Laura Cherubini, Aberto Di Fabio, Micromacrocosmo, la danza

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Laura Cherubini, Aberto Di Fabio, Micromacrocosmo, la danza
ALBERTO DI FABIO
MICROMACROCOSMO
La danza cosmica della pittura
“Nessuno entri qui se non conosce la geometria”
Scritta scolpita sulla porta della scuola di Platone
“La nostra classe sta studiando l’Universo. A me interessa molto lo spazio.
Vorrei ringraziarti per tutto quello che hai fatto, così noi possiamo capire”
Lettera di un bambino delle elementari ad Albert Einstein
E’ il 1989 e un giovane pittore attende impazientemente che arrivi l’ora
dell’inaugurazione della sua prima mostra. Ma quel ragazzo, che dipinge
da sempre, sta facendo il servizio militare e il suo superiore lo consegna.
Per questo non può uscire e andare all’opening della collettiva nella quale
è esposto un suo quadro accanto a opere di grandissimi artisti come
Alighiero Boetti e Sol Lewitt. Poi la giovane, ma già sicura, gallerista
Alessandra Bonomo lo mette al corrente che il suo quadro, una montagna
rossa, è stato subito venduto. Un anno dopo conoscerà Alighiero Boetti che
gli dirà: “Sono io che ho comprato il tuo quadro!”. Alighiero, intelligente,
generoso, acuto, severissimo nei giudizi, ma sempre pronto a riconoscere il
talento, attento alle novità delle generazioni più giovani, sottilissimo nella
comprensione del lavoro altrui. In dialogo con l’altro sempre.
Abbiamo parlato varie volte di Alberto, che nel frattempo io avevo
conosciuto e che frequentavo tra Roma e New York, Alighiero diceva: “Sai
chi è il più bravo artista giovane a Roma oggi? Alberto Di Fabio!”. Per Di
Fabio Boetti resterà sempre un punto di riferimento nella vita e nel lavoro,
quel lavoro che assume sempre maggiore identità. E dire che Roma in
quegli anni non era poi tanto comoda per un giovane artista. “Di Fabio,
nato nel 1966, ha mosso i primi passi come autore tra lo scadere degli anni
Ottanta e l’avvio dei Novanta in una Roma che, sotto il profilo artistico,
giaceva in una sorta di limbo. La presenza ancora attiva di figure ormai
avviate verso la storicizzazione (Twombly, Burri, Accardi)sommata ad
altre all’apice del loro percorso (Boetti, De Dominicis, Ontani) ed altre
ancora emerse con successo nel passato prossimo (Transavanguardia, San
Lorenzo) se da una parte offriva alla città un panorama creativo tutto
sommato ricco ed articolato dall’altra le impediva un naturale ricambio
generazionale; o meglio la necessaria spinta a compierlo. A differenza di
altri centri italiani, Milano in testa che proprio allora viveva una delle sue
stagioni più intense di fine Millennio, Roma, immersa nella sua dorata
indifferenza, si crogiolava nelle proprie glorie recenti noncurante dei rischi
ai quali questo atteggiamento la esponeva; e quelle stesse realtà che
avrebbero potuto divenire un termine di partenza per il futuro si sono
trasformate in un insidioso punto di arrivo, quasi una sabbia mobile di
lusso dalla quale è difficile uscire” (Pier Paolo Pancotto). Meglio di così
non si potrebbe dire.
Così Di Fabio lascia Roma per un soggiorno a Parigi e uno studio della
Cité des Arts, a Montmartre accanto a quello di Alighiero (l’amico nomade
che lo spinge a muoversi, a viaggiare) e per un decennio a New York. Ma
facciamo un passo indietro.
Già da piccolino Alberto Di Fabio, figlio di un artista e di un’insegnante di
scienze (arte e scienza resteranno le sue due passioni, i due vasi
comunicanti, le due basi dialettiche del suo lavoro) disegnava sempre.
