Sentenza n. 11394/1996

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Sentenza n. 11394/1996
Dipartimento di Giurisprudenza
Corte Suprema di Cassazione
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
prof. Antonio Carratta
prof. Giorgio Costantino
prof. Giuseppe Ruffini
Ufficio dei Referenti
per la Formazione Decentrata
dott. Maria Acierno
dott. Pietro Curzio
dott. Luigi Scarano
Cass., sez. un., 19 dicembre 1996, n. 11394,
Estratto da Foro italiano, 1997, parte I, colonne 2544 e ss.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.
Vittorio
Dott.
Michele
SGROI
Primo Presidente
CANTILLO
Pres. di Sez.
"
Raffaele
NUOVO
"
Girolamo
GIRONE
"
Vincenzo
BALDASSARRE
"
Giuseppe
BORRÈ
"
Giovanni
OLLA
"
Alfio
"
Mario Rosario
FINOCCHIARO
VIGNALE
Consigliere
"
"
Rel. "
"
"
"
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi riuniti da:
ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e
legale rapp.te pro-tempore, elett.te dom.to in Roma, Via della Frezza n. 17, presso
l'AVVOCATURA Centrale dell'Istituto medesimo, rapp.to e difeso dagli avvocati Enrico
Zicavo, Fabrizio Ausenda, Gabriella Pescosolido e Fulvio Palmieri per procura in calce al ricorso;
(ricorso non depositato)
Ricorrente
contro
LANDINI ANNA
Intimata
con la costituzione di
ISIDORI AGOSTINO, ISIDORI GABRIELLA, eredi di Landini Anna,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CARLO POMA 2, presso lo studio dell'avv.to FELICE
ASSENNATO che li rapp.ta e difende per delega a margine del controricorso;
Controricorrenti
e sul 2 ricorso n. 01896-93 proposto da:
ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e
legale rapp.te pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, rapp.to e difeso come sopra;
Ricorrente
contro
LANDINI ANNA;
Intimata
avverso la sentenza n. 185-92 del Tribunale di PERUGIA - sez. lavoro - depositata l'11-02-92;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28-06-96 dal Relatore Consigliere
Dott. Giuseppe BORRÈ;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Fabrizio AMIRANTE che ha
concluso per l'improcedibilità del I ricorso e per l'inammissibilità del II.
Svolgimento del processo. – Con ricorso al Pretore del lavoro di Perugia, depositato il 21
novembre 1990, Anna Landini, rappresentata e difesa dall’avv. Piero Mirti, premesso che essa era
invalida civile al cento per cento, chiese che le venisse corrisposta dall’Inps la pensione sociale
sostitutiva della pensione di invalidità. Nella resistenza dell’Inps il pretore accolse la domanda con
sentenza del 25 febbraio 1991, notificata ad istanza dell’avv. Mirti all’Inps il 21 maggio 1991.
Propose appello l’Inps al Tribunale, sezione lavoro, di Perugia con ricorso depositato il 19 giugno
1991. Fissata dal presidente della sezione l’udienza collegiale di discussione del 20 dicembre 1991,
ricorso e decreto furono notificati il 15 luglio 1991, a richiesta dell’Inps, all’avv. Piero Mirti quale
procuratore domiciliatario di Anna Landini.
Con atto depositato in cancelleria il 9 ottobre 1991 si costituirono e resistettero all’appello
Agostino e Gabriella Isidori, figli di Anna Landini, rappresentati e difesi dall’avv. Piero Mirti,
producendo certificato di morte e dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da cui risultava che
Anna Landini era deceduta il 22 aprile 1991 e che essi ne erano gli unici eredi.
Con sentenza resa nella fissata udienza di discussione del 20 dicembre 1991 (e depositata l’11
febbraio 1992) il tribunale, indicando in epigrafe, quale appellata, Anna Landini, rigettò l’appello
dell’Inps, osservando che, in conformità a quanto previsto in via transitoria dalla l. 21 marzo 1988
n. 93, sussisteva il diritto alla pensione sociale sostitutiva del trattamento di inabilità in quanto la
relativa domanda era stata proposta prima che decadesse il d.l. 9 dicembre 1987 n. 495, che quel
diritto aveva retroattivamente riconosciuto anche in favore di chi fosse stato dichiarato invalido
successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età.
Contro la sentenza l’Inps ha proposto il 14 settembre 1992 un primo ricorso per cassazione, che,
pur non depositato ai sensi dell’art. 369 c.p.c., non era stato ancora dichiarato improcedibile quando
l’istituto, il 1° febbraio 1993, ha proposto un secondo identico ricorso, deducendo un unico motivo
di censura. Il secondo ricorso, come il primo, è stato notificato ad Anna Landini, presso il
procuratore costituito nel giudizio di appello (avv. Mirti), benché l’istituto avesse già ricevuto
notificazione di un controricorso (relativo al primo ricorso) con il quale gli eredi di essa, Agostino e
Gabriella Isidori, avevano resistito a quella impugnazione, così dando notizia al ricorrente (come si
osserva nell’ordinanza della sezione lavoro di questa corte, di cui si dirà fra poco) dell’avvenuto
decesso della donna. Relativamente al secondo ricorso per cassazione non si è avuta costituzione.
Il procuratore generale, cui gli atti erano stati rimessi per richieste in ordine alla declaratoria
camerale di improcedibilità del ricorso non depositato, ha rilevato che, essendo stato proposto il
secondo ricorso entro il termine per tale impugnazione e quando ancora non era stata dichiarata
l’improcedibilità del primo, il diritto di impugnazione non si era consumato (arg. ex art. 387 c.p.c.),
onde i due ricorsi andavano riuniti e decisi in udienza pubblica.
La sezione lavoro, nell’udienza del 12 ottobre 1994, ha riunito i ricorsi e, rilevata l’esistenza di un
contrasto fra decisioni di questa corte relativamente all’ipotesi di notificazione dell’atto di
impugnazione alla controparte deceduta, ha rimesso i ricorsi riuniti al primo presidente per
l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, il che è avvenuto.
Motivi della decisione. – 1. - Con l’unico motivo di ricorso l’Inps denuncia violazione e falsa
applicazione del d.l. 8 febbraio 1988 n. 25, convertito con modificazioni nella l. 21 marzo 1988 n.
