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A rischio inammissibilità l’intervento volontario del
terzo nel processo civile.
Gli interventi principale e litisconsortile, con cui il terzo propone sempre una
domanda nuova, devono ritenersi soggetti al regime delle preclusioni di cui agli
artt. 166 e 167 c.p.c.
In altre parole, quindi, chi interviene nel processo pendente, all’infuori
dell’interventore adesivo dipendente, deve farlo entro i venti giorni dall’udienza di
prima comparizione (o nei dieci giorni, in caso di abbreviazione dei termini a norma
dell’art. 163bis, II comma c.p.c.), come il convenuto che voglia introdurre una
domanda riconvenzionale, pena l’inammissibilità dell’intervento.
L’orientamento giurisprudenziale in commento non è nuovo ed il presente articolo
non si pone la pretesa di risolvere in un senso o nell’altro la questione, che resta
tuttora molto aperta e discussa.
Tuttavia, tanto il suo progressivo consolidarsi nella giurisprudenza (per ora) di
merito, quanto le implicazioni che esso comporta rendono utile un
approfondimento dei termini del problema così da ridurre - nella misura possibile il rischio di incappare in una sgradita pronuncia d’inammissibilità del proprio
intervento in giudizio.
Le tipologie di intervento volontario
Come noto, l’art. 105 c.p.c. consente a chiunque di intervenire in un processo “per
far valere in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente
dal titolo dedotto nel processo medesimo”.
Il terzo può anche intervenire “per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un
proprio interesse”.
Si è soliti distinguere dunque tre tipi di intervento volontario.
Un intervento principale, con il quale l’interventore fa valere in giudizio un proprio
diritto, incompatibile con tutte le parti già coinvolte nel processo e pertanto nei
confronti di ognuna di esse.
Si tratta di una situazione soggettiva attiva che in ogni caso gli consentirebbe di
introdurre autonomamente un giudizio di accertamento/condanna oppure di
proporre opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404 c.p.c., qualora venisse
danneggiato dalla sentenza emessa nel procedimento che non lo abbia visto parte.
Una seconda tipologia di intervento è rappresentata dall’intervento litisconsortile
(o adesivo autonomo). Con questo tipo di intervento chi interviene fa valere un
diritto compatibile con quello affermato da una delle parti originarie ed in contrasto con
un’altra, sulla base di un proprio diverso titolo pur nell’identità del fatto costitutivo.
Quello nell’azione revocatoria disciplinata dall’art. 2901 c.c., ad esempio, è il tipico
caso di intervento che, per la natura della domanda, deve assumere carattere
litisconsortile.
Con il terzo ed ultimo tipo di intervento, detto adesivo dipendente o ad
adiuvandum, l’interventore non aziona un proprio autonomo diritto, ma sposa la
posizione di una o dell’altra parte in giudizio. Si limita, in sostanza, a sostenere le
ragioni della parte la cui vittoria ha ad interesse. In considerazione di ciò, tra le
conseguenze più rilevanti di questa forma d’intervento c’è l’impossibilità da parte
dell’intervenuto adesivo dipendente di impugnare la sentenza sfavorevole nel caso in
cui la parte adiuvata vi abbia rinunciato.
Veniamo però al problema.
Mentre l’intervento adesivo dipendente, per la sua accessorietà, non crea particolari
questioni processuali (l’interventore adesivo dipendente non aggiunge nulla nel
contenitore del processo se non il contributo unificato ed il proprio nome all’elenco
delle parti), i primi due tipi di intervento, quello principale e litisconsortile, ampliano
invece il thema decidendum ed il thema probandum della controversia.
Ora, l’art. 105 va indubbiamente letto assieme all’art. 268 c.p.c., secondo il quale
“l’intervento può aver luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni - (I comma) - ma il
terzo non può compiere atti che al momento dell’intervento non siano più consentiti ad alcuna altra
parte” (II comma).
Ci si è domandati, pertanto, all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del
Codice di rito del 1990, come “l’allargamento” del thema decidendum e probandum
tipico degli interventi principale e litisconsortile, dove chi interviene propone sempre
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una domanda nuova, si conciliasse con il regime delle preclusioni processuali
introdotto dalla riforma stessa.
La risposta ha richiesto ovviamente del tempo.
