa di Camus nasce da questo rapporto famigliare continuamente incrinato). Il tormento è legato alla dinamica della sua esistenza. Questo per dire che Camus arriva all’assurdo non come Sartre, ma a partire da una positività riconosciuta. Camus ama la vita, Sartre ne è nauseato. Camus non avrebbe mai scritto La nausea; scrive L’estate, Nozze a Tipasa, Il mattino di nozze con il mondo. Lui non è uno gnostico (anche se c’è qualche elemento di gnosticismo in Camus) perché non disprezza la carne, il corpo, il creato; anzi, in certe pagine afferma che sono la gloria del mondo. Ciò che rinfaccia a Dio non è il fatto che il mondo non sia bello o degno, ma che questo mondo, bello e degno, sia spezzato dalla morte. La morte è la contraddizione che rende assurda la creazione, ed è chiaro che da qui nasce la religiosità ribelle di Camus, una religiosità che ha toni gnostici ma sempre in nome di una positività, non del disprezzo della materia. Qui si trova la diversità con gli intellettuali del suo tempo e che poi esploderà con Sartre, perché Sartre non sa amare, non sa riconoscere niente di positivo, mentre Camus (bene o male) si è sposato, ha avuto dei figli; Sartre è vissuto da solo come un libertino fino alla fine e non si è legato mai a nulla, non ha mai riconosciuto un affetto duraturo (il rapporto con Simone De Beauvoir che abbiamo visto nella foto era di mutuo libertinaggio). È lì che si sviluppa una diversità di posizione. I coniugi Camus e i coniugi (per modo di dire) Sartre sono amici negli anni ’42-’43, passano le serate insieme, vanno a ballare; c’è un momento di amicizia, Sartre ha una grandissima stima di Camus, non riesce nemmeno ad attaccarlo veramente quando romperanno politicamente, lo riconosce a denti stretti e gli dispiace, e scrive un bellissimo articolo dopo la morte, carico di rimpianto. Sartre rimase colpito dalla personalità di Camus, mentre Camus sentì Sartre sempre più distante da sé. La rottura vera e propria avverrà dopo: quando Sartre nel ’52, dopo L’uomo in rivolta, aderisce esplicitamente al partito comunista francese e sui Tempi moderni (la rivista di Sartre) c’è questo duro attacco a Camus firmato da Janson; Camus risponde e Sartre gli risponde a sua volta, e in quel momento le strade si biforcano perché ciò che li divide è la violenza. Anche Camus è passato attraverso una fase nichilista, un nichilismo sui generis, mediterraneo, però Lo straniero e il Mito di Sisifo in qualche modo sono impregnati di questa sorta di nichilismo; è il Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” ciclo dell’assurdo (non l’assurdo di Sartre), e in quel periodo lui giustifica in qualche modo la violenza. Lì sarebbe interessante, ma non abbiamo tempo, vedere le varie redazioni del Caligola per mostrare come lui rompe con la violenza: nella prima versione del Caligola, che è quella del ’39’40, Caligola è l’eroe assurdo e Camus sta con Caligola, si identifica con questo personaggio folle che rompe tutti gli schemi e che si diverte a disarticolare il mondo, la morale, l’uomo comune, la borghesia comune ecc. È nella versione successiva del ’42 che Camus prende le distanza da Caligola e si identifica progressivamente con Cherea fino ad arrivare alla redazione del ’58. Ma perché questo cambiamento? Perché c’è la guerra, perché c’è il nazismo, perché c’è l’orrore della violenza, dello sterminio di massa; forse è possibile essere nietzschiani nel ’39, nel ’36, ma nel ’42, nel ’45 non è più possibile essere nietzschiani e questo segna la diversità e lo sviluppo della sua opera. G. PELUSO: e tra l’altro sono gli anni in cui scrive questa lettera all’amico tedesco. Tornando al Caligola, come si colloca nella sua produzione questo amore per il teatro e soprattutto per Dostoevskij? Ricordiamo che fin da giovane il suo maestro gli aveva assegnato una compagnia teatrale in Algeria, e poi voleva affidargli il Teatro Nazionale. L. DONINELLI: Quando noi leggiamo Camus dobbiamo tenere presente che esiste una frattura tra noi e lui, vale a dire oggi non si scrivono più libri come li scriveva lui. Noi possiamo identificarci con le opere scritte fino al ‘40-’42 dove c’è già la guerra ma tante cose non si sanno ancora, quindi, per esempio, con