93, come autenticamente interpretato dall’art. 13, 3° comma, l. 31 dicembre 1991 n. 412, nonché
difetto di motivazione su punto decisivo della controvresia. Sostiene il ricorrente che, come
riconosciuto da questa corte e dalla Corte costituzionale, oltre che dalla legge interpretativa n. 412
del 1991, il d.l. 9 dicembre 1987 n. 495 si applica solo in favore di chi, prima della decadenza di
esso, avesse già ottenuto la liquidazione della pensione.
2. - Le sezioni unite non possono esaminare il ricorso (si intende il secondo ricorso, dovendo il
primo, come si vedrà, essere dichiarato improcedibile) senza preliminarmente proporsi la questione
processuale connessa alla morte di Anna Landini, relativamente alla quale la sezione lavoro di
questa corte ha segnalato un contrasto di giurisprudenza.
Non è tuttavia possibile prendere in considerazione il contrasto giurisprudenziale nei termini in cui
esso è prospettato dalla sezione lavoro. Infatti, essendo la Landini deceduta il 22 aprile 1991, dopo
la pubblicazione della sentenza del Pretore di Perugia (25 febbario 1991) e prima dell’appello
dell’Inps al Tribunale di Perugia (ricorso depositato il 19 giugno 1991 e notificato, insieme al
decreto di fissazione dell’udienza, il 15 luglio 1991), la questione dell’individuazione del soggetto
passivo dell’impugnazione in conseguenza della morte di costei si pone non per il ricorso per
cassazione, come la sezione lavoro mostra di ritenere, ma per l’atto di appello, che l’Inps ha
notificato alla Landini presso l’avv. Piero Mirti quale procuratore costituito in primo grado.
La questione della ritualità dell’appello, così proposto, è comunque rilevabile di ufficio e non
preclusa, cosicché il contrasto, sia pure in tali diversi termini, può essere ugualmente esaminato.
3. - Lo scenario giurisprudenziale in tema di interruzione del processo per morte o per perdita (o
acquisto) della capacità di stare in giudizio della parte è ancor oggi dominato dalle sentenze che
queste sezioni unite hanno pronunciato il 21 febbraio 1984, con i nn. 1228, 1229 e 1230 (Foro it.,
1984, I, 664).
Tali sentenze individuano distinte fasi processuali in cui l’evento può verificarsi («dalla
costituzione della parte a mezzo di procuratore alla chiusura dell’udienza di discussione»; «dopo la
chiusura dell’udienza di discussione (ma) anteriormente alla notificazione della sentenza»; nel
«periodo di quiescenza del rapporto processuale, tra un grado e l’altro del processo», quando è in
corso il termine breve per l’impugnazione per essere stata notificata la sentenza o, in mancanza, il
termine annuale dalla pubblicazione della stessa) e precisano che a ciascuna di tali fasi si collegano
«normative tra di loro discriminate – e non rispondenti ad un criterio unitario – a seconda del
momento processuale in cui l’evento morte o perdita della capacità di una parte si verifica . . .
normative discriminate che non interferiscono e non si sovrappongono l’una sull’altra».
Si delineano così, secondo le richiamate sentenze, tre distinte situazioni:
A) Se l’evento si verifica prima della chiusura della discussione e non viene dichiarato o notificato
dal procuratore costituito, la posizione giuridica della parte, pur deceduta o divenuta incapace,
«resta stabilizzata, rispetto alle altre parti ed al giudice, come quella di persona ancora esistente e
capace»; e «l’effetto così prodotto permane in tutto il successivo svolgersi del rapporto processuale,
senza che su di esso possano influire le altre discriminate normative che regolano gli effetti
dell’evento verificatosi negli ulteriori diversi momenti del rapporto». In mancanza, dunque, della
predetta dichiarazione del procuratore, a) la notificazione della sentenza al medesimo è idonea a far
decorrere a carico degli eredi della parte defunta o del legale rappresentante della parte divenuta
incapace il termine per l’impugnazione (sent. 1230/84); b) il procuratore è legittimato a proporre
impugnazione per la parte deceduta o divenuta incapace, se la procura ad litem era originariamente
conferita anche per gli ulteriori gradi del processo (sent. 1229/84); c) l’impugnazione può essere
notificata, presso il detto procuratore, alla parte deceduta o divenuta incapace, pur se l’impugnante
abbia avuto aliunde notizia dell’evento (sent. 1228/84).
B) Quando l’evento si verifica invece «dopo la chiusura della discussione (ma) anteriormente alla
notificazione della sentenza», l’ipotesi è regolata dall’art. 286 c.p.c., il quale, secondo le citate
sentenze, offre un’alternativa: «la notificazione della sentenza si può fare . . . a coloro ai quali spetta
stare in giudizio», vale a dire, in caso di morte della parte, ai suoi eredi, ma la dizione della norma
implicherebbe che la sentenza può essere notificata anche al procuratore costituito nel precorso
grado di giudizio per la parte deceduta o divenuta incapace.
C) Infine, quando l’evento si verifica «tra un grado e l’altro del processo» e la situazione viene in
rilievo con riferimento al decorso del termine per l’impugnazione (o come termine annuale dalla
pubblicazione della sentenza o, se questa sia stata notificata, come termine breve), norma
regolatrice è l’art. 328 c.p.c., che prevede tre ipotesi: a) se l’evento si verifica durante la decorrenza
del termine breve, questo è interrotto e il nuovo termine decorre dal giorno in cui la notificazione
della sentenza è rinnovata; b) nessuna conseguenza si produce se l’evento si verifica durante il
primo semestre del termine annuale; c) se l’evento si verifica invece nel secondo semestre, il
termine è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell’evento.
4. - Le sentenze relative all’ipotesi di evento verificatosi fra la costituzione della parte e la chiusura
dell’udienza di discussione, che affermano, in caso di mancata dichiarazione dell’evento stesso, la
stabilizzazione della situazione processuale e quindi, in particolare, la possibilità che la parte
deceduta o divenuta incapace sia soggetto passivo dell’impugnazione e che la notificazione di
questa avvenga presso il procuratore già per tale parte costituito nel precorso grado di giudizio, si
sono moltiplicate dopo il ricordato intervento delle sezioni unite del 1984 (v., fra le più recenti, sent.
10350 del 1994, id., Rep. 1995, voce Procedimento civile, n. 303; 791 del 1995, ibid., n. 302; 4721
del 1995, ibid., voce Impugnazioni civili, n. 85; 7495 del 1995, ibid., voce Procedimento civile, n.