Disegnava le montagne della sua terra d’origine, l’Abruzzo, il paesaggio
che ha sotto gli occhi ogni giorno, il Velino con la sua gemellare doppia
punta, quel familiare Himalaya abruzzese (ma copia anche le illustrazioni
dei libri di scienze naturali della madre). La montagna è percorso
iniziatico, solo nel lento esercizio di scalarla l’uomo può elevarsi dal suolo,
farsi più vicino al cielo. Queste immagini della sua terra, queste vette
aguzze come forme della geometria vengono introiettate e resteranno
dentro di lui anche quando a 14 anni arriva a Roma dove frequenta il Liceo
artistico e poi l’Accademia di Belle Arti. Condivide tutto questo percorso
di studi con coetanei come Betta Benassi e Paolo Canevari. Al Liceo la sua
insegnante di Storia dell’Arte è Ester Coen che lo porta a vedere le mostre
da Sargentini e che continuerà a seguirlo. All’Accademia il suo professore
è l’esigente Brunori.
Dopo la mostra da Alessandra Bonomo un’altra collettiva importante è
quella da Lucio Amelio, intitolata a Trismegisto, il tre volte grande Ermete
della tradizione esoterica. I testi attribuiti a Ermete Trismegisto erano
ritenuti antichissimi e fonti di sapienza primigenia e vi si rintracciavano
anticipazioni della filosofia platonica e della religione cristiana. Quando
furono correttamente datati da Isaac Casaubon la loro importanza sembrò
svanire, ma per circa due secoli ogni fermento culturale era germinato da
lì. Lorenzo il Magnifico non solo ne commissiona la traduzione a Marsilio
Ficino, ma gli ordina di interrompere a tal fine la traduzione di Platone. Il
Rinascimento è nato dall’ermetismo. Tra i pilastri del sistema del sapere
della tradizione ermetica c’è l’alchimia, antenata della chimica e della
fisica. Questa commistione tra spiritualità e scienza sembra calzare a
pennello al giovane Di Fabio. La prima personale arriva nel 1994 nella
galleria di Stefania Miscetti. Dopo alcune uscite internazionali nel ’97 ci
sarà la personale alla S.A.L.E.S., la galleria di Massimo Mininni (il
segretario di Alighiero) e di Norberto Ruggeri (che lavorava con
Alessandra Bonomo al momento della collettiva dell’89). Qui il lavoro è
dedicato al Mausoleo ravennate di Galla Placidia. Nel corso del soggiorno
a New York si appassiona alla pittura dell’Espressionismo Astratto, stringe
amicizia con Philip Taaffe e Donald Baechler, conosce Ross Bleckner e Ed
Ruscha. Di Fabio ricorda anche la disponibilità e la grande apertura di Roy
Lichtenstein. Il senso del suo lavoro rimane lo stesso, ma a New York
acquisisce una grande professionalità. Proprio in quegli anni, Larry
Gagosian conosce il suo lavoro e gli organizzera’ diverse mostre personali
in tutto il mondo. A questa città l’artista è molto legato e vi ha sempre
conservato uno studio, ma a un certo punto cede al richiamo dell’Italia, a
quel sogno mediterraneo che già ammaliò Cy Twombly, un altro dei suoi
grandi maestri.
Con la sorella Tiziana sogna di far nascere sull’isola di Ponza una
contemporanea Scuola d’Atene che raccolga artisti, scrittori e nuove
filosofie del 3000 ed è questo sogno a orientare il suo lavoro.