L’étranger del ’42; dopo diventa più difficile perché – per riprendere quello che diceva Massimo Borghesi adesso – dobbiamo immaginare che succede qualcosa che ha il nome di Auschwitz, che ha il nome di Dresda, di Hiroschima, ecc. Dobbiamo tenere presente prima di tutto che uno che vuole fare il mestiere dello scrittore è innanzitutto alla ricerca di una narrabilità del mondo, narrazione vuol dire questo, ed è qualcosa di più del racconto, è cercare la via attraverso cui il mondo diventa storia, diventa racconto. Non dimentichiamo che la grande prosa prima di essere romanzesca è storiografica, i grandi prosatori dell’antichità sono storiografi. Questo è interessante perché, se noi pensiamo al più grande romanzo forse mai scritto che è Guerra e Pace, il tentativo titanico, in questo caso riuscito, di Tolstoj è proprio questo. Proviamo a immedesimarci un attimo con uno scrittore che si trova davanti queste tragedie, alla domanda “Cosa racconto a questa razza di sopravvissuti?”, che siamo noi; perché l’idea di essere dei sopravvissuti è circolata tantissimo nella letteratura mondiale del secondo dopoguerra. Sopravvissuto vuol dire una cosa molto drammatica, perché indica chi ha la colpa di Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” non essere morto e la colpa di essere vivo. In tanti in Russia, per esempio, si sono domandati: “Perché mio padre, mio fratello, sono stati uccisi e io no?”, questo è uno dei motivi del silenzio che gli orrori staliniani hanno prodotto. Ci sono due bellissimi libri, di autori tedeschi, il primo edito da Adelphi, s’intitola Storia naturale della distruzione di Sebald e consiste in tre lezioni sui motivi per cui la distruzione della Germania non ha lasciato pressoché nessuna traccia nella letteratura tedesca, perché cioè gli scrittori tedeschi del dopoguerra non ne hanno parlato. Il secondo s’intitola Mattatoio numero cinque di Vonnegut, scrittore americano che si trovò prigioniero di guerra a Dresda e assistette da una feritoia alla distruzione della città, nel libro non si tratta di questo evento. Come fare a raccontare il mondo quando abbiamo la vergogna, che ricade su di noi, di quanto è accaduto? Il Camus del dopoguerra si allontana da un’identificazione narrativa come voi potete trovare nelle tragedie e nasce il romanzo a tesi. Se voi leggete La peste è un libro pieno di limiti da questo punto di vista, noi capiamo benissimo cos’è la peste, perché si parte parlando dei topi che muoiono, perché questa peste si evolve da bubbonica a respiratoria, che colpisce le vie respiratorie. A questo proposito è interessante osservare che lui stesso è stato ammalato di petto e una grande quantità di intellettuali europei ha avuto questa sorte, ricordiamo Alberto Moravia e Thomas Mann, che scrisse La montagna incantata su questo tema che doveva essere generale. La peste è un romanzo a tesi, come poi lo furono i seguenti. Quello che mi colpisce di questi romanzi, in cui si capisce meglio dove l’autore vuole arrivare, è che ci sia un senso della corporeità che cresce. Se voi leggete La caduta, ultimo dei romanzi compiuti, siamo già negli anni Cinquanta, leggete un lungo monologo teatrale, perché mentre nel romanzo il suo luogo è la sua ambientazione (ad esempio Milano o la sua periferia) in Camus - a parte il fatto che lui toglie subito l’ambientazione perché nel libro ci si trova ad Amsterdam, in un bar che si chiama Mexico City, siamo in un non luogo – l’ambientazione vera non è Parigi o l’Olanda o il Messico, ma è il corpo-voce, il corpo che si fa parola: infatti, se voi leggete La caduta, vi accorgete che è un romanzo claustrofobico, ci si sente sempre in una piccola stanzetta, seduti in un angolo con quest’uomo che ci viene sempre addosso. Questa corporeità, questa forza del corpo, questa irriducibilità del mio esserci, del mio essere qualcosa, è la cifra che in una condizione di difficoltà della narrazione come affresco prende sempre più piede nella scrittura di Camus. Quindi non penso solo al Caligola, ma anche a Il malinteso che è un testo degli anni Quaranta, quando lui soffre di non poter andare via dalla Francia occupata. Qui Camus racconta di un figlio che ritorna dopo tanto tempo dalla sua famiglia, che