301; 1540 del 1996, id., Mass., 162), non mancandosi di precisare che la stabilizzazione ha luogo
non solo per il grado in cui l’evento si è verificato, ma, ove persista la non dichiarazione di esso,
anche successivamente (sent. 791/95), e che essa opera anche se l’impugnante abbia eventualmente
avuto conoscenza aliunde dell’evento (sent. 10350/94, 4721/95). Si tratta, insomma, di un
orientamento consolidato, anche se deve registrarsi che la prima sezione civile di questa corte, con
ordinanza 5 luglio 1996, n. 558 (ibid., 1034), ha sollevato, d’ufficio, questione di legittimità
costituzionale del combinato disposto degli art. 300 e 330 c.p.c., nell’interpretazione testé riferita
della Corte di cassazione, rilevando che le profonde modificazioni intervenute sia
nell’organizzazione della famiglia, sia in quella della professione forense, sia nel funzionamento
stesso del processo, rendono precaria l’ipotesi che il meccanismo della stabilizzazione della parte e
della ultrattività della procura costituisca un contemperamento degli interessi in gioco
sufficientemente rispettoso del diritto di difesa. Giova ricordare, del resto, che le tre sentenze del
1984 (nn. 1228, 1229, 1230) furono pronunciate sulle conclusioni difformi del procuratore generale,
che aveva anche prospettato questione di costituzionalità.
Mentre le sentenze appartenenti a tale versante giurisprudenziale costruiscono, attraverso l’omessa
dichiarazione del procuratore, una vera e propria finzione, stabilizzando come persona ancora
esistente in vita e capace la parte deceduta o divenuta incapace, tutt’altra sembra essere invece
l’impostazione delle sentenze che considerano l’ipotesi (nella quale si inscrive la vicenda ora
all’esame delle sezioni unite) di evento verificatosi fra un grado e l’altro del processo, in questo
caso affermandosi che non si può prescindere dalla nuova realtà soggettiva venutasi a determinare e
che il nuovo grado di giudizio va instaurato da e contro i soggetti reali. Come è detto molto
lucidamente dalla sentenza 3888/80 (id., Rep. 1980, voce Impugnazioni civili, n. 41), «il problema
della notificazione dell’atto di impugnazione e dell’instaurazione di una valida o non valida fase
processuale di gravame va risolto non già alla luce degli accennati criteri dell’ultrattività del
mandato al procuratore costituito e della non automaticità dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., bensì
in base alle norme di cui all’art. 328 c.p.c., secondo le quali l’evento interruttivo, avvenuto dopo la
pubblicazione della sentenza conclusiva, di una fase di merito, incide non più sul processo, ma
essenzialmente sul termine per la proposizione dell’impugnazione, con la conseguenza che non si
può, in alcun caso, prescindere dalla nuova reale situazione soggettiva delle parti sostanziali
interessate attualmente alla controversia ed al processo».
5. - Tale impostazione giurisprudenziale sembra fare applicazione del principio chiovendiano
secondo cui le parti, quand’è definito un grado e deve aprirsene un altro, «tornano nella situazione
in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui
col quale intende contrarre il rapporto processuale». Il principio, derogato allorché l’evento si sia
verificato nella fase attiva del processo e il procuratore non l’abbia dichiarato, riacquista invece
pieno vigore allorché l’evento si verifica fra un grado e l’altro, perché in tal caso il processo di
impugnazione va proposto dai soggetti reali contro i soggetti reali e a questo fine l’art. 328 c.p.c.
detta alcune regole per rendere possibile – a costi accettabili – tali risultati.
A tale concezione si ispirano esplicitamente alcune sentenze, come quella da ultimo ricordata
(3888/80), ma altre si sforzano di introdurre temperamenti (di tipo prevalentemente soggettivo) per
rendere meno gravosa la posizione dell’impugnante, o subordinando l’intero meccanismo alla
conoscenza che a costui venga fornita del mutamento della situazione della controparte (attraverso
la notificazione della sentenza da parte degli eredi oppure l’esecuzione forzata dagli stessi
intrapresa sulla base della sentenza da impugnare: vedi sent. 2881/83, id., Rep. 1993, voce cit., n.
103, e 2529/91, non massimata, nonché la stessa ordinanza della sezione lavoro che ha rimesso, nel
caso in esame, gli atti al primo presidente, dove viene valorizzata la conoscenza avuta dall’Inps
della morte della Landini attraverso il controricorso degli eredi di costei al primo ricorso dell’Inps
notificato ma non depositato), oppure ritenendo applicabile l’art. 291 c.p.c. se il soggetto abbia
senza colpa ignorato l’evento (sent. 3630/78, id., Rep. 1978, voce cit., n. 87; 6404/90, id., Rep.
1990, voce cit., n. 36), oppure ancora sancendo che la notizia del decesso data dagli eredi attraverso
la relazione di notificazione della sentenza non è idonea a far decorrere il termine breve se non si
rinvengono tutte le indicazioni per la notificazione dell’impugnazione agli eredi stessi (sent.
5039/87, id., Rep. 1987, voce Procedimento civile, n. 49; 7023/95, id., 1996, I, 639).
La validità di tali spunti giurisprudenziali va verificata alla luce dell’art. 328 c.p.c. e ciò richiede,
anzitutto, una più approfondita analisi di questa norma.
Se le finalità in gioco sono, da un lato, che il processo di impugnazione sia instaurato fra i soggetti
reali, e, dall’altro che nel perseguimento di tale effetto il diritto di difesa sia convenientemente
salvaguardato e, più precisamente, che il diritto di impugnazione non sia sottoposto ad ingiustificato
pericolo di decadenza, ben può dirsi che il 1° comma dell’art. 328 realizza fra tali finalità un
perfetto contemperamento disponendo che, se l’evento morte o incapacità della parte si verifica
quando è stata notificata la sentenza ed è in corso il termine per impugnare, tale termine rimane
autonomamente interrotto e un nuovo termine prende a decorrere solo se ed in quanto la
notificazione della sentenza sia rinnovata, s’intende alla parte reale e quindi, nel caso di morte, agli
eredi (sia pure entro l’anno, collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto,
come precisa il 2° comma dell’art. 328). Inoltre, è pacifico insegnamento giurisprudenziale che il
disposto del 1° comma abbia carattere di bilateralità, e cioè che l’interruzione del termine breve, in
corso al momento dell’evento, si produca qualunque sia la parte – soccombente o vittoriosa – nei
cui confronti l’evento stesso si sia verifiicato (v., per tutte, sent. 3474/71, id., Rep. 1971, voce
Impugnazioni civili, n. 43). Insomma, la norma esprime la volontà del sistema che l’impugnazione
sia proposta da e contro i soggetti reali del rapporto, ma al tempo stesso immunizza contro il
pericolo di decadenza per effetto del verificarsi dell’evento durante il decorso del termine breve, e
ciò non nel senso (che sarebbe contraddittorio rispetto alla prima finalità) di ritenere valida
l’impugnazione anche se proposta (in difetto di conoscenza dell’evento) da o contro la parte
deceduta o divenuta incapace, ma nel senso invece di esigere una particolare vicenda esternativa
(nuova notificazione della sentenza da parte degli eredi o agli eredi, ovvero dal – o al – legale
rappresentante della parte divenuta incapace), soltanto a seguito della quale decorre un nuovo
termine breve finalizzato all’instaurazione dell’impugnazione fra i soggetti effettivi. (Il problema
non può essere ulteriormente approfondito in questa sede, ma è evidente che, assumendo come
centrale tale interpretazione dell’art. 328, non può non discenderne una lettura restrittiva
dell’alternativa che l’art. 286 c.p.c. sembra offrire al notificante).
