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RASSEGNA STAMPA venerdì 27 novembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 27/11/15, pag. 1/11 29 novembre Marcia per il clima contro la guerra Filippo Sestito* A pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi, Beirut, Bamako e Tunisit la Francia ospiterà la COP21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. Non sarà facile raggiungere un accordo vincolante per limitare il riscaldamento climatico globale sotto i 2°C o opporsi al modello «dell’iperproduzione e dell’iperconsumo» quando la Francia e l’Occidente sembrano accecati dall’odio e parlano esclusivamente il linguaggio della vendetta. Quando il socialista Hollande chiama l’intera Europa, l’occidente e i suoi alleati ad una nuova guerra infinita ed intanto vieta tutte le manifestazioni pubbliche, vara leggi speciali e lo stato di emergenza, sospende le democrazia o quando il capo del governo francese, Valls, annuncia possibili attacchi chimici, contribuendo ad alimentare la paura che ci spinge a modificare i nostri stili di vita, ad abbandonare «lo spazio pubblico» e rinchiuderci ulteriormente nel privato. Il clima di terrore nel quale siamo precipitati aumenta il rischio di fallimento della Conferenza di Parigi. D’altronde, già prima che le spese finanziarie per pagare eserciti e guerre fossero escluse dal patto di stabilità, così come approvato pochi giorni orsono dalla Commissione Ue, gli impegni finanziari erano molto al di sotto dei 100 miliardi necessari, come le misure concrete per ridurre le emissioni di gas serra e la dipendenza dai combustibili fossili e dal nucleare, che sono tra le cause principali delle innumerevoli guerre oramai giunte nel cuore dell’Europa, e che ancor oggi godono di 5 volte i sussidi pubblici rispetto alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Infatti, nel 2013 Gran Bretagna, Germania, Italia, Giappone e Francia hanno bruciato il 13% di carbone in più rispetto al 2009. Me la Spagna di Rajoy mette addirittura una tassa sull’energia solare evidenziando una vera volontà politica per non far decollare le rinnovabili. In Italia Renzi autorizza le trivellazioni contro la volontà di intere comunità. Ennesimo atto di arroganza del governo, che si presenterà alla conferenza di Parigi portando in dote questo regalo fatto alle multinazionali del petrolio, a cui si aggiungono i continui colpi inferti alle rinnovabili. Se si superassero i 2°C di aumento della temperatura il livello del mare aumenterebbe di 5 metri entro il 2065, con un aumento di 4°C sarebbero a rischio i paesi del Mediterraneo, Nord Africa, Medio Oriente e America Latina. Se a questo aggiungiamo altre variabili, quali le guerre per l’accaparramento delle risorse naturali, il consumo di suolo, la carenza di risorse idriche, la cementificazione dei territori, le pratiche di «land grabbing», le conseguenze sulla parte più indifesa delle popolazioni potrebbero essere enormi, tanto da provocare una vera e propria crisi umanitaria. Centinaia di milioni di profughi in prospettiva. Diventa, dunque, fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima. In tante capitali del mondo i movimenti e la società civile scenderanno in piazza per far sentire la voce dei popoli, per ridurre il riscaldamento climatico sotto l’1,5°C, per un modello alternativo al neoliberismo, per la difesa dei beni comuni, contro il terrorismo, contro le 2 guerre, contro il razzismo e per la libera circolazione dei migranti, contro le politiche securitarie e il drastico restringimento delle libertà collettive e individuali. È giunto il momento di contribuire, ognuno per la propria parte, alla ricostituzione di un movimento capace di coniugare le battaglie globali sul clima e la giustizia ambientale e le azioni a difesa del territorio e la giustizia sociale. Non c’è un gran clima in giro per il mondo ed ecco perché il 29 Novembre i movimenti e le associazioni italiane scenderanno in piazza a Roma — alle 14 da Campo de’ Fiori ai Fori Imperiali — per il clima e per la pace, facciamo sì che questa giornata segni l’inizio di un nuovo e inedito protagonismo della società civile italiana! *Coordinatore nazionale Arci Ambiente, difesa del territorio, beni comuni e stili di vita Da Radio Articolo 1 e Radio popolare Roma del 26/11/15 Verso la Global Climate March. Un concerto, un'inchiesta, un film Con S. Altiero, giornalista; F. Sestito, Arci Ellecult 26/11/2015( 10,96 MB) - See more at: http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=sestito&contenuto=audio#sthash.25HhW JVE.dpuf Da Globalist e Giornale dello Spettacolo del 26/11/15 Napolislam torna al cinema. Arci: una vittoria Dopo gli attentati di Parigi, il film di Ernesto Pagano era stato posticipato al 2016. L'Uci ci ripensa e annuncia che dal 2 dicembre 2015 il film sarà nelle sale. L'Uci, che dopo gli attentati di Parigi aveva deciso di posticipare al 2016 la programmazione di Napolislam di Ernesto Pagano, ci ripensa e annuncia che dal 2 dicembre 2015 il film sarà nelle sale. Lo rende noto l'Arci che commenta: "è una vittoria per chi, come noi, era intervenuto per denunciare il rinvio deciso dall'UCI, e le motivazioni che lo giustificavano ("meglio aspettare un momento più sereno"). Una decisione che avevamo trovato assai discutibile, sia perché le censure non ci piacciono mai, sia perché veniva travisato il significato del film, che racconta, senza strumentalizzazioni, storie di quotidiana integrazione, di una società che rifiuta una separatezza artificiosa che non corrisponde alla realtà che si vive tutti i giorni". Napolislam è uno dei film che fanno parte de 'L'Italia che non si vede', la rassegna itinerante di cinema del reale organizzata da Ucca. "Lo diciamo con orgoglio, perché proprio ciò che sta succedendo intorno a noi, oltre al valore formale dell'opera, ci conferma quanto la scelta di proiettarlo in giro per l'Italia, insieme agli altri film della rassegna, sia stata lungimirante". http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=81810&typeb=0&napolislam-torna-alcinema-arci-una-vittoria 3 Da la Gazzetta del Mezzogiorno del 24/11/15 Dalla Resistenza a Benny Così Bari nutre la geografia della memoria Una sorta di geografia della memoria storica va prendendo forma a Bari. Esposizioni e monumenti realizzati in periodi e in modi diversi ma che potrebbero essere letti come un insieme coerente. All’interno di questa mappa, trova spazio una topografia della memoria antifascista che si è andata disegnando nel tempo, quasi a confutare l’annosa taccia di Bari «città fascista»: un cliché nato da un cedimento conformistico all’immobilismo storico; un affronto alla città da cui partivano gli appelli radiofonici alla Resistenza, e che era stata una infrastruttura vitale degli Alleati nella guerra antinazista. Anche per influenza del quadro politico postbellico , quella memoria restava come sommersa, inespressa, assai poco alimentata dalle istituzioni rappresentative. Negli anni ’70 le epigrafi firmate in solitudine dall’Anpi presso il palazzo della Dogana del Porto e all’interno della Posta centrale –per coloro che il 9 settembre ’43 si erano opposti ai tedeschi – testimoniavano da un lato la tenacia dell’associazione partigiana, dall’altro la prudente distanza delle amministrazioni pubbliche. Del resto, non è casuale che la medaglia d’oro per la Resistenza alla città di Bari sia arrivata soltanto nel 2006, nella stagione, cioè, di un’operosa sensibilità istituzionale. Ma era appunto, ormai, un’altra epoca; in cui la lunga semina dell’impegno civico, della ricerca storiografica, del lavoro delle scuole produceva frutti maturi. A questa fase è ascrivibile fra l’altro il progetto delle «pietre d’inciampo» – ispirate agli Stolpersteine dell’artista Gunter Demnig – realizzato nel 2010-2013 dal Comune in collaborazione con l’Anpi, l’Ipsaic e la Camera del Lavoro-Cgil. Parole di pietra e di ottone, che nominano fatti e caduti dell’antifascismo nel 1922 e nel ’43. E dal 2014 una targa nell’aula consiliare barese reca doverosamente il nome di Filippo D’Agostino – deportato e ucciso dai nazisti – che fu eletto in quel consiglio prima della dittatura. Nello svolgimento complesso e problematico del rapporto fra città e storia, la vicenda delle commemorazioni di Benedetto Petrone, il giovanissimo antifascista ucciso il 28 novembre 1977 (ne ricorre il 38° anniversario), è quasi un paradigma. Dopo il processo, un velo di silenzio si stende sulle memorie individuali che molti continuano a custodire, mentre lo stesso antifascismo dà risposte sporadiche. Rimane l’icona di un volto fiero che a Bari tutti identificano immediatamente, anche gli antipatizzanti e gli indifferenti. Resiste l’epigrafe in piazza Libertà, messa dai compagni di Benedetto, documento che la quotidianità opacizzante non ha potuto riassorbire. Resta – lo si dovrà riconoscere – la duratura pedagogia civile di un libretto collettivo, Le due città, che passa di mano in mano fra le generazioni di giovani che non c’erano, ma vogliono sapere. Poi, forze politiche riscoprono l’esempio del ragazzo assassinato da neofascisti, dando vita alle manifestazioni rievocative, preparando il terreno. Ed è in coincidenza con la rifioritura civica di cui abbiamo detto, che le commemorazioni di Benny diventano parte integrante del discorso pubblico. Fino a culminare nel 2009, con l’intitolazione a Petrone della via d’accesso a piazza Chiurlia, per decisione del Comune che accoglie la proposta del Comitato 28 Novembre. A Benedetto sono stati dedicati siti internet, film, spettacoli, recital, fra cui una ballata del compianto Enzo Del Re, e molteplici iniziative di giovani in tutta la Puglia. Per questo ci sembra che un ulteriore e significativo evento si compia, oggi, grazie a una intelligente scelta dell’Arci. Nella sede di Bari Vecchia, l’associazione culturale istituisce, con il Comitato 28 Novembre, una mostra fotografica permanente sui giorni di Benedetto Petrone. Messa insieme collettivamente l’anno scorso per una esposizione provvisoria, la mostra prende ora il suo posto di rilievo nella geografia della coscienza storica barese, 4 non diversamente – a ben vedere – dal Museo civico appena risistemato e dalla esposizione stabilmente allestita in Casa Piccinni. Tanto più se si considera la proprietà comunale dell’immobile, confiscato alla criminalità. Non è soltanto una vittoria conclusiva sulla menzogna che pretendeva di delegittimare Benny e i suoi amici come teppistelli «barivecchiani»: è giustizia per quei ragazzi che, riconoscendosi nel movimento operaio e nella democrazia, volevano sottrarre la città vecchia a un destino di povertà e devianza. Ma la mostra ha per protagonista soprattutto la cittadinanza, colta nella sequenza del cordoglio, della rabbia, del ricordo. Uno specchio di corpi e facce in cui la città odierna potrà guardarsi, trovando conferma che quella non è una storia estranea, ma è la sua storia. Pasquale Martino Da La Gazzetta del Mezzogiorno del 24/11/15 Le immagini sulla storica manifestazione per Benedetto del 1977 L’inaugurazione sabato 28 in piazza San Pietro nell città vecchia In occasione del 38° anniversario dell’assassinio di Benedetto Petrone, sabato 28 novembre 2015, ore 11.00, al termine della cerimonia ufficiale in piazza Prefettura, presso la sede ARCI-BARI a Bari Vecchia in Piazza San Pietro - 22, inaugurazione della mostra fotografica permanente dal titolo: “BENEDETTO PETRONE, STORIA E MEMORIA DELLA CITTÀ” a cura di ARCI Bari con Comitato 28 novembre. Con il patrocinio del Comune di Bari. Intervengono: il Sindaco di Bari, Antonio Decaro; la Presidente del Comitato 28 novembre, Porzia Petrone; il Presidente di ARCI-BARI, Luca Basso. Per l’occasione Letture di Giulio Bufo da: "L'ultima corsa" Ingresso libero compatibilmente con la disponibilità dei posti. La mostra, curata da Francesca Torre, racconta con immagini storiche, le drammatiche ore che seguirono l’assassinio di Benedetto, i suoi funerali e la storica manifestazione antifascista che il 29 Novembre 1977 portò in piazza a Bari migliaia di persone. La mostra sarà ospitata in maniera permanente preso la sede di ARCI Bari in piazza San Pietro, un luogo dal grande significato simbolico per tanti motivi: perché sito nel cuore di Bari vecchia, quartiere in cui Benedetto era nato, viveva e faceva politica, ma anche perché quella sede è un bene confiscato alla criminalità e dunque metafora di riscatto civile e presidio di legalità. “A quasi quarant’anni dal suo assassinio – ha detto il presidente di ARCI Bari, Luca Basso - Benedetto Petrone continua a parlarci: la sua vicenda umana e politica, la sua solidarietà verso i più deboli, la sua intolleranza nei confronti di ogni ingiustizia, restano un riferimento per tutti coloro che, in questa città e non solo, si riconoscono nei valori della democrazia, dell’uguaglianza sociale e dell’antifascismo. Per tutto questo ARCI Bari, proseguendo nel suo lavoro di recupero della memoria antifascista della città, assieme al Comitato 28 novembre (associazione storica che in tutti questi anni ha mantenuto viva la memoria di Benedetto) e grazie anche al patrocinio del Comune di Bari, ha voluto creare un luogo in cui le testimonianze del passato siano sempre a portata di sguardo e la memoria possa farsi pratica concreta e quotidiana, soprattutto a beneficio quanti non hanno conosciuto la città di quegli anni.” 5 Da CinemaItaliano.info del 26/11/15 TFF33 - "Il Foglio": un esempio di autorganizzazione dei cittadini Cosa è "Il Foglio" descritto nel documentario di Silvia Belotti, prodotto da ARCI Movie tramite il Movielab FILMaP? Non è altro che uno dei paradossi italiani, un pezzo di carta attaccato al muro davanti all'Agenzia delle Entrate di Napoli, dove i cittadini si segnano per poter accedere agli uffici dell'imposte dello Stato. Perché, ogni giorno, dalla notte precedente le persone arrivano lì per "iscriversi", creando un'autorganizzazione che le istituzioni pubbliche non riuscirebbero a gestire. Silvia Belotti racconta uno spaccato dell'Italia, di un'Italia che riesce tramite quel foglio a creare un'associazione spontanea, lontana dai litigi delle lunghe code presenti negli uffici pubblici e/o privati alla quale quotidianamente assistiamo. Non ci sono malumori e tensioni, sembra bastare poco per mettere tutti d'accordo e che questa cosa avvenga in una città caotica come Napoli, ha ancora di più dell'incredibile, o forse no... http://www.cinemaitaliano.info/news/33411/tff33-il-foglio-un-esempio-diautorganizzazione.html Da Ansa e GoNews del 26/11/15 Le Regioni in campo contro la povetà, Rossi: “Bene gli 800 milioni per il 2016, si dia seguito anche il prossimo anno” Le Regioni scendono in campo per combattere la povertà: oggi il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha spiegato che i governatori sono pronti a lavorare con il governo per arrivare al Piano nazionale contro la povertà d’intesa con il Governo, da varare all’inizio del prossimo anno. “Bisogna introdurre il diritto dei cittadini ad avere un sostegno economico se non si ha un determinato reddito – ha spiegato Rossi – in Europa solo l’Italia e la Grecia non hanno un sostegno economico di tipo universalistico per lottare la povertà”. Eppure, ragiona il governatore, dal 2008 i poveri “sono aumentati in modo impressionante, passando dal 4,1% della popolazione al 9,9%”, in termini numerici alcune stime parlano di oltre 4 milioni, altre di 6 di poveri, ma il dato è ugualmente gravissimo, “la disperazione si tocca con mano”. E dunque per le Regioni è un bene che il Governo abbia varato il Sia, il Sostegno di inclusione sociale da 800 milioni, che andrà al capofamiglia con due figli a carico e 3 mila euro di reddito l’anno, ma bisogna stanziare altrettanto per il 2017, “è stato salito il primo mezzo gradino, è una svolta di civiltà”. “Non sono i soldi previsti da Alleanza per la povertà, che per il primo anno di introduzione di queste misure prevedeva 1,7 miliardi – spiega Rossi – ma è importante avere iniziato e proseguire su questa strada, per aprire anche in Italia un capitolo nuovo”. E c’è di più: i governatori vogliono che accanto al sostegno economico per chi è in condizioni di povertà, si prevedano servizi comunali e regionali che accompagnino chi è in condizioni di difficoltà e politiche per il lavoro, da attuare con i centri per l’impiego. Infine le Regioni – Lombardia in testa – sottolineano la necessità di una banca dati Inps adeguata, per evitare abusi e che gli strumenti previsti per le politiche sul lavoro (cassa integrazione, Naspi, Asdi) non si sommino ai fondi per l’inclusione sociale. “I presidenti delle Regioni – ha chiarito il governatore Enrico Rossi – sostengono convintamente la proposta di Alleanza contro la 6 povertà che è firmata da tutte le associazioni che si occupano di questo tema: dalla Caritas, alle Acli, all’Arci, ai sindacati e tante altre”. “Anche la ripresa economica non assorbirà rapidamente questo problema. La dimensione del fenomeno – ha proseguito Rossi – preoccupa per l’estensione geografica e i gruppi interessati: ora la povertà è anche al nord e nelle grandi città, e riguarda anche giovani e famiglie con figli. L’Italia è ancora, con la Grecia, un Paese che non ha un sostegno economico rivolto a tutti in tema di lotta alla povertà”. Stamane nella discussione le Regioni hanno sottolineato positivamente il fatto che il Governo abbia stanziato i primi 800 milioni “il punto fondamentale è che non ci si fermi a questi ma si vada avanti per arrivare a quanto previsto dal documento Alleanza contro la povertà. Siamo un Paese in cui lo stato sociale fa molti interventi ma sono tutti spezzettati e affidati al buon cuore del no profit o della beneficenza. Bisogna introdurre un diritto di cittadinanza per cui avere un sostegno economico in caso di necessità”. Al reddito – sottolineano i governatori – va scorporato tutto il resto: “benissimo aver finanziato l’Asdi, l’assegno di disoccupazione, ma quello si applica a chi è stato licenziato e viene dopo la Nasdi”. “Per povertà assoluta intendiamo una condizione in cui mancano beni essenziali: dal mangiare al vestirsi al muoversi. Lavoreremo per il Piano nazionale contro la Povertà, mantenendo ben fermo l’accordo fatto con Alleanza contro la povertà”, ha concluso Rossi. Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2015/11/26/le-regioni-in-campo-contro-lapoveta-rossi-bene-gli-800-milioni-per-il-2016-si-dia-seguito-anche-il-prossimo-anno/ Da Bologna2000 del 26/11/15 Concorso “La musica libera. Libera la musica”, 7 vincitori anche in nome della legalità Sette vincitori per altrettante categorie musicali, 8 brani menzionati, un calendario di esibizioni che li porterà a calcare 11 palchi tra Bologna, Porretta Terme, Modena, Correggio, Forlimpopoli, Faenza. È l’esito del concorso “La Musica Libera. Libera la Musica”, organizzato dall’Assessorato alla Cultura, Politiche giovanili e Legalità della Regione Emilia-Romagna, insieme con l’Agenzia comunicazione e informazione della Giunta regionale in collaborazione con Mei, Meeting delle Etichette Indipendenti, Porretta Soul Festival, Scuola di musica popolare di Forlimpopoli, Festival La musica nelle Aie (Castel Raniero), Centro Musica di Modena, Estragon, Jazz Network (Crossroads: musica e altro in Emilia-Romagna), Radio Bruno e i nuovi partner: Arci regionale, Libera EmiliaRomagna, Politicamente scorretto (progetto dell’istituzione Casalecchio delle culture) e Lepida Tv. “Obiettivo del concorso – ha ricordato il presidente della giuria e direttore dell’Agenzia di comunicazione e informazione, Roberto Franchini – è quello di offrire opportunità ai giovani musicisti e stimolare la creatività giovanile, offrendo loro un palco concreto, quello delle rassegne partner dell’iniziativa ma anche un palco digitale, sui siti web che sono alla base di questo premio, Magazzini Sonori e Radio Emilia-Romagna, esperienze con un grande riscontro di utenza abbastanza uniche nel nostro Paese”. Quest’anno per la prima volta è stata varata la sezione Musica libera per la legalità, contraddistinta dal Logo Free music! No mafia! e si è aggiunta la sezione dedicata all’Hip Hop. Si è ampliata anche la rosa dei partner aderenti rispetto alla passata edizione (da 9 a 12). Le motivazioni che hanno portato alla scelta di un ampliamento in questo senso sono state sottolineate oggi a Bologna, nel corso di una conferenza stampa con premiazione dei 7 selezionati, dall’assessore regionale alla Cultura e Legalità Massimo Mezzetti: “Siamo alla conclusione di un lungo viaggio partito lo scorso 9 maggio, non a caso anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato, in cui abbiamo voluto introdurre la nuova sezione di musica per la legalità per promuovere un tema delicato e di forte attualità in questa regione, anche grazie a quanto portato alla luce dall’inchiesta Aemilia. E abbiamo non a caso voluto affrontare queste tematiche con l’utilizzo di un linguaggio fondamentale per i giovani, quello universale della musica”. I brani in gara sono stati 203 e 154 gli artisti in gara e che, per la prima volta hanno avuto la possibilità di iscrivere ben due brani alla contest: uno nella sezione tematica Musica Libera per la Legalità, il secondo in una delle altre 6 categorie. La sezione Musica Libera per la Legalità ha ottenuto un buon successo con 62 brani. Gli artisti iscritti provengono da tutta la regione ma in particolar modo dalla provincia di Bologna con 85 iscritti, seguono Ravenna con 24 e Modena con 23. I vincitori La giuria di qualità, presieduta da Roberto Franchini e formata da direttori dei festival partner, critici musicali e produttori, tenendo conto anche del voto online ha stabilito i vincitori: per la sezione Musica Libera, Macola con il brano Il Prigioniero; per la sezione Rock Palco Numero Cinque con Punto di vista; per la sezione Soul e R&B Gloria Turrini con Solo Tu; per la sezione Jazz Misticanza con Pianocorde; per la sezione Folk, Spacca il Silenzio! con la loro Artisti di strada “Paparaparapà”; per la sezione pop Pecori Greg con il brano My Awesome Paperotto e per l’hip hop Big Service con Mu.Sa. I menzionati I musicisti menzionati dalla giuria sono stati :Dina Moe & The Slowmen con il brano Ain’t no Man; Stefano Zauli col brano Colornotte; Cranchi con Eroe Borghese; Ciri 5 Quarti con Esa, senti come swingo!; Stereo Gazette feat. T-Flow con il brano Il Lato Sbagliato; The Hangovers con Invece no; Paolo Arduini, feat. Lara Ferrari, col brano Leggera; Carlo Bolacchi col brano Verità libera. Il primo appuntamento: “Free music. No mafia! – Musica, parole, esperienze” “Free music. No mafia! – Musica, parole, esperienze” èla serata dedicata alla nuova sezione del concorso Musica Libera per la legalità, contraddistinta dal logo “Free music! No mafia”, in programma per martedì 1 dicembre ore 21, Zona Roveri – Music Factory (via dell’Incisore, 2 Bologna). Un concerto importante che unisce musica e parole e affronta con un linguaggio diverso un tema di profonda attualità come quello della legalità, voluto dall’assessorato alla Cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità , in collaborazione con Arci Emilia-Romagna, Libera Emilia-Romagna e Politicamente Scorretto. La serata – condotta dalla scrittrice e dj Paola Maugeri – si aprirà con l’intervento dell’assessore Massimo Mezzetti e vedrà alternarsi sul palco la musica di Macola (vincitore nella sezione Musica Libera per la Legalità del concorso regionale ) e Carlo Bolacchi e Cranchi, secondi a pari merito, e ospiti del mondo della cultura, Alessandro Gallo, autore teatrale e scrittore, assieme alle esperienze dei campi della legalità, che verranno presentate da Libera e Arci. Guest star della serata sarà il rapper Ghemon. Sarà possibile seguire la diretta streaming della serata , a cura di Lepida Tv, a diretta avverrà attraverso il canale Youtube di Lepida TV all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=-iXmqq-G8TU e sui siti www.regione.emilia-romagna.it; www.magazzini-sonori.it , www.politicamentescorretto.org . La giuria del Concorso La giuria del concorso è stata presieduta da Roberto Franchini. Tra i giurati i partner e i direttori di importanti festival regionali, giornalisti e critici musicali: Giordano Sangiorgi, ideatore e organizzatore del Mei; Graziano Uliani, direttore artistico e ideatore del Porretta Soul Festival; Marco Bartolini, direttore Scuola Musica Popolare di Forlimpopoli; Aldo 8 Foschini, direttore artistico La Musica nelle Aie –Castel Raniero Folk Festival; Andrea Tinti, giornalista, critico musicale; Leonello Viale, organizzatore eventi RadioBruno; Sandra Costantini, organizzatrice Crossroad, Jazz e altro in ER, presidente di Jazz Network; Lele Roveri, general Manager & Art Director Estragon Club; Giorgio Nesci Eco- Politicamente scorretto; Giovanni Gaspare Righi, organizzatore del Peppino Festival; Franco Montanari, presidente della giuria del Concorso Daolio. Il cd Il cd “La musica libera. Libera la musica” VI edizione, a cura dell’etichetta Materiali Musicali, raccoglie i 16 migliori brani selezionati dalla giuria e dal pubblico, offrendo uno spaccato della scena musicale del nostro territorio. Tra questi, è stato inserito anche il vincitore del premio Daolio , concorso organizzato da Arci Emilia-Romagna. Il cd verrà distribuito gratuitamente nella serata del 1 dicembre e nel corso delle serate in cui si esibiranno i vincitori e i menzionati, oltre a fiere ed eventi legati al mondo della musica. I vincitori verranno poi intervistati da RadioEmiliaRomagna (www.radioemiliaromagna.it), la radio web della Regione, e dai media partner. Le esibizioni dei vincitori verranno riprese da Lepida Tv e riproposte sulla tv digitale terrestre (canale 118). Le tappe del concorso La musica libera. Libera la musica Le iscrizioni al concorso,che si rivolge ai giovani artisti non professionisti, nati , residenti o domiciliati in regione, sono durate dal 9 maggio – anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato – al 4 ottobre. A Faenza il 2 ottobre, organizzata dal Mei, nella sede del Museo internazionale delle Ceramiche si è svolta la serata dedicata ai vincitori delle passate edizioni. La giuria si è riunita nei primi giorni di novembre e ha tenuto conto, per proclamare i vincitori, dei circa 2000 voti provenienti dal web. I vincitori e alcuni menzionati ,scelti dai partner, si esibiranno nel corso del 2016 nei palchi delle rassegne e festival, in un calendario ancora da definire nei dettagli. Le sezioni del concorso: – Folk – Musica Libera –Free Music! No Mafia!(novità 2015) – Pop – Hip Hop (nuova sezione) – Jazz – Rock – Soul e R&B Per il vincitore di Musica libera è previsto: – Premio in denaro (2000 euro) – Esibizione nella serata Free music! No mafia! 1 dicembre – Diretta streaming della serata sui portali regionali – Inserimento del brano nel cd Libera la musica. La musica libera VI edizione – Intervista su RadioEmiliaRomagna e i media partner – Promozione del brano in più occasioni durante l’anno in manifestazioni sulla legalità Per il vincitore di ogni sezione è previsto: – Premio in denaro (1.000 euro) – Esibizione live in uno o più festival di riferimento partner dell’iniziativa – Inserimento del brano nel cd Libera la musica. La musica libera VI edizione – Registrazione video dell’esibizione sul palco – Intervista su RadioEmiliaRomagna e i media partner – Promozione del brano in più occasioni durante l’anno http://www.bologna2000.com/2015/11/26/concorso-la-musica-libera-libera-la-musica-7vincitori-anche-in-nome-della-legalita/ 9 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 27/11/15, pag. 7 La contromanovra di Sbilanciamoci in 89 mosse Stabilità. Le proposte alternative a quelle del governo presentate degli economisti di Sbilanciamoci! Spending review selettiva e riforma fiscale ispirata all’equità e alla progressività Roberto Ciccarelli Ottantanove proposte alternative alla legge di stabilità 2016 che gli economisti di Sbilanciamoci! giudicano «iniqua, di corto respiro e priva di una strategia adeguata a rilanciare l’economia del Paese». Il XVII Rapporto intitolato «Per un’Italia capace di futuro», e il sito interattivo controfinanziaria.sbilanciamoci.org, presentati ieri a Roma, passano al contropelo la manovra di Renzi e Padoan. «E’ una brutta copia della Legge di Stabilità 2015. E, come quella, è presentata come una manovra espansiva. Oggi, come allora, l’obiettivo del raggiungimento del pareggio di bilancio è posticipato di un anno, questa volta al 2018» scrivono gli economisti. Dalla loro analisi, e dagli incroci tra dati e proposte, emerge un’altra possibile politica economica esposta in una contro-manovra da 35 miliardi di euro (31,6 miliardi quella del governo). Sul versante delle entrate, Sbilanciamoci! propone una riforma fiscale ispirata all’equità e alla progressività, una spending review selettiva sulla spesa pubblica «nociva» e mira a sfrondare in maniera decisa quella militare. Sul versante uscite si propone un intervento pubblico in controtendenza rispetto al credo dominante austeritario. Il tutto rientra in una visione che intende riorientare la spesa pubblica a beneficio del servizio sanitario nazionale, dei servizi pubblici, del welfare, dell’istruzione e dell’altraeconomia. Spese militari E’ stato calcolato un risparmio di oltre 4,5 miliardi con la riduzione a 150mila unità degli effettivi delle Forze armate e il taglio degli investimenti per gli armamenti attraverso la cancellazione dell’acquisto dei cacciabombardieri F-35 e dei sommergibili U-212, e il ritiro dalle missioni militari all’estero, «quelle di chiara valenza aggressiva». Tagli e tasse «Il Governo sceglie come priorità la riduzione delle tasse, omettendo di dire che si tradurrà anche in un ulteriore taglio dei servizi pubblici — scrivono gli economisti — Alla redistribuzione del patrimonio e del reddito il Governo preferisce di fatto la redistribuzione delle diseguaglianze a vantaggio di chi si trova nelle posizioni più privilegiate: ricchi e imprese». Sbilanciamoci! propone una «vera» tassa sulle transazioni finanziarie, la rinuncia all’abolizione della Tasi, cavallo di battaglia della Renzinomics, l’abolizione della cedolare secca sugli affitti a canone libero, il mantenimento della riduzione dell’Ires dal 2017. Proposta anche una riduzione di un punto delle aliquote Irpef sul primo e secondo scaglione di reddito e l’aumento dell’aliquota dal 41 al 44% sul quarto scaglione (da 50.001 a 75 mila euro), dal 43 al 47,5% sul quinto scaglione (tra i 75 mila e i 100 mila euro) e la porta al 51,5% per i redditi superiori ai 100 mila euro, con la creazione del sesto 10 scaglione. Viene inoltre prefigurata un’imposta complessiva sul patrimonio finanziario di famiglie e imprese con una struttura ad aliquote progressive, che esoneri di fatto dal pagamento i ceti medio-bassi e incida sui grandi patrimoni. Reddito minimo Il rapporto recepisce alcuni temi formulati dai movimenti che riscontrano un consenso diffuso. Quello, ad esempio, sul reddito minimo. «Siamo l’unico paese in Europa, insieme alla Grecia, a non avere alcuna forma di sostegno al reddito» ricordano gli economisti. La misura da introdurre stabilmente avrebbe un costo di 11 miliardi per un reddito minimo garantito di 7.200 euro all’anno, circa 600 euro mensili, destinati a 1,5 milioni di persone. Si vuole destinare 1,5 miliardi alle pari opportunità con l’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni e di un assegno di maternità universale per 5 mesi. Una sola grande opera: i saperi La prospettiva dell’assunzione dei circa 1.520 tra docenti e ricercatori «ad alta velocità» (Giannini dixit) non risolverà la crisi dell’università e della ricerca. A questi interventi spot, Sbilanciamoci! preferisce una strategia globale: 5 miliardi «per rimettere al centro i saperi e rilanciare la cultura e l’istruzione pubblica». E con questo s’intende anche l’edilizia scolastica e universitaria oggi in condizioni drammatiche. L’obiettivo è assumere 5 mila ricercatori a tempo determinato nel 2016. Nelle proposte è recepita la battaglia degli studenti per una riforma della tassazione universitaria. Bisogna istituire una “no tax area” per chi dichiara meno di 23mila euro di Isee e stanziare risorse integrative per il Fondo unico per lo spettacolo e per promuovere l’arte e l’architettura contemporanee. Si immagina, inoltre, la creazione dei Livelli essenziali delle prestazioni culturali affinché tutti possano realmente accedere ai beni e alle attività culturali. Il Welfare non è una merce Il taglio della spesa sanitaria è l’obiettivo del governo. E, allo stesso tempo, si preparano misure frammentarie e irrisorie contro la povertà e le disuguaglianze, oltre alla gestione emergenziale alle politiche migratorie e di accoglienza. Sbilanciamoci! propone un investimento di oltre 7,5 miliardi sul welfare e l’abolizione dei tagli renziani pari a 2 miliardi al fondo sanitario nazionale; lo stanziamento di 600 milioni per il fondo nazionale politiche sociali, per il fondo nazionale infanzia e adolescenza e per la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali; 700 milioni per l’inclusione e il diritto al lavoro, alloggio e studio delle persone con disabilità. Sulle politica della casa ci si rivolge alle richieste di movimenti e sindacati e si parla di oltre 2 miliardi e 200 milioni per il recupero di immobili di proprietà pubblica ai fini della residenza sociale e per l’aumento delle risorse al fondo per la morosità incolpevole e al Fondo sociale per gli affitti. Sbilanciamoci! chiede un cambio di rotta rispetto al sistema securitario di governo delle migrazioni attraverso l’abolizione dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) e dei Cara. 500 milioni andrebbero destinati all’abolizione della tassa sul soggiorno e all’ampliamento del sistema Sprar per i rifugiati e l’inclusione dei cittadini stranieri. Richiesto l’avvio di un piano di smantellamento dei “campi nomadi”. Altro che trivelle La proposta si gioca sul modello di sviluppo alternativo. Il punto fermo è: niente trivelle come nello Sblocca Italia, né Ponte sullo Stretto. Si propone una riduzione di 1,5 miliardi degli stanziamenti pubblici per Tav o Mose e 1 miliardo di investimenti su piccole e medie opere utili per il Paese. 500 milioni, un piano di adattamento ai cambiamenti climatici e di manutenzione del territorio, puntando su prevenzione, riassetto idrogeologico, recupero e riqualificazione di suolo urbanizzato, delocalizzazione di immobili in zone a rischio. Richiesto l’aumento dei fondi per la tutela e la valorizzazione della biodiversità e del paesaggio. 11 del 27/11/15, pag. 21 Azzardo, affare di Stato «Perché nessuno reagisce?» Le slot si 'mangiano' il 10% dei nostri consumi ANTONIO MARIA MIRA ROMA Un decimo dei consumi delle famiglie se ne va in azzardo, assieme a 70 milioni di giornate lavorative, un terzo dei giorni dedicati alle vacanze. «L’azzardo drena denaro e tempo di vita» è l’accusa di Maurizio Fiasco. L’occasione è la presentazione del libro, ricco e approfondito, 'Giochi di Stato. Il gioco d’azzardo da vizio privato a virtù nazionale', promosso dall’Istituto di Studi Politici San Pio V, curato da Benedetto Coccia, e del quale il sociologo superesperto di azzardo è autore assieme al giornalista Carlo Cefaloni e al ricercatore Donato Verrastro. Un testo che, annuncia l’assessore alle Politiche sociali della Regione Lazio, Rita Visini, «verrá utilizzato nella formazione degli operatori degli sportelli 'no slot' che stiamo aprendo in tutta la regione». Infatti, aggiunge, «di fronte a dati sull’azzardo che ci fanno tremare, la regione ha voluto uscire dall’ambiguità, anche nei confronti dello Stato». Così oltre agli sportelli 'no slot', «nel prossimo mese – annuncia l’assessore – partirà un numero verde per tutti i cittadini che cercano informazioni ». Che ci sia bisogno di informazione lo conferma anche il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio che collega questa grave carenza, al ricco mercato della pubblicità dell’azzardo che, denuncia, «é la cavezza che tiene alla stanga il sistema dell’informazione. Non se ne può scrivere e questo non solo é una vergogna ma una questione di democrazia». Ne è un riprova, aggiunge, «la fibrillazione che vedo nel mondo dell’informazione di fronte alla campagna contro la pubblicità. Io so quanto ci è costato dire no alla pubblicità, ma non abbiamo intenzione di dare requie perché siamo di fronte a un’impostura a partire dalle parole». Anche per questo «c’é un diritto alla resistenza», sostiene Carlo Cefaloni ricordando gli oltre 120 'slot mob' organizzati in tutta Italia, «esperienze di democrazia economica, partendo dalle scelte dei singoli», quelle dei bar che rinunciano alle slot. Scelte che disturbano se a Catania uno di questi bar è stato bruciato due volte. Mentre lo Stato, accusa il giornalista di Cittá Nuova, fa scelte opposte. Come a Tamburi, il quartiere più inquinato dall’Ilva di Taranto, «dove l’unica risposta pubblica sono state nove sale slot». Piove sul bagnato, ma c’è poco da stupirsi visto che, accusa Fiasco, «nel dramma dell’azzardo versa di più chi ha di meno». Un fenomeno che, rincara la dose, «va contro almeno cinque articoli della Costituzione». Lo sa bene la Caritas diocesana di Roma. «Nei nostri cento centri d’ascolto tocchiamo con mano questo dramma e tocchiamo con mano la grande mancanza di conoscenza – sottolinea il direttore, monsignor Enrico Feroci –. Il 90 per cento dei genitori non si rende conto di quello che accade ai loro figli. E lo stesso Stato – accusa – sembra non capirlo». E fa una precisa domanda: «Perché non si reagisce? Perché i nostri governanti sono così restii a intervenire contro lo sciacallaggio dell’azzardo? Devono capire – avverte – che se non si interviene si arriva alla morte ». Parole forti, dure. Ma, come denuncia Elisa Manna, responsabile per le Politiche sociali del Censis, «siamo di fronte ad una cessione di sovranità al denaro ». Un’«industria di morte – rincara la dose – che non può essere giustificata dalla salvaguardia di posti di lavoro ». E allora anche lei 12 pone una importante domanda: «Come mai lo Stato ha intrapreso questo percorso da apprendista stregone, compromettendosi fino a questo punto?». Un’accusa che si allarga «al silenzio dell’informazione e degli intellettuali». E, più generale, «all’ipocrisia profonda, una doppia morale che tocca tutta la società. Il sistema immunitario è stato basso se il fenomeno é così cresciuto ». 