tiene un alberghetto con sua moglie come uno straniero, e vuole farsi riconoscere, perché ormai si sono dimenticati di lui; il padre è morto e sono rimaste solo la madre e la sorella sulle quali fa una macabra scoperta: queste donne, per poter sopravvivere, uccidono gli ospiti più facoltosi Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” dell’albergo e si appropriano dei loro beni. Il protagonista però non trova il modo di farsi riconoscere, vuole creare delle situazioni teatrali del proprio rivelarsi, ma verrà ucciso pure lui dalle sue familiari. È interessante perché ci sono dei morti dai quali non ci si libera. G. PELUSO: Vorrei concludere con una domanda al professor Borghesi su quest’aspetto positivo della vita al di là della morte. Quando Camus dice che la grandezza dell’uomo non viene per i propri studi, ma un bel giorno, è quasi una grazia, mi ricordava letture che lo collegano agli studi di sant’Agostino, proprio questa esperienza della realtà come limite, come morte, come ferita e come grazia. Che cosa possiamo dire di queste due parole, della parola limite e della parola grazia? M. BORGHESI: La parola grazia innanzitutto certamente gli deriva molto da Agostino, lui ha fatto la tesi su Plotino e Agostino, sul neoplatonismo e il cristianesimo, quella tesi è molto importante perché in realtà è una tensione tra paganesimo e cristianesimo, che è il problema di Camus: è pagano nei costumi, ma ha un cuore cristiano. Il suo problema è come conciliarli, tant’è vero che nei suoi taccuini dal ’58 alla fine si pone il problema di come fare per paganizzare il cristianesimo. Lui dice di sentirsi più vicino al cattolicesimo. Perché paganizzare il cristianesimo? Perché vuole un cristianesimo aderente alla terra, che non fugga. Ricordiamoci che gioca anche l’immagine di un cristianesimo come fuga verso i cieli, come diserzione dalla terra che sicuramente in un clima francese ha una sua spiegazione. D’altra parte in Algeria Camus non aveva ricevuto nessuna educazione cristiana. Mi ha colpito che negli appunti de Il primo uomo dice: «Cristo in Algeria non è mai entrato». La famiglia non ebbe nessuna istruzione religiosa, però c’è la foto della sua comunione, dove lo si vede tutto impettito; mi ha colpito perché ho letto la lettera in cui monsieur Germain – che era il suo insegnante, un laico – da una parte gli dice che con l’istruzione religiosa non aveva interferito, ma in fondo alla lettera scrive: “Mi ricordo che il giorno in cui sei venuto dalla prima comunione ti ho visto contento. E io sono stato contento per te, che eri così contento”. Però Camus ha il problema, perché a Cristo lui comunque è affezionato e lo si vede in due punti: ne La caduta in cui Clamence dice: «Ma io lo amo questo Cristo, questo Cristo morto in croce» e poi lo ribadisce nel Requiem per una monaca di Faulkner dove non c’è, ma ce lo mette lui: «Ma io Cristo lo amo». Poi il cristianesimo è un’altra storia, ma lui Cristo lo ama. La grazia per lui è la luce che risplende nei volti ed è la gloria della creazione. Quindi il suo cruccio, come emerge dai diari del ’51 e del ’52, è: come si può vivere senza la grazia? Lui descrive la sua opera in itinere: il primo ciclo è quello dell’assurdo e dopo, a partire da La peste in avanti, il suo problema è il santo senza Dio. Quindi è il problema di vivere senza la grazia. Tra l’altro ho scoperto ultimamente che la Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” figura di Tarrou, che in realtà è il santo senza Dio, è ripresa da lui da un suo amico medico profondamente cristiano che si era prodigato per la resistenza e per questo motivo verrà fucilato. Quindi questo santo senza Dio in realtà era un cristiano, questa è una cosa singolare perché lui lo rende ateo, ma con il problema della grazia. Perché il problema suo è l’innocenza, ma, dice lui, come possiamo renderci innocenti se siamo colpevoli? Chi è che ci giustifica? I nostri atti? Ma i nostri atti sono segreti, potrebbero essere conosciuti soltanto dai pochi amici, ma anche lì con difficoltà e si muore soli. Quindi chi ci redime? Chi ci rende innocenti? L’innocenza pagana non regge perché tutta l’opera di Camus, da La peste in avanti, è la scoperta della