Un lavoro che ormai è tanto chiaramente configurato da permettere
eccezioni. Nel 2003 “con l’amico gallerista Cesare Manzo nasce l’idea di
produrre Vague: una ‘rivista d’artista’, nella quale ogni pagina – che mette
in evidenza i pericoli e le povertà con le quali l’uomo convive – è
un’ossimoro contemporaneo, divertente, dissacrante, a ben vedere
drammatico” scrive Angela Rorro in un testo esemplare “E’ un’azione che
Di Fabio vuole fare per indicare i pericoli di un’esistenza condotta contronatura. Un’azione che finisce con una mostra che non vuole celebrarla ma
completarla, che vuole essere un’occasione di riflessione allo stesso modo
della rivista-opera stampata in 1000 copie, una mostra con installazioni
fatte di dipinti, diapositive delle pagine prodotte, disegni”. Le pagine sono
piccole, gustose scenette che trasformano ironicamente iconografie fashion
del sistema della moda. Il montaggio delle immagini comprende fatti
eterogenei ed elementi incongrui, le patinate modelle vengono
ridicolizzate. “La profanazione delle raffinate immagini pubblicitarie su
carta avrebbe scaldato il cuore di Boetti” (Alan Jones). Nel titolo c’è il
gioco di parole tra “Vogue”/ “Vague”, ma c’è anche il termine francese che
indica l’onda, termine che, oltre a essere usato per segnalare il susseguirsi
delle mode (pensiamo alla frase italiana “essere sulla cresta dell’onda”),
rimanda a fenomeni scientifici come le onde elettromagnetiche. “Tutto
procede attraverso delle onde” aveva detto Alighiero Boetti…
L’orizzonte a cui Di Fabio guarda con coscienza civile è quello di una
nuova ecologia. Proprio a Ponza, nell’isola che vorrebbe trasformare in
una novella Atene, scopre una discarica e un compattatore di rifiuti
abbandonati. Il suo Eden è assediato dai veleni, nella contemporanea
“civiltà” dei consumi non può più esistere un’isola felice, un hortus
conclusus. Decide di riconquistare il paradiso perduto e per far questo
piantumare un gran numero di piante intorno al recinto della discarica,
assediandola a sua volta, circondandola fino a trasformarla in un giardino
(2004). “E’ così che nasce il titolo di questa mostra: ri-impianto, poiché
l’artista, rimpiangendo il danno che l’uomo ha arrecato alla natura,
rimpianta la natura stessa affinché riconquisti la propria bellezza e il
proprio territorio” (Luigi Giovinazzo). La documentazione dell’operazione
(che ripete e rinnova in modo diverso la piantagione delle querce di Joseph
Beuys) confluisce in una mostra nella Galleria Umberto Di Marino di
Napoli, nel frattempo alcune piante vengono rubate e si spargono per
l’isola disseminando il salutare virus ecologico.Tutta questa installazione
ambientale sembra quasi un modo per “dipingere” direttamente la natura.
E veniamo alla pittura. Le materie sono acrilici, tempere, tele, carte…
colori fluidi, supporti flessuosi, materiali liquidi e leggeri, non c’è l’olio,
non c’è la tavola. “Dipingo in orizzontale. I lavori eseguiti in quella
posizione sono come mantra. In ogni opera ci sono vari livelli di velature
con l’acqua, quindi ci sono circa 10 passaggi di colore in ogni opera…
Mentre lavoro faccio esercizi di yoga meditazione e stretching”. L’artista
predispone il proprio corpo e la propria mente, li sottrae al rumore
circostante, al nostro tempo e al nostro spazio. Dipingere è un esercizio
spirituale che coinvolge tutto l’essere dell’artista e la sua dimensione
psico-fisica. Il procedimento è lento e inizia con diverse prove di colore
(quelle che Brunori faceva sempre eseguire ai suoi studenti).
L’uso come supporto degli esagrammi delle poesie taoiste su carta cinese
di riso conferisce alle opere particolare leggerezza. Ricordo che Alighiero
Boetti aveva usato la carta di riso in particolare in uno dei suoi lavori meno
noti che si chiama proprio Riso. Si tratta di una raccolta di barzellette
sull’arte e Alighiero mi aveva detto di aver pensato soprattutto alla colonna
sonora di risate che avrebbe accompagnato l’opera una volta esposta.
Questo lavoro esiste in varie versioni, una delle quali realizzata proprio in
carta di riso: qui Alighiero confezionava il suo personale motto di spirito
concretizzando il riso (nel senso di risata) attraverso il corpo dell’alimento
omofono. Per Alberto invece l’uso della carta di riso può avere diverse
motivazioni. Da una parte il riconoscimento della profonda analogia tra
poesia taoista e fisica quantistica. “La non corrispondenza
dell’ideogramma ad un valore fonetico, bensì ad un’idea o un concetto, fa
del segno grafico un mondo a parte, indipendente dal tutto rappresentato
dalla poesia” (Tullio Ponziani). Ma la carta di riso segnata dagli
esagrammi va anche a complicare ulteriormente il complesso palinsesto
pittorico. La velatura infatti è elemento trasparente di un sistema di
stratigrafie progressive. La velatura è il segno tangibile della durata.
Perché il vero tema della pittura è il tempo e il gesto del dipingere fonda un
tempo altro.