13 ESTERI del 27/11/15, pag. 2 Al via l’asse Parigi-Mosca contro l’Isis Guerra al terrorismo. Tour de force diplomatico del presidente francese. Prove di coalizione tra Putin e Hollande: gli obiettivi e le informazioni in Siria saranno «condivisi». Renzi a Parigi rinforza il caso Libia e ribadisce: «Contro Daesh una sfida politica e culturale». Merkel assicura intervento in Mali, la Germania invierà Tornado "da ricognizione" e una fregata in Siria. Venerdì 27 l'omaggio alle vittime degli attentati agli Invalides, appello a esibire la bandiera. Proteste per il divieto a manifestare Anna Maria Merlo PARIGI In mancanza di un’impossibile coalizione unica contro Daesh, Hollande con un numero di equilibrismo cerca una maggiore «cooperazione» tra le due «coalizioni» in campo, quella «occidentale» e quella «russa», anche se resta il blocco totale tra Russia e Turchia. François Hollande è stato ricevuto ieri pomeriggio da Vladimir Putin, che ha promesso una battaglia contro «il nemico comune» e di «unire gli sforzi», in una coalizione «necessaria». Mosca è solo l’ultima tappa della maratona diplomatica della settimana durante la quale il presidente francese ha incontrato Cameron, Obama, Merkel e Renzi. Domenica tutti i principali dirigenti del mondo, compreso il cinese Xi Jinping, saranno a Parigi per l’apertura anticipata della Cop21, una seduta inaugurale dove la guerra a Daesh rischia di offuscare la questione climatica. L’obiettivo del presidente francese a Mosca era di fare «dei passi avanti su punti precisi», per un riavvicinamento di circostanza, un disgelo che arriva dopo forti tensioni, che hanno portato all’annullamento della vendita di due fregate militari a Putin in seguito alle sanzioni per l’Ucraina. La Francia vorrebbe ottenere tre cose dalla Russia: influire su Assad, alleato di Mosca, perché il presidente siriano smetta di bombardare il proprio popolo; smettere di colpire le forze di opposizione ad Assad e concentrarsi contro Daesh; prevedere una transizione politica che sbocchi su elezioni che, come ha detto ieri Hollande, «forzatamente porteranno alla partenza di Assad». La collaborazione Francia-Russia andrà oltre all’intesa minima raggiunta tra Usa e Russia, che mira a evitare la deconfliction, cioè malintesi tra le aviazioni: Parigi vorrebbe scambio di informazioni anche per coordinare i bersagli, perché comunque non è prevedibile una integrazione di Mosca in uno schieramento che vede dispiegati molti eserciti di paesi Nato. Parigi vede con favore una «inflessione» nell’azione dei russi, che ora al 50% bombardano Daesh (invece di concentrarsi sui ribelli anti-Assad), in particolare i suoi interessi economici petroliferi. «Colloqui costruttivi», li ha definiti Putin nella conferenza stampa finale, il comunicato ufficiale certifica l’avvio di scambio di informazioni e l’intensificarsi delle azioni comuni contro le infrastrutture petrolifere: due delle cose che Hollande aveva chiesto. Resta in sospeso, almeno apertamente, il destino di Assad, il presidente francese ha ribadito in conferenza stampa che il rais se ne deve andare e che la Russia dovrà mantenere un «ruolo importantissimo» in Siria. Putin ha ripetuto che su Assad deciderà «il popolo 14 siriano» e che a suo giudizio è impossibile lottare con successo contro il terrorismo senza forze di terra, e queste possono essere assicurate solo dall’esercito di Assad. Hollande intanto ha ottenuto il sostegno della Germania. Merkel ha promesso l’invio di 650 militari in Mali per sollevare l’impegno francese e ha sottoposto al Bundestag la proposta di far partecipare dei Tornado per attività di ricognizione in Siria, «come conseguenza degli attentati di Parigi». La Germania dovrebbe anche inviare una fregata. In Gran Bretagna ci sarà un voto entro due settimane sulla proposta di David Cameron di estendere la campagna militare alla Siria, ora limitata all’Iraq (vedi articolo). Matteo Renzi, in un incontro-lampo ieri mattina all’Eliseo, non ha promesso nulla di preciso, oltre a parole di sostegno a una nazione «sorella» e alla constatazione che «serve una coalizione più ampia contro l’Is». Distinzioni di linguaggio tra Hollande e Renzi ieri: il presidente francese mette al primo posto «una strategia diplomatica ma anche militare», mentre il primo ministro italiano parla di «strategia globale, anche culturale» per sconfiggere Daesh e guarda soprattutto alla Libia, proponendo di sfruttare la «finestra di opportunità» che si è aperta per estendere l’azione diplomatica anche su questo fronte, che «rischia di essere la prossima emergenza». Per Hollande, «in Libia dobbiamo adesso mettere in atto ciò che è atteso da tempo, cioè un governo di unità nazionale anche lì e una messa in sicurezza del territorio che impedisca a Daesh di insediarsi e progredire». Oggi agli Invalides ci sarà la cerimonia ufficiale di omaggio alle vittime degli attentati di Parigi (solo due famiglie hanno deciso di boicottare, perché accusano il governo di non aver saputo proteggere i loro cari). Hollande chiede alla Francia di trasformarsi in una versione gigante della Liberté guidant le peuple di Delacroix, tutti uniti dietro la bandiera tricolore, che il presidente invita a «pavesare» sui balconi (e del resto le bandiere vanno a ruba e sono ormai esaurite). Ma la forte commozione che ha invaso il paese non può più essere usata per soffocare le critiche che crescono contro i vincoli dello stato di emergenza. Fa un brutto effetto che la Francia abbia avviato una procedura di deroga alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (per evitare denunce di fronte alla Corte europea). Una petizione contro la guerra, che ha tra i primi firmatari il filosofo Jacques Bidet, denuncia «la spirale in cui ci trascina lo stato pompiere-piromane», secondo mercante d’armi al mondo, fatta di «bombardamenti che accrescono le minacce» e di «derive liberticide». Un’altra petizione è stata diffusa dalla Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, che denuncia lo stato d’emergenza che rischia di diventare «permanente». Contro la proibizione a manifestare anche per la Cop21, molte persone hanno protestato ieri in place de la République. del 27/11/15, pag. 2 Il presidente francese Hollande vede prima il premier italiano e poi vola a Mosca Renzi: “La jihad si batte anche con la cultura” Is, Putin pronto a collaborare con gli Usa. E la Merkel manda i Tornado ANAIS GINORI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE 15 PARIGI. Più che una “grande coalizione”, sta nascendo un “coordinamento” internazionale contro l’Is. E’ il risultato di una settimana di frenetici negoziati che hanno portato François Hollande a viaggiare tra Washington a Mosca, organizzando anche colloqui con i leader europei. Tappa finale del tour diplomatico, provocato dagli attentati del 13 novembre, l’atteso incontro tra il presidente francese e Vladimir Putin. In un momento di escalation, dopo l’abbattimento del caccia russo da parte della Turchia, Putin ha dato qualche segno distensivo all’Occidente, promettendo una «più stretta cooperazione» tra i paesi che combattono contro il Califfato. «È il nostro nemico comune» ha riconosciuto il presidente russo, senza concedere molto altro al leader francese. Ma la riapertura di un dialogo con Mosca è considerata già un primo successo, dopo il lungo isolamento diplomatico per la crisi ucraina. Putin e Hollande hanno parlato a lungo, dandosi del “tu”. Piccoli gesti per dimostrare che qualcosa si sta muovendo e una nuova alleanza inizia a prendere forma. Il risultato più importante dal punto di vista francese è la disponibilità del premier britannico David Cameron che ha chiesto l’autorizzazione al parlamento per i raid aerei contro l’Is. Se la Camera dei Comuni voterà in favore della proposta, la Gran Bretagna diventerà il quindicesimo paese della coalizione che partecipa ai bombardamenti sulla Siria. L’Eliseo mostra soddisfazione anche per il maggior impegno annunciato dalla Germania. Angela Merkel ha promesso di inviare Tornado e una nave da guerra, oltre a 650 soldati in Mali per appoggiare Parigi. Ieri Matteo Renzi è arrivato nella capitale francese per rinnovare l’impegno dell’Italia in una strategia globale contro il terrorismo. Il presidente del Consiglio appoggia i negoziati per una «coalizione sempre più ampia», ma ha ribadito la necessità di un approccio che non sia solo militare. «Siamo impegnati a livello militare, in molti casi con la Francia – ha detto Renzi e penso al Libano ma non solo: anche all’Iraq, alla Siria, Afghanistan, Kosovo e Africa ». Il contributo dell’Italia resta, ma senza un cambio sostanziale di passo. Renzi ha chiesto un maggiore scambio delle informazioni di intelligence all’interno dell’Ue. «È la lezione più importante che si può trarre dagli attentati del 13 novembre ». Dopo l’incontro all’Eliseo, il premier è andato alla Sorbona, dove studiava Valeria Solenni, rinnovando il suo appello in favore della cultura per combattere il terrorismo, ed evitare così che ragazzi nati e cresciuti in Europa si trasformino in macchine da guerra. «Per ogni euro investito in sicurezza ce ne vuole uno investito in cultura» ha spiegato Renzi, salutato da una standing ovation degli studenti. Il ruolo di negoziatore di Hollande tra Mosca e Washington appare ancora in salita. Dopo gli attentati di Parigi, Putin ave- va offerto piena collaborazione militare alla reazione di Hollande, ordinando allo stato maggiore di coordinarsi con quello francese e alla flotta russa sulla costa siriana di prendere contatti con la portaerei Charles de Gaulle. Un primo passo verso una possibile nuova alleanza anti-Is. Ieri sera il leader del Cremlino ha confermato a Hollande che la Russia è «disposta a cooperare con la Francia», apprezzando i suoi sforzi per creare una larga coalizione. Anche a guida americana.«Noi siamo pronti per questo lavoro comune», ha sottolineato Putin. «Ora è arrivato il momento di assumersi la responsabilità di quanto sta accadendo » ha ribadito Hollande durante la visita a Mosca. Quattro giorni fa a Washington, il presidente francese si è trovato davanti un prudente Barack Obama. La coalizione a guida americana continua a chiedere a Mosca di concentrarsi su obiettivi Is evitando attacchi ai gruppi della cosiddetta opposizione moderata. Gli Usa sono allarmati dal dispiegamento nella base russa di Latakia dei missili anti aerei S-400, che ora rendono Mosca padrona dei cieli siriani. Intanto la Russia accusa Washington di «continuare a giocare con le sanzioni invece di consolidare gli sforzi nella lotta alle minacce comuni», condannando le recentissime 16 sanzioni ad alcune società e cittadini russi «con un nesso inspiegabile alla situazione in Siria». L’altro punto che blocca un’ipotesi di alleanza con la Russia è il futuro di Bashar al Assad. Di fronte a un Putin contrario ad ogni ingerenza esterna sul futuro della Siria, Hollande ha messo in sordina la richiesta di una partenza al più presto di Assad. Molte, dunque, ancora le divergenze che pesano sulla creazione di una coalizione unica che includa Mosca. L’abbattimento del jet russo da parte di una Turchia, membro della coalizione a guida Usa, ha aggravato la situazione: Putin non ha esitato a dipingere il governo di Istanbul come complice dell’Is, esigendo scuse che Erdogan pretende a sua volta dal presidente russo. del 27/11/15, pag. 2 “Non possiamo lasciare i francesi da soli” Ecco perché adesso Angela va alla guerra ANDREA TARQUINI IL RETROSCENA BERLINO HANNO deciso in quattro. Ancora in volo sull’Airbus 340 di seconda mano ‘Konrad Adenauer’ che la riportava a casa da Parigi, Angela Merkel ha convocato in corsa il summit dell’emergenza. Solo lei e la sua delfina e ministra della Difesa Ursula von der Leyen (Cdu), il vicecancelliere e leader spd Sigmar Gabriel e il ministro degli Esteri FrankWalter Steinmeier, socialdemocratico anche lui. Brainstorming a porte chiuse. Alla fine, la svolta: Berlino dubbiosa e riluttante fino a ieri su azioni militari ha deciso di muoversi: «Non possiamo lasciare sola la Francia». Ecco come, secondo fonti governative, si è arrivati allo strappo, allo “Angie va alla guerra”. La Cancelliera, assicurano voci fidate, ha cominciato subito a riflettere a Parigi, messa con le spalle al muro dalle pressioni di François Hollande: Parigi, le aveva detto in pubblico il presidente, ha bisogno urgente di aiuto. «Ha messo alla prova la leadership tedesca dell’Europa, ‘lei’ ha preferito rischiare la rabbia degli elettori d’una società pacifista nel cuore, piuttosto che una crisi con la Francia ferita nel midollo». Consulto sofferto, lasciano capire. «I sondaggi parlano chiaro, molti tedeschi, forse la maggioranza, sono contrari », hanno riferito gli sherpa diplomatici. Esperti militari della grosse Koalition hanno ammonito: «Facile entrare in guerra, difficile sapere come e quando ne usciremo». Immediata la replica di “Angie”: «L’alleato francese chiede un gesto, non venitemi a dire che bastano i fiori deposti da me l’altro ieri sera a Place de la République». A sorpresa, lei che da mesi guida un governo diviso sui migranti (e spesso sull’eurocrisi) ne ha ricreato l’unità. «Senza una risposta militare contro Daesh, consentita dalla risoluzione Onu, gli sforzi diplomatici non serviranno a nulla», ha osservato Steinmeier. Subito appoggiato dalla signora von der Leyen: «Se vogliamo combattere il terrorismo e le ragioni che spingono la gente a fuggire in massa da noi, dobbiamo farlo sul posto, la guerra contro il Daesh sarà lunga ma può essere vinta». Svolta radicale: fino a ieri Berlino voleva evitare l’impegno militare. Ma ricordiamoci del vostro fondatore Ade- nauer, «prima di decidere guarda tre volte il tricolore francese», avrebbe osservato Sigmar Gabriel. Altro fattore decisivo, su cui i quattro hanno convenuto: la Germania che chiede aiuto a tutta la Ue per ripartirsi la marea di migranti, e che detta legge in austerità per l’eurozona, non può sottrarsi alla richiesta d’aiuto del primo alleato. È nata così la scelta, trasmessa in corsa alla squadriglia “Max Immelmann” (era un asso 17 della Luftwaffe nella seconda guerra mondiale), al comando della Bundesmarine, alla squadriglia di Airbus da rifornimento in volo, alla sala controllo dei satelliti- spia tedeschi e ai reparti scelti della Bundeswehr. Per non lasciare sola Parigi, prende forma il più ampio corpo di spedizione mai messo insieme dalla democrazia postbellica tedesca. Sei ricognitori capaci di fornire ai jet francesi e usa, australiani e canadesi i dati più precisi sui bersagli, almeno una modernissima fregata per scortare la Charles de Gaulle, un satellite- spia. E 650 soldati scelti per fronteggiare in Mali gli alleati locali del califfato nero, finora messi in scacco dall’Armée. «Non sono impazziti, conoscono i pericoli e dovranno spiegarli agli elettori», nota Berthold Kohler, editorialista principe della Frankfurter, «rischiamo caduti, come fu in Afghanistan, ma la Piovra chiamata Daesh minaccia anche noi, non ci difenderemo restando a guardare il dolore dei francesi». del 27/11/15, pag. 3 “La guerra non basterà per battere l’Isis” Riccardo Chiari FIRENZE Le notizie che arrivano da Berlino rimbalzano nel Salone de’ Cinquecento di Palazzo Vecchio, che ospita l’assemblea parlamentare della Nato del gruppo speciale Mediterraneo e Medio Oriente. Ci sono i delegati dei 28 paesi dell’alleanza atlantica, e quelli di altri dodici stati associati. A tutti, nell’intervento di apertura della due giorni, Pietro Grasso lancia un monito: “Un intervento militare non basterà per sconfiggere lo stato islamico e il terrorismo, serviranno almeno tre linee di azione”. Il presidente del Senato è netto: “Tutti i nostri paesi condividono la precisa responsabilità di non avere saputo predisporre credibili strategie e politiche comuni per influire sul corso degli eventi. Per risparmiare morti, sofferenza, crisi economica, instabilità. E ci sono stati gravi errori di calcolo da parte di chi ha sostenuto milizie varie, perdendone spesso il controllo”. Per Grasso quindi l’unico modo per sconfiggere Daesh passa “dal rafforzare il governo in Iraq, e mettere fine alla guerra civile in Siria, con un profondo impegno diplomatico”. Non sfugge infine a Grasso il concreto rischio di un pericolosissimo corto circuito: “Deve essere rigettata la logica dello scontro di civiltà, e va respinta l’equazione rifugiati uguale terroristi”. Piuttosto “occorre mettere in campo contro gli affari illeciti dei terroristi l’armamentario giuridico e operativo sviluppato per colpire la criminalità organizzata transnazionale. In questo senso sarà necessario rafforzare la cooperazione giudiziaria, investigativa e informativa”. Per contrastare, più efficacemente di quanto non accada oggi, i traffici di armi, di droga e di uomini che ingrassano le centrali del terrore. Un richiamo alle parole di Grasso arriva da Andrea Manciulli, relatore generale e presidente della delegazione italiana: “Il confronto militare, per quanto essenziale, non è sufficiente. È necessario interrompere i flussi economici finanziari che alimentano l’Is, e l’intelligence ‘track the money’ gioca al riguardo un ruolo preminente. Occorre poi creare nelle popolazioni nei paesi più esposti il senso di convincimento che il legittimo stato sovrano sia in grado di garantire la sicurezza, la pace sociale e il soddisfacimento dei bisogni primari”. Nel summit interverranno oggi anche i ministri della difesa Roberta Pinotti e degli esteri Paolo Gentiloni. Nel pomeriggio ha preso invece la parola Angelino Alfano. Il titolare del 18 Viminale ha avuto un approccio molto securitario. Al tempo stesso è tornato – lui che all’epoca faceva parte del governo Berlusconi – sulla sciagurata decisione di intervenire militarmente in Libia: “Vogliamo sapere se la Siria diventa una Libia bis – ha esordito — oppure se c’è un quadro, un piano chiaro per il dopo, prima di cominciare”. A chi gli chiedeva se l’Italia si unirà a Francia e Germania, il ministro dell’interno ha risposto che la posizione dell’Italia è chiara: “Noi portiamo addosso ancora le cicatrici della vicenda libica. Si è fatta la fase uno, cioè mandare a casa, anzi al camposanto Gheddafi, poi non si è fatta la fase due di ricostruzione. E noi abbiamo pagato il conto dell’immigrazione, perché oltre il 90% degli sbarchi viene dalla Libia”. Al tempo stesso Alfano, nel chiamare a una collaborazione fra paesi, ha avvertito: “Lottare per la nostra sicurezza significa lottare per la nostra libertà, ma per ottenere la sicurezza dobbiamo forse violare un po’ la privacy, che è libertà. Per garantire un pezzo di libertà si deve sacrificarne un altro. Non c’è soluzione alternativa”. Questo non vuol dire però, ha osservato il sottosegretario alla presidenza del consiglio Marco Minniti, toccare la circolazione delle persone all’interno della Ue: “Difendiamo Schengen a tutti i costi, e per farlo aumentiamo i controlli alle frontiere esterne”. del 27/11/15, pag. 3 No war Nato in piazza Venti di guerra. Per Parigi e contro il traffico di armi da Piombino e Pisa a Riyadh, più di mille manifestano a Firenze, mentre Rebeldìa, Toscana a Sinistra e Prc presentano interrogazioni nei consigli comunali e in quello regionale. Chiara Del Corona Serena Fondelli Complice la due giorni dell’assemblea parlamentare della Nato in corso a Palazzo Vecchio, la Toscana arcobaleno si è fatta vedere e sentire con cortei, presidi, e con la denuncia di un carico di armi transitate nel porto di Piombino e dirette in Arabia Saudita. Quest’ultimo caso finirà anche in consiglio comunale grazie a mozioni di Un’altra Piombino e Rifondazione, e in quello regionale con l’interrogazione di Tommaso Fattori e Paolo Sarti di Toscana a Sinistra. Mercoledì sera nel capoluogo toscano più di mille persone hanno partecipato ad una manifestazione per le vie del centro, dietro lo striscione con la scritta «Le vostre guerre, i nostri morti. Basta guerre, basta Nato». Il corteo promosso dall’Assemblea fiorentina contro il vertice Nato è sfilato pacificamente: «Siamo tutti toccati dai fatti di Parigi – hanno spiegato i promotori – ma qui in piazza è scesa quella parte della città che non crede che l’unica risposta possibile siano le guerre e i morti. La nostra protesta era stata convocata prima di Parigi, gli attentati ne hanno rafforzato i contenuti: non ci possiamo arruolare in questa guerra, né difendere le istituzioni che sono complici del terrore, in Francia come in Turchia». Intanto la denuncia dei quattro tir carichi di bombe Mk83, prodotte in Sardegna e destinate all’Arabia Saudita, ha portato Rebeldìa, collettivi studenteschi e Un Ponte per.