Quanto al termine annuale, nella cui pendenza si verifichi l’evento, l’art. 328 predispone una
disciplina coerente alla natura del termine stesso. Poiché esso consiste come la dottrina ha rilevato,
non nel decorso di un certo tempo da un momento di conoscenza, ma in una mera distantia
temporis, che per la sua sola ampiezza garantisce (a meno che manchi addirittura la conoscenza del
processo: art. 327, 2° comma, c.p.c.) la non arbitrarietà del prevalere dell’esigenza di certezza e del
conseguente formarsi del giudicato. Al cospetto di un termine di tale natura – nel cui corso l’evento
si verifichi, ponendo il problema della identificazione delle giuste parti del processo di
impugnazione – il legislatore altro non avrebbe protuto fare se non «potenziare» la distantia
temporis, e così ha fatto, prorogando il termine di sei mesi ove l’evento si verifichi nel secondo
semestre, vale a dire facendo sì che sia comunque assicurato un lasso di tempo di almeno sei mesi
dal momento in cui l’evento si è verificato, e ciò, ancora una volta, per tutte le parti, qualunque sia
quella colpita dalla morte o dalla perdita di capacità.
Così rapidamente fissati i caratteri e identificata la ratio dell’art. 328 c.p.c., è ora possibile
verificare la validità (e compatibilità) degli spunti giurisprudenziali sopra accennati, che
valorizzano, come si è visto, il momento soggettivo della conoscenza (conoscenza o non
dell’evento; ignoranza colpevole o incolpevole; onere di fornire determinati elementi di
conoscenza).
Certamente inaccettabile è la tesi che vuol comunque ed in generale condizionare il dovere di
indirizzare l’impugnazione contro i «soggetti reali» al fatto che l’impugnante abbia avuto notizia
dell’evento morte o perdita della capacità, senza di che l’impugnazione stessa, per una sorta di
perpetuatio del precedente soggetto e dunque, ancora una volta, per effetto di una fictio, sarebbe
validamente instaurata nei confronti della parte defunta o divenuta incapace.
Tale ipotesi è incompatibile con la logica stessa della costruzione normativa, quale risulta dalla
complessiva disciplina dell’art. 328 c.p.c., fondata com’essa è sull’obiettiva esigenza che il
processo d’impugnazione si instauri fra i soggetti reali; e renderebbe incomprensibili le stesse
garanzie che l’art. 328 appresta contro l’eventualità che l’impugnante, ignorando l’evento, spenda
in direzione soggettivamente sbagliata il suo potere impugnatorio.
Tali garanzie perderebbero sostanzialmente la loro ragion d’essere se fosse vero che, non essendo
conosciuto (senza colpa) l’evento, neppure sussisterebbe il dovere di instaurazione del processo
d’impugnazione contro la «nuova parte». E invece tali garanzie sono accuratamente predisposte e
addirittura appaiono «a perfetta tenuta» per quanto riguarda il verificarsi dell’evento nel corso del
termine breve, essendo previsto che in ogni caso – conosciuto o non che sia l’evento – tale termine
si interrompa e non riparta ex novo se non dopo che sia ripetuta la notificazione della sentenza,
ovviamente nei confronti (o da parte, stante l’accennata bilateralità della norma) dei soggetti reali.
Non altrettanto «a perfetta tenuta» può considerarsi la garanzia nei riguardi del termine annuale, in
quanto l’incremento della distantia temporis favorisce, ma non rende certa, l’acquisizione della
conoscenza della nuova situazione soggettiva e quindi la possibilità di indirizzare correttamente
l’impugnazione; tuttavia, coerentemente alla logica prescelta dal sistema normativo, il rimedio
ultimo va cercato non nel senso di considerare valida l’impugnazione mal indirizzata a causa della
non conoscenza dell’evento, bensì, come si vedrà, fra poco, in altra direzione.
Condivisibile è invece lo spunto giurisprudenziale secondo cui la notificazione della sentenza,
richiesta dagli eredi dopo la morte della parte avvenuta «fra un grado e l’altro», non fa decorrere il
termine breve se non contiene l’autoindividuazione degli eredi richiedenti, con tutte le indicazioni
necessarie a rendere proponibile nei loro confronti, in tale ristretto ambito temporale,
l’impugnazione. Si tratta, in sostanza, di un apliamento interpretativo che si pone sulla linea del 1°
comma dell’art. 328 c.p.c.: questa norma stabilisce che quando l’evento si verifichi durante il
decorso del termine breve occorre, perché questo riparta, una nuova notificazione della sentenza,
ovviamente corredata, se essa è chiesta dagli eredi, delle indicazioni necessarie a rendere possibile
l’impugnazione contro di essi, il richiamato orientamento giurisprudenziale, recentemente ribadito
da Cass. 7023/95, aggiunge che anche se l’evento morte si è già verificato quando gli eredi
notificano la sentenza, deve ricavarsi dalla relata di notificazione il necessario corredo di
informazioni atto a consentire che l’impugnazione si rivolga contro tali nuovi soggetti reali,
essendo, in difetto, reso inoperante il termine breve (e non già – lo si ripete ancora una volta – resa
valida l’impugnazione proposta contro la parte deceduta). Di tale giurisprudenza verrà fatta
applicazione anche nel caso in esame.