I dipinti di Alberto Di Fabio disegnano la mappa di un universo in
espansione. “Lo scorrere del pennello sulla carta o sulla tela, le
increspature dei colori ad acqua che si dissolvono in altre velature, mi
ricordano il movimento della terra, dei fiumi, delle sinapsi neuronali” (da
un’intervista con Luciano Marucci). Il processo del dipingere è analogo al
processo della natura, questa è la grande scoperta di Di Fabio. Il tempo è
lungo non solo perché si tratta di un tempo meditativo, ma anche perché
ripercorre il tempo delle lente evoluzioni della natura. Di Fabio costruisce i
soggetti con forme geometriche che girano e vibrano. Le opere stesse
possono essere ruotate, passare dalla posizione verticale a quella
orizzontale e viceversa.
Brian Greene (La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà) vede simmetria
ovunque e ne indaga le condizioni nello spazio e nel tempo: “Catturate un
fiocco di neve e ruotatelo di un angolo uguale a quello che intercorre tra
due punte successive: il fiocco è sempre lo stesso”. Ma si fanno strada
anche teorie che mettono in crisi la simmetria.
“La maggior parte dei fisici che lavoravano sulla teoria delle stringhe, o su
teorie connesse alle stringhe, si aspettava che, non appena messo in
funzione il nuovo grande acceleratore di particelle del CERN di Ginevra,
chiamato LHC (Large Hadron Collider), si sarebbero subito viste
particelle di una nuova specie prevista dalla teoria delle stringhe e finora
mai osservate: le particelle supersimmetriche. La teoria delle stringhe ha
bisogno di queste particelle per essere consistente: per questo gli
‘stringhisti’ si aspettavano di trovarle. La teoria della gravità quantistica a
loop, invece, è ben definita anche senza particelle supersimmetriche.
Quindi i ‘loopisti’ si aspettavano piuttosto che queste particelle potessero
non esistere. Le particelle supersimmetriche non si sono viste, con grande
delusione per molti. Il gran cancan seguito alla rivelazione della particella
di Higgs nel 2013 è servito anche a mascherare questa delusione. Le
particelle supersimmetriche non sono là, all’energia dove molti stringhisti
l’aspettavano. Non è certo una prova definitiva di qualcosa, siamo lontani
da questo; ma mi sembra che la Natura, fra le due alternative, abbia dato un
piccolo indizio favorevole ai loopisti. Gli importanti risultati sperimentali
del 2013, per ciò che riguarda la fisica fondamentale, sono due. Il primo è
la rivelazione del bosone di Higgs al CERN di Ginevra, di cui hanno
parlato molto tutti i giornali del mondo. Il secondo sono le misure del
satellite Planck, i cui dati sono stati resi pubblici nel 2013. Questi sono i
due segni che ci ha dato recentemente la Natura” (Carlo Rovelli, La realtà
non è come appare. La struttura elementare delle cose). Ad aprile Di
Fabio è stato invitato al CERN perché le intuizioni delle sue opere possano
fornire ispirazione alle indagini e alle riflessioni degli scienziati.
Tutto era iniziato con Democrito e con la sua teoria granulare degli atomi,
una delle scoperte scientifiche che ha retto di più nel tempo e che noi in
realtà, fatto straordinario, conosciamo solo attraverso la poesia, il De
rerum natura di Lucrezio. Dice Di Fabio: “Democrito già nell’antica
Grecia tramite i sensi percepiva l’esistenza dell’antimateria”. L’idea di
Democrito è che nell’universo non ci siano altro che atomi, indivisibili
grani elementari che si attirano e si aggregano. Ma in realtà la prova
definitiva dell’ipotesi atomica la darà molto tempo dopo Albert Einstein.
“Come ha detto Albert Einstein, dal Big Bang ad oggi è stato un
susseguirsi di fusioni in perfetta armonia tra i vari elementi della fisica, ma
se ora abbiamo il nostro paradiso terrestre lo dobbiamo esclusivamente ai
processi di indeterminazione” (Di Fabio).
Il fine della ricerca di Di Fabio è quello di rendere visibile l’invisibile. Ma
questo è in ultima analisi il fine dell’arte stessa, poiché, come insegna la
fisica, l’immagine delle cose e la loro struttura interna non corrispondono.