… ad appendere alla recinzione dell’aeroporto militare di Pisa lo striscione «Frontiere chiuse alle armi. Non alle persone». «Dopo Parigi – spiegano gli attivisti di Rebeldìa — questa movimentazione sarebbe aumentata coinvolgendo il territorio toscano, dove ci sono centri di smistamento e deposito di armi come la base militare di Camp Darby e questo aeroporto. Da anni ormai chiediamo la chiusura della base e il suo riutilizzo a usi civili, per 19 motivi di sicurezza e perché il nostro territorio non sia complice di omicidi di massa di civili, tra cui donne e bambini, come avviene nei frequenti attacchi sauditi in Yemen». A dare la notizia della movimentazione di armi era stato il deputato sardo Mauro Pili (Unidos). I tir erano sbarcati a Piombino sabato scorso, provenienti dal porto di Olbia. In totale mille bombe Mk83, prodotte dalla Rwn Italia di Domusnovas (Carbonia-Iglesias) che fa capo al colosso internazionale Rheinmetall Defense, e destinate all’Arabia Saudita. «Mille bombe Mk8 – ricordano i consiglieri regionali Fattori e Sarti — lo stesso tipo di bombe usate per colpire la popolazione civile dello Yemen. Il passaggio di armi avviene con cadenze regolari nel porto toscano, ed è in contrasto con la legge italiana che vieta le esportazioni di materiali militari e loro componenti verso i paesi in stato di conflitto armato. E l’Arabia Saudita, oltre a essere responsabile di gravi e reiterate violazioni dei diritti umani, per il suo intervento militare in Yemen non ha mai ottenuto dall’Onu alcuna autorizzazione né legittimazione». del 27/11/15, pag. 4 “Contro il terrorismo monitorare ogni nuova forma di messaggio” Roberti: “Via il reato di immigrazione clandestina” “Intercettare le chat e le playstation” ROMA. Il Guardasigilli Andrea Orlando, che non può essere accusato di essere un’estremista, dopo Parigi chiede più intercettazioni. Dopo un vertice in via Arenula con magistrati famosi come Franco Roberti (procuratore nazionale antiterrorismo e antimafia), Giuseppe Pignatone (capo procura Roma) e Giovanni Salvi (procuratore generale Roma), eccolo dichiarare in conferenza stampa: «Oggi gli strumenti di comunicazione sono molti. Non c’è più solo il telefono. Quindi dobbiamo potenziare la capacità di intercettare informazioni da qualunque tipo di strumento della rete, dalle playstation ai programmi per scaricare musica, alle chat dove può avvenire lo scambio». È una constatazione. Come dimostrano le indagini per gli attentati di Parigi, ormai i terroristi comunicano via playstation, e questo strumento oggi, in particolare la playstation 4 della Sony, ma anche le comunicazioni attraverso il satellite, quelle su Whatsapp e su Skype, non sono assolutamente intercettabili. Basti pensare ai provider localizzati all’estero, per esempio negli Emirati, che costringono i magistrati a continue rogatorie destinate per lo più all’insuccesso. Gli investigatori si lamentano, le tracce dei terroristi si perdono, il governo con il ministro della Giustizia vuole cambiare le regole. È presto per dire, in concreto, che cosa succederà. Nel vertice, dov’erano presenti anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini e il pg della Cassazione Pasquale Ciccolo, nonché il capo di gabinetto di Orlando Giovanni Melillo che corre per il vertice della procura di Milano, il problema del “buco” delle intercettazioni è stato condiviso da tutti. Come la necessità, dice Roberti, di abolire al più presto il reato di immigrazione clandestina (lo vollero Berlusconi e il leghista Maroni, lo sottoscrisse Alfano allora Guardasigilli, che ha fermato Orlando pronto a depenalizzarlo). Il punto è chiaro. Come ripete più volte Orlando «bisogna poter intercettare alla luce delle nuove tecnologie», così come servono «più traduttori». Dai magistrati presenti è venuto un unico segnale, «non ci possono essere settori delle comunicazioni che sfuggono alle indagini». E ancora: «Bisogna coinvolgere le imprese telefoniche a collaborare». Cammino complicato quando s’intrecciano sicurezza e privacy. Basta pensare al precedente delle 20 intercettazioni a distanza, con il sistema Troian, che il governo prima ha messo nel dl antiterrorismo, facendo poi marcia indietro. ( l. mi.) del 27/11/15, pag. 1/41 Il mito pericoloso del Grande Fratello FEDERICO RAMPINI L’INDOTTRINAMENTO dei terroristi e l’organizzazione di attentati viaggiano sulla PlayStation? Non è dimostrato ma non è neppure impossibile. Lo ammette la Sony, che produce le popolari console per videogiochi. Chiamata in causa qualche giorno fa dal governo belga, la multinazionale giapponese non ha escluso che i jihadisti possano usare anche i videogame per delle “conversazioni” a latere tra giocatori, che abbiano tutt’altre finalità. DI qui l’annuncio del ministro della Giustizia italiano, che punta a estendere le intercettazioni ben oltre la telefonia mobile, fino a includere chat, videogiochi e piattaforme per scaricare musica. Ogni infrastruttura digitale suscettibile di ospitare conversazioni diventa uno spazio da acquisire allo spionaggio anti-terrorismo. Inquirenti, forze dell’ordine, servizi segreti, devono rincorrere fenomeni generazionali sui quali sono spesso in ritardo. I terroristi, o le loro potenziali reclute, sono per lo più ventenni. Il proselitismo avviene talvolta per autocandidatura spontanea: si fa “shopping online” per educarsi all’odio, assimilare una cultura che legittima la violenza e l’annientamento di vittime innocenti. Per immergersi in questo nichilismo generazionale, i ventenni usano le tecnologie di cui sono padroni. Chi li insegue spesso ha l’età dei loro genitori; e come i loro genitori, è spiazzato, in affanno. Anche nell’antiterrorismo si riproduce il divario tra “nativi digitali”, che si muovono nelle nuove tecnologie come pesci nell’acqua, e “immigrati digitali” che devono apprendere un linguaggio straniero. Da un lato quindi è normale che lo Stato debba adeguare i suoi metodi e i suoi poteri. Dall’altro ovviamente c’è uno scambio da fare tra sicurezza e privacy. Anche in un videogame si potrà essere spiati dal Grande Fratello. Dove sono i limiti, quali pericoli che corriamo, di fronte a queste intrusioni? Fin dove lo Stato si può spingere, nella logica delle leggi speciali? Dopo l’orrore di Parigi è comprensibile che una maggioranza dell’opinione pubblica metta al primo posto le ragioni della sicurezza. Avvenne anche in America dopo l’11 settembre 2001. Nacque il Patriot Act, la legge speciale voluta da George W. Bush, e gli abusi che ne seguirono. Le intercettazioni della National Security Agency si allargarono a dismisura. Solo dopo le rivelazioni di Edward Snowden c’è stata un’indagine del Congresso, a cui l’Amministrazione Obama ha risposto ristabilendo qualche controllo, qualche limitazione, qualche garanzia in più. Ma al G20 di Antalya in Turchia, il 15 novembre lo stesso Obama ha invitato gli europei ad essere meno diffidenti sulle intercettazioni. È vero che nella nostra vita digitale usiamo spesso due pesi e due misure: ci scandalizziamo se viene spiato dalla Nsa il telefonino di Angela Merkel, mentre ogni giorno Google e Facebook saccheggiano la nostra corrispondenza privata per vendere la nostra anima di consumatori al migliore offerente. Il precedente americano, in particolare l’uso del Patriot Act, indica che i pericoli sono di due categorie molto diverse. Da una parte c’è il rischio di abusi, da parte di un apparato della sicurezza che di fronte ai terroristi diventa sempre più vasto, tendenzialmente autoreferenziale, un “corpo separato” allergico ai controlli parlamentari o ai diritti del cittadino. 21 D’altro lato, almeno altrettanto serio è il pericolo di una deriva hi-tech che diventa delirio di onnipotenza: con l’intelligence che s’illude di sconfiggere il nemico attraverso Big Data. Mentre un certo tipo di terrorista si muove molto al di sotto degli schermi radar, con cellule piccole, senza un’organizzazione centrale. Dai fratelli ceceni della maratona di Boston, ai marocchini- belgi di seconda generazione di Molenbeek, i grandi apparati dello spionaggio tecnologico non possono sostituire il lavoro di un’intelligence diffusa, con antenne sensibili sul territorio, con la cooperazione indispensabile delle comunità islamiche, delle famiglie, dei coetanei che segnalino le “conversioni” improvvise alla jihad. In quanto allo Stato di diritto, in Occidente ha dimostrato di saper sopravvivere alle leggi speciali, dagli anni di piombo italiani al terrorismo irlandese o basco, ivi compresa l’America di Obama. Una delle ragioni per cui anche sotto l’aggressione dei terroristi non siamo diventati Stati di polizia, sta proprio nella vigilanza dell’opinione pubblica e dei suoi mezzi d’informazione. del 27/11/15, pag. 9 La Francia al tempo del terrorismo «non rispetterà i diritti dell’uomo» Parigi: deroghe sulle libertà fondamentali. L’invito del governo: una bandiera a ogni finestra DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Con una lettera firmata dall’ambasciatrice Jocelyne Caballero e indirizzata al segretario generale Thorbjørn Jagland, mercoledì 24 novembre, la Francia ha notificato al Consiglio d’Europa che lo stato di emergenza e le altre norme varate dopo gli attentati di Parigi potranno comportare «una deroga agli obblighi che derivano dalla Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». La Francia, il Paese dei diritti dell’uomo, avverte che si appresta a violarli (o che l’ha già fatto), costretta dalla lotta al terrorismo. È una decisione che ha pochi precedenti, e che mostra quanto i massacri del 13 novembre stiano mettendo alla prova il Paese. Per tutto il mondo, e anche per i politici francesi che amano ripetere questa formula come un segno della grandeur che ancora resiste, «la Francia è la patria dei diritti dell’uomo» perché la Dichiarazione del 26 agosto 1789 è uno dei testi fondamentali della Rivoluzione francese, l’atto di nascita della Repubblica. A quella si sono ispirati i testi dell’Onu — non a caso approvato a Parigi, nel 1948 — e del Consiglio d’Europa. Ed è in Francia, a Strasburgo, che siede la Corte europea incaricata di fare rispettare la Convenzione approvata nel 1953. Ma queste sono giornate eccezionali per la Francia. Tanto che un presidente socialista come Hollande si re-impossessa del tricolore nazionale, la bandiera bleu-blanc-rouge esibita spesso dal Front National, e chiede a ogni francese di farla sventolare dalla finestra in occasione dell’omaggio solenne alle vittime previsto per questa mattina (bandiere presto introvabili, il governo consiglia di dipingersi i colori sul volto come allo stadio o di stamparle al computer). I diritti dell’uomo che i Paesi del Consiglio d’Europa sono tenuti a rispettare comprendono la libertà e la sicurezza, il diritto a un processo equo, il rispetto della vita privata e familiare, libertà di pensiero, coscienza e religione, divieto di discriminazione, libertà di 22 espressione e di associazione. Diritti che la Francia, è questo il senso della sua comunicazione al Consiglio, potrebbe essere costretta a infrangere. «La minaccia terroristica in Francia riveste un carattere durevole, viste le indicazioni dei servizi di intelligence e il contesto internazionale — si legge nel documento —. Alcune misure (per esempio lo stato di emergenza, ndr ) sono apparse necessarie per evitare il compimento di nuovi attentati terroristici». La deroga al rispetto dei diritti dell’uomo è prevista dalla Convenzione, all’articolo 15 che infatti viene invocato dalla Francia. Vi si può ricorrere in caso di guerra o «di un altro pericolo che minacci la vita della nazione», a patto che il mancato rispetto sia limitato «alla stretta misura che la situazione esige» e che non sia in contraddizione con il diritto internazionale. Non sono ammesse deroghe quanto al diritto alla vita e al divieto di tortura. Quanto al resto, la Francia mette le mani avanti nella speranza di evitare future condanne dalla Corte di Strasburgo. In passato l’articolo 15 è stato invocato raramente: dalla Gran Bretagna e dall’Irlanda nella lotta all’Ira, e dalla Turchia nella repressione dei curdi. Molte voci si sono già levate contro le perquisizioni di larga scala — 1.616 dall’inizio dello stato di emergenza —, giudicate da alcuni arbitrarie ma efficaci secondo la polizia. Stefano Montefiori del 27/11/15, pag. 16 Contro la guerra non si può restare in silenzio L'iniziativa. «Quando furono scatenate le guerre in Afghanistan e Iraq sapevano che quei conflitti avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Per questo non si può non reagire». Un appello di intellettuali francesi Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far luce sugli attentati. Ma possiamo forse rimanere in silenzio? Molte persone — e le comprendiamo — ritengono che davanti all’orrore di questi fatti, l’unico atto decente sia il raccoglimento. Eppure non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono in nostro nome: quando altri ci trascinano nella loro guerra. Dovremmo forse lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e dell’intimazione a pensare in sintonia con il governo? Si dice che adesso siamo in guerra. E prima no? E in guerra perché? In nome dei diritti umani e della civiltà? La spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è continuamente in guerra. Esce da una guerra in Afghanistan, lorda di civili assassinati. I diritti delle donne continuano a essere negati, e i talebani guadagnano terreno ogni giorno di più. Esce da una guerra alla Libia che lascia il paese in rovine e saccheggiato, con migliaia di morti, e montagne di armi sul mercato, per rifornire ogni sorta di jihadisti. Esce da una guerra in Mali, e là i gruppi jihadisti di al Qaeda continuano ad avanzare e perpetrare massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino al midollo, così come in Niger e in Gabon. E qualcuno pensa che gli oleodotti del Medioriente, l’uranio sfruttato in condizioni mostruose da Areva, gli interessi di Total e Bolloré non abbiano nulla a che vedere con questi interventi molto selettivi, che si lasciano dietro paesi distrutti? In Libia, in Centrafrica, in Mali, la Francia non ha varato alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Eppure non basta somministrare lezioni di 23 pretesa morale (occidentale). Quale speranza di futuro possono avere intere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere nelle rovine? La Francia vuole distruggere Daesh? Bombardando, moltiplica i jihadisti. I «Rafale» uccidono civili altrettanto innocenti di quelli del Bataclan. E, come avvenne in Iraq, alcuni civili finiranno per solidarizzare con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a scoppio ritardato. Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semischiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche? La guerra alla jihad, si dice con tono marziale, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che vi cadano dei giovani, soprattutto quelli provenienti da ceti non abbienti, se non cessano le discriminazioni nei loro confronti, a scuola, rispetto al lavoro, all’accesso all’abitazione, alla loro religione? Se finiscono continuamente in prigione, ancor più stigmatizzati? E se non si aprono per loro altre condizioni di vita? Se si continua a negare la dignità che rivendicano? Ecco: l’unico modo per combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese che è diventato il secondo venditore di armi a livello mondiale, è rifiutare un sistema che in nome di un miope profitto produce ovunque ingiustizia. Perché la violenza di un mondo che Bush junior ci prometteva, 14 anni fa, riconciliato, riappacificato, ordinato, non è nata dal cervello di bin Laden o di Daesh. Nasce e prospera sulla miseria e sulle diseguaglianze che crescono di anno in anno, fra i paesi del Nord e quelli del Sud, e all’interno degli stessi paesi ricchi, come indicano i rapporti dell’Onu. L’opulenza degli uni ha come contropartita lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si farà indietreggiare la violenza senza affrontarne le radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono. Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome. Primi firmatari: Etienne Balibar, Ludivine Bantigny (storica), Emmanuel Barot (filosofo), Jacques Bidet (filosofo), Déborah Cohen (storica), François Cusset (storico delle idee), Laurence De Cock (storica), Christine Delphy (sociologa), Cédric Durand (economista), Fanny Gallot (storica), Eric Hazan (editore), Sabina Issehnane (economista), Razmig Keucheyan (sociologo), Marius Loris (storico e poeta), Marwan Mohammed (sociologo), Olivier Neveux (storico dell’arte), Willy Pelletier (sociologo), Irene Pereira (sociologa), Julien Théry-Astruc (storico), Rémy Toulouse (editore), Enzo Traverso (storico) (Traduzione di Marinella Correggia) 24 del 27/11/15, pag. 5 La coscienza occidentale all’ombra dei Saud Dopo gli attentati di Parigi Giuseppe Cassini Una volta elaborato il lutto, una volta eliminati i responsabili dell’eccidio parigino, che fare delle altre migliaia di adepti al jihad?… Intendendo ovviamente il jihad offensivo, non quello interiore di superamento di se stessi. Mi è capitato di recente di attraversare a piedi il 19°mo Arrondissement di Parigi. Per una buona mezzora mi pareva di esser tornato ad Algeri: strada dopo strada nient’altro che negozi, volti e vestiti di umili maghrebini. Umili e gentili, almeno per il momento. Su internet scopro ora che il quartiere è bollato come dangereux: a me non sembrava pericoloso per me quanto per loro, visto che le vittime del fanatismo sono al 95% musulmane. (Mi è capitato anche di attraversare il quartiere ebraico nel Marais e chiedere un’informazione stradale: l’unica risposta è stato un mugugno accompagnato da un’occhiata torva. Ma questa è un’altra storia). L’Isis, trovandosi in difficoltà sul proprio territorio, ha avviato il piano B: lanciare cani sciolti all’attacco del cuore metropolitano dell’Occidente. Questi jihadisti potranno sempre contare sulla simpatia – se non sulla connivenza – di tanti loro confratelli residenti nelle periferie disagiate d’Occidente. Che faremo allora? Punteremo droni e missili contro le nostre metropoli? Iniziamo, invece, a scandagliare la profondità della frustrazione in cui si dibattono le comunità arabomusulmane. Iniziamo a sostenere l’aspirazione di chi propugna – se non un Califfato – almeno un’esegesi moderna dei sacri testi, dopo otto secoli di deserto teologico e il colpo finale inferto da Ataturk nel 1924 con la destituzione della khalifa (forse ci penserà Erdogan, ora che ha stravinto le elezioni, a ricoprire la sede vacante una volta eliminato alBaghdadi…). Se la Chiesa ha percepito l’urgenza di aggiornarsi con un Concilio nel 1962 – ed era il 21° della sua storia – «aggiornamento» dovrebbe a maggior ragione diventare la parola d’ordine dell’Islam. Perchè da secoli ormai le scuole coraniche – dal Marocco al Bangladesh – non fanno che insegnare a ripetere, alla lettera e in una lingua sconosciuta, brani di un testo del VII° secolo: da cui espungono parole come rahme (misericordia) e gafara (perdono) – ricorrenti nel Corano più volte che nella Bibbia – a vantaggio di parole come harb (guerra) o come thar (vendetta). I miliziani dell’Isis praticano esecuzioni rituali non solo per asseverare la radicalità dei loro principi, ma soprattutto per sfidare i «crociati» a singolar tenzone e attirarli sul terreno militare. Precisano anche dove: a Dabiq, un villaggio nella piana a nord di Aleppo a pochi chilometri dalla frontiera turca; là si daranno battaglia decisiva le forze del bene e del male. E per confondere ancor più le idee, ci dicono che a guidarli alla vittoria sarà il secondo profeta più riverito dell’Islam, Gesù. Tempo fa attraversavo Dabiq in direzione della Turchia e mi pareva che i poveri agricoltori locali ignorassero tutto del giorno fatidico in cui saranno risvegliati dal clangore di cozzanti scimitarre e vedranno i loro campi arrossarsi di sangue impuro. C’è poco da sorridere… I parigini che nei giorni scorsi intonavano il refrain della Marsigliese reclamavano qu’un sang impur abreuve nos sillons! («che un sangue impuro irrighi i nostri solchi»). Ad ottobre, in coincidenza con i primi raid russi in Siria, 55 esponenti religiosi e accademici sauditi hanno pubblicato un appello ai «veri musulmani», scongiurando di «fornire aiuto morale, materiale, politico e anche militare» a chi combatte in Siria contro il regime alauita (e contro Russia e Iran che lo sostengono). 