Non può infine condividersi (per lo meno nei termini in cui è formulata e astraendo dal diverso
significato che essa probabilmente racchiude) la tesi giurisprudenziale secondo cui, sempre in caso
di evento verificatosi fra un grado e l’altro del processo, troverebbe applicazione l’art. 291 c.p.c.
(rinnovazione della notificazione), se il soggetto, che ha mal indirizzato l’impugnazione (contro la
parte deceduta o divenuta incapace anziché contro gli eredi o il legale rappresentante della stessa),
incolpevolmente ignorasse l’evento.
In via di principio non appare scorretta la riconduzione della tematica in esame alla categoria della
nullità, orientamento peraltro pacifico nella giurisprudenza di questa corte indipendentemente dallo
specifico riferimento all’art. 291. Non si tratta, infatti, di impugnazione rivolta contro soggetto
tutt’affatto diverso da quello che è stato in giudizio nel precedente grado, nel qual caso
l’impugnazione sarebbe come non proposta e non verrebbe in rilievo se non sotto il profilo della
inesistenza/inammissibilità. In realtà, fra soggetto deceduto e suoi eredi non vi è una totale
«alterità» dal punto di vista del processo, se è vero che, in caso di morte della parte prima della
chiusura dell’udienza di discussione, il silenzio del procuratore ha un’efficacia perpetuativa del
precedente soggetto; e ciò è ancor più evidente nel caso di perdita della capacità di stare in giudizio,
in questo caso restando addirittura identica la soggettività sostanziale dell’interesse e l’alternativa
ponendosi soltanto fra i soggetti capaci di far valere processualmente l’interesse medesimo. La
situazione è dunque ricostruibile non in termini di impugnazione non esercitata (a ciò equivalendo
esercitarla contro un soggetto estraneo), ma in termini di impugnazione invalidamente esercitata,
nel senso che essa è posta in essere in modo disforme dal modello legale che ne individua il profilo
soggettivo in caso di morte o di sopravventua incapacità della parte. Insomma, il vizio in esame può
ricondursi alla categoria della nullità anche se, ove non intervenga sanatoria, l’effetto è pur sempre
quello (ma, per così dire, in seconda battuta) della perdita dell’impugnazione per decadenza.
Ciò che non pare invece accettabile, come ammonisce Cass. 7045/92 (id., Rep. 1992, voce cit., n.
44), è proprio il riferimento all’art. 291 c.p.c., in quanto si tratta «non di semplice nullità della
notificazione ma di errata identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius». Deve inoltre
considerarsi che la riparazione di una nullità, mediante rinnovazione dell’atto, risponde ad una
oggettiva esigenza di autocorrezione del processo, per cui non v’è motivo di farla dipendere (come
fa invece la giurisprudenza che richiama l’art. 291) dalla incolpevolezza del comportamento che ha
determinato la nullità stessa.
Ulteriormente precisando, il vizio in questione potrebbe ricondursi al combinato disposto degli art.
163, n. 2, e 164 c.p.c., in quanto vizio attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione,
con l’effetto che, almeno stando alla disciplina anteriore alla novella 353/90, non sarebbe possibile
rinnovazione dell’atto e la costituzione del convenuto farebbe salvi i diritti anteriormente quesiti,
lasciando ferma la decadenza dall’impugnazione ove frattanto maturata. Diversa disciplina è invece
dettata dalla novella, prevedendosi, con riferimento alle nullità di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 163 c.p.c.,
la possibilità di rinnovazione (art. 164 novellato), e tanto a questa, quanto alla costituzione del
convenuto, attribuendosi effetto ex tunc: nella specie, tuttavia, trattandosi di causa «vecchia»
(pendente al 30 aprile 1995), si applica la disciplina anteriore (art. 9 d.l. 432/95 conv. nella l.
534/95).
Orbene, se si considera che l’art. 328 c.p.c., almeno con riguardo all’ipotesi del termine annuale,
per la quale si limita a prevedere un mero prolungamento della distantia temporis, lascia
presumibilmente spazio a situazioni di incolpevole ignoranza dell’evento e, quindi, di scusabile
aberratio dell’impugnazione, appare chiaro che il sistema della sanatoria delle nullità, almeno nella
versione anteriore alla novella dell’art. 164 c.p.c., versione peraltro ancora vigente per le c.d.
«vecchie cause», offre una «valvola di sicurezza» del tutto insufficiente, non consentendo sanatoria
ex tunc e, quindi, il più delle volte, trovando limite nella già verificatasi decadenza
dall’impugnazione. Si comprende perciò come la giurisprudenza abbia fatto un uso strumentale
dell’art. 291 c.p.c., facendolo funzionare non tanto come mezzo di sanatoria della nullità (nella
specie di tipo diverso e più grave di quella cui tale norma si riferisce) quanto piuttosto come
strumento restitutorio, vale a dire – attraverso la rinnovazione con effetto ex tunc – come mezzo di
rimessione in termini per l’esercizio del diritto di impugnazione incolpevlmente perduto. Tale uso
strumentale è confermato dall’assunzione dell’incolpevolezza della nullità come requisito del
rimedio, requisito che non avrebbe senso se la norma fosse veramente impiegata nel suo significato
primario di sanatoria del vizio e non in quello indiretto di restituzione in termini contro la
decadenza che per effetto del vizio si è determinata.
Tale surrettizia utilizzazione dell’art. 291 c.p.c. non può essere condivisa e piuttosto sarebbe il caso
di domandarsi se non giustifichi un sospetto di incostituzionalità la mancata previsione di un vero e
proprio strumento di restituzione in termini. Di questa figura si hanno manifestazioni sparse
nell’ordinamento processual-civile (art. 184 bis, 294 e, per certi versi, 327, 650, 688), ma difetta di
una disciplina generale, quanto meno con riguardo all’area delle impugnazioni, come questa corte
ha già avuto occasione di riconoscere (si vedano le forti affermazioni della sentenza 2317/92, id.,
1992, I, 1712).
Al riguardo, deve tuttavia precisarsi che, quando l’inosservanza del termine dipende da nullità
dell’atto e per questa sussista un regime di sanatoria con effetto ex tunc, come accade, secondo la
versione novellata dell’art. 164 c.p.c., per i vizi elencati nel 1° comma della norma, tale regime è di
per sé sufficiente ad offrire un congruo margine di sicurezza all’impugnante e non emerge, quindi,
un vuoto di tutela rilevante sotto il profilo costituzionale, perché l’ipotesi dell’incolpevole
decadenza dal diritto di impugnazione resta assorbita nella disciplina della sanatoria della nullità.
