Giuseppe e la sua famiglia, una storia di vita
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Giuseppe e la sua famiglia, una storia di vita
6 Venerdì, 3 febbraio 2012 Vita Un giovane pieno di entusiasmo, poi l’incidente nel 2010 e la lenta ripresa circondato dall’amore dei suoi cari Giuseppe e la sua famiglia, una storia di vita A sin. Giuseppe prima dell’incidente e a destra insieme ai genitori e alla sorella, nella sua fase di recupero Quella di Giuseppe Marone, e della sua splendida famiglia, è una storia di grande amore per la vita che non è mai venuto a mancare. Neppure adesso che sua vita è molto diversa da quella che sognava lui: un bel ragazzo dai lineamenti mediterranei, sempre pieno di entusiasmo, cuoco di professione e calciatore di belle speranze. Fino a quel maledetto 20 aprile 2010 quando a Zinasco, alle 10.40 di mattina, i suoi sogni si sono infranti in un terribile schianto mentre si trovava a bordo della sua Golf, “la mia bambina”, come la chiamava lui. Il suo sorpasso, un doppio sorpasso per gioco degli amici dietro di lui e Giuseppe si è trovato con la vita appesa a un filo. Deve dire grazie a una signora, Piera, che allarmata dal terribile botto si è precipitata sul luogo, ha chiamato il 118 e con il suo intervento ha impedito il soffocamento immediato. Quattro ore di intervento al San Matteo, presso la Neurochirurgia, ad opera di Giuseppe Bellantoni e della sua equipe. Poi tre mesi drammatici in Rianimazione, con pochissime speranze di sopravvivenza lasciate dai medici, le tante lacrime e le preghiere di mamma Angela, papà Carmine, la sorella Maddalena e il fratello Antonio. “Non abbiamo mai chiesto di farlo guarire, ma semplicemente di lasciarlo vivere -spiega Maddalena- ora è vivo e questo per noi è già un miracolo”. Quindi il trasferimento all’Unità Operativa di Risveglio della Maugeri, dove Giuseppe resta un anno. Il periodo forse più duro per la famiglia, perchè quando pensi che il peggio sia passato ti trovi davanti a una salita difficilissima, soprattutto per la mamma che non può neanche accarezzarlo per evitare stress emotivi al figlio che possono essere fatali. “Un dispiacere immenso ammette mamma Angela- capivo che stava male, che soffriva, leggevo tutto nei suoi occhi e non potevo nemmeno tenergli la mano. Non si può neanche immaginare che cosa voglia dire per una madre tutto questo...” Ma dopo sei mesi di assistenza eccezionale da parte del primario Caterina Pistarini e di tutti i suoi collaboratori Giuseppe esce dal coma vegetativo e inizia il suo lunghissimo percorso di ritorno alla vita. La famiglia sa che è solo una battaglia vinta e che la “guerra” è ancora incerta e difficile. Ma siamo all’inizio del 2011 e si può cominciare concretamente a sperare. Che cosa significa per la famiglia vedere Giuseppe uscire dal coma vegetativo? “Significa vedere che comincia ad acquistare un minimo di coscienza, anche poter iniziare un percorso di riabilitazione fisioterapica in palestra sottolinea la sorella Maddalena- questo è stato importantissimo, perchè ha consentito a Giuseppe di cominciare a muovere la mano, fare ciao, cercare di comunicare con noi”. Sei mesi fa Giuseppe viene trasferito all’Unità Operativa di Neuroriabilitazione I sempre della Maugeri, ma in via Boezio. Mamma, papà e sorella si alternano nell’assistenza con grande comprensione da parte del primario Alberto Zaliani, della dottoressa Giovanazzi, della caposala Maria Grazia Porta e di tutto il personale. Questo Natale è stato una giornata speciale per la famiglia, che ha ottenuto il permesso di portare a casa per un giorno Giuseppe. Le sue lacrime di gioia sono state il regalo più bello. Ora stanno aspettando di tornare definitivamente a casa, di riprendere una vita più normale, lontano dagli ospedali e dalle continue corse che durano ormai da due anni. Papà e mamma sono stanchissimi, anche se non lo danno a vedere e tengono duro con il sorriso, e anche Giuseppe potrebbe trarre beneficio dal rientro a casa: il suo gatto che chiamava “il mio bambino”, l’atmosfera accogliente, gli oggetti amati trasferiti solo in piccola parte nella stanza d’ospedale, a partire dai poster della sua squadra del cuore, il Milan, e le sue foto men- tre gioca a calcio. Anche se l’appartamento non potrà più essere lo stesso. Quello di Zeccone infatti aveva tante, troppe scale, e dopo una lunga serie di ricerche (grazie anche a persone dal cuore buono come Tino