25 Si riferivano ai miliziani dell’Isis, definiti «guerrieri santi che stanno difendendo l’intera nazione islamica». I firmatari dell’appello al jihad offensivo lo giustificavano con queste parole: «Se i santi guerrieri venissero, Dio non voglia, sconfitti, le nazioni sunnite cadrebbero una dopo l’altra». Per il momento, a cadere è stato un aereo russo con 224 turisti innocenti (e un cacciabombardiere sempre russo abbattuto dagli F-16 degli «alleati» turchi). Un diplomatico libanese mi ha raccontato di aver chiesto a dei funzionari sauditi come mai il governo di Ryad consentisse ad esponenti religiosi di perorare la causa della guerra ad oltranza. La risposta è stata: che vuole, caro amico, si tratta di persone influenti e libere di predicare. Il problema è che nella penisola arabica questa libertà di parola viene punita – all’occorrenza – con 1000 colpi di frusta somministrati 50 alla volta, se è il blogger saudita Raif Badawi a voler parlare. Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani. Fin dall’inizio il neo-califfo Abu Bakr al-Baghdadi invitava i suoi emissari in Arabia Saudita a combattere anzitutto «gli sciiti e i sulul (i difensori della monarchia saudita), prima di attaccare i salibi (i crociati, ossia i cristiani)». I sauditi giocano col fuoco, anche perché l’autosufficienza energetica conseguita da Obama ha disinnescato il terribile ricatto che vincolava Washington al petrolio di Ryad. È stato uno dei grandi successi, inseguito con forza da sette anni, di questo lungimirante presidente. D’ora in poi Congresso e Casa Bianca — com’è accaduto in questi giorni — forniranno armi a Ryad solo se lo vorranno, non per imposizione degli amici di Bush. E in questi flussi e riflussi di alleanze e di inimicizie, anche Turchia e Israele stanno giocando col fuoco. La Turchia perché ha favorito alla grande il transito verso il fronte di giovani «idealisti» votati al martirio. Quanto a Israele, l’inedita vicinanza all’Arabia Saudita voluta da Netanyahu il «cinico» finirà come finì nel 1979 la cinica alleanza di ferro con lo Scià di Persia: male. del 27/11/15, pag. 11 IL CORTO CIRCUITO DEL FANATISMO Dacia Maraini «I l fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre. Chi ha delle visioni e scambia i sogni e le proprie fantasie per profezie, è un entusiasta. Chi scambia la propria follia per un impegno ad uccidere, è un fanatico». Lo scrive Voltaire nel 1764. Il fanatismo ha radici antiche, profonde. E ubbidisce a una drastica e volontaria semplificazione della realtà. Chi conosce la complessità del mondo, sa che il diverso va prima di tutto conosciuto, poi avvicinato, per confrontarsi, per discutere, per contrattare. Il mondo è ampio e diversificato. Chi semplifica, non vuole conoscere l’altro, vuole solo eliminarlo. Tagliare una testa è piu semplice, piu chiaro, più decisivo che dialogare. Ma per tagliare le teste bisogna disporre di armi, libertà di movimento e potere; per questo il fanatico cercherà di procurarsi armi e denaro, senza tanti scrupoli, con l’imbroglio, il furto, la rapina se necessario. Per il semplificatore, il fine giustifica sempre i mezzi. «Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile», continua Voltaire, «i fanatici sono persuasi che il Dio che li ispira sia al di sopra delle leggi e che il loro entusiasmo sia la sola legge che devono ascoltare… Cosa rispondete a chi dichiara che è sicuro di meritare il cielo scannandovi?». 26 Riconosciamo questa logica, che oggi praticano i ragazzi dell’Isis, altrimenti detto Daesh. È una logica perversa, ma seducente nella sua radicale brutalità. Ci vuole intelligenza, sensibilità, rispetto, pazienza, per stabilire dei rapporti reali col mondo. Il Dio semplificatore, come la regina folle del Paese delle Meraviglie, non conosce né rispetto, né pazienza, ma solo un bisogno sbrigativo e spietato di imporre la propria funebre volontà: via quella testa, via quell’altra! Presto, presto, tagliate, tagliate! «Sono di solito i furfanti a guidare i fanatici e a mettere il pugnale nelle loro mani», continua Voltaire nella sua lucida analisi che sembra scritta oggi : «Le leggi, la religione, non valgono contro questa peste degli animi. La religione, lungi dall’essere per loro un cibo salutare, si trasforma in veleno... essi attingono i loro furori dalla stessa religione che li condanna». Si ricordano due avvenimenti che sono rimasti incisi a fuoco nella memoria storica, per la loro atrocità. Il caso dei protestanti fatti a pezzi dai cattolici al tempo della Regina Elisabetta: «I borghesi di Parigi corsero la notte di san Bartolomeo ad assassinare, scannare, fare a pezzi e gettare dalle finestre i loro concittadini che non andavano a messa». E quello della setta di eretici ismaeliti che, guidati da un famoso «Vecchio della montagna», diffusero, nel secolo XI, il terrore in tutto il Medio Oriente con i loro assassini a freddo, contro chiunque giudicassero non in linea con il loro Dio. Si chiamavano Hashishiyyin (uomini dediti all’hashish), da cui deriva la parola «assassino». Il Vecchio della montagna, Hasan i-Sabbah, prometteva loro un paradiso di freschi ruscelli e di vergini disponibili e innamorate, se si fossero lasciati uccidere; ma solo dopo avere pugnalato e sgozzato un buon numero di miscredenti. Il Vecchio aveva un carisma straordinario e i ragazzi andavano a morire pieni di entusiasmo, sicuri della meravigliosa ricompensa. Ora ci chiediamo: erano solo criminali o ragazzi bisognosi di assoluto in un mondo che aveva perso ogni rapporto con l’utopia? Ragazzi che scambiavano il coltello per la chiave che avrebbe aperto loro le porte del paradiso? La cronaca non parla mai del genere femminile. Non era pertinenza delle donne tagliare le gole. Le donne vinte diventavano schiave, proprietà del vincitore assieme alle pecore, ai cavalli, alle mucche. Merce pregiata che si poteva comprare, vendere, utilizzare a proprio piacimento. Solo quando si ribellavano all’orribile destino, venivano sgozzate pure loro. Il fanatismo non appartiene a una cultura piuttosto che a un’altra, non ha niente a che vedere con l’osservanza di una fede. Forse non è neppure una espressione dell’odio che anima gli esseri umani. Chi odia è anche capace di amore. Il fanatico respinge sia l’uno che l’altro. Piuttosto si direbbe un bisogno profondo e non ascoltato di trascendenza. Un bisogno che, non soddisfatto con umanità, si trasforma in un mostruoso innamoramento della morte e del nulla. Il continuo battersi il petto gridando che siamo noi i responsabili, siamo noi i colpevoli, suona un poco ridicolo a dire la verità e anche presuntuoso: come se fossimo noi a determinare le svolte nelle coscienze degli esseri umani. Perché dovremmo togliere a questi ragazzi la libertà di scelta e di azione? Anche se loro non riconoscono il libero arbitrio, anche se sostengono che è tutta colpa di chi ha cominciato per primo ad aggredire, che sia il crociato o il colonialista, è presuntuoso ritenere che siamo responsabili di quello che fanno. Certamente l’Europa ha compiuto dei grandi errori, ma ciò non toglie che ogni generazione, ogni persona, risponde delle proprie scelte e delle proprie azioni. Le giustificazioni suonano paternalistiche e grottesche . Le religioni si sono sempre divise, anche con ferocia, su questo problema di fede: Dio esiste in quanto essere pensante, con un corpo riconoscibile, o è una entità soprannaturale, una mente che comprende tutto e tutto capisce, ma non può intervenire perché è piu simile al cosmo infinito che all’uomo finito? Le piu feroci guerre esplose all’interno delle fedi monoteiste si basano su questo punto: se Dio è onnipotente, perché permette il male? Se invece Dio può solo il bene, poiché il male spetta al demonio, allora 27 Dio non è onnipotente, ma solo una parte che combatte contro un’altra. E come distinguere il bene dal male? Ed esiste un male universale, riconosciuto da tutti? Quel bene e quel male stanno in un Libro Sacro o nella coscienza degli uomini? I Sunniti e gli Sciiti si sono combattuti per secoli su questi interrogativi. Fagocitando e distruggendo altri gruppi religiosi come i Mutaziliti (nel IX secolo) e le varie tendenze mistiche dei Sufi. Chi crede che la volontà divina sia simbolica e ideale, è piu disposto ad accogliere e adattarsi alle trasformazioni storiche. Chi invece concepisce Dio come un Padre assolutista, tirannico e geloso, è portato a ritenere che la realtà sia immobile, che la storia non conti, e la ragione non abbia alcun valore. Di solito le grandi Chiese hanno scelto l’interpretazione simbolica e idealistica, (spesso paradossalmente unita a una precettistica rigorosa), perché ha permesso loro di adeguarsi ai cambiamenti, di mutare visione del mondo, di diventare piu umane e di durare nel tempo. Ogni tanto però, non si sa come, esplode un corto circuito. A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, qualcuno sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo. Pretendendo di applicare i precetti del VII secolo dopo Cristo. Come se da noi a qualcuno venisse in mente di applicare le regole della Bibbia, quando la schiavitù era legale, la vendetta era l’unica forma di giustizia e gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati. Come fingere di non sapere che c’è stato Cristo, che ha contraddetto tutto quello che era considerato normale a quei tempi, ha introdotto la pratica dell’umiltà, del rispetto dell’altro, della povertà, dell’uguaglianza? Per questo è stato crocefisso, ma alla fine il cristianesimo ha trionfato sui cultori della Bibbia. E come fingere di non sapere quanto è costato raggiungere il concetto della divisione fra Stato e Chiesa? Quanto è stato doloroso stabilire i valori dei diritti civili? L’accettazione della immanenza o meno di un Libro Sacro sta alla base della saggezza di una religione. E certamente papa Francesco questo l’ha capito bene e sta dando un esempio straordinario. Ma la logica, la tolleranza, il rispetto, suonano come parole blasfeme per chi ha messo al posto del cuore una spada appuntita, per cui ogni abbraccio diventa una ferita mortale. Voglio finire queste brevi riflessioni, da una parte con le parole di Voltaire, che ci raccomanda, nei momenti di crisi, di affidarci alla filosofia, perché i filosofi non fanno la guerra ma ragionano e il ragionamento è «il solo bene che abbiamo da contrapporre alle furie degli invasati». E, dall’altra parte, con le parole del poeta Ibn Arabi, uno dei piu grandi poeti del XIII secolo, deriso e attaccato per le sue posizioni conciliatorie: «Un tempo io mi offendevo col mio compagno se la sua religione non era uguale alla mia, ma ora il mio cuore ammette ogni forma. Il mio cuore oggi è un prato per le gazzelle, un chiostro per il monaco, una Kaaba per il pellegrino, per le tavole della legge e per il sacro libro del Corano. Seguo la tenerezza e dovunque mi portano i cammelli d’amore, là trovo la mia religione, la mia fede». del 27/11/15, pag. 10 Dopo l’abbattimento del caccia, Mosca sospende i contratti con le imprese turche: dall’edilizia all’energia Stop a turismo e commercio arrestati 39 imprenditori 28 Così Putin colpisce tutti gli affari con Ankara NICOLA LOMBARDOZZI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MOSCA. I giovanotti che da due giorni si danno il cambio a decine lungo i marciapiedi innevati di Rostovskij pereulok per lanciare insulti e qualche pietra contro l’ambasciata di Turchia, sono solo l’avanguardia umorale della vendetta del Cremlino contro la «pugnalata alle spalle di Ankara ». Molto più fredda e cattiva, studiata per due giorni da uno speciale gruppo di esperti, è invece la rappresaglia economica che rischia di fare molto male alle casse del regime di Erdogan, mandando all’aria una cooperazione commerciale che solo l’anno scorso ammontava a 42 miliardi di euro. Vendetta approvata dalla gran parte dei russi, ancora choccati dal racconto del pilota abbattuto e sopravvissuto all’inseguimento dei terroristi appoggiati dall’esercito turco. Messaggi di festa e di «giustizia è fatta» hanno accolto sui siti la notizia dell’arresto, l’altro ieri mattina di 39 imprenditori agricoli turchi, in visita alla fiera di Krasnodar. Condannati per generiche “irregolarità” nei visti a dieci giorni di carcere e cento euro di multa, saranno presto espulsi dal Paese. Sono solo le prime vittime della punizione “scientifica” ordinata da Putin e che si preannuncia spietata. A cominciare dal turismo, già di fatto chiuso d’ufficio con la sospensione di tutti i contratti futuri e l’invito ai russi in vacanza in Turchia a rientrare al più presto «per motivi di sicurezza». Un disastro per i turchi, per cui i quasi cinque milioni di turisti russi del 2015 rappresetavano il 46 per cento del loro mercato alberghiero. Ma il piatto forte sta nel settore energetico con la sospensione di tutte le joint venture stipulate tra colossi russi e turchi. Bloccata dunque la costruzione da parte della russa Rosatom della centrale nucleare di Akkuiu, e congelato l’inizio dei lavori per il Turkish Stream, l’oleodotto che avrebbe dovuto collegare la Turchia e l’Europa meridionale al petrolio russo. E un’altra tegola, meno vistosa ma ugualmente pesante, si è abbattuta ieri sera sull’imprenditoria di Ankara: la sospensione dei contratti nel mercato dell’edilizia. Da an- ni i costruttori turchi hanno conquistato la fetta di mercato più ghiotta. Hanno lasciato ai russi la realizzazione degli edifici più dozzinali, agli italiani il lusso, e hanno invece monopolizzato il segmento ricchissimo delle case di fascia media, centri commerciali, uffici, allestimenti per fiere e mostre. Gran parte della nuova Mosca, della periferia di San Pietroburgo, della ricostruita capitale cecena Grozny sono opera di società e maestranze turche adesso rimandate a casa. E alle decisioni ufficiali si affiancano quelle pretestuose tipiche delle crisi internazionali. Il governo russo ha scoperto ieri che il pollame e la carne che arrivano dalla Turchia «sono a rischio per la salute», con imminenti proibizioni. I doganieri hanno cominciato a trovare irregolarità mai viste prime nei carichi in arrivo da Ankara, respingendo tir e voli cargo, e costringendo a lunghe attese alla frontiera i prodotti deteriorabili. E dire che appena due mesi fa tutto sembrava marciare in direzione opposta. Un entusiasta Erdogan, ospite d’onore all’inaugurazione della grande moschea di Mosca, aveva detto a Putin di voler raddoppiare gli scambi tra i due paesi. I giornali di Ankara salutavano come una manna le sanzioni occidentali cui la Turchia aveva deciso di non aderire, conquistando spazi di mercato impensabili. La settimana scorsa l’accordo in vigore dal 2009 per un corridoio doganale agevolato alle due frontiere sembrava sul punto di essere perfezionato con una zona franca. Così come pareva vicina una moltipicazione delle vendite di armi russe alla Turchia, tra cui, ironia della sorte, anche missili anti aerei. Vendite che da ieri sono sospese. 29 E i contratti a rischio riguardano anche le esportazioni russe: petrolio, ferro, minerali rari e perfino elettrodomestici. La Turchia rappresentava un cliente ideale, dicono molti produttori russi: «Abbastanza ricca per poterseli permettere, abbastanza arretrata per accettarne la bassa qualità». La vendetta avrà dunque contraccolpi interni, che però il Cremlino ha messo nel conto. «Troveremo altri mercati, ma la ritorsioni contro Ankara saranno sempre più serie». del 27/11/15, pag. 23 Israele alza un altro muro: anche Hebron sarà isolata SUSAN DABBOUS GERUSALEMME «Costruiremo un muro difensivo ermetico per separare Israele da Hebron entro un anno». Così il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya’alon, ha risposto mercoledì scorso in Parlamento alla domanda «cosa state facendo per prevenire gli attacchi terroristici». A porre la questione è stato Miki Zohar, rappresentante del Likud, partito del premier Benjamin Netanyahu, nella circoscrizione di Kyriat Gat, dove sabato scorso un palestinese ha accoltellato, ferendo gravemente, quattro civili israeliani, tra cui un ragazzino di 13 anni. L’attentatore, che è stato arrestato dopo un tentativo di fuga, avrebbe attraversato il confine tra Territori palestinesi e Israele trovando una falla nella rete separatoria. Una recinzione inefficace e vetusta, ammette il ministro della Difesa che «verrà sostituita con una rete moderna ed ermetica, la stessa che separa Israele dall’Egitto». Si tratta di una barriera metallica rigidissima alta cinque metri. Non quindi i blocchi di cemento allineati, alti 8 metri, che separano Gerusalemme da Betlemme, e “proteggono” alcuni dei più grandi insediamenti israeliani nei Territori. Il nuovo muro si inserisce nel contesto dell’attuale ondata di violenza, l’“Intifada dei coltelli”, che ha registrato dal 1 ottobre ad oggi, 17 vittime israeliane (più un americano e un eritreo) e 97 palestinesi (compresi gli attentatori, molti dei quali originari di Hebron). Anche ieri non sono mancati gli scontri che hanno causato la morte di tre palestinesi. Il primo a cadere sotto i proiettili dei militari israeliani è stato il 21enne Yahya Taha, ucciso durante scontri nel villaggio di Katana, vicino Ramallah. Nel pomeriggio, i soldati hanno poi colpito a morte un secondo palestinese, il 51enne Samer Hassan Siresee, che secondo la polizia era «sceso dal taxi con un coltello» a Tapuah vicino a Nablus. Infine il 20enne Khaled Jawabra, ucciso durante gli scontri scoppiati nel campo rifugiati Al-Arroub, vicino Hebron. Secondo una portavoce dell’esercito, il giovane stava per scagliare una bottiglia molotov contro un’auto israeliana. In base a fonti palestinesi, è stato lasciato agonizzare a lungo prima di permettere i soccorsi. Il presidente dell’autorità palestinese Abu Mazen ha denunciato, in più occasioni, le esecuzioni a priori da parte israeliana, così si spiegherebbero decine di giovani vittime uccise per errore. Anche il segretario di Stato americano John Kerru, a conclusione di una visita lampo a Gerusalemme, tre giorni fa aveva ammesso: «Nessun passo avanti, almeno finché Israele non congela la costruzione di nuovi insediamenti nei Territori palestinesi». 