La giurisprudenza di merito che accoglie la tesi dell’inammissibilità
Si è inizialmente detto: chi interviene nel giudizio pendente può farlo sino alla
precisazione delle conclusioni ma accetta il processo nello stato in cui si trova e non
può quindi chiamare in causa terzi o introdurre richieste istruttorie ove le parti
originarie siano già decadute da tale possibilità. E’ questa la “sanzione” per
l’intervento tardivo.
Da alcuni anni si è invece fatto strada nella giurisprudenza di merito un altro
indirizzo, decisamente più restrittivo: l’art. 268, II comma c.p.c. andrebbe
interpretato nel senso di impedire al terzo il compimento di atti che al momento
dell’intervento sono già preclusi ad almeno una delle parti, con la conseguenza scrive da ultimo Trib. di Torino, ord. 2 novembre 2012 - che l’attività dell’interveniente
subisce le medesime limitazioni cui è soggetta la parte che per prima incorre nelle
preclusioni.
Traducendo nella pratica questo principio, ne discende che gli interventi principale e
litisconsortile, con cui il terzo propone sempre una domanda nuova, devono
ritenersi ammissibili solo nel termine stabilito per la costituzione del convenuto ai
sensi dell’art. 166 c.p.c., ossia:
1) 20 giorni prima dell’udienza di comparizione ex art. 183 c.p.c. fissata in
citazione;
2) ovvero 20 giorni prima dell’udienza differita ai sensi dell’art. 168bis, V comma
c.p.c.;
3) ovvero 10 giorni prima dell’udienza di comparizione in caso di abbreviazione
dei termini;
4) sino all’udienza 183 c.p.c., ma solo se l’interesse all’intervento volontario sorge
in conseguenza della domanda riconvenzionale del convenuto.
La ratio di una simile interpretazione è quella di evitare che il processo assuma un
carattere “cumulativo” e che venga rimesso in discussione in diversi momenti il
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thema decidendum della causa, con evidente ostacolo e rallentamento alla sua pronta
definizione.
Stando a questa lettura, se ne ricava inoltre che l’intervento adesivo dipendente
sarebbe l’unico realmente attuabile sino alla precisazione delle conclusioni e dunque
l’unico compatibile con il dettato dell’art. 268, I comma c.p.c..
La prima pronuncia di questo filone giurisprudenziale sembrerebbe essere stata
quella del Tribunale di Torino, 07 giugno 2000 (in Giur. merito 2001, n. 1, I, pag. 27), poi
seguita da:
Tribunale Monza, 9 febbraio 2001 (in Giur. merito 2003, 29);
Tribunale Napoli, 23 luglio 2001 (in Giur. napoletana 2002, 65);
Tribunale Milano, 27 marzo 2003 (in Giur. it. 2004, 575);
Tribunale Ivrea, 7 luglio 2003;
Tribunale Bergamo, 13 maggio 2004 (in Giur. merito 2005, f. 1, 66);
Tribunale Savona, 30 agosto 2004;
Tribunale Milano, 31 marzo 2005 (in Giustizia a Milano 2005, 30);
Tribunale Torino, sez. IV, 16 settembre 2005;
Tribunale Salerno, sez. I, 15 giugno 2006 (in Il civilista 2008, 9, 37), che specifica:
«Qualora la domanda dell’interveniente sia conseguenza della riconvenzionale o delle eccezioni
proposte dal convenuto, essa sarà ancora ammissibile nella prima udienza di trattazione, in quanto
parimenti consentita all’attore dall’art. 183 comma 4 c.p.c., altrimenti, l’autonoma domanda
dell’interveniente andrà formulata entro il termine per la tempestiva costituzione del convenuto, di
cui agli art. 166 e 167 c.p.c., sicché dopo l’udienza di trattazione, in ogni caso, rimarrebbe
ammissibile soltanto l’intervento adesivo dipendente»;
Tribunale Lucca, 27 giugno 2006, n. 1086 (in Giur. merito 2007, 3, 690);
Tribunale Palermo, 30 marzo 2007 (in Giur. merito 2008, 2, 401);
tutte menzionate da Tribunale Torino, Sez. III, ord. 2 novembre 2012, da cui il presente
articolo trae peraltro spunto.
La posizione della Suprema Corte
Deve evidenziarsi, a questo punto, che l’orientamento di merito appena richiamato,
oltre ad essere disconosciuto da altra giurisprudenza di merito (si veda contra Trib.