Diverso discorso deve invece farsi quando, come nel caso in esame, viga l’anteriore disciplina
dell’art. 164 c.p.c. e non sia perciò possibile una sanatoria i cui «effetti sostanziali e processuali si
producono sin dal momento della prima notificazione» con conseguente neutralizzazione della
decadenza frattanto verificatasi. In tal caso ben potrebbe porsi – per la mancata previsione di un
rimedio di restituzione in termini in materia ove sussistono, come si è visto, ampi margini di
possibile incolpevolezza dell’errore – un problema di costituzionalità, ma di esso difetta, nel caso
particolare, la rilevanza, come sarà subito dimostrato riprendendo in esame la specifica vicenda di
cui si tratta.
6. - La sentenza del Pretore di Perugia è stata notificata dall’avv. Mirti all’Inps il 21 maggio 1991,
senza chiarire se ciò fosse fatto a nome degli eredi della Landini (per i quali l’avv. Mirti si costituirà
poi in appello, così come era costituito in primo grado per la loro autrice) e comunque senza fornire
indicazioni tali da consentire all’istituto la proposizione della impugnazione contro gli eredi
medesimi. Ne consegue, alla stregua della richiamata giurisprudenza di questa corte (sent. 5039/87,
7023/95), che la notificazione della sentenza, così effettuata, non ha posto in movimento il termine
breve e che, pertanto, quale ragione di decadenza dall’appello, rileva soltanto il termine annuale
(nella specie, non prorogato ai sensi dell’art. 328, 3° comma, c.p.c., perché la morte della Landini è
avvenuta il 22 aprile 1991 e quindi durante il primo semestre del termine stesso).
Gli eredi della Landini – Agostino e Gabriella Isidori – si sono costituiti in appello il 1° ottobre
1991, quando ancora non era maturato il termine annuale dalla pubblicazione della sentenza
(avvenuta il 25 febbraio 1991) e quindi non si era verificata decadenza dall’impugnazione. Ne
consegue che il vizio dell’impugnazione, sopra individuato, deve ritenersi utilmente sanato, per
effetto della costituzione, anche alla luce della originaria disciplina (nella specie applicabile)
dell’art. 164 c.p.c., con conseguente non rilevanza della ipotizzata questione di legittimità
costituzionale.
7. - Agostino e Gabriella Isidori si sono dunque costituiti in appello, come attuali «soggetti reali»
del processo (nel senso precisato da Cass. 3888/80, cit.), documentando la loro legittimazione quali
figli ed unici eredi della Landini, legittimazione peraltro mai contestata dall’Inps. Fra tali soggetti e
l’istituto il contraddittorio si è pienamente e correttamente radicato davanti al Tribunale di Perugia.
Conseguentemente, la sentenza è stata dal tribunale pronunciata nei loro confronti, non rilevando
che nell’intestazione di essa (ed ivi soltanto) permanga, per vischiosità burocratica, l’indicazione di
Anna Landini: mero errore materiale al quale non sono collegabili conseguenze significative.
L’Inps, in ogni caso, ben sapeva quali erano le sue controparti processuali, le persone, cioè, nei cui
confronti si era concretamente svolto, con piena partecipazione delle medesime, il contraddittorio
dinanzi al giudice d’appello. E conseguentemente non si giustifica che l’istituto abbia indirizzato il
ricorso per cassazione nei confroti di Anna Landini, soggetto ormai non solo inesistente nella vita
reale ma anche formalmente e definitivamente uscito dalla vita del processo.
Il vizio del ricorso per cassazione non discende dunque dalle conseguenze ricollegabili alla morte
della parte (vicenda verificatasi, ed ormai esauritasi, al livello della proposizione dell’appello), ma
consiste nell’essere stata l’impugnazione indirizzata nei confronti di persona diversa da quella che è
stata parte nel giudizio a quo, posto che il nesso parte-erede, che ha consentito di ricondurre la
scorretta proposizione dell’appello contro la Landini nel quadro della nullità, non può giocare una
seconda volta e in senso rovesciato, dopo che gli eredi sono diventati essi stessi parti del processo.
Ciò porta fuori dell’area della nullità dell’impugnazione (per disformità dalle norme che ne
disciplinano il profilo soggettivo in caso di morte della parte) ed immette, sic et simpliciter, in
quella dell’inammissibilità, per essere l’impugnazione indirizzata a soggetto comunque non più
collegabile alla procedura in corso. E in tal senso, infatti, va emessa pronuncia.
Quanto al precedente ricorso per cassazione, notificato ma non depositato in cancelleraia, va
dichiarata l’improcedibilità (art. 369 c.p.c.).
Massime:
Non è idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione la notificazione della sentenza ad
opera del procuratore della parte morta dopo la pubblicazione della sentenza, se egli non chiarisce
che la notificazione è fatta in nome degli eredi e non fornisce indicazioni tali da consentire alla
controparte la proposizione dell’impugnazione nei loro confronti. (1)
La costituzione in appello degli eredi entro la scadenza del termine per impugnare sana la nullità
dell’impugnazione proposta nei confronti della parte morta dopo la pubblicazione della sentenza.
(2)
È inammissibile il ricorso per cassazione notificato alla parte defunta, quando i suoi eredi si siano
regolarmente costituiti nel giudizio d’appello, a nulla rilevando che nella epigrafe della sentenza
impugnata questa risulti, per errore, pronunciata nei confronti della parte defunta. (3)
(1, 2, 3) I. - La prima massima è conforme a Cass. 21 giugno 1995, n. 7023, Foro it., 1996, I, 639,
con osservazioni di G. GIOVANNONI, e 9 giugno 1987, n. 5039, id., Rep. 1987, voce
Procedimento civile, n. 49, e Giust. civ., 1987, I, 2858, entrambe citate in motivazione. Per la verità,
nella fattispecie decisa dalla presente sentenza l’avvocato della parte morta dopo la pubblicazione
della sentenza ha notificato quest’ultima senza chiarire se ciò fosse fatto a nome degli eredi, mentre
nei precedenti citati emerge dagli atti che la sentenza era stata notificata ad istanza degli eredi, che
non avevano però fornito indicazioni relative alla loro identità personale, oltre che alla loro
residenza o al loro domicilio, cosicché la controparte non era stata messa in condizione di conoscere
compiutamente i soggetti ai quali indirizzare l’impugnazione.