30 INTERNI del 27/11/15, pag. 20 Primarie, scontro nel Pd La minoranza avverte “L’Ncd ne resti fuori” Retromarcia dopo l’intesa siglata ieri in Campania Lupi: “Mai con i dem”. Sel: è una mutazione genetica GOFFREDO DE MARCHIS ROMA. Si aggira per le città italiane lo spettro del Partito della Nazione, ovvero Pd e Ncd alleati in pianta stabile (con il corollario di altri spezzoni di centrodestra), e le comunali prova generale di una futuro listone. Questo è il pericolo denunciato dalla minoranza interna dopo la notizia di un accordo a Napoli tra renziani e alfaniani per battere De Magistris. Un accordo che fa saltare la moratoria chiesta da Renzi dentro al Pd, riapre la discussione, ma che può, in termini più concreti, provocare soprattutto lo strappo definitivo con Sinistra italiana. Il cui aiuto invece diventerebbe indispensabile agli eventuali ballottaggi. Gianni Cuperlo definisce l’alleanza del Golfo «un errore grave, anzi gravissimo perchè si era detto con chiarezza che il rapporto con Ncd nasceva solo e soltanto per la mancata vittoria del 2013». Confinato dunque alla logica delle larghe intese in attesa di una separazione per le scadenze elettorali. Ma ormai non è più cosi da molto tempo. Angelino Alfano ha schierato la sua forza al fianco di Renzi non semplicemente come alleata di governo ma come alternativa alla destra nascente e al grillismo. Napoli è la certificazione di un dato di realtà, a dispetto delle smentite di Renato Schifani («mai ai gazebo col Pd»), di Lupi e di Sacconi. La minoranza Pd chiede al contrario di stabilizzare e aggiornare il centrosinistra, «un nuovo centrosinistra» ma vicino alle esperienze dell’Ulivo e dell’Unione «che qualche vittoria la ottennero», ricorda Cuperlo. I renziani rispettano la moratoria e non commentano la notizia di Napoli. Ma Francesco Nicodemo, stretto collaboratore di Renzi e indicato come uno dei possibili candidati a sindaco, non chiude affatto la porta: «La scelta va fatta negli organi giusti e la faremo insieme ». Se non è un sì poco ci manca. A questo punto resta da sbrogliare il nodo dell’opposizione interna al Pd e quello dei rapporti con Sinistra italiana. In alcune città infatti verrà confermato fin dal primo turno l’antico patto con gli ex Sel, ma in altre il dialogo è tutto da costruire. In previsione del ballottaggio, perlomeno. Basta prendere Torino. Piero Fassino si ricandida ma contro di lui correrà anche Giorgio Airaudo, parlamentare di Sel ed ex capo della Fiom nella città della Fiat. Se Fassino va al secondo turno, avrà bisogno dei voti di Airaudo che comunque non dovranno andare all’eventuale sfidante grillina. Questo è un altro terreno scivoloso dell’apertura a Ncd. «Noi dovremmo costruire dei ponti con Sinistra italiana e invece vedo nel Pd un sacco di incendiari. Più ingegneri civili e meno piromani, questo mi sento di dire perchè i ballottaggi sono davvero una lotteria», spiega Cuperlo. Non dimenticando il precedente più urticante per la sinistra: a Bologna la candidata dei Ds prese al primo turno più voti assoluti di quelli guadagnati da Guazzaloca al secondo. E vinse Guazzaloca. «Vale anche per la Sinistra - dice Cuperlo Chiedo loro di non avere come unica ragione di vita l’attacco al Pd». La prima reazione degli ex Sel è di sfida aperta al Pd e non è un mistero che molti di loro lavorino a costruire un ponte con M5s anzichè col Pd. «Purtroppo è sotto gli occhi di tutti la mutazione genetica in atto nel Pd, che lo trasforma sempre di più in un partito di centro 31 sbilanciato verso destra», avverte il capogruppo alla Camera Arturo Scotto. «A Napoli continueremo a costruire un’alternativa a scelte politiche inaccettabili che non potrebbero che danneggiare la città». del 27/11/15, pag. 20 La svolta di Alfano: una Margherita 2.0 e patto coi dem FRANCESCO BEI IL RETROSCENA ROMA. «La strada è tracciata: saremo la Margherita 2.0». Angelino Alfano l’ha spiegato ai suoi, il nuovo centrodestra è arrivato al capolinea. Il futuro è con Renzi. La decisione è talmente matura che il ministro dell’Interno l’ha persino comunicata al premier, sondandolo nei giorni scorsi sulle varie ipotesi che ora si aprono per la nuova formazione centrista. «La traiettoria più naturale - ha osservato Alfano sarebbe quella di dar vita a una lista di governo insieme, stante l’attuale legge elettorale». «È escluso», gli ha risposto Renzi. «Allora - ha replicato il ministro - ci presenteremo da soli, tanto poi avrai bisogno di noi in Parlamento per non farti ricattare dalla sinistra Pd. Sarai tu a venirci a cercare». Il problema per Area popolare (questa per il momento la denominazione) è proprio l’Italicum. Perché, stante l’indisponibilità del capo del governo a cambiarlo, l’unica opzione per Alfano è giocarsi il tutto per tutto e puntare a rientrare a Montecitorio superando la barriera del 3 per cento. «Ce la possiamo fare - confida in privato il leader centrista - se apriamo subito un cantiere per un nuovo soggetto dei moderati. C’è tanta gente in questo paese che apprezza Renzi e lo vorrebbe tenere a palazzo Chigi, ma non è disposta a votare a sinistra». In questo schema di gioco gli interlocutori di Alfano sono anzitutto coloro che sono usciti dal vecchio Pdl e dalla Lega. Primi fra tutti il sindaco di Verona Flavio Tosi e l’ex ministro Raffaele Fitto, con i suoi “Conservatori e riformisti”. Ma si punta anche su Alfio Marchini e, soprattutto, su Diego Della Valle. Senza trascurare il tesoretto di Area popolare, quotata la scorsa settimana da Demos per la Repubblica al 3%. Con il gradimento di Alfano salito in un mese - dopo l’emergenza terrorismo - dal 23 di ottobre al 28 per cento di novembre. Resta lo scoglio di Denis Verdini. L’ex braccio destro di Berlusconi è molto attivo, tanto che due giorni fa è stato visto al bar Ciampini in compagnia di Diego Della Valle. Ma Alfano resta convinto che sia un errore aggregarlo alla carovana in via di formazione. Lo ha ribadito anche al premier, che lo invitava a fare comunella con Verdini. «Te lo puoi scordare gli ha risposto il titolare dell’Interno -. Verdini non ce lo puoi caricare a noi, sono affari tuoi e di Lotti. Oltretutto io non ci andavo d’accordo nemmeno quando eravamo nel Pdl, figuriamoci ». I segnali che i moderati alfaniani si sono messi in marcia, direzione “nuovo centrosinistra”, si stanno comunque moltiplicando. C’è l’ipotesi, seppur smentita dai vertici, di partecipare alle primarie di Napoli. C’è la nuova giunta Crocetta in Sicilia, con l’assessore “tecnico” Carlo Vermiglio entrato in quota Ncd (tramite il deputato Nino Germanà). E ieri è stato presentato il Comitato “Moderati e centristi per il Sì”, in vista del referendum costituzionale dell’ottobre 2016. Un’iniziativa promossa da 33 parlamentari di Ap e di Ala (i verdiniani), che tuttavia ha fatto arrabbiare sia Giacomo Portas (il leader dei “Moderati” alleati con il Pd se l’è presa per lo scippo della sigla) che il segretario di Scelta Civica Enrico Zanetti, per la «fuga in avanti» e la «fretta» degli alfaniani. 32 Al di là delle baruffe tra micropartiti, per Alfano anche quel che resta di Scelta Civica e le altre altre formazioni centriste - come i Moderati e i Popolari per l’Italia - a meno di non scomparire, dovranno giocoforza far parte del cantiere della nuova formazione politica. Il primo banco di prova per sperimentare il passaggio nel centrosinistra saranno comunque le amministrative di primavera. «A livello cittadino - spiega il sottosegretario Giuseppe Castiglione, uno degli fedelissimi di Alfano - il percorso di costruzione di un’area popolare alleata al Pd è sicuramente più facile che a livello nazionale». Certo, Alfano dovrà mettere nel conto la reazione ostile della sinistra dem, che ha subito alzato le barricate di fronte all’ipotesi di una coalizione aperta anche all’Ncd. Tanto che Gaetano Quagliariello, uscito dall’Ncd per dare vita a “Idea” proprio in opposizione alla linea di Alfano, oggi può ironizzare: «Stanno facendo la parte dell’amante che viene nascosto per vergogna nell’armadio». del 27/11/15, pag. 22 Il rebus del Pd a Milano la corsa tra Sala e la Balzani e Pisapia apre uno spiraglio “Se davvero tutto implode...” ROBERTO RHO MILANO. Alla fine, servirà un nuovo incontro – quantomeno una lunga telefonata – tra Matteo Renzi e Giuliano Pisapia. Un colloquio che dovrebbe avvenire intorno alla metà della prossima settimana e che, allo stato, sembra l’unico modo per sbrogliare la matassa che, anche a Milano, s’è aggrovigliata parecchio. Siamo a dicembre, a due mesi dalle primarie (7 febbraio, ma slitteranno di una o due settimane), a sei dalle Amministrative e la ritrovata “capitale morale”, la metropoli “con gli anticorpi”, non ha ancora un candidato sindaco della coalizione che l’ha governata, con successo, negli ultimi quattro anni e mezzo. O meglio: di candidati ce ne sono due – l’assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino, sinistra Pd, e il parlamentare renziano Emanuele Fiano – ma nessuno è disposto a scommettere che sarà uno di loro a sfidare il centrodestra (in netto ribasso le quotazioni del direttore del “Giornale” Alessandro Sallusti) e il centrista Corrado Passera. Tutti – da mesi – aspettano la risposta del commissario Expo Giuseppe Sala, il «candidato migliore», secondo la definizione di Renzi. Che, però, quando ne parla ai suoi collaboratori più stretti aggiunge una frase sibillina: «È il migliore, ma mentre lo dico mi rendo conto che c’è qualcosa che non mi convince fino in fondo». La novità degli ultimi giorni è il gelo tra Pisapia e il commissario Expo. La candidatura di Sala non ha mai entusiasmato il sindaco, il quale però fin qui si era sostanzialmente tenuto fuori dalla partita (dopo l’annuncio, mai spiegato fino in fondo, della sua rinuncia al secondo mandato). Negli ultimi giorni qualcosa è cambiato. I tentennamenti e i continui rinvii della decisione di Sala («non prima di gennaio»). La sua idea quasi “commissariale” anche della politica: vorrebbe un’investitura ampia e diretta, possibilmente evitando il fastidio delle primarie, e vorrebbe dal governo un’attenzione speciale per Milano anche per il post-Expo. Soprattutto il fatto che il suo nome spacca il “modello Milano”, cioè quella base sociale e politica ampia, dall’associazionismo cattolico ai centri sociali, compresi Pd, Sel e cespugli della sinistra radicale, che è la ragione del successo di Pisapia. «Sala è una candidatura che divide – è il ritornello che il sindaco ripete da giorni – e non ho ancora 33 capito quale sia la coalizione che lo appoggerà ». Lo hanno capito la sinistra Pd e Sel, per i quali «Sala è la prima incarnazione del renziano Partito della Nazione». Un’idea alla quale certamente contribuiscono gli apprezzamenti per il manager dell’Expo generosamente spesi dagli esponenti del Ncd e il fatto che Sala abbia incontrato neppure troppo riservatamente Maurizio Lupi. Vista dal punto di osservazione di Sala, la candidatura a sindaco «non l’ho mai sognata, né cercata. Mi è stata proposta, ripetutamente. Ho sempre risposto – ha detto il manager milanese – che se la politica è in grado di esprimere una soluzione, a questa va data la priorità. Ora, dopo tutto quello che ho fatto per questa città mi si dice che il mio nome è “divisivo”. E io ripeto che se esiste una candidatura unitaria, è la benvenuta». Di più: «Se si cerca una candidatura che unisca, perché Pisapia non si ricandida?». Una provocazione, voluta, che ha fatto definitivamente calare il gelo nei rapporti tra sindaco e commissario. E che segna senza possibilità di equivoco il fastidio di Sala per gli ondeggiamenti del sindaco: prima l’annuncio della rinuncia al secondo mandato, otto mesi di silenzio, poi l’improvviso ritorno al tavolo nel ruolo di colui che distribuisce le carte. «Di una cosa sono convinto - ha detto ieri sera Sala ricevendo il premio dell’Ispi - che il valore e la linfa di questa città sono molto legati al cambiamento. Cambiando, innovando, si ottiene qualcosa di più». Un modo per ripetere, in parole più eleganti, un concetto già espresso qualche giorno fa: «Io non sono Pisapia». È in questo quadro di tensioni che nasce e cresce il “piano B”, cioè la ricerca di una convergenza tra Pisapia e il Pd sul nome del vicesindaco Francesca Balzani, Pd ma non renziana, ex europarlamentare, buone sponde nel partito (il ministro Orlando e la vicesegretaria Serracchiani), accreditata di sensibilità politica, prudenza e capacità di piacere a tutti. Balzani è disponibile, a patto che la sua candidatura non sia contrapposta a quella di Sala e che, anzi, sia condivisa dall’intero centrosinistra. Ieri si è incontrata con Majorino: prime schermaglie, nessuno dei due si è scoperto, la sensazione è che il ticket si possa fare. Ma c’è un “ma” grande come una casa. Francesca Balzani ha un evidente deficit di notorietà, a Milano e soprattutto fuori Milano. E Matteo Renzi, a Milano, non può rischiare di perdere. Si torna al punto di partenza: il premier e Pisapia si parleranno presto. Il sindaco gli spiegherà perché sul nome della Balzani si può tenere unito il centrosinistra e si può provare, con il tempo, a costruire una candidatura vincente. Renzi gli risponderà che ha già tanti problemi altrove, che Sala ha molte più chances della Balzani (i suoi uomini, ieri, l’hanno ripetuto a chiare lettere al segretario del Pd milanese in missione a Roma) e che Sala ha il profilo internazionale che serve a Milano. Se non troveranno l’intesa su uno dei due nomi – intesa a oggi non semplice – è possibile, anzi probabile, che Renzi torni alla carica con Pisapia, ripetendogli ciò che gli ha già chiesto a metà luglio: «Ricandidati ». In fondo, quello del sindaco in carica è l’unico nome che metterebbe tutti d’accordo e, in una frazione di secondo, spazzerebbe dal tavolo dubbi, polemiche e perfino l’incombenza delle primarie. Fin qui Pisapia ha sempre detto no. Ma non ha mai detto «mai». Con chi ha insistito, in questi mesi, ha lasciato uno spiraglio: «Se tutto dovesse implodere…» 34 LEGALITA’DEMOCRATICA del 27/11/15, pag. 1/18 Niente più gossip nelle intercettazioni La Procura di Roma gioca d’anticipo sul governo: spariscono i dialoghi irrilevanti Basta sconfinamenti o usi impropri delle conversazioni, in particolare quelle che riguardano persone non indagate o comunque estranee ai procedimenti penali. La Procura di Roma decide di delimitare il campo delle registrazioni da inserire nelle carte giudiziarie, destinate a diventare di pubblico dominio. E lo fa giocando d’anticipo sul governo, che ha in programma una riforma delle intercettazioni. ROMA La Procura di Roma gioca d’anticipo, e prima che il governo metta mano alla riforma delle intercettazioni delimita il campo delle registrazioni da inserire nelle carte giudiziarie, destinate a diventare di pubblico dominio. Con l’obiettivo di evitare sconfinamenti o usi impropri delle conversazioni, in particolare quelle che riguardano persone non indagate o comunque estranee ai procedimenti penali; ma anche di salvaguardare «un insostituibile strumento di indagine e di ricerca della prova», che rischierebbe di essere intaccato da interventi legislativi improvvisati o poco meditati. Messaggio alla politica In questa chiave la circolare con cui il capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone detta nuove regole a polizia giudiziaria e sostituti procuratori può essere letta anche come un messaggio indiretto alla politica: la legge attuale è già sufficiente a impedire abusi, e se proprio bisogna intervenire con nuove norme si può tenere conto di questa sorta di «autoriforma» introdotta nella Capitale. Il «criterio inevitabilmente elastico» per valutare il materiale raccolto con le micropsie, scrive Pignatone nel documento inviato ieri ai suoi sostituti e ai vertici degli uffici investigativi, «dovrà essere ragionevolmente declinato» attraverso un «principio guida» così riassunto: «La polizia giudiziaria e il pubblico ministero eviteranno di inserire nelle note informative, nelle richieste e nei provvedimenti, il contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti rispetto ai fatti oggetto di indagine». Con una «speciale cautela» verso tre aspetti: i «dati sensibili» che riguardano le opinioni politiche o religiose, la sfera sessuale e le condizioni di salute; i «dati personali» di persone non inquisite e intercettate indirettamente sui telefoni o negli ambienti frequentati dagli indagati; le conversazioni casualmente registrate con «soggetti estranei ai fatti d’indagine». I fatti «pertinenti» In questi casi, quando «non vi sia un’evidente rilevanza ai fini della prova», l’investigatore che ascolta e compila i cosiddetti «brogliacci» con la sintesi delle conversazioni intercettate «dovrà astenersi da verbalizzare il contenuto della conversazione, rivolgendosi al pm nelle ipotesi dubbie». Questo perché la «rilevanza» delle intercettazioni, e la conseguente «pertinenza» con l’indagine, non può limitarsi alla sola imputazione, ma si espande — come stabilito dalla corte di Cassazione — ai fatti «pertinenti e utili» a ricostruire un’ipotesi di accusa necessariamente «fluida» (soprattutto all’inizio dell’inchiesta) nonché «i contesti nei quali sono stati commessi i fatti oggetto d’indagine». Consapevole di avere a che fare con uno strumento «particolarmente delicato poiché incide sul bene costituzionale della riservatezza delle comunicazioni», come riconosciuto dalla Consulta, il procuratore cerca così di trovare «il giusto equilibrio» tra l’esigenza di tutelare quel diritto e la necessità di procedere «all’accertamento delle responsabilità». 