colpa. È una scoperta che lui fa sulla sua pelle per i motivi che abbiamo indicato: perché non era fedele, perché tradiva, perché il dramma più grande è il fatto che vediamo la bellezza nel volto di coloro che ci amano e invece non siamo all’altezza di questo e ogni volta distruggiamo tutto e sprofondiamo nella disperazione e nell’angoscia. Chi ci ama? Questo era il problema che ogni volta violava l’attesa degli altri, delle altre, soprattutto nel livello dell’amore, dell’affetto che non era pari a quella promessa e quindi ogni volta distruggeva la grazia. L. DONINELLI: Anche perché la domanda “Chi ci ama?” cede a una pretesa molto alta. Secondo me alla parola grazia si potrebbe aggiungere quell’atto attraverso cui l’uomo fa l’esperienza della grazia, che è il perdono. Di fronte al lenzuolo dell’ideologia sartriana lui risponde ne La caduta: “Ha finito di piovere, abbia la bontà di accompagnarmi a casa, sono stanco, stranamente, ma non di aver parlato, ma alla sola idea di quello che devo ancora dirle. Allora su, basteranno poche parole per delineare la scoperta essenziale della mia vita. Ecco, una notte, novembre, due o tre anni prima della sera in cui mi era sembrato di sentir ridere alle mie spalle, io stavo raggiungendo la riva sinistra della Senna, casa mia, attraversando il pont royal, era l’una di notte, pioveva una pioggia fine che aveva il potere di disperdere i vari passanti. Avevo appena lasciato la casa di una mia amica, che probabilmente in quel momento stava già dormendo, ero felice di quella passeggiata, e anche un po’ ingordo. Il corpo era caldo e irrigato di un sangue dolce come la pioggia che cadeva. Sul ponte passai dietro a una forma affacciata sul parapetto e che sembrava guardare il fiume. Quando fui vicino distinsi una pallida giovane donna, vestita di nero, tra i capelli scuri e il collo del cappotto si vedeva solo una nuca fredda e bagnata che mi colpì, ma io continuai per la mia strada dopo una leggera esitazione. Giunto alla fine del ponte presi il lungo Senna in direzione di Saint Michel, dove abitavo. Avevo già percorso una cinquantina di metri quando sentii il rumore che, malgrado la distanza mi sembrò tremendo nel silenzio notturno, di un corpo che si getta nell’acqua. Mi fermai, ma senza tornare indietro. Quasi subito sentii un grido ripetuto più volte, che scendeva Testi-CMC “Non avere paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto! Albert Camus” anche esso lungo il fiume. Poi si spegneva bruscamente. Il silenzio che seguì nella notte mi sembrò interminabile. Volevo correre e non riuscivo a muovermi. Tremavo, credo, di freddo e di paura. Mi dicevo che bisognava fare in fretta e sentivo una debolezza irresistibile invadermi il corpo. Ho dimenticato quello che ho pensato in quel momento, troppo tardi, troppo lontano. Ascoltavo sempre immobile, poi a piccoli passi sotto la pioggia mi sono allontanato. E non vidi nessuno. Ah ma eccoci arrivati. Eccoci a casa mia, al mio tetto. Domani? Sì, come volete. Vi porterò volentieri all’isola di Marken, vedrete lo Zuiderzee. Allora appuntamento alle 11 a Mexico City. Cosa? Questa donna, mah, non ne so niente. Non ho mai più letto i giornali, né il giorno dopo, né i giorni seguenti. La cosa interessante è che poi, più tardi, lui dirà: «nessuna causa può essere così giusta come quelle a cui venivano chiamati a raccolta da Sartre e dall’entourage di Sartre, nessuna causa potrebbe mai avere la forza di riportarmi a quel momento lì, e in quel momento lì poter tornare davanti a questa donna e dirle “Non buttarti giù”». Mi sembra una delle più belle idee del perdono, e della grazia rifiutata di quel momento, che la letteratura moderna ci abbia donato. G. PELUSO: Io ringrazio i nostri ospiti e Popolizio, invitandoli al prossimo incontro su Eliot, proprio perché questo sguardo, questa lettura, questo ascolto della grande poesia, della grande arte, della bellezza, è, come afferma in una sua frase Camus, questo cominciare del movimento della coscienza. Questo rapporto con la realtà ci interessa, ci muove e ci fa prendere coscienza del dolore di una donna o della ferita di cui siamo costituiti, o della chiamata, proveniente dalle cose, a rispondere e a costruire.