Uggeri di Zeccone, il parroco di Bornasco don Lino Casarini e il sindaco di Bornasco Michele Degnoni) la famiglia Marone ha trovato un appartamento a Pavia, di proprietà dell’Istituto Sostentamento Clero. “Grazie al presidente don Vincenzo Migliavacca -dicono- che si è dimostrato molto sensibile. Quell’appartamento è piccolo, ma non ha scale e soprattutto quando siamo entrati abbiamo sentito un senso di calore e di accoglienza. E poi è in centro e proprio vicino alla chiesa di San Teodoro. Per noi è la soluzione ideale”. Papà Carmine è in pensione, mamma Angela sta utilizzando gli ultimi scampoli dei periodi concessi per malattia, Giuseppe ha la pensione d’invalidità anche se gli intoppi burocratici e paradossali non sono stati pochi. La sorella Maddalena, davvero encomiabile per lo spirito reattivo e per la grinta che mostra, si alterna tra Pavia e la Basilicata, dove si era trasferita poco dopo il matrimonio. Insieme al marito lavorava in un agriturismo, dove avrebbe dovuto poi raggiungerli anche Giuseppe, cuoco all’Old Wild West del Carrefour di Pavia all’epoca dell’incidente. Poi la vita ha cambiato improvvisamente direzione. Maddalena ha persino trovato il tempo di dedicarsi al volontariato e fa parte ora della onlus Sos Pavia, per il trasporto gratuito di persone in situazione di necessità. “Esperienze come queste ti cambiano per sempre -sorride Maddalena- o ti chiudi al mondo oppure scegli di aprirti anche perchè in tutto il percorso incontri persone che soffrono come te. E forse solo condividere lo stesso dolore ti porta a instaurare amicizie vere. In questi due anni ho conosciuto un mondo a parte, che viaggia parallelamente a quello raccontato in televisione e sui giornali e che poggia sulla solidarietà, su persone che si aiutano e che condividono le reciproche sofferenze come un’unica grande famiglia”. Che ruolo ha avuto la fede in questo percorso? “Ci ha aiutati molto. Noi siamo sempre stati credenti, ma quando accadono tragedie come queste è quasi scontato avvicinarsi ancora di più alla fede. Si prega giorno e notte, si chiede solo una cosa: che il proprio caro si salvi. Nulla più. Particolarmente caro è per noi il Santuario delle Bozzole, un luogo dove spesso ci rechiamo per trovare un momento di pace, di conforto anche grazie a don Gregorio”. E che cosa vi ha dato la forza di non mollare mai? “Innanzitutto Giuseppe. Lui è stato sempre un leone. Quando si trovava in Rianimazione ci dicevano che non ce l’avrebbe fatta e invece è uscito. Quando era all’Unità di Risveglio ci dicevano che sarebbe rimasto per sempre attaccato ai macchinari e invece ora è staccato. E’ un combattente, lo è sempre stato, innamorato della vita, attento a rispettarla: non fumava, non beveva, stava attento alla dieta, mai fatto uso di droghe. E proprio questo ha giocato un ruolo importante anche nella ripresa”. E i suoi amici? “Quelli veri gli sono rimasti vicini. Non è facile, per chi ha conosciuto Giuseppe, accettare di vederlo in queste condizioni. Gli parlano come se fosse un bambino, in realtà lui capi- sce tutto. Solo che non può parlare. Ma sono stati proprio gli amici a darci forza subito dopo l’incidente: pensi che in Rianimazione sono arrivati in più di cento, piangevano tutti. Noi li guardavamo e pensavamo che Giuseppe non poteva mollare. Anche su Facebook sono nati dei gruppi di preghiera, un bel modo di stargli vicino”. Avete mai pensato “Perchè proprio a noi?” “Mai. Altrimenti dovresti anche chiederti “Perchè non a noi?”. E poi in fondo possiamo già dirci fortunati, seppur nella tragedia: l’alternativa a questo tipo di vita per Giuseppe era la morte. E invece è ancora con noi. Tutto ha un disegno ben preciso, bisogna affrontarlo giorno per giorno, imparando a gioire di ogni piccolo miglioramento”. E ora tornate a casa. Che cosa chiedete ancora al Signore? “Sì, torniamo a casa, con tanta speranza e anche con un po’ di paura. Che cosa chiediamo a Dio? Di poter sentire ancora la voce di Giuseppe, sarebbe il regalo più grande. Noi capiamo tutto quel che ci vuol dire, con i movimenti degli occhi e della mano. Ma se potesse parlare, dirci di che cosa ha bisogno sarebbe tutta un’altra cosa!”. Una lacrima riga il volto di Giuseppe, che ha ascoltato tutta l’intervista seguendo costantemente con gli occhi la voce della mamma. Una lacrima di commozione in cui si racchiude l’amore per la vita di una famiglia coraggiosa e stupenda. Daniela Scherrer