35 Provando a risolvere alla fonte, in questo modo, il problema della pubblicazione degli atti processuali, non più segreti e infarciti di intercettazioni. Diritto di difesa Proprio per evitare la divulgazione di materiale non trascritto perché irrilevante ai fini processuali, destinato alla distruzione, Pignatone ha impartito nuove regole per il rilascio agli avvocati dei file audio (una volta erano le bobine) con le registrazioni integrali, cioè di tutte le conversazioni. Tentando di conciliare, ancora una volta, privacy e diritto di difesa. Dopo gli arresti gli avvocati potranno avere copia di quelle utilizzate dal giudice nel suo provvedimento. A fine indagine, invece, potranno ascoltare tutto (anche le parti giudicate non utili dagli inquirenti) ma per duplicarle e ottenere le copie dovranno attendere la decisione del giudice nell’udienza-filtro o in dibattimento, dopo averne fatto motivata richiesta. A sostegno di queste «linee guida», il procuratore di Roma cita due sentenze della Cassazione e la recente ordinanza (contestata dagli avvocati) del tribunale di Roma nel processo a «Mafia Capitale». Giovanni Bianconi 36 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 27/11/15, pag. 10 L’INVERNO SOFFIA SUI PROFUGHI DALLA NOSTRA INVIATA SENTILJ (Slovenia) Mancano scarpe. Nel tendone della protezione civile slovena che ordinatamente raccoglie e smista quintali di vestiti usati, nel campo profughi di Sentilj, c’è una cronica penuria di calzature, specie maschili, in particolare dal 39 in su. «Le consumano», spiega Ann, volontaria. Alla fine della rotta balcanica, a un passo dalla Mitteleuropa, arrivano coi tacchi logori, le suole rotte, le tomaie scucite: «Da buttare». Riad Ali ha camminato almeno due ore sotto la pioggia battente al confine tra Macedonia e Serbia: «Pochi chilometri, ma eravamo tutti bagnati, i bambini piangevano, e dovevamo andare piano per gli anziani». Reporter, ha girato un ultimo servizio per un’emittente di Dubai nella sua Afrin, a nord di Aleppo, quindi ha raggiunto moglie e figlia in Turchia e con loro si è messo in viaggio. In gommone fino all’isola di Kos, in traghetto ad Atene. Alla frontiera tra Grecia e Macedonia, meno di una settimana fa, Riad ha assistito alla «selezione» dei rifugiati: «Gli iraniani non li facevano passare». Nemmeno pachistani, né bengalesi. Le organizzazioni internazionali segnalano che a Idomeni ci sono mille persone bloccate. L’ultima novità di questa marcia-roulette: chi è individuato come «migrante economico» non procede. Filtrano solo siriani, iracheni e afghani: al confine tra Slovenia e Austria sono gli unici che riescono ad arrivare. Più o meno velocemente. I Paesi balcanici cercano di accelerare il transito (e «spostare» il problema più a nord). Ogni tanto compare del filo spinato, una transenna, un tentativo di blocco, ma in linea di massima il flusso scorre. Il rallentamento comincia qui, in Stiria, tra gli affluenti del Danubio. L’inchiesta sui terroristi di Parigi ha indicato che l’Austria è stata un passaggio facile, fin troppo, e ora le registrazioni richiedono tempi più lunghi. A ridosso del vecchio valico di Sentilj, allora, ci sono centinaia di persone in fila, e altrettante che attendono la chiamata della polizia. Coperte sulle spalle, accendono fuochi di sterpi e rifiuti per il freddo che ormai è andato sotto zero. La preoccupazione principale dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, è in questa terra che gli stessi funzionari chiamano «di nessuno». I profughi, così vicini alla meta, spiega il portavoce per l’Europa centrale Babar Baloch, restano il minor tempo possibile nel campo attrezzato e riscaldato, mezzo chilometro indietro, e si spingono tutti nella «no man’s land» a pochi metri dall’Austria. Per la precisione, il prato brullo oltre la grata arrugginita e piegata dove un ragazzo afghano s’aggira per raccogliere rami da bruciare è già Austria. Da un decennio, da quando la Slovenia è entrata nell’Unione europea e in Schengen, questo vecchio pezzo di impero austroungarico s’è ricomposto, e il passaggio — in particolare dei lavoratori da Maribor a Graz — è cospicuo e quotidiano. Ma far defluire 200 mila profughi in meno di due mesi in un unico punto non è impresa facile nemmeno per i diligenti sloveni. Autobus e treni li vanno a prendere al confine con la Croazia, con una fermata speciale a Sentilj. Dello smistamento si occupano militari e poliziotti: lo sforzo è notevole, gli agenti sono reduci da uno sciopero. La protezione civile gestisce l’accampamento. E anche per il funzionario Rudolf Golob la preoccupazione è il freddo. «Abbiamo avuto un ottobre splendido e fino a poco fa era bello — osserva —. Da ora in poi le temperature saranno negative». Il rumore dei generatori è costante, stufe-fungo spuntano a ogni angolo, le coperte grigie e ispide dell’Unhcr vanno subito in lavanderia, pronte per i turnover sulle brande. Sono arrivati gli aiuti del governo svizzero, nei magazzini ci sono provviste 37 francesi, e le mele che sarebbero state destinate all’esportazione verso la Russia dopo la crisi ucraina sono state dirottate qui a tonnellate. I vestiti arrivano dai punti di raccolta sparsi per il Paese. Scarpe, ma servono anche giubbotti pesanti, berretti, sciarpe e pantaloncini per bambini: «Si son fatti tutti la pipì addosso durante almeno una tappa del viaggio», spiega un’altra volontaria, Tatiana. Il cambio d’abiti serve allora per pulirsi e per imbottirsi, perché dove vanno, tra Germania e Svezia, non farà meno freddo. All’ingresso del tendone-armadio, Mahmoud indica un cappotto che pare abbastanza pesante. Artigiano siriano, non c’è dubbio che sia in fuga: viene da Raqqa, la capitale dell’Isis. «Bombe, distruzione» scuote la testa, si fa capire un po’ in inglese, un po’ a gesti. Nemmeno i serbi scherzano, vuole dire, indica di essere stato picchiato. Al bancone il volontario gli ricorda che è il suo turno. E lui per concludere chiede scarpe: «Numero 43». Alessandra Coppola 38 WELFARE E SOCIETA’ del 27/11/15, pag. 17 Rapporto Oasi 2015. Allarme del Cergas Bocconi: i segnali di riduzione dei servizi e delle prestazioni sono «forti e pesanti» Sanità pubblica vittima dei tagli Lo stato patrimoniale delle aziende sanitarie presenta debiti miliardari Viviamo mediamente di più (82,9 anni) ma l’8% di noi rinuncia alle cure perché costano troppo. Spendiamo 33 miliardi di tasca nostra per la salute e dalla riabilitazione alle visite e gli accertamenti specialistici i costi “out of pocket” sono la maggioranza e solo le cure in ospedale sono quasi sempre gratis. Abbiamo ridotto del 40% asl e ospedali-azienda e dal 1990 tagliato ben 130mila posti letto, ma curarsi fuori dall’ospedale è quasi impossibile da Roma in giù. Da tre anni i bilanci e il conto economico sono addirittura in attivo, ma lo stato patrimoniale delle aziende sanitarie è un disastro con debiti miliardari nascosti a partire dalle regioni sotto piano di rientro che riguardano ormai quasi metà degli italiani. E gli investimenti restano una chimera. Parola della Bocconi: una cosa e il suo opposto, una specie di Giano bifronte, la sanità pubblica italiana. Con la palla al piede di un Sud che arranca e i suoi pazienti che pagano un doppio svantaggio di cure che mancano e di costi in più. E questo, nonostante gli sforzi di questi anni, i tagli a colpi d’accetta che continuano a lasciarci un sistema che è una grande incompiuta. Ecco il check più aggiornato della sanità pubblica italiana. Il quadro che esce dal «Rapporto Oasi 2015» curato dall’intero staff del Cergas Bocconi, che sarà presentato oggi a Milano, parla chiaro. Tra ombre che si stagliano nette, ma anche segni eloquenti di miglioramento. Che però non bastano mai, anzi. E un giudizio che emerge dal rapporto, di cui è responsabile scientifico il professor Francesco Longo: poiché il 35% del Fondo sanitario è esternalizzato con prestazioni acquistate dai privati, è più facile tagliare in sanità, colpendo proprio i trasferimenti alle "terze economie", che toccare altrove nella spesa pubblica. Insomma, si colpiscono i privati e intanto si abbassa l’asticella delle prestazioni. Col risultato, però, che tra un colpo d’accetta e l’altro di margini per altri interventi per risparmiare non ce ne sono più così tanti. Certo, c’è ancora da razionalizzare e da colpire tra sprechi e inefficenze. Ma fino a un certo punto. Perché i segnali di riduzione dei servizi e delle prestazioni sono appunto forti e pesanti. Col management che intanto deve operare sul fronte e che non sempre ha armi e mezzi anche legislativi giusti per poter sempre incidere dove serve. Anche se poi, si fa rilevare, nell’opinione pubblica il «messaggio» della lotta alle inefficenze prevale «sul tema dell’equità». A conferma, scrivono gli autori del rapporto del Cergas Bocconi, «che le attuali policy stanno godendo di una narrativa politica favorevole ed efficace». Una «narrativa», appunto, non sempre la realtà dei fatti. Una realtà che racconta come la spesa sanitaria pubblica tra il 2009 e il 2014 ha registrato una crescita media annua dello 0,7%, ribaltando il +6% annuo del quinquennio precedente. Frutto dei tagli e dei mancati aumenti dopo l’esplosione della grande crisi. Da tre anni l’equilibrio di bilancio complessivo sta reggendo, c’è stata una «robusta» capacità di risposta alle misure messe in cantiere, con i manager diventati «esecutori materiali» sul campo delle manovre. Mai però a costo zero per gli italiani. Soprattutto nelle regioni sotto tutela, che hanno potuto mostrare conti apparentemente in rosa grazie alle super addizionali e ai ticket. Mentre è cresciuta la spesa dei cittadini. Con un livello di qualità e quantità dei servizi che non raramente «è stato intaccato». E con risultati patrimoniali che 39 segnano rosso profondo, sempre al Sud, sempre dove i conti non tornano. A dispetto dei trend di salute, di aspettativa di vita, di crescita del sistema. Un ginepraio. Per uscire dal quale il Cergas Bocconi presenta una ricetta in dieci punti: tagliare i reparti che hanno poca attività, ridurre gli ospedali a partire dalla trasformazione di quelli piccoli, accorpare le aziende e ridisegnarne la geografia, dare una missione specifiche a quello con budget che supera 1 mld di euro, ridefinire accesso ed erogazione dei servizi in base alla "tipologia" dei pazienti. Ma anche fare trasparenza nei criteri di accettazione dell’innovazione farmaceutica senza barriere regionali, spingere sull’Hta e sui sistemi informativi. Poi due jolly non facili: integrare meglio col Ssn quei 33 miliardi l’anno di spesa privata e attuare un mix di politiche per il personale per affrontare la mancanza di medici e il loro invecchiamento o il burn out che esplode. Magari, perché no, di riflesso per dare più opportunità ai giovani. Roberto Turno del 27/11/15, pag. 11 Aids, in 10 anni niente passi avanti Mai così tanti casi in Europa L’Istituto Superiore della Sanità: i giovani continuano a non essere informati Roberto Giovannini Non ci sono molte altre spiegazioni: appena si è abbassato la guardia, appena dai social e dai mezzi d’informazione si è smesso di parlare di Aids e HIV, appena è sembrato inutile preoccuparsi di contrarre il virus, la malattia è tornata a diffondersi. Dal 2005 a oggi, segnalano l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e il Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), il numero di nuove diagnosi in Europa è aumentato continuamente. E ora ha toccato un livello mai visto neanche negli Anni ’80: il sistema di sorveglianza ha registrato per lo scorso anno 142mila nuove infezioni nei 53 paesi della regione europea dell’Oms, di cui circa 30mila nella sola Unione Europea. Nuove diagnosi Si tratta della cifra di malati più alta mai visto da quando è iniziato il conteggio. E a poco serve pensare che grazie ai sempre più efficaci farmaci disponibili si può convivere con il virus. «Dal 2005 le nuove diagnosi sono più che raddoppiate in alcuni paesi Ue, e diminuite del 25% in altri - sottolinea Andrea Ammon, direttore dell’Ecdc - ma complessivamente l’epidemia non vede grandi cambiamenti. Questo testimonia che la risposta al virus non è stata efficace nell’ultimo decennio». Secondo il rapporto sono in aumento le nuove infezioni legate a rapporti omosessuali non protetti: erano il 30% nel 2005 mentre ora sono il 42%. Quelle connesse a rapporti eterosessuali sono circa il 32%. Marginale invece l’apporto di nuove infezioni da parte di tossicodipendenti che usano droghe iniettabili, appena il 4,1%. L’11% delle infezioni avviene nella fascia tra i 15 e i 24 anni e il tasso tra gli uomini è 3,3 volte superiore a quello registrato tra le donne. «L’Europa - afferma Ammon - deve aumentare gli sforzi per raggiungere il gruppo degli omosessuali, anche valutando le nuove forme di intervento come la profilassi preesposizione». È la «prep», ovvero l’assunzione di farmaci preventiva alla possibile infezione: una tecnica che ridurrebbe del 90% il rischio di contrarre l’HIV tramite rapporti sessuali, e del 70% in chi si inietta droga, ricorda uno studio del Center for disease control 40 (Cdc) di Atlanta. Ma che non è molto conosciuta neppure dai medici statunitensi, tanto che oltre un terzo non ne ha mai sentito parlare. Lo scenario Purtroppo in questo scenario europeo allarmante l’Italia non fa eccezione, come segnalano sia i dati dell’Istituto Superiore di Sanità che quelli dell’associazione dei microbiologi italiani (Amcli). Sono soprattutto i giovani tra i 25 e i 29 anni i bersagli preferiti dal virus dell’HIV nel nostro paese, afferma il Centro Operativo Aids dell’Iss. E incredibilmente, nonostante anni di campagne informative, nell’84% dei casi il contagio avviene attraverso rapporti sessuali senza preservativo, che avvengono nel 40% casi tra omosessuali maschi. Il mancato calo delle nuove diagnosi, unito comunque alla bontà delle cure per chi scopre di avere un’infezione, fa sì che nel nostro paese ci siano 140mila sieropositivi, il numero più alto d’Europa. Secondo i dati dei microbiologi, addirittura un quarto delle persone infette in Italia non è consapevole di avere contratto l’infezione. 41 BENI COMUNI/AMBIENTE del 27/11/15, pag. 5 L’appello del papa verde Nairobi, l'attesa di papa Francesco Rita Plantera «Ci troviamo davanti a un grande dovere politico ed economico di ripensare e correggere le disfunzioni e le distorsioni dell’attuale modello di sviluppo». «Tra pochi giorni si terrà a Parigi un’importante conferenza sui cambiamenti climatici. In questo contesto internazionale ci troviamo di fronte a una scelta che non può essere ignorata: o migliorare o distruggere l’ambiente». Arriva dalla sede di Nairobi del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (United Nations Environment Programme — Unep) il monito del Papa ed è rivolto ai rappresentanti di 190 Paesi e 147 tra premier e capi di Stato che da lunedì faranno tavola rotonda alla Conferenza sul clima, la ventunesima Conference of the Parties sotto l’egida delle Nazioni Unite (COP21) ospitata da una Parigi ferita e ancora sotto shock dopo gli attentati del 13 novembre scorso. Sarebbe «catastrofico», ha continuato Francesco (invitando l’intera comunità internazionale ad ascoltare «il grido che sale dall’umanità e dalla terra stessa») in un lungo discorso in spagnolo, se gli interessi particolari dovessero prevalere sul bene comune delle persone e del pianeta o se la conferenza fosse manipolata da interessi di mercato. Forte e chiara la sua richiesta di intervento contro il bracconaggio e lo sfruttamento illegale delle risorse minerarie in Africa, così come di «un nuovo sistema energetico» con la riduzione dei combustibili fossili al minimo. La giornata del Pontefice in Kenya è iniziata ieri mattina con l’incontro di 25 capi religiosi, dai musulmani agli animisti, prima della messa all’aperto sotto la pioggia battente per decine di migliaia di persone provenienti oltreché dal Kenya, dalla Repubblica Democratica del Congo, dal Rwanda, Burundi e Tanzania. Il traffico illegale di avorio e diamanti — ha messo in guardia Francesco durante l’omelia — alimenta i conflitti, «la criminalità organizzata e il terrorismo» in un continente sotto il tiro continuo dei gruppi integralisti. E a questo riguardo non è mancato il ricordo degli attentati in Kenya di aprile scorso per mano del gruppo fondamentalista somalo Al-Shabaab al Garissa University College (147 gli studenti uccisi) e del settembre 2013 al Westgate Shopping Mall di Nairobi (circa 69 i morti). Così come non è mancato l’invito a creare una società «giusta» e «inclusiva» e a «resistere alle pratiche che favoriscono l’arroganza negli uomini» in una nazione — il Kenya — scossa da scandali di corruzione (gli ultimi dei quali hanno portato pochi giorni fa a un rimpasto di governo). Oggi il papa è atteso in Uganda, un altro Paese afflitto dalla corruzione oltreché dalla minaccia terroristica degli Al-Shabaab (si ricordi nel 2010, in occasione dei mondiali di calcio, l’attentato a Kampala, 79 le vittime) “punito” come il Kenya dai jihadisti per avere invaso la Somalia. L’Uganda è anche un Paese molto conservatore dove grande è l’aspettativa nei confronti di Francesco da parte dei gruppi Lgbt che facendo leva sul suo messaggio pastorale più aperto e inclusivo gli hanno rivolto l’appello affinché denunci l’omofobia e porti un messaggio di tolleranza verso una minoranza che soffre forti persecuzioni nella vita quotidiana e nelle aule dei tribunali. 42 Nell’agosto 2014, sei mesi dopo (nel febbraio) la sua approvazione, la Corte Costituzionale ha annullato per irregolarità tecniche (in Parlamento non era stato raggiunto il quorum per procedere alla votazione) una legge draconiana contro le relazioni omosessuali. La legge, che prevede gravi pene detentive tra cui anche il carcere a vita (e che, criminalizzando gruppi ad alto rischio di contagio Hiv come uomini gay, prostitute e transgender, minaccia i progressi nello sforzo globale per combattere l’Aids) gode però di un ampio sostegno popolare in un Paese conservatore come l’Uganda. Nonostante la legge si stata annullata, il Parlamento non ha rinunciato a lavorare a una nuova proposta omofobica. Il Presidente Yoweri Museveni, 71 anni, al potere dal dal 1986, ci si aspetta resterà in carica per un altro mandato di 5 anni nonostante le forti e diffuse critiche di autoritarismo e di incapacità di sradicare un sistema politico corrotto che gli vengono mosse. Dalla sua parte c’è il fatto che sia stato capace di sviluppare una forte crescita economica e una certa stabilità politica dopo anni di turbolenze. I suoi oppositori lo accusano di volere mantenere la carica a vita finché non passerà il testimone al figlio, Kainerugaba Muhoozi, un brigadiere dell’esercito. Recentemente infatti la commissione elettorale ugandese ha approvato la sua candidatura (e quindi il suo tentativo di estendere i suoi tre decenni in carica) alle presidenziali del 2016. del 27/11/15, pag. 13 L’intervista Naomi Klein «Ma gli attacchi possono favorire un patto al ribasso al vertice di Parigi» Maurizio Caprara «C’è il rischio che il terrorismo danneggi la capacità della società civile di far ascoltare la propria voce, di far sentire la propria pressione sui leader che si riuniranno nella conferenza di Parigi sul clima», afferma Naomi Klein. La saggista canadese autrice di libri con vendite superiori al milione di copie lo dice al Corriere mentre si trova nella capitale della Francia ferita dalle stragi compiute da integralisti islamici, la stessa città che da domenica prossima all’11 dicembre ospiterà l’incontro mondiale chiamato Cop21 che verrà raggiunto all’inizio dei lavori da 147 tra capi di Stato e di governo. Nei giorni della conferenza la donna diventata famosa con il volume No logo parteciperà a una proiezione di This changes everything , Questo cambia tutto, film-documentario che dal 2 dicembre si potrà vedere in 52 cinema italiani. Girato dal marito Avi Lewis, è un viaggio per immagini in varie parti del mondo ispirato dal libro di Naomi Klein che all’estero ha per sottotitolo Il capitalismo contro il clima . In Italia, stampato da Rcs libri, si intitola Una rivoluzione ci salverà – Perché il capitalismo non è sostenibile . Pagine e sequenze hanno in comune, in sostanza, una tesi: la prospettiva delle catastrofi possibili con il surriscaldamento del pianeta può consigliare al mondo di rinunciare alle energie inquinanti, di ricorrere soltanto alle fonti rinnovabili, di ridisegnare il sistema economico prevalente riducendo le disuguaglianze sociali. Dunque quale impatto prevede che avranno sulla conferenza di Parigi le incursioni sanguinose del 13 novembre? 43 «Di preciso non sappiamo quali saranno. Però so questo: stanno avendo un effetto sulla capacità della società civile di far ascoltare la propria voce. Molte proteste sono state vietate». A consentirlo è lo stato d’emergenza dichiarato in Francia. Il governo ha proibito le marce sul cambiamento climatico previste per domenica e il 12 dicembre. Da presidente della conferenza, Laurent Fabius ha sottolineato che tanti incontri pubblici saranno confermati. «Mi pare dicano che le manifestazioni all’aperto saranno vietate. Si svolgeranno incontri, concerti. Riguardo al summit, le questioni non ancora decise sono molte: se le sue decisioni saranno legalmente vincolanti e a quanto ammonteranno i finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo, per esempio, sono punti tuttora oggetto di negoziato. La possibilità di esercitare piena pressione sui leader è diminuita». Pensa che questo ulteriore danno sia stato già prodotto dagli attentati costati la vita a 130 persone? «Penso che un danno ci sia già. Temo che se venisse stretto un cattivo accordo i Paesi in via di sviluppo avrebbero meno spazio per criticare l’intesa senza essere visti come traditori della solidarietà alla Francia. Le due questioni invece andrebbero tenute distinte. I nostri leader prendono le loro decisioni migliori quando avvertono una pressione dei movimenti sociali e se è in gioco un accordo forte vengono messi sotto pressione da grandi compagnie con molti soldi». Quali? «Le aziende dei combustibili fossili hanno pieno accesso ai politici che saranno alla conferenza. Imprese inquinanti lo sponsorizzano. La società civile, che non ha danaro, è frenata. La voce degli affari no, perché quelli non portano alle piazze: portano ai retrobottega. Il movimento non si arrenderà. Troverà le vie più creative per dire che l’accordo deve essere ambizioso e vincolante». Ad aprire una delle vie sarà lei? «Il nostro film diventa ancora più importante perché amplifica voci che potrebbero non essere ascoltate. A Parigi verranno le persone danneggiate da un’economia incurante dei limiti posti dalla natura che parlano nel documentario». In «This changes everything» lei sostiene: «La Grecia è aperta a ogni possibilità: a causa della crisi è possibile vendere il suolo, dalle miniere d’oro agli impianti di trivellazione e non solo. È lo stesso che sta accadendo in Spagna e Italia». Si riferisce, sull’Italia, a qualcosa in particolare ? «Come in Grecia, da voi c’è stata forte pressione per estrarre petrolio da sotto il mare, raddoppiarne la produzione. È l’esempio più drammatico, penso poi ai tagli a sostegni per le energie rinnovabili. Il calo del prezzo del greggio forse abbassa la pressione, l’obiettivo tuttavia era quello». Nel documentario lei descrive i dolori sofferti dai greci durante la crisi, ma non accenna alle colpe della classe politica greca che aveva innalzato la spesa pubblica improduttiva. Perché? «In Grecia a pagare il prezzo più alto della crisi non sono i politici: è la gente comune. Un documentario è fatto di brani brevi che non esauriscono tutto dei temi trattati. Comunque è vero che i sacrifici sono stati chiesti alla gente comune, e questo nel film si fa vedere». 