E’ estremamente suggestivo che Di Fabio torni alla radice del termine
Cosmo nella doppia accezione di “ordine” e di “ornamento”.
L’immagine dell’oggetto più antico di cui disponiamo è quella della
radiazione cosmica di fondo. “La radiazione cosmica di fondo ha giocato
un ruolo chiave in cosmologia fin dalla sua scoperta a metà degli anni
Sessanta. Di certo si tratta di un fenomeno straordinario. Nei primi istanti
della sua vita, l’universo era pieno di un mare indistinto di particelle
cariche, elettroni e protoni, che grazie alla forza elettromagnetica legavano
a loro i fotoni; ma dopo soli 300.000 anni dal big bang l’universo divenne
abbastanza freddo da permettere a elettroni e fotoni di combinarsi per
formare atomi elettricamente neutri: da quel punto in poi i fotoni furono
liberi di viaggiare a piacimento nello spazio, ed è quello che hanno fatto,
giungendo indisturbati fino a noi, come un’istantanea delle condizioni
primordiali del cosmo” (Brian Greene). Questa radiazione ci permette di
avere un’idea di com’era l’universo da giovane.
“Il mio obiettivo è produrre con la pittura bidimensionale una sorta di
elettromagnetismo, delle onde, per suscitare delle emozioni, come può fare
un quadro optical o un’installazione sonora”. Cogliere il suono interiore
delle cose e permettere che anche lo spettatore possa ascoltarlo. “Dal
macrocosmo mi sono addentrato nel microcosmo” (da una conversazione
con Ester Coen). Dalle massime alle minime dimensioni, dalle montagne
agli atomi, dalle sinapsi ai campi elettromagnetici alle galassie,
dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. “Nessuna nozione
naturale d’infinito è compatibile con le leggi dell’aritmetica” (Timothy
Gowers, Matematica.Un’introduzione). L’azione del dipingere è un rito
infinito, una preghiera che fa avvicinare gli atomi “fino ad essere in
sincronia con il movimento della danza cosmica”. L’universo si espande e
si muove danzando. “Ci sono stelle la cui luminosità intrinseca si può
misurare. Le più note sono le stelle pulsanti. L’energia che dal loro interno
giunge alla superficie fa sì che si espandano e si contraggano
ritmicamente” (Rudolph Kippenhahn, Cosmologia da tasca. Dal Big Bang
alla poesia del cielo stellato).
Il prologo della mostra è nella loggia con i piccoli quadri davanti ai vetri.
Così le opere si legano all’architettura, al paese, al cielo. I quadri stessi
hanno il colore del cielo. Poi grandi quadri rappresentano sinapsi. La
parola sinapsi viene dal prefisso greco “con” e dal verbo greco che indica
l’azione di “toccare”, ha dunque il significato di connessione. Sinapsi è la
comunicazione delle cellule del tessuto nervoso (neuroni) tra di loro, o con
altre cellule. Contemporaneamente le stesse forme alludono a rami con
frutti e radici, a bronchi polmonari, all’esterno e all’interno. Un dittico
fatto di linee di forza è spezzato dalla fonte luminosa della finestra. Inizia
quello che sarà un leit-motiv della mostra: in alcuni punti l’allestimento
replica quello dello studio, un luogo che è anch’esso paesaggio della
mente. In una piccola sala ci sono le prime rocce e montagne, una di esse
trasmigra nella sala successiva introducendo il tema delle nuove e più
ampie catene di montagne. Un grande quadro blu presenta una scarica
elettromagnetica (il magnetismo è con la forza di gravità e la divisione
dell’atomo una delle forze principali). I quadri si accendono gli uni con i
bagliori degli altri. Dopo quasi 25 anni l’artista torna a quei paesaggi
abruzzesi che avevano ispirato i suoi primi lavori. Come nel corto girato su
di lui dal giovane regista iraniano Esmaeel Monsef, Alberto Di Fabio si
addormenta nel suo paesaggio di monti abruzzesi e sogna. Capta il respiro
cosmico delle montagne, degli atomi e delle costellazioni. In una cinetica
sensoriale sente dentro di sé il battito dell’universo in movimento. E sente
che microcosmo e macrocosmo sono fatti di un’unica materia. La stessa di
cui è fatta la pittura.
Laura Cherubini