II. - Le sezioni unite intervengono sulla questione relativa all’individuazione del destinatario
dell’impugnazione nell’ipotesi in cui, dopo la chiusura dell’udienza di discussione (o dell’udienza
di precisazione delle conclusioni, ove le parti non abbiano richiesto, ex art. 190 bis, 2° comma, o
art. 275, 2° comma, c.p.c., la fissazione di un’apposita udienza di discussione orale della causa), ma
prima della notificazione della sentenza, si verifichi o venga notificata la morte o la perdita di
capacità della parte costituita a mezzo di procuratore. La premessa richiamata dalle sezioni unite è
che in questa ipotesi il problema della notificazione dell’atto di impugnazione e della instaurazione
di una valida fase processuale di impugnazione deve essere risolto non già alla luce dei criteri
sull’ultrattività del mandato al procuratore costituito e della non automaticità dell’interruzione ex
art. 300 c.p.c., che operano solo se uno degli eventi previsti nell’art. 299 c.p.c. si verifica
nell’intervallo di tempo tra la costituzione della parte e la chiusura dell’udienza di discussione
(secondo i principî fissati dalle pronunce nn. 1228, 1229, 1230 del 21 febbraio 1984, Foro it., 1984,
I, 664, con nota di A. PROTO PISANI, citate in motivazione), bensì in base all’art. 328 c.p.c.,
secondo le quali l’evento interruttivo, avvenuto nel caso di specie dopo la pubblicazione della
sentenza di primo grado, incide non più sul processo, ma essenzialmente sul termine per la
proposizione dell’impugnazione, con la conseguenza che non si può, in alcun caso, prescindere
dalla nuova reale situazione soggettiva delle parti sostanziali interessate attualmente alla sentenza e
al processo (in questo senso si veda anche Cass. 18 giugno 1980, n. 3888, id., Rep. 1980, voce
Impugnazioni civili, n. 41, citata in motivazione).
Premesso ciò, è opportuno distinguere le diverse ipotesi che si possono presentare (con esclusivo
riferimento alla situazione processuale di cui si tratta):
a) se i soggetti legittimati a proseguire il processo in luogo della parte colpita dall’evento non
notificano la sentenza, l’impugnazione deve essere notificata ad essi, singolarmente e
personalmente, a norma degli art. 137 ss. c.p.c., entro il termine lungo d’impugnazione (prorogato o
no, a seconda che si verifichi la fattispecie prevista dall’art. 328, 3° comma, c.p.c.);
b) se tali soggetti notificano la sentenza dichiarando la residenza o eleggendo domicilio,
l’impugnazione deve essere notificata in via esclusiva nel luogo indicato entro il termine breve
d’impugnazione (art. 330, 1° comma, c.p.c.);
c) se invece essi non hanno dichiarato la residenza o eletto domicilio, alla stregua di
un’interpretazione letterale dell’art. 330, 3° comma, c.p.c., l’impugnazione dovrebbe essere
notificata ad essi, singolarmente e personalmente, sempre entro il termine breve (cfr. R. CAPONI,
La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, 544 s.), ma l’orientamento che riceve
adesso l’adesione delle sezioni unite tempera opportunamente il gravoso onere dell’impugnante di
individuare i soggetti legittimati a stare in giudizio in luogo della parte colpita dall’evento,
richiedendone l’adempimento non entro il termine breve d’impugnazione, ma entro il termine
lungo, poiché la notificazione della sentenza priva delle indicazioni che consentano all’impugnante
di individuare i destinatari dell’impugnazione non è ritenuta idonea a far decorrere il termine breve.
La base di diritto positivo della soluzione accolta dalla giurisprudenza nel caso sub c) è,
evidentemente, l’art. 156, 2° comma, c.p.c., secondo cui, al di là delle ipotesi in cui la nullità
formale è espressamente comminata dalla legge, essa può tuttavia essere pronunciata quando l’atto
manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. Se si individua lo
scopo dei singoli atti processuali nel consentire agli altri soggetti del processo di esercitare quei
poteri che la norma attribuisce loro nel segmento di procedimento che segue il compimento del
singolo atto di cui si tratta (così, A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 2ª ed.,
Napoli, 1996, 239), un atto di notificazione di sentenza che sia privo di indicazioni che permettano
di individuare il destinatario passivo dell’eventuale impugnazione non consente alla controparte di
esercitare validamente il potere di impugnare (se non al prezzo di un impegno superiore
all’ordinaria diligenza) ed è da considerare nullo ai sensi dell’art. 156, 2° comma, c.p.c.
Le sezioni unite mettono in luce che l’applicazione del termine lungo d’impugnazione non
garantisce pienamente l’impugnante, in quanto «l’incremento della distantia temporis favorisce, ma
non rende certa, l’acquisizione della conoscenza della nuova situazione soggettiva e quindi la
possibilità di indirizzare correttamente l’impugnazione». La soluzione di questo problema può
venire, come avverte la stessa Corte suprema, da un’adeguata valorizzazione legislativa dell’istituto
della rimessione in termini, che già conosce nel nostro ordinamento ampie applicazioni. Nel corso
di uno studio recente è stata ripercorsa la disciplina dell’interruzione del processo nelle varie ipotesi
previste dalla legge e concretizzate dalla giurisprudenza, per vagliare l’impatto che su di essa ha, de
iure condito, l’introduzione della norma di rimessione in termini dell’art. 184 bis c.p.c. ed avrebbe,
de iure condendo, l’introduzione di una norma di rimessione in termini estesa ai poteri esterni allo
svolgimento del giudizio (potere di impugnazione, potere di proseguire o di riassumere il processo
interrotto o sospeso) e si è giunti alla conclusione che è opportuno ridurre al minimo i difficili sforzi
esegetici ai quali la lacunosa disciplina legislativa dell’interruzione del processo costringe gli
interpreti, per valorizzare al massimo il ruolo complementare della rimessione in termini al fine di
realizzare pienezza di tutela del contraddittorio tra le parti (così, CAPONI, La rimessione in termini
nel processo civile, cit., 486 ss.).
Peraltro, nel caso di specie il difetto di conoscenza dell’impugnante non aveva prodotto
conseguenze irreparabili: l’avvocato della parte morta dopo la pubblicazione della sentenza aveva
notificato quest’ultima senza chiarire se ciò fosse fatto a nome degli eredi e comunque senza fornire
indicazioni tali da consentire la proposizione dell’impugnazione contro questi ultimi; la controparte
aveva notificato l’atto di appello alla parte premorta presso il procuratore costituito in primo grado,
il vizio dell’impugnazione veniva sanato dalla costituzione in appello degli eredi quando ancora non
era maturato il termine annuale dalla pubblicazione della sentenza e quindi non si era verificata la
decadenza dall’impugnazione. La corte applica a questa fattispecie il combinato disposto degli art.