44 INFORMAZIONE del 27/11/15, pag. 25 Rai, sì a Verdelli tre anni di tempo per la riforma news Definiti i poteri del responsabile editoriale Così cambierà l’informazione nella tv di Stato ALDO FONTANAROSA ROMA. Un solo voto contrario in Consiglio (quello di Arturo Diaconale). Tre anni di contratto. E poteri molto forti soprattutto sull’informazione giornalistica delle reti. Come Repubblica ha anticipato ieri, Carlo Verdelli è il nuovo “direttore editoriale della offerta informativa” della Rai. L’ex direttore della Gazzetta dello Sport e di Vanity Fair metterà ordine nella giungla dei talk show, dei programmi e delle rubriche della tv di Stato. E lo farà sia nelle giornate tranquille, ordinarie; sia quando il servizio pubblico fronteggerà eventi straordinari come quelli di Parigi. Questa è la sfida più vicina che attende Verdelli ed è anche la meno proibitiva. Il mandato di Verdelli si estende ai tele e radiogiornali, finanche ai siti. Dunque non è limitato alle sole reti. Ma la delibera di nomina del nuovo direttore editoriale - approvata ieri dal Cda Rai - precisa che «sono salve le prerogative e le facoltà garantite nel contratto» ai direttori giornalistici. Verdelli insomma dovrà misurarsi con l’autonomia dei responsabili di Tg1, Tg2, Tg3, RaiNews24 e di ogni altra testata del servizio pubblico. E la sua non sarà una passeggiata su questo secondo fronte, quando entreranno in gioco variabili tutte politiche. Rafforza Verdelli il fatto di operare alle dipendenze del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, che presto sarà il primo amministratore delegato della tv di Stato (appena la riforma della Rai sarà varata dal Parlamento). E non è banale che il direttore editoriale abbia l’ultima parola sul varo di «nuovi prodotti di informazione». Il sindacato dei giornalisti (l’Usigrai) tira un sospiro di sollievo perché la nomina di Verdelli a suo parere - segna l’abbandono del piano di aggregazione delle sei attuali testate giornalistiche in due sole Newsroom integrate. È il piano già approvato dal precedente Cda e dalla Commissione parlamentare di Vigilanza. Nello stesso tempo, l’Usigrai lamenta la nomina di un giornalista esterno che peraltro «non ha competenze radiotelevisive». Maurizio Gasparri (Forza Italia) denuncia la «privatizzazione strisciante » della tv pubblica, a furia di ingaggiare professionisti sul mercato. Mentre Renato Brunetta (ancora Forza Italia) si chiede come mai un’azienda che ha migliaia di dipendenti non trovi uno straccio di direttore editoriale al suo interno. Ieri la Rai ha scelto anche Pierpaolo Cotone (ex Bnl, Telecom, Alitalia) come responsabile dell’Ufficio Legale; e Luigi Coldagelli come capo Uffico stampa. Via libera infine all’appalto per ristrutturare il Centro Tv Nomentano. Per i due lotti, le due imprese vincitrici offrono un identico ribasso. 45 del 27/11/15, pag. 25 Molinari alla Stampa è il nuovo direttore per il dopo Calabresi ROMA. Maurizio Molinari è il nuovo direttore del quotidiano La Stampa. Prenderà il posto di Mario Calabresi, designato alla direzione di Repubblica, che lascerà il giornale di Torino il prossimo 31 dicembre. Il vicedirettore della Stampa, Massimo Russo, diventa condirettore. Massimo Gramellini, attualmente vicedirettore, assume l’incarico di direttore creativo di “Itedi”, «con il compito di promuovere progetti editoriali innovativi, anche multimediali, in aggiunta alla sua collaborazione con La Stampa ». Le nomine sono state decise dal cda di Itedi che si è riunito ieri a Torino. Il Consiglio - si legge in una nota - ha ringraziato Calabresi «per i risultati conseguiti e per l’impegno profuso negli oltre sei anni di direzione della testata, formulando i migliori auguri per la prosecuzione della sua carriera. Molinari assumerà l’incarico di direttore del giornale e di direttore Editoriale di Itedi». Seguono le altre designazioni: «Il talento e le capacità della nuova squadra di vertice - sottolinea Itedi costituiscono la migliore base per assicurare a La Stampa e al Secolo XIX un futuro di successo, unendo nuove energie all’autorevolezza di sempre, nell’interesse ultimo dei lettori». Soddisfazione è stata espressa dal presidente di Italiana Editrice, John Elkann: «La voglia di innovare e il gusto per la sfida rimarranno punti di riferimento irrinunciabili anche per la nuova squadra di direzione ». 46 CULTURA E SPETTACOLO del 27/11/15, pag. 1/6 Un bonus che aumenta le disuguaglianze Welfare. I 500 euro che Renzi darà ai 18enni andranno soprattutto alle classi medio-alte Marta Fana Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, promette un nuovo bonus, 500 euro per i 18enni, da spendere in attività culturali. Le obiezioni in merito non coincidono esclusivamente con la consueta strategia del consenso, iniziata dall’ormai nota vicenda del bonus 80 euro a pochi giorni dalle elezioni europee. No, le obiezioni riguardano la visione, gli obiettivi della politica economica di fronte a una realtà sempre più diseguale. Innanzitutto, come per gli sgravi sul costo del lavoro a pioggia, confermati con modifiche nella nuova legge di Stabilità oggi alla Camera per l’approvazione, un bonus indiscriminato ha il potere di aumentare le disuguaglianze tra i diciottenni. In Italia, ma non solo, il background familiare è determinante per le scelte scolastiche, lavorative, di status. Banalmente, i ragazzi che hanno in casa libri, leggono più di quelli che in casa non hanno libri. Lo stesso vale per le altre attività culturali. Chi saranno dunque quelli che potranno beneficiare di questo bonus? Soprattutto i figli delle cosiddette classi medio-alte, cioè chi al cinema o a teatro andrebbe lo stesso. In questo senso, il bonus non è altro che un trasferimento indiretto a chi ne ha meno bisogno, a chi può già permetterselo o comunque lo farebbe. Non viene quindi aggredita quella parte di deprivazione materiale legata al consumo di beni culturali, che si traduce in conoscenza e cultura. Ma se da un lato le disuguaglianze tra chi sta in alto e chi sta in basso tenderanno ad aumentare, dall’altro, aumenteranno anche le disparità orizzontali, cioè tra coloro che, seppure mediamente nella stessa condizione economica, vivono in territori differenti con dotazioni infrastrutturali e culturali differenti. Davvero si crede che un diciottenne di Catanzaro abbia le stesse possibilità di un suo coetaneo che vive a Roma o a Napoli, pur appartenendo a una famiglia ugualmente agiata e con gli stessi 500 euro in tasca? Quanto tempo (e soldi) impiega il primo a raggiungere un’altra città in cui esiste almeno un museo? Disuguaglianze che aumentano oggi e che saranno determinanti nel futuro di questa generazione. E poi c’è la visione d’insieme, quell’organicità che manca al governo schiacciato dal bisogno di raggiungere un ampio consenso effimero, che lo tenga a galla nel breve periodo al fine di poter perseverare i propri ambiziosi obiettivi di potere di lungo periodo. Questo tipo di politiche infatti rivela il disconoscimento da parte del governo, ma forse soprattutto del Premier e dei suoi consiglieri, della condizione in cui versa il settore della cultura in Italia, la sua reale diffusione sul territorio, vessati costantemente dalle politiche di austerità, prima ancora che l’austerità diventasse moda irrinunciabile, e dall’affarismo sempre legato al cerchio magico (basti ricordare come il teatro Smeraldo di Milano sia diventato una filiale del regno di Eataly). Chi decide oggi in Italia cosa è cultura e cosa non lo sia. Abbiamo il diritto di rivendicare che fa parte della cultura una serata di musica in un centro sociale occupato?! Infine, l’atteggiamento mediocre, ma pur sempre interessato, evidenzia un disinteresse sostanziale per questi giovani pronti alla maturità. Chi dovrà guidare questi ragazzi alla scoperta delle opere storiche di un museo, di un giardino, di una tela del Cinquecento? Pensiamo davvero che la trasmissione della cultura avvenga così in via del tutto 47 automatica, considerando anche i tagli all’educazione in cultura o semplicemente in storia dell’arte? A volte vien francamente da chiedersi se Matteo Renzi con il suo fare improvvisato non voglia soltanto distogliere la nostra attenzione dai nodi nevralgici della Legge di Stabilità, usando sempre la stessa strategia: far credere che siano tutti uguali, adottando un approccio trasversale che appunto non farà altro che inasprire le distanze in una realtà già frantumata. del 27/11/15, pag. 13 (Roma) Per amore dei libri, 350 editori in fiera Dal 4 all’8 dicembre al Palacongressi dell’Eur la kermesse giunta alla quattordicesima edizione Tra i tanti ospiti Bernard Guetta, Andrea Camilleri, Annie Ernaux, Paolo Poli, Zerocalcare Il giornalista francese Bernard Guetta, esperto di politica internazionale, che affronta il tema: «Stato islamico: l’Europa è in guerra?». Il sociologo Marc Lazar che parla di «Italia e Francia, due democrazie in crisi. Quali rimedi?». Il pluripremiato giornalista tedesco Wolfgang Bauer, che racconta in presa diretta l’odissea condivisa, sotto mentite spoglie, con un gruppo di profughi siriani salpati su un barcone dall’Egitto e diretti verso le coste italiane con il sogno di proseguire verso il nord Europa. Il camerunense Yvan Sagnet, classe 1985, nel 2011 leader di uno sciopero dei braccianti in Italia, che racconta le difficoltà dell’integrazione. Sono i temi di più scottante attualità che verranno affrontati a «Più libri più liberi», la fiera della piccola e media editoria che si terrà da venerdì 4 fino all’8 dicembre nella consueta sede del Palazzo dei Congressi dell’Eur. Giunta alla quattordicesima edizione, prevede la presenza di 350 marchi editoriali, 330 tra incontri, conferenze, tavole rotonde, reading, spettacoli e laboratori, un migliaio di autori ospiti che per cinque giorni accoglieranno i cinquantamila visitatori «su cui ormai la Fiera si è attestata», come ha dichiarato l’assessore regionale alla cultura Lidia Ravera. Tra le iniziative della regione Lazio, che per cinque giorni ospiterà nel suo stand incontri e conferenze, anche l’omaggio a Khaled al-Asaad, direttore del sito archeologico di Palmira assassinato dall’Isis per aver cercato di salvare il patrimonio archeologico dell’antica città. Si parlerà dei problemi dei rifugiati e delle migrazioni, ma anche dell’arte di raccontare attraverso i fumetti e il cinema. Ci saranno il ricordo di Pier Paolo Pasolini, il filone sempre vivace del noir, la riflessione sui giovani e l’introspezione. E ancora: le nuove narrazioni degli YouTubers , etichetta con cui vengono identificati gli autori di video che caricano poi i loro lavori su YouTube. Alcuni sono teenager che parlano ai loro coetanei. Altri, nella fascia tra i 25 e 35 anni, propongono sperimentali intrecci tra l’immediatezza tipica di Internet e i linguaggi classici del cinema, dell’informazione, della serialità televisiva. E poi attori, giornalisti, politici, intellettuali, scienziati e, ovviamente, scrittori che incontreranno il pubblico e si confronteranno sui grandi temi della letteratura e della fiction, ma anche dell’attualità. Ci saranno star del fumetto come Zerocalcare, e dell’arte, come Vittorio Sgarbi e Tullio Pericoli. Si parlerà anche di come lavorano i piccoli editori: agguerriti, pronti ad affrontare i nuovi scenari dell’editoria italiana interpretando un ruolo d’avanguardia, setacciando i mercati nazionali e internazionali, esplorando nuove nicchie di mercato prima dei grandi, scoprendo i best-seller, le tendenze, gli autori e le letterature di domani. Un lavoro di 48 scouting particolarmente prezioso in un’epoca segnata da radicali trasformazioni: le megafusioni industriali, la crisi di vendite nella grande distribuzione, il boom dell’ecommerce, il rilancio delle librerie indipendenti. L’8 dicembre verrà affrontato uno dei temi più discussi in questo momento: la fusione tra Mondadori e Rizzoli. C’è chi pensa che il nuovo megagruppo aumenti la fragilità della piccola e media editoria e chi invece prevede la riscossa dei piccoli che fanno libri con passione. Tra gli autori più attesi, Andrea Camilleri, che incontrerà il pubblico il 6 dicembre. E Annie Ernaux, una delle voci più autorevoli del panorama culturale francese e già considerata un classico, che arriva in fiera con il suo capolavoro, «Gli anni» (edito da L’Orma), narrazione collettiva di un’epoca che va dal primo dopoguerra alla tragedia dell’undici settembre. E poi Merritt Tierce, premiata nel 2013 dalla National Book Foundation come uno dei cinque migliori scrittori americani sotto i trentacinque anni. Erri De Luca, protagonista delle recenti cronache giudiziarie, proporrà un discorso sulla libertà di parola: «Le parole non si processano, si liberano». Paolo Poli leggerà pagine dei «Promessi Sposi» e Ascanio Celestini quelle della «Freccia azzurra» di Gianni Rodari. Altri scrittori, come Niccolò Ammaniti, Goffredo Fofi, Nicola Lagioia, Dacia Maraini, Francesco Piccolo partecipano alle tavole rotonde come ospiti o moderatori. Lauretta Colonnelli 49 ECONOMIA E LAVORO del 27/11/15, pag. 6 Caro Renzi: la crescita non c’è Bruxelles. Doccia fredda della Commissione europea alla legge di stabilità: la ripresa stenta, la produttività langue e i conti sono «squilibrati». Flessibilità a rischio. La Ue non gradisce la decisione di puntare sull’abolizione della tassa sulla casa anziché sulla decontribuzione del lavoro. Il giudizio finale ci sarà primavera ma ora è a rischio anche la trovata elettoralistica del bonus ai 18enni Andrea Colombo Alla Commissione europea la legge di stabilità di Matteo Renzi proprio non piace. Non può dirlo troppo esplicitamente, però non perde occasione di alludere più o meno pesantemente. Casomai non fosse stata eloquente la scelta di rinviare il giudizio finale, con annessa concessione o meno dei margini di flessibilità, la Commissione batte di nuovo sul dolente tasto nel «Rapporto sugli squilibri». Il debito, secondo Bruxelles, corre verso il nuovo picco del 133% rispetto al Pil, secondo solo a quello della Grecia, la ripresa produttiva stenta, la competitività langue, e le tre voci critiche, secondo la Commissione, sono strettamente intrecciate: «La bassa crescita della produttività frena le prospettive di crescita e il miglioramento della competitività e rende più difficile la riduzione del debito pubblico». Segue a ruota il monito del commissario agli Affari economici Pierre Moscovici: «L’Italia è a rischio di non conformità con le regole del patto di Stabilità. Per questo ci siamo dati appuntamento in primavera per esaminare se e in quale ampiezza l’Italia potrà beneficiare delle clausole di flessibilità per investimenti, riforme e spese per i profughi». In realtà l’Italia è in buona compagnia. Francia e Belgio sono in condizioni simili e persino la Germania è sotto attenta osservazione. Ma nel caso italiano si legge tra le righe e nei toni di Moscovici qualcosa in più. L’insistenza su quello che non a caso il documento definisce «il nodo della crescita della produttività» rivela una persistente irritazione per la decisione di investire sull’abolizione della tassa sulla casa invece che su una decontribuzione del lavoro, considerata ben più adeguata ai fini di un rilancio della produttività. In tutta evidenza, inoltre, a Bruxelles non deve essere piaciuta molto neppure l’ultima iniziativa del governo: lo stanziamento di 500 milioni di euro a puri fini elettorali nella fascia meno attratta dalle sirene renziane, quella dei giovanissimi. Ieri il responsabile economico del Pd Filippo Taddei ha negato con vibrato sdegno che la mancia serva a raggranellare voti: «Perché sia una mancia devono esserci le elezioni, e non mi risulta che ce ne siano di prossime». Come? E le comunali in cittadine come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna? «Non si fa un’iniziativa sui diciottenni per le amministrative». L’apodittica affermazione non viene ulteriormente dettagliata, né potrebbe esserlo dal momento che il cosiddetto bonus è precisamente quel che Taddei nega essere: un tentativo di comprare il voto dei diciottenni, esattamente come l’abolizione della Tasi andrebbe rubricata alla voce «voto di scambio». Non che si tratti di una mossa inedita inaugurata dal governo Renzi. Ma la scelta di puntare sull’acquisto di voti invece che su misure a favore della crescita in una fase che non è segnata solo dalla ripresa flaccida ma anche, anzi soprattutto, dal rischio che le 50 tensioni internazionali congelino anche quelle è molto peggio che discutibile. Per una volta, è davvero difficile non essere d’accordo con i rigoristi della Commissione. Il governo, in realtà, nutre però preoccupazioni limitate. Matteo Renzi è convinto, e probabilmente a ragione, che per l’Europa non ci siano alternative al suo governo, tanto più che ha portato a termine le missioni assegnate dall’Europa stessa: ridurre la democrazia sostanziale con una riforma costituzionale che sbilancia il sistema istituzionale a favore dell’esecutivo e razziare con il Jobs Act i residui diritti dei lavoratori. Una bocciatura secca dei conti italiani è poco probabile. E’ invece possibile che la flessibilità non venga concessa nella misura richiesta. Sarebbe un guaio, ma pallido a fronte della necessità di uscire vincenti dalle prossime elezioni. Si va intanto delineando la fisionomia della manovra riveduta e corretta a Montecitorio. Saranno certamente inseriti il decreto salvabanche e quello sulla sicurezza, il cui contenuto è però ancora da definire. Non dovrebbe invece entrare nella legge il decreto sul Giubileo. Saranno probabilmente inserite alcune delle norme previste dal ddl sulla responsabilità dei medici, già approvate dalla commissione Affari sociali della camera, il che porterebbe in cassa 400 milioni. Sulla carta dovrebbe essere una mazzata per la cosiddetta «medicina difensiva», cioè le analisi autorizzate dai medici per evitare il rischio di denuncia in caso di malattia grave non individuata. In realtà sarà sì un colpo durissimo ma per la medicina preventiva, e a pagarlo non saranno i medici ma i malati e la sanità pubblica. 51