Milano, 24 giugno 2008, in Corr. mer. 08, 902) non ha trovato sinora alcuna conferma
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innanzi al giudice di legittimità. Al contrario, invece, la Corte di Cassazione,
attraverso pronunce altrettanto recenti ed originate da giudizi di primo grado
instaurati successivamente alla riforma del Codice di rito del 1990, si è espressa
ripetutamente nel senso della piena ammissibilità di domande nuove da
parte dell’interventore principale o litisconsortile/adesivo autonomo, tanto
che può parlarsi di un consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità in questo
opposto senso.
Si prenda ad esame su tutte Cass. 16 ottobre 2008, n. 25264 (confermata
successivamente da Cass. 14 novembre 2011, n. 23759) secondo la quale: « chi
interviene volontariamente in un processo già pendente ha sempre facoltà di formulare domande nei
confronti delle altre parti, quand’anche sia ormai spirato il termine di cui all’art. 183 c.p.c. per la
fissazione del thema decidendum; né tale interpretazione dell’art. 268 viola il principio di
ragionevole durata del processo od il diritto di difesa delle parti originarie del giudizio: infatti,
l’interveniente, dovendo accettare il processo nello stato in cui si trova, non può dedurre – ove sia già
intervenuta la relativa preclusione – nuove prove e, di conseguenza non vi è il rischio di riapertura
dell’istruzione, né quello che la causa possa essere decisa sulla base di fonti di prova che le parti
originarie non abbiano potuto contrastare ».
Ed ancora: « la preclusione sancita dall’art. 268 c.p.c., in virtù del quale il terzo intervenuto nel
processo non può svolgere l’attività istruttoria preliminare e probatoria che la fase eventualmente
avanzata del procedimento non consenta alle altre parti, non si applica all’attività assertiva
dell’interveniente volontario, nei cui confronti non è quindi operante il divieto di proporre domande
autonome, rimanendo altrimenti vanificata l’utilità stessa della tipologia di interventi contemplati
nel primo comma dell’art. 105 c.p.c. ». La formulazione della domanda costituisce in
poche parole l’essenza stessa dell’intervento principale e litisconsortile (così
anche Cass. 28 luglio 2005, n. 15787).
Il percorso logico-giuridico compiuto dalla Suprema Corte sembra giungere ad una
conclusione con Cass. 14 novembre 2011, n. 23759, dove si legge: « Questa Corte ha
avuto ripetutamente modo di affermare che la preclusione sancita dall’art. 268 c.p.c., nel testo
introdotto dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, non si estende all’attività assertiva del volontario
interveniente, nei cui confronti, perciò, non è operante il divieto di proporre domande nuove ed
autonome in seno al procedimento “fino all’udienza di precisazione delle conclusioni”, perché la
proposizione della domanda nuova rappresenta la ragione stessa dell’intervento; e che, tuttavia, per
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l’interventore stesso ed avuto riguardo al momento della sua costituzione, sussiste l’obbligo di
accettare lo stato del processo in relazione alle preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti. Si
tratta di una scelta del legislatore della Novella di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353, coerente
con un indirizzo, che ha trovato espressione anche nella progressiva riduzione dei casi di sospensione
del processo, che tende a privilegiare la semplicità e la celerità del giudizio rispetto ad altre esigenze
astrattamente meritevoli di tutela, quali l’economia e la prevenzione di possibili giudizi
contrastanti» .
Secondo la Cassazione, dunque, non solo sarebbe possibile spiegare intervento
principale o litisconsortile/adesivo autonomo oltre il termine per la costituzione
tempestiva del convenuto ed oltre l’udienza 183 c.p.c., ma anche sino all’udienza per
la precisazione delle conclusioni, come del resto previsto dall’art. 268 c.p.c..
Possibili letture alternative
A giudizio di chi scrive, dovendo scegliere nettamente tra le due soluzioni, quella
“comoda” dell’inammissibilità dell’intervento tardivo propria della giurisprudenza di
merito in commento e quella “permissiva” del giudice di legittimità, è da preferire la
seconda. E non soltanto per motivi gerarchici.
La ragione di questo maggiore, condivisibile favore che la Suprema Corte attribuisce
all’interventore, risiede infatti nella sostanziale differenza tra la posizione
processuale di colui che viene convenuto in giudizio ed il terzo che interviene.