163, n. 2, e 164 c.p.c. nella versione anteriore alla l. n. 352 del 1990 (in quanto si tratta di un
giudizio pendente alla data del 30 aprile 1995), ma precisa che, secondo il nuovo testo dell’art. 164
c.p.c., la sanatoria del vizio attinente all’individuazione dei soggetti dell’impugnazione ha carattere
retroattivo, per cui nei casi identici a quello de quo, ma sottoposti alla nuova normativa, il passaggio
in giudicato sarebbe impedito anche da una costituzione degli eredi in appello intervenuta
successivamente alla scadenza del termine d’impugnazione. Sanato il vizio dell’impugnazione con
la costituzione in appello dei soggetti reali del processo, svoltosi pienamente e correttamente il
contraddittorio così instaurato in tale grado del processo, inevitabile è la dichiarazione
d’inammissibilità del ricorso per cassazione indirizzato alla parte morta (di cui alla terza massima),
«soggetto ormai non solo inesistente nella vita reale ma anche formalmente e definitivamente uscito
dalla vita del processo» (come incisivamente si esprime la corte). A tale proposito la corte precisa
che è irrilevante la circostanza che, nella epigrafe della sentenza d’appello, questa risulti, per errore,
pronunciata nei confronti della parte defunta. Con ciò la corte applica ad una fattispecie particolare
un principio generale tratto dal limitrofo settore della rimessione in termini: la negligenza di una
parte o dell’ufficio giudiziario non può autorizzare la controparte a comportarsi a sua volta
negligentemente.
III. - Come già si è ricordato, le sezioni unite hanno inteso esaminare il contrasto di pronunce delle
sezioni semplici sulla questione relativa all’individuazione del destinatario dell’impugnazione
nell’ipotesi in cui, dopo la chiusura dell’udienza di discussione, ma prima della notificazione della
sentenza, si verifichi o venga notificata la morte o la perdita di capacità della parte costituita a
mezzo di procuratore. Può essere utile ricordare a questo punto gli orientamenti esplicitamente o
implicitamente disapprovati dalle sezioni unite.
Esplicitamente disapprovato è quell’orientamento che ritiene valida l’impugnazione notificata alla
parte colpita da uno degli eventi previsti nell’art. 299 c.p.c. se l’impugnante non ha avuto
conoscenza dell’evento: in questo senso, Cass. 27 aprile 1983, n. 2881, Foro it., Rep. 1983, voce
cit., n. 103, citata in motivazione, che ha considerato affetta da nullità la notificazione
dell’impugnazione alla parte morta dopo la pubblicazione della sentenza, dopo che di tale evento la
controparte era venuta a conoscenza in sede di esecuzione forzata intrapresa dagli eredi del defunto;
si veda inoltre Cass. 30 gennaio 1985, n. 560, id., Rep. 1985, voce cit., n. 57, che ha considerato
valido l’atto d’impugnazione notificato al procuratore della parte defunta, ove la morte si sia
verificata nel periodo compreso tra la chiusura della discussione e la notificazione della sentenza e
la parte impugnante non ne abbia avuto legale conoscenza attraverso la notificazione.
Parimenti disapprovato è l’orientamento secondo il quale il difetto di colpa della parte che,
ignorando la morte o la perdita della capacità della controparte verificatasi tra una fase processuale
e l’altra, notifica invalidamente l’impugnazione a quest’ultima, potrebbe acquistare rilevanza con
l’applicazione della disciplina dell’art. 291 c.p.c. (così, tra le altre, Cass. 25 giugno 1990, n. 6404,
id., Rep. 1990, voce cit., n. 36). A tale riguardo, le sezioni unite aderiscono all’osservazione che il
vizio di cui si tratta non si traduce in una semplice nullità della notificazione, ma in un’errata
identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius (così, Cass. 8 giugno 1992, n. 7045, id.,
Rep. 1992, voce cit., n. 44, citata in motivazione) e riconoscono che quest’orientamento ha fatto un
uso strumentale dell’art. 291 c.p.c., facendolo funzionare non tanto come mezzo di sanatoria della
nullità quanto piuttosto come strumento restitutorio, «vale a dire – attraverso la rinnovazione con
effetto ex nunc – come mezzo di rimessione in termini per l’esercizio del potere di impugnazione
incolpevolmente perduto». Peraltro, quest’orientamento è destinato in ogni caso a scomparire
poiché la nuova disciplina della nullità dell’atto di citazione prevede espressamente la retroattività
della sanatoria dei vizi attinenti alla vocatio in ius (si vedano i primi tre commi dell’art. 164 c.p.c.).
Implicitamente disapprovato è quell’orientamento che, applicando analogicamente l’art. 330, 2°
comma, c.p.c., ritiene valida l’impugnazione proposta nei confronti dei soggetti legittimati a
proseguire il processo, collettivamente e impersonalmente, presso il procuratore legale della parte
morta anche nell’ipotesi in cui la morte si sia verificata prima della notificazione della sentenza.
Questo orientamento si basa sulla considerazione che se la sentenza viene notificata dalla parte
vittoriosa, che muore poi in pendenza del termine per l’impugnazione, l’art. 328 c.p.c. prevede
l’interruzione del termine stesso e il decorso del nuovo termine dalla rinnovazione della
notificazione della sentenza. Ne segue che, se gli eredi a ciò provvedono, viene meno la funzione
del meccanismo agevolativo previsto dal 2° comma dell’art. 330 c.p.c., il quale dunque conserva
ragion d’essere per il caso in cui la notificazione della sentenza non viene rinnovata e si applica il
termine annuale: ipotesi alla quale non può essere equiparata quella in cui, essendo il decesso
avvenuto prima della notificazione della sentenza, fin dall’inizio viene in rilievo il termine lungo:
così, Cass. 9 luglio 1992, n. 8347, id., 1994, I, 1166, spec. 1175 s., con nota di A. NAPOLITANO
TAFURI, a cui si rinvia per l’indicazione di precedenti conformi. Tenuto conto della validità di
questa argomentazione è prevedibile che la questione, sulla quale le sezioni unite non si sono
impegnate, rimarrà ancora aperta. [R. CAPONI]