Il primo è anzitutto a conoscenza, poiché gli è stato notificato un atto di citazione,
dell’esistenza di un processo;
in secondo luogo, è debitamente informato nella
vocatio in ius circa le conseguenze cui incorrerà in caso di mancata costituzione ai
sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c.
Al contrario, il terzo che si trova nella condizione prevista dall’art. 105, I comma ed
è pertanto portatore di un diritto nei confronti di entrambe le parti o di una di esse,
potrebbe legittimamente ignorare tanto il fatto che penda tra le stesse parti un
procedimento quanto in che fase esso si trovi.
Limitare la possibilità di intervento volontario principale e litisconsortile entro le 4
ipotesi sopra elencate significa quindi mortificare la funzione di un istituto
processuale, quello dell’intervento volontario, che di diversi decenni precede la
riforma del Codice di procedura civile del 1990.
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Oltretutto, è l’art. 167 c.p.c., letto insieme all’art. 166, che espressamente richiede al
convenuto che intenda proporre una domanda riconvenzionale di farlo - a pena di
decadenza - nel termine di venti giorni prima dell’udienza; mentre una previsione di
questo tenore non si rinviene da nessuna parte in capo all’interventore principale o
adesivo autonomo.
Equiparare pertanto la domanda riconvenzionale alla domanda nuova di colui che
interviene ai sensi dell’art. 105, I comma (in via principale o adesiva autonoma) è
fuorviante sia da un punto di vista sostanziale, perché - come detto - diverse sono le
posizioni di partenza del convenuto e del terzo, sia dal punto di vista formaleesegetico, dato che il legislatore dalla riforma del 1990 ad oggi (e ve ne sono state
almeno altre tre rilevanti) non ha mai inteso introdurre alcuna ulteriore limitazione
temporale in materia di intervento principale e litisconsortile.
È stata peraltro la stessa Corte di Cassazione, con sentenza n. 21060 del 3
novembre 2004, a ribadire piuttosto chiaramente che: « posto che la formulazione della
domanda costituisce l’essenza stessa dell’intervento principale e litisconsortile ai sensi dell’art. 105,
primo comma, cod. proc. civ., deve escludersi che l’autonoma domanda proposta dall’interventore
volontario possa essere equiparata alla domanda riconvenzionale del convenuto e che, ad essa,
possano di conseguenza applicarsi le preclusioni poste per quest’utima dal codice di rito (artt. 167 e
183 cod. proc. civ.)».
È dunque la possibile “asimmetria informativa” tra convenuto e terzo interventore
volontario a giustificare un diversificato trattamento processuale in materia di
preclusioni.
Ciò detto e considerato, è pur vero che la posizione assunta dal Supremo Collegio
rischia di rivelarsi eccessivamente indulgente e contraria all’esigenza di speditezza del
processo in almeno due occasioni.
La prima, quando il terzo sia perfettamente a conoscenza della pendenza del
giudizio e per propri calcoli di convenienza decida di “intromettervisi” soltanto
all’udienza di precisazione delle conclusioni, per non consentire difese adeguate alle
parti costituite.
Ma se ne ipotizza un’altra. Poiché l’interventore principale o litisconsortile introduce
effettivamente una domanda nuova in grado di modificare, ampliandolo, il thema
decidendum ed il thema probandum, è possibile – non matematico – che l’accertamento
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del titolo e della pretesa dell’interventore, per quanto documentale e pur in assenza
di ulteriore attività istruttoria da compiere, qualora alle parti originarie sia preclusa, si
manifesti comunque di complessa soluzione per il Giudicante, tale che i tempi del
processo ne siano di fatto influenzati.
In entrambi i casi si ha la fondata impressione che un simile intervento debba essere
sottoposto ad una qualche limitazione.
Sarebbe dunque preferibile una “via di mezzo”.
Nella prima ipotesi un correttivo potrebbe essere trovato: a) nel
condizionare
l’intervento principale o adesivo autonomo “tardivo” al superamento dell’onere della
prova in capo al terzo in ordine all’impossibilità di spiegare l’intervento in una fase
processuale antecedente, ammettendo prova contraria sul punto delle controparti;
b) nel consentire comunque alle parti costituite, con doppio termine per note e
repliche, di difendersi nel merito rispetto alle allegazioni dell’interventore.
Nella seconda ipotesi presa in considerazione, ed in linea generale, c) nel consentire
sempre al terzo di intervenire in via principale e litisconsortile sino all’udienza di
trattazione ex art. 183 c.p.c., momento in cui le parti, con la richiesta dei termini di
cui al 6° comma, possono precisare le rispettive domande, formulare eccezioni che
siano conseguenza dell’intervento e prendere posizione sugli alligata et probata
dell’interventore volontario; d) nel dichiarare inammissibile l’intervento oltre
l’udienza 183 c.p.c., salvi i correttivi a) e b).
Sino all’udienza 183 c.p.c. è data infatti possibilità a tutte le parti costituite attraverso i termini di cui all’art. 183, 6° comma c.p.c. - di prendere posizione nel
merito sui fatti e sul titolo allegati dall’interventore ed il thema decidendum non è
ancora definitivamente cristallizzato.
Queste sono soltanto alcune delle riflessioni e soluzioni suggerite dal problema.
È chiaro, peraltro, che le distorsioni di cui si è detto sono amplificate dalla prassi dei
nostri Tribunali, dove i rinvii per la precisazione delle conclusioni seguono in media
di due anni l’ultima udienza istruttoria: se si parte dal presupposto che nella logica
del legislatore del ’40, ispirato ai principi dell’oralità chiovendiana, la fase di
precisazione delle conclusioni ben avrebbe potuto coincidere con la nostra attuale
udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c, qualunque considerazione basata sul dato
testuale in tema di preclusioni ed intervento risulta inevitabilmente falsata.
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Conclusioni
Alla luce del quadro finora descritto, si possono ad ogni modo trarre delle
indicazioni per i difensori alle prese con il dubbio se spiegare intervento principale o
adesivo autonomo in un processo.
In primo luogo, qualora il terzo sia a conoscenza “per scienza privata” della
pendenza di un giudizio tra le parti, della data della sua prima udienza e non sia
ancora scaduto il termine per la costituzione tempestiva del convenuto, il consiglio
(banale) è ovviamente quello di non temporeggiare e depositare l’atto di intervento
come se si trattasse di una comparsa di costituzione e risposta contenente una
domanda riconvenzionale. Così facendo si è sicuramente al riparo da ogni rischio.
Qualora però ciò non sia più realizzabile, o perché si ignorava la pendenza del
giudizio o perché il procedimento si trova già in una sua fase ormai avanzata,
occorre effettivamente valutare l’opportunità dello spiegare intervento oltre il
termine previsto dall’art. 166 c.p.c., rispetto all’immediata introduzione di un
autonomo giudizio di cognizione vertente sullo stesso oggetto ed in confronto delle
medesime parti.
Seguendo questa seconda strategia, inoltre, sarà possibile domandare la riunione dei
due procedimenti già nella comparsa di costituzione e risposta, allorché sia esclusa la
costituzione tempestiva del convenuto, ma non ancora celebrata la prima udienza
nel giudizio già pendente, oppure se nel procedimento incardinato per primo,
celebrata l’udienza ex 183 c.p.c., vi sia stato un lungo rinvio per l’udienza di
ammissione dei mezzi istruttori di cui all’art. 184 c.p.c..
Tanto l’intervento “tardivo” quanto l’introduzione di un nuovo giudizio (con
tentativo di riunione) sono soluzioni praticabili.
La prima strada è al momento più incerta per via dell’indirizzo giurisprudenziale di
merito in commento. Esiste infatti la possibilità che l’intervento principale o adesivo
autonomo venga dichiarato inammissibile dal Giudice in prima udienza (nonostante
la posizione della Suprema Corte, come abbiamo visto, sia piuttosto netta in senso
opposto); la seconda soluzione, probabilmente più dispendiosa dal punto di vista
degli adempimenti pratici da compiere per il difensore (notifiche, iscrizione a ruolo),
mette però totalmente al riparo da una pronuncia d’inammissibilità. Se si considera
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poi che in ipotesi di accoglimento dell’istanza di riunione gli svantaggi sostanziali
legati al ritardo nell’introduzione di un nuovo giudizio verrebbero di fatto annullati,
quest’ultima via sembra forse allora la più indicata di tutte.